Capitolo
21
La
morte nell’anima
“A volte io
respiro nella notte
e penso a quante
luci sono morte
intorno a un
cimitero di bambina.”
Alda Merini
Immagine dal film “Schindler’s List”
La
dolcezza della marmellata si perse nel sapore salato e amaro delle lacrime che
scendevano copiose e silenziose lungo le sue guance, bagnandole le labbra, ma
Sarah continuò lentamente a mangiare, ignara di essere osservata. Ricordò di
aver sognato i suoi genitori e rivide l’espressione preoccupata impressa sul
volto di sua madre e lo smarrimento che traspariva dagli occhi di suo padre al
momento del loro addio, sotto lo sguardo del grande Crocifisso, nella navata
centrale della chiesa. Immaginò il loro dolore e la delusione di Samuel, suo
fratello, se l’avessero vista in quelle condizioni, mezza nuda, sul letto di un
nazista, a mangiare il cibo destinato ai soldati. Se solo avesse seguito Samuel
nella Resistenza, a quell’ora si sarebbe trovata a combattere il nemico e non a
condividerne le lenzuola. Ma, vigliacca qual era, il pensiero di supportare le
brigate partigiane, come tante altre ragazze della sua età, non l’aveva nemmeno
lontanamente sfiorata alla partenza di suo fratello. Bevve l’ultimo sorso di tè
diventato ormai freddo e, tremante, posò la tazza sul vassoio, trattenendo un
pianto più disperato.
Entrato
nel suo ufficio, prima di sedersi alla scrivania, Hermann frugò nelle tasche
alla ricerca delle sigarette e si accorse di aver lasciato il pacchetto sul
comodino. Scrupolosamente osservante dei propri gesti e rituali quotidiani, si
stupì non poco di tale dimenticanza e, a passo sostenuto, si diresse verso la
camera da letto. Pensò che Sarah, considerata la fame che le aveva tormentato
lo stomaco per tutta la notte, avesse già finito di mangiare e che, in quel
momento, stesse rassettando la stanza. Ma, avvicinatosi alla soglia, udì un
lamento sommesso, simile al miagolio di un gattino e spinse delicatamente la
porta fino ad aprire un piccolo spiraglio. La vide di spalle, seduta sul bordo
del letto, ancora in sottoveste e con la colazione davanti. Mangiava a rilento
e non voracemente, come aveva immaginato, mentre i singhiozzi trattenuti le
scuotevano le spalle e la testa, facendo ondeggiare i capelli. Indugiò
sull’uscio, non sapendo come confrontarsi con quegli occhi lucidi ed eloquenti,
con quelle labbra mute e tremanti e, per la prima volta nella sua vita, si
scoprì vigliacco davanti alla fragilità e alla forza di una ragazza la cui
esistenza era stata catapultata in un incubo e lui era uno dei mostri. Il
delicato tintinnio della tazza, che Sarah aveva posato sul vassoio, lo riportò
alla realtà e, scuotendo un po’ il capo come per liberarsi da pensieri che non
gli appartenevano, si costrinse a ricordare i numerosissimi impegni della
giornata e a farne un alibi per non rientrare nella stanza. Fra soli tre
giorni, sarebbe partito il primo convoglio diretto verso Auschwitz e, sotto il
suo comando, tutto doveva filare alla perfezione. Non poteva perdere altro
tempo e, mentre la schiena della ragazza fu scossa da un singhiozzo più forte, l’SS-Obersturmführer
chiuse lo spiraglio e si allontanò dalla porta. Indossò di nuovo la sua corazza
d’indifferenza, ma non aveva più voglia di fumare.
“Sarah!
Sarah!” Al di là del filo spinato che divideva il Campo Nuovo dal Campo
Vecchio, una voce familiare la chiamò, ma Sarah fece finta di non sentirla e
continuò a camminare più velocemente verso la sua baracca.
Se
si fosse fermata, don Franco, anche solo con uno sguardo, avrebbe capito tutto
e lei non voleva.
“Sarah!
Sarah!” Il sacerdote perseverava nell’intento di parlarle e Sarah, sentendo il
suo respiro farsi più affannoso per l’incedere troppo veloce, considerata l’età
avanzata, non ebbe altra scelta che rassegnarsi a quel confronto e a
un’eventuale condanna.
Assai
trafelato, in una tonaca sgualcita e impolverata, con la barba incolta e il
viso segnato da mille preoccupazioni, don Franco sembrava più invecchiato dal
suo arrivo a Fossoli.
La
guardò con un’espressione infinitamente triste: le guance livide e gli occhi
privi di luce gli confermarono la veridicità di quanto aveva sentito sulla
povera Sarah e rimase senza parole, come quando, qualche giorno prima, un uomo
e una donna gli confessarono di aver praticato l’eutanasia sulla loro figlia
malata terminale per sottrarla alle sofferenze dell’arresto e della
deportazione. Nel vortice della follia antisemita, dell’uomo contro l’altro
uomo, cos’era giusto e cos’era sbagliato?
“Sarah”,
iniziò a parlarle con voce spezzata, “perdonami. Non sono riuscito a proteggere
te e i bambini.”
Quel
«perdonami», rivoltole da un ministro di Dio, suonò strano alla ragazza che
avrebbe voluto – e, forse, dovuto – rispondere con un «non è colpa vostra», ma
rimase in silenzio, poiché aveva bisogno di sentirselo dire per tutto il male
che le era stato fatto. Corrucciò la fronte in un moto di rabbia, ripensando
all’abuso subito e fece per andarsene.
“Sarah!”
Don Franco la fermò, chiamandola con voce più forte e angosciata. “Non
permettergli di farti diventare ciò che non sei.”
Gli
occhi di Sarah si velarono di lacrime. Don Franco sapeva già tutto e, con un
fil di voce, ponendo la domanda prima a se stessa, gli chiese: “Chi sono io?”
“Tu
sei quella bambina, poi quella ragazza che correva verso la chiesa con il suo
libro dei canti e che, sorridente, saliva in cantoria con gli occhi e il cuore
pieni di sogni e speranze”, ribatté don Franco, anche lui con gli occhi
inumiditi dal pianto trattenuto, “quella ragazza che, con grande amore e
pazienza, nonostante la paura, mi ha aiutato a prendermi cura dei bambini in
canonica.”
Ma
Sarah dissentì con la testa e, profondamente angosciata, quasi sul punto di
piangere, disse: “No, quella bambina e quella ragazza sono morte lì dentro.” E,
atterrita, rivolse lo sguardo all’edificio occupato dai tedeschi per poi girare
definitivamente le spalle a don Franco.
“Non
lasciarle morire, Sarah!” proruppe l’anziano sacerdote, non in tono di
rimprovero, ma come una supplica disperata, mentre la ragazza camminava in
fretta verso la sua baracca, senza fermarsi, senza voltarsi. “Non lasciarle
morire”, ripeté più rassegnