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Autore: ___Page    04/02/2020    2 recensioni
Non era morto, la vivre card non lasciava spazio a dubbi. Continuava a bruciare, imperterrita, nella tasca dei suoi pantaloni ricongiunta al foglio originale, che avevano ritrovato abbandonato sull’isola dove quella macabra e snervante specie di caccia al tesoro aveva avuto inizio.
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«Cosa ci fai qui?»
Law si girò incredulo e lento, gli occhi che lanciavano schegge di ghiaccio, e si concesse un istante per studiarla con attenzione. Non l’aveva mai vista in vita propria e, sì okay, era consapevole di avere una faccia nota ma mica era una giustificazione per rivolgerglisi così.
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Avevano fatto qualcosa di avventato, avevano rischiato, se lo sentiva, glielo diceva l’istinto. Per fortuna lo spasmo allo stomaco era passato com’era venuto dopo pochi minuti, a tranquillizzarlo che la sua ciurma l’aveva scampata, almeno per il momento.
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Koala, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A Law non fare niente piaceva.
Non che fosse pigro ma trovava la noia un toccasana, di tanto in tanto.
Aumentava la creatività, concedeva alla testa un riposo a volte migliore del sonno, infastidiva i nemici. Non c’era niente di meglio che mostrarsi pacifico e crogiolante a coloro che speravano di incutere timore solo perché possedevano le chiavi di un paio di manette in agalmatolite. D’altra parte i deboli erano, non sempre ma spesso, anche stupidi e mediocri.
Purtroppo però non c’era nulla di pacifico o rilassato nel far niente di Law, in quel momento. Nel suo sguardo c’era tensione e attesa e la noia era solo simulata.
Laine non si faceva viva dalla sera prima e Law si augurava che il dottor Burkhard non avesse avuto la malsana idea di farle qualcosa, se lo augurava davvero.
Per il dottor Burkhard.
Poco importava se non aveva prove che Burkhard le avesse fatto qualcosa e se, magari, era solo che aveva trovato di meglio da fare nella zona kindergarten che sgattaiolare dove non doveva. Di spaccare il capello in quattro non aveva tempo né voglia. Lui non la vedeva, ergo era sparita, ergo era in una situazione di potenziale pericolo e il responsabile era, in ogni caso, il dottor Burkhard, anche solo per averla portata lì.
E Koala aveva pensato bene di imitarla.
Che fosse andata a cercarla o a raccogliere informazioni non era un’ipotesi da scartare né remota, ma con lui a pranzo non ne aveva fatto menzione, ed era abbastanza per dubitarne. Non l’avrebbe mai lasciato all’oscuro di una simile decisione, ne era così certo che solo per quello Law non aveva ancora preso l’iniziativa e ideato qualcosa di testa sua, ma forse era arrivato il momento.
Non doveva renderle conto di niente, dopotutto. Erano complici in quella situazione, si era creato un legame che li aiutava a mantenere il senno, la sera precedente si erano distratti a vicenda con svariati aneddoti e informazioni più o meno dettagliate sulle loro vite e i loro passati, tutto nella speranza che Laine spuntasse dal nulla come suo solito, ma non gli serviva il suo permesso e, di non fare niente, ora Law era stufo.
Con un movimento che non tradiva il nervosismo provato, per non attirare l’attenzione, si scostò dal pilastro a cui era stato appoggiato per non sapeva esattamente quanto, lanciando occhiate al salone, al balcone rialzato, alla loro nicchia.
Niente. Non c’era traccia di Koala e si era posizionato in modo da essere il più visibile possibile per Laine, che lo avrebbe senz’altro trovato se fosse stata nel salone. Era ora di levarsi da lì e andare a cercarle.
«Ma come? Te ne vai di già? Proprio adesso che io arrivo»
«Kay» Law si voltò di scatto, gli occhi a scandagliare su e giù lungo la sua persona, in cerca di segni più o meno evidenti di… beh di qualsiasi cosa. «Dov’eri finita?»
«Ciao anche a te» ribatté con un sorriso la rivoluzionaria, socchiudendo appena gli occhi. «Mi sono attardata sotto la doccia» spiegò per poi tornare seria «Ancora niente?»
«Niente» confermò Law, facendo l’ennesima panoramica del salone, sopra la testa di Koala. Quando tornò a guardarla, era così rabbuiata che i suoi occhi sembravano quasi scuri e Law non si rese neanche conto di cosa aveva fatto, finché le dita di Koala non lo sfiorarono.
Law sbatté le palpebre un paio di volte, girò gli occhi sulla propria mano, stretta sulla spalla della rivoluzionaria, e su quella di Koala, sovrapposta alla propria, in un gesto di reciproco conforto, così familiare che Law avrebbe voluto ritrarla e allontanarsi da lei, perché non era proprio cosa sua affidarsi così tanto a una persona dopo appena tre giorni. Se solo non gli avesse fatto così bene.
«Sta bene, ne sono sicura» affermò determinata Koala, alzando il viso verso di lui, con un sorriso. «Insomma, con la parlantina che si ritrova, neppure Burkhard ha speranza»  
Law sogghignò, con il ghigno più bastardo che aveva in repertorio, un po’ perché l’immagine di Burkhard torchiato dalla mocciosetta era un idillio nonostante non avesse idea di che faccia avesse Burkhard, un po’ perché, nel girarsi, Koala lo aveva involontariamente obbligato ad abbracciarla per le spalle e Law non era granché bravo a gestire quel genere di situazione, se non in un modo. Sarcasmo.
«Suppongo tu stia parlando per cognizione di causa»
Koala sgranò gli occhi con finta, anche se forse appena un po’ vera, indignazione. «Mi stai dando della logorroica?!» lo sfidò ma senza neanche accennare a smettere di sorridere. Così come Law non accennava a smettere di sogghignare, il provocatore bastardo. «Fino a prova contraria, la logorrea mi ha portato a essere dove sono oggi» sollevò il mento con fierezza, scivolando via da lui per dirigersi verso la loro nicchia.
«E dove sei?» non aveva intenzione di mollare, Law, mentre la seguiva con passo strascicato. «In un laboratorio per esperimenti non meglio definiti, in una qualche zona non meglio identificata del, forse, Nuovo Mondo, senza una chiara idea di come andartene?»  
«Beh almeno io oggi ho scoperto qualcosa» lo informò, voltandosi e puntellando le mani sul davanzale della finestra murata alle sue spalle. «Ho scoperto perché ci rimandano in stanza tra le tre e le sei» si issò con un movimento fluido quanto quello del sopracciglio di Law che si sollevava.
«Ovvero?»
«Suppongo sarebbe difficile individuare le cavie da esaminare, se ci lasciassero tutti nel salone»
Una scarica attraversò il pirata da capo a piedi e sperò di aver capito male. «Ti hanno… esaminata?» domandò piano, ricominciando a scandagliare su e giù la sua persona, con occhi attenti e gelidi. Perché diamine avesse aspettato per dirglielo gli sfuggiva decisamente. «Che ti hanno fatto?»
«Prelievo del sangue, elettrocardiogramma e poi quello che, decisamente, definirei un test attitudinale. Niente di allarmante, davvero»
«Non era mai successo prima» ribatté duro e, dal suo punto di vista, tanto bastava per allarmarsi eccome. La gente spariva da quel luogo così come ci arrivava. In sordina e senza un apparente motivo ma lui e Koala il motivo lo potevano immaginare, perché le cavie raramente facevano una bella fine nei laboratori. «Burkhard?»
«Se c’era, non si è fatto vedere. O riconoscere. Avevano tutti la maschera, ovviamente, e anche noi eravamo bendati, non ho visto granché»
Law inalò a fondo, lo sguardo perso nel vuoto, che guardava ancora insistentemente Koala, senza davvero vederla. Non era per gli spargimenti di sangue gratuiti, se poteva evitare di uccidere lo faceva ben volentieri, ma il sedicente dottore della struttura non sembrava apprezzare poi molto la propria vita, visto che continuava a mettere a durissima prova la sua pazienza. Usarlo per i propri scopi come fosse uno strumento, esaminare Koala come un topo da laboratorio, far sparire Laine e in generale prendersela con dei bambini. 
Senza contare, poi, che poteva benissimo farlo a pezzi senza per questo causarne una prematura dipartita. Non gli dispiaceva per niente l’idea di Burkhard smembrato fino alla fine de suoi giorni ma, in quel momento, le piacevoli immagini che si susseguivano nel suo cervello riguardo il destino del dottore erano di secondaria importanza.
«Devi andartene da qui. Dobbiamo trovare il modo di farti uscire il prima possibile»  
«Come scusa?!»
Law tornò alla realtà, da lei che lo guardava come se avesse appena usato una lingua incomprensibile, e si avvicinò di un altro passo. «Devi andare via, Koala. Lo hai detto tu che il ricambio è continuo, lo sai meglio di me cosa rischi se…»
«Io non vado da nessuna parte»
Law rimase per un attimo interdetto, le parole bloccate in gola, prima di riuscire a recuperare abbastanza autocontrollo da rispondere con sufficiente calma e distacco.  
«Non è il momento di giocare all’eroe, questo»
«Io ho una missione qui»
«Non ne vale la pena»
«Prego?»
Koala non sembrava neanche arrabbiata, nei suoi occhi, che lo fissavano da sotto in su, Law leggeva solo disprezzo e serrò la mascella con fastidio. Era così stupido quello che Koala stava facendo, come poteva non rendersene conto?!
«Si accontenteranno delle informazioni che sei riuscita ad accumulare finora»
«Non è così semplice e riduttivo. Ci sono centinaia di persone prigioniere»
«E, se non vado errando…» scandagliò con cura ogni parola Law «…lo stile dell’Armata è scatenare rivolte e ribellioni in modo che il popolo si liberi da sé, strategia in cui, ammetterai, ho parecchio esperienza anche io» piegò il busto in avanti, mentre Koala invece stendeva la schiena ben dritta, restando seduta sul davanzale per essere più vicina alla sua altezza, risultando quasi imponente grazie alla sola portata della sua determinazione.
«Law, io resto»
Lo sguardo di Law si fece vitreo.
Non era possibile, andava bene la dedizione alla causa, la capiva, ma non era possibile. Che usassero il lavaggio del cervello all’Armata? E perché poi gli importava così tanto?!
A lui. A lei.
Perché non poteva accettare di aver esaurito il tempo, di aver fatto quanto in suo potere ma non poter fare altro, che fosse solo controproducente sacrificarsi così quando da fuori avrebbe potuto fare ancora molto e, soprattutto, vivere?          
Perché non potevano almeno mandare qualcuno, qualcuno che sapesse come, ad aiutarla?!
Il pensiero lo colpì tra capo e collo, peggio di una sprangata.
«Non sai come fare vero? Non c’è nessuno predisposto al tuo recupero»
Non era una domanda, era un’ovvietà. Una sola persona, con il giusto supporto esterno, poteva farcela, soprattutto una persona addestrata come lo era lei. Se non se ne andava, era perché non poteva. E più realizzava quell’evidenza più si sentiva un idiota e nauseato.
Da sola. 
«Law»
L’avevano lasciata da sola, dopo averla fatta infiltrare in una missione suicida.
«Se pensi che Dragon mi abbia gettato in pasto ai lupi, sei fuori strada»
In pasto ai lupi, come Cora in pasto al suo stesso fratello.
«Ho chiesto io di essere mandata in questa missione, ho insistito, lui non era neppure d’accordo all’inizio! Law!»
Da soli. Il mondo li aveva lasciati da soli, in pasto al Governo, alla Marina, ai mitra spianati per sterminarli tutti.
Sentì le proprie dita scricchiolare tanto le aveva strette forte in due pugni, le uniche armi a sua disposizione finché quei maledetti bracciali in agalmatolite gli cingevano i polsi e ci aveva provato Law, a liberarsene. E se la voce di suo padre non gli avesse ripetuto quanto importanti fossero le mani per un bravo medico e chirurgo, avrebbe tentato anche di spaccarli contro il muro.
Denigrabile. Per lui quel comportamento era nient’altro che denigrabile e degno di disprezzo, per lui che avrebbe attraversato l’inferno pur di non mettere in pericolo i suoi e davvero Dragon voleva ergersi a vessillo della lotta contro i soprusi con un atteggiamento del genere?
Non era neanche…
La sensazione era familiare quanto estranea e soprattutto non se l’era aspettata. Non si era aspettato due mani intorno al volto e un viso alla stessa altezza del proprio, che gli sorrideva. Non se l’era aspettato e non capiva perché gli sembrasse familiare, ma fu abbastanza per riportarlo lucido e frenare il flusso folle dei suoi pensieri.
«Io non me ne vado senza Laine. E nemmeno senza di te»
Delle tante reazioni che Law avrebbe potuto avere di fronte a una simile invasione del proprio spazio personale, qualcosa di concesso solo a Bepo e, occasionalmente, a Pen, Shachi e Ikka, tutto ciò che riuscì a fare fu chiedersi come avesse potuto pensare che Koala lo avesse guardato con disprezzo. Era evidente che mai sarebbe potuto accadere e Law non sapeva da dove gli venisse quella consapevolezza.
«Dov’è che andate?»
Si rese conto solo in quel momento che non aveva ancora distolto gli occhi, se ne rese conto quando Koala cambiò espressione, sorpresa e sollevata quanto lui.
«Laine» esalò la rivoluzionaria, con gli occhi che brillavano, mentre Law la prendeva in braccio e squadrava attento anche lei, realizzando dopo un momento che Laine stava facendo altrettanto.
«Vi siete dati un bacio?» 
«No» rispose dopo un momento Law, ignorando come poteva il sorriso divertito di Koala.
«Ma sembrava di sì»
«Hai visto male» ribatté asciutto il chirurgo, mentre si accomodava a sua volta sul davanzale, trucidando con gli occhi Koala e il suo sorriso divertito. E lui che si era pure preoccupato per la sua sorte. Ingrata. «Dov’eri finita? Io e Koala ti stavamo aspettando»
Laine si accigliò, spostando lo sguardo da uno all’altra. «Chi è Koala?!»
Law trasalì e Koala si mise sull’attenti, gli occhi sgranati in un’espressione di allerta.
«Nessuno, è stato un lapsus»
«Un lupus? Cos’è un lupus?»
«Lapsus. È una cosa di noi adulti. Laine perché ieri non sei venuta qui?» insistette Law, anche se gli sembrava abbastanza palese, ormai, che non le fosse successo nulla.
Laine piegò il capo di lato, riflettendo. «Se te lo dico, poi mi spieghi cos’è il lupus?»
Law la fissò impassibile qualche istante, cercando di dominarsi. Era una macchina da guerra con quella lingua sciolta, dannazione. Lui non ricordava proprio di essere mai stato così molesto da bambino.
«Laine, tesoro, è successo qualcosa?» s’intromise Koala, dolcemente e non le fosse stato grato per l’aiuto, Law si sarebbe forse anche potuto offendere e indignare quando, a lei, Laine rispose senza fare tante storie.
«Azaleea non stava bene e le ho promesso che stavo con lei»
«Azaleea è una tua amica?» domandò ancora la rivoluzionaria e Laine annuì.
«Poi stamattina il dottore l’ha visitata»
«Il dottore?» chiese conferma Law.
«Sì, quello dell’altra volta. Ah e io poi l’ho seguito in laboratorio!» esclamò, quasi se lo fosse ricordato di colpo. 
Il tempo sembrò congelarsi per un attimo, come il sangue nelle vene di entrambi ed entrambi sperarono di aver capito male. Volevano aver capito male.
«Ti hanno portato al laboratorio?» scelse con cura le parole Koala, e trattenne il fiato quando Laine, dopo averla guardata qualche secondo, socchiuse gli occhi come se si stesse sforzando di ricordare.
Il sangue di Law prese a ribollire. Se l’avevano anche solo sfiorata…
«Io l’ho seguito» ripeté la bambina, con un convinto cenno del capo.
«Non ti hanno fatto niente?»
«A-ah» negò stavolta e Koala non trattenne un sospiro di sollievo, mentre Law si sfregava gli occhi con pollice e indice.
Okay, non era proprio un sollievo il pensiero di Laine che seguiva di nascosto Burkhard in giro per la struttura, Law non voleva neppure pensare all’evenienza che la cogliessero in flagrante, c’era già Koala che si aggirava ovunque riuscisse ad arrivare, ma, fintanto che nessuno si accorgeva delle sue malefatte, Laine che giocava alla piccola spia era comunque meglio dell’alternativa.
«Il laboratorio è strano. Ci sono un sacco di cose di metallo, ma è un metallo blu e sembra che c’è il mare dentro»
Law alzò gli occhi su Koala, che negò impercettibilmente. Non aveva visto granché ma un dettaglio del genere non le sarebbe sfuggito. Ergo, non l’avevano portata nel laboratorio vero e proprio per il test attitudinale oppure era Laine ad aver seguito Burkhard in quello che lei credeva fosse il laboratorio e invece era un altro luogo pieno, e non era un dettaglio secondario, di agalmatolite.
«Cos’è l’algamatite?»
Law sbatté le palpebre, interdetto. Quello, lo sapeva, era il suo punto di non ritorno, quando iniziava a pensare ad alta voce senza accorgersene. Doveva trovare delle risposte o ne andava della propria sanità mentale.
«Agalmatolite» la corresse, era più forte di lui.
«E cos’è?» insistette Laine. «Me lo dici cos’è, Doc?» 
«Un minerale che viene dall’isola di Wano»
«E dov’è Wano?»
«Nel Nuovo Mondo»
«E il lupus che cos’è?»
Law alzò gli occhi verso Koala, che si stava platealmente trattenendo dal ridere, e li riabbassò su Laine, incapace di trattenersi. Ghignò mentalmente, mantenendosi serio all’esterno. 
«Una malattia cronica autoimmune»
Laine soppesò le sue parole. Era proprio, curioso, Law, di vedere cos’avrebbe chiesto adesso. Sarebbe dovuta bastare quella difficile risposta, in teoria, per porre fine alla sequela di domande, così pensava Law, ne era piuttosto certo in realtà.
Law, però, pensava male  e non si sentì neppure di biasimare Koala per aver ceduto ed essere scoppiata a ridere, quando sentì che altro la mocciosetta avesse ancora da dire. In fondo, molto nel profondo, veniva quasi da ridere anche a lui.
«Perché non vi siete dati un bacio?!»
Quella bambina sarebbe stata la sua fine.

 
§

 
L’isola di Manhu’ai era grande, non la più grande dell’Arcipelago Pae, ma la più densamente popolata e questo spiegava logicamente, per quanto non fosse normale, perché l’isola di Manhu’ai fosse tappezzata di manifesti di gente scomparsa, corredati di foto e ricompense di varia natura a seconda del grado di benessere della famiglia da cui il manifesto era stato affisso.
Pen aveva interiormente ed egoisticamente gioito. Pen credeva di avere una pista. Poi, erano iniziati i problemi. La diffidenza dilagava ormai, in un luogo un tempo generoso e accogliente, e se le porte non restavano chiuse, venivano loro sbattute in faccia non appena si toccava l’argomento rapimenti.
A Kalakua era andata meglio. L’accoglienza, non di certo le indagini. Che fosse per convivere meglio con l’accaduto o per sincera convinzione, gli abitanti lì si erano detti certi non ci fosse nulla di cui essere tanto allarmati. Le sparizioni prendevano un lasso di tempo più che ragionevole per imbarcarsi in quello che, dalla descrizione degli autoctoni, appariva come un pellegrinaggio spirituale verso Tiklanish Orollari, culla della loro civiltà e il fatto che tutti i desaparecidos appartenessero alla stessa generazione rafforzava quella credenza in chi era rimasto.
Anche loro lo avevano fatto in gioventù e sì, decidendo dalla sera alla mattina, provocando un flusso di partenze che si era protratto per giorni senza posa. Era così che funzionava.
Perché invece a Manhu’ai fossero convinti che si trattasse davvero di rapimenti, era un mistero, per gli abitanti di Kalakua. A Mahalo, dove alla fine si erano riuniti in quella locanda fatta di legno, paglia e gentilezza, neanche si riusciva a comunicare. Non parlavano la stessa lingua o forse fingevano, non era dato saperlo e nessuno di loro aveva sufficienti energie per scoprirlo, in quel momento.
Erano stati due giorni estenuanti di esplorazione, viaggio e infruttuose ricerche. Sì, forse non avevano sbagliato a seguire gli indizi, vista la delicata situazione in cui versava l’arcipelago, ma che quei rapimenti fossero collegati a quello del capitano non era detto. Ci erano arrivati bivio dopo bivio e il dubbio di avere preso una  o più direzioni sbagliate a un certo punto di quel viaggio li attanagliava, impietoso.
Pen fece una panoramica della tavola, tra i compagni sfiniti che rischiavano di addormentarsi con la faccia spalmata sul legno, altri sconfortati e testa tra le mani, passando per Bepo con le lacrime agli occhi, Uni completamente sprofondato nel dolcevita, Ikkaku intenta a incidere il bordo del tavolo con uno shuriken per sfogare la tensione in qualche modo, Skua che si rigirava la scure tra le mani occhiando di tanto in tanto verso di lui. Probabilmente stava meditando come attentare alla sua vita, considerò Pen con un sospiro trattenuto.  
Solo Shachi e Jean-Bart mancavano all’appello ma avevano avvisato del loro possibile ritardo, per loro Pen non era in pensiero. Per il resto della ciurma, sì.
Erano stanchi. Stanchi, scoraggiati e senza concrete prospettive.
Okay, c’erano stati dei rapimenti, checché ne dicessero a Kalakua, ma da lì in poi non c’era più mezzo indizio da seguire. Erano a un punto morto, anche avessero voluto aiutare gli isolani non avrebbero saputo dove andare, figuriamoci ritrovare Law.
Pen infilò la mano in tasca, sfiorando la Vivre Card come un amuleto protettivo, che da un paio di giorni crepitava e bruciava meno intensamente.  Anche in quel momento ma, stavolta, non gli era di particolare conforto e la ricacciò sul fondo della tasca, prima di rimettersi dritto dalla posizione svaccata in cui si era lasciato pesantemente cadere sulla sedia.
«Dunque…» posò i gomiti sul tavolo. «…ipotesi più accreditata?» domandò, sperando di almeno accendere un briciolo di discussione. Certo non si era aspettato che tutti rispondessero in coro: «Trafficanti di schiavi» con voce strascicata e un singhiozzo maltrattenuto di Bepo a coronare il tutto.
Pen scambiò un’occhiata con Ikka e sospirò di nuovo, allargando le mani per prendersi le tempie. «Magnifico» sibilò al tavolo.
Non avevano neppure un legittimo dubbio di cui discutere. Non aveva nien…
«Trafficanti di organi!»  
Pen sobbalzò a molla e si portò una mano al petto, nonostante il cuore se lo sentisse in gola.
«Porco…» imprecò sottovoce, occhiando minaccioso Shachi, che si era materializzato alle sue spalle. Con Jean-Bart, poi, che grande e grosso com’era, come faceva a essere tanto silenzioso?! «Organi?» tornò velocemente sul pezzo, scostando la sedia accanto alla propria in un muto invito a sedersi, affamato di nuove informazioni o anche solo congetture che potessero sbloccare un pensiero, una linea guida da seguire.
«Dove siete stati?» Ikka si sporse sul tavolo, lo shuriken ben stretto in mano.
«A Ramé, l’isolotto vicino a Manhu’ai. C’è solo un orfanotrofio»
«Completamente disabitato» intervenne Jean-Bart. Pen girò gli occhi da uno all’altro compagno. «Ma non ha l’aria di essere diroccato o abbandonato»
«Abbiamo parlato con un paio di manovali del deposito barche di Manhu’ai, che ci hanno detto dove trovare una delle ragazze che lo gestisce, la sola che a detta loro sarebbe stata disposta a parlarci. Qui a Mahalo, arriviamo da casa dei suoi genitori. A quanto pare i bambini sono spariti circa tre settimane fa. In massa, così, puff. Dissolti nel nulla»
«Li hanno presi tutti» annuì convinto Jean-Bart.
«E perché pensate ai trafficanti di organi?» Pen spostò gli occhi da uno all’altro. «Anche chi traffica in schiavi è interessato ai bambini»
«Ma non è il loro stile» ribatté roco Jean-Bart, il fuoco negli occhi.
«I trafficanti di schiavi arrivano in un posto, razziano, fanno quanti più prigionieri possono e ripartono. Le sparizioni sono iniziate prima che l’orfanotrofio venisse preso di mira e il sequestro è stato studiato nel dettaglio. Sono entrati, hanno addormentato tutti e hanno preso solo i bambini e dopo un colpo del genere, se fossero stati trafficanti di schiavi, se ne sarebbero andati, ma le sparizioni sono continuate. E non solo tra gli isolani, pare che anche dei turisti siano rimasti coinvolti»
Pen puntò gli occhi nel vuoto, concentrato sulle parole di Shachi e sulle mille e più possibili implicazioni e alternative che prendevano forma nella sua testa.
Trafficanti di organi.
Era una teoria interessante, una teoria… allettante quasi. Perché se erano trafficanti di organi, Law poteva avere un senso in mezzo a loro, poteva essere prezioso. Poteva essere uno dei tanti illegali traffici di Kaido ed ecco che l’opzione della vendetta, una vendetta che univa utile e dilettevole, tornava a galla. Ce lo vedeva, Pen, l’Imperatore che ordiva il rapimento del loro Capitano, progettando di metterlo a proprio servizio per un mercato del genere.
Piegarlo alla sua volontà, per lo meno provarci, sarebbe stato per la Bestia un delizioso passatempo.
Aveva senso, si incastrava tutto bene e con logica. Tanto. Troppo per potersi cullare in quell’idea, che poteva essersi creata nella testa di Shachi per il suo stesso disperato desiderio di ricevere anche un infimo segnale che la direzione giusta era quella.
Pen non voleva cedere e Shachi lo sapeva. Glielo leggeva in faccia.
«Pen, pensaci! La dinamica è comune a quella incontrata finora. Nel navigare fino a qui abbiamo incrociato altre due ciurme pirata che hanno subito perdite e, come qui, i rapiti erano tutti giovani e in salute. Poi mettici i bambini e, guarda caso, la sera che i bambini spariscono, di sorveglianza all’orfanotrofio c’è una delle anziane di Kalakua, che non viene presa!» Shachi si guardò intorno quando si accorse di aver alzato forse troppo il tono e si curò di abbassarlo a quasi un sussurro prima di aggiungere, senza abbandonare la propria verve: «Tu ora mi dirai che uno schiavo anziano è poco interessante e hai ragione, ma non si ha tempo di fare selezione in una razzia!»  
Pen lo fissò qualche secondo, assorbendo tutte la raffica dell’amico. «Kalakua eh…»
«A me non l’hanno data a bere, con quella storia del pellegrinaggio, Pen» intervenne Clione, a muso duro. «Secondo me fanno solo finta di non essere preoccupati o forse sono più contenti così»
«Com’è possibile che nessuno si sia preoccupato di quei bambini?»
«Sono orfani, a chi importa?»
«Per cui la sorvegliante potrebbe essere stata risparmiata non perché anziana ma perché di Kalakua»
 «Stai insinuando che a Kalakua sono d’accordo con i rapitori?»
«Perché no? È possibile!»
«Sia trafficanti di schiavi che trafficanti di organi sarebbero capaci di corrompere un’intera isola»
 «Questo è secondario!» 
Skua smise di rimpallare con gli occhi da uno all’altro dei compagni, ringalluzziti dallo scambio di ipotesi, di nuovo infiammati, e puntò lo sguardo celato dalla maschera verso il suo attuale capitano, imitato dalla ciurma al completo.
«A me non sembra second…» cominciò Shachi ma si zittì al gesto gentile che Pen fece con la mano per chiedergli di lasciarlo terminare.
«Quale che sia la merce che trafficano, devono avere una base qui. È come dite voi, hanno studiato il sequestro dell’orfanotrofio, e le sparizioni sono continuate anche dopo, così come avvenivano prima. Hanno una base qui vicino ma perché non a Ramé?» domandò ma nessuno rispose, tutti volevano capire dove Penguin stesse andando a parare. «Una volta messi gli occhi sui bambini, sarebbe bastato fare prigioniera anche la maestra, l’unica che parla una lingua diversa da quella locale qui a Mahalo, e nessuno avrebbe saputo mai nulla. L’orfanotrofio ha sicuramente un’infermeria che deve funzionare come un piccolo ospedale, avrebbero già avuto tutto il necessario per l’estrazione degli organi e in caso contrario si trattava comunque di una base comoda, vicina ai centri abitati più densi e alle mete dei turisti. A nessuno sembra importare di quei bambini, escluderei che qualcuno andasse a trovarli da Manhu’ai e da Kalakua. Ma…» si alzò in piedi senza quasi accorgersene, e si allontanò di qualche passo dalla tavola, lo sguardo perso fuori dalla finestra che consisteva in un varco quadrato nella parete di legno della locanda, per poi tornare indietro e afferrare con entrambe le mani lo schienale della propria grezza sedia. «…Ramé non andava bene. È comoda, già munita di tutto ma troppo, troppo vicina ai centri principali. Chi lavora al deposito barche di Manhu’ai conosce le maestre dell’orfanotrofio. Prima o poi qualcuno avrebbe fiutato delle stranezze. Eppure la base deve essere qui vicina. Abbastanza da permettere periodiche infiltrazioni ma non così tanto da destare sospetti. Ramé è troppo vicina» lo sguardo di Pen fu di nuovo attratto da qualcosa all’esterno, mentre un pensiero si faceva strada in lui e un brivido lo scuoteva, iniettandogli adrenalina direttamente nel cervello. «Ma Labula no»
«C-come?» si mosse a disagio sulla propria sedia Bepo, picchiandone gli zoccoli al suolo.
«Labula Island» ripeté Pen a se stesso, finendo di afferrare il pensiero. «Hai detto che Labula Island è disabitata e anche se si trova a poche leghe non è considerata nemmeno parte dell’arcipelago per la distanza a cui si trova» cercò conferma dall’orso polare che già si guardava intorno spaesato.
«Sì, l’ho detto ma…»
«Sarebbe un covo perfetto» bisbigliò. «Dobbiamo andarci»
«Pen» lo chiamò Ikkaku ma venne interrotta prima di poter aggiungere qualsiasi altra cosa da un mugugno alquanto sofferente, almeno in apparenza. Con sguardo assassino e shuriken pronto, si voltò piano verso destra.
«Uni, il dolcevita» grugnì piatto Clione. 
Il cuoco degli Heart sembrò metterci qualche secondo a metabolizzare, prima di abbassare l’immancabile collo alto che portava sempre davanti alla bocca. «Dicevo che rischia di essere una perdita di tempo. Sono solo congetture, non abbiamo certezze. Io dico di tornare a Kalakua ed essere un po’ più… Persuasivi»
«Non andremo a fare terrorismo psicologico tra i civili» 
«Ma sono altri due giorni di navigazione, se poi è un buco nell’acqua…»
«Possiamo arrivarci in una nottata» affermò convinto Pen. «In immersione e usando anche i motori di emergenza, basta accedere manualmente ai comandi e aggirare il sistema preimpostato. E se poi è un buco nell’acqua per noi ma dovessimo trovare quei bambini…» scosse appena il capo, i palmi completamente aderenti al tavolo e le braccia tese. «Siamo a un punto morto comunque. Volete starvene qui a rimuginare o fare qualcosa, mentre capiamo in che direzione muoverci per continuare le ricerche? Perché io ho pochi dubbi su cosa preferisco» li sfidò, girando gli occhi su tutti loro, finendo con un’occhiata a Shachi, da sotto il proprio stesso braccio.
Sapeva che l’amico lo avrebbe sempre seguito ma capiva il suo tentennamento. Non si aspettava che Shachi si lanciasse testa avanti in un’impresa che era una potenziale perdita di tempo, ma era veramente tempo perso arrivati a quel punto?
Law lo avrebbe fatto. Law si sarebbe fermato ad aiutare quei bambini, come una volta si era fermato a difendere un cucciolo di orso polare senza colpe, sarebbe andato a cercarli su quell’isola disabitata, come una volta era andato a cercare due imbecilli in una foresta che si stavano dissanguando, li avrebbe liberati, come una volta aveva liberato uno schiavo senza neppure prendersi il meritato merito, avrebbe deviato dalla rotta prestabilita, come una volta aveva mancato il luogo e l’ora del ritrovo prestabilite per la partenza per fermarsi a liberare un ragazzino che…
Non ebbe nemmeno mezzo sussulto quando il tonfo fece vibrare l’intero tavolo. Era inconfondibile per lui il rumore del masakari di Skua che si conficcava, quale che fosse il materiale della malcapitata superficie. E non sarebbe potuto essere altrimenti visto quante volte era capitato a un soffio dalla sua faccia ma, stavolta, Skua non attentava alla sua vita. Stavolta il gesto di quasi segare il tavolo in due era il modo di Skua di esprimere forte e chiaro quanto fosse dalla sua parte.
Lo sapeva Pen, nonostante il compagno non parlasse e non lo si potesse nemmeno vedere in faccia. Lo capiva dalla sua postura che gli stava rivolgendo lo stesso inquietante sorriso della sua maschera.
Skua era con lui e anche Ikkaku, che allungò la mano sul tavolo dopo pochi istanti, annuendo decisa quando Pen la cercò con gli occhi, imitata da Jean-Bart, Clione e tutti gli altri. Uni resistette ancora qualche istante prima di sospirare e fare altrettanto e Shachi sorrideva già da qualche minuto, pieno di orgoglio, quando Bepo si alzò in piedi, facendo scivolare lentamente la sedia al suolo.
Si alzò in piedi in tutta la sua morbida e imponente mole, il muso contratto in una smorfia determinata. «Andiamo a Labula» affermò deciso, giusto quei tre secondi che gli servirono per rendersi conto, sobbalzare e guardarsi attorno spaesato. «Ah s-se siamo tutti d’accordo ovviamente, io non… non… scusate»
Pen si rimise dritto, ricambiò il sorriso di Shachi, li guardò ancora un momento uno per uno e poi prese fiato:
«Partiamo immediatamente. Date il corrosivo al Polar Tang, così mentre navighiamo la vernice grigia si scioglie, non ne posso più di vederlo di quel colore»      
«Ma… E come facciamo con le barche noleggiate?!» si allarmò Bepo, ancora in piedi.  
Pen ghignò. «Oh andiamo! Siamo pirati! Se davvero pensavano che gliele avremmo riportate sono loro che hanno qualche problema!» si strinse nelle spalle, voltandosi per cominciare a uscire. C’era da lavorare in manuale per attivare tutte le turbine e non un attimo da perdere. Tranne forse per una piccola precisazione. «Oh, e ragazzi» tornò a guardarli un istante. «È “capitano”, non “Pen”» precisò senza aspettare risposte né cenni di consenso.
Nessuno degli Heart diede segni di volersi muovere per un’abbondante manciata di secondi, gli occhi fissi su di lui che si allontanava con il passo più rilassato che mai gli avessero visto calzare. Ikkaku sorrise, scuotendo appena il capo.
«Mi sa che lo preferivo quando non sapeva che pesci pigliare» mormorò Uni, inarcando la schiena.
«Oh ti prego» li rimbeccò la compagna «Era deprimente e… Skua, ti vedo! Metti giù la scure!»
  
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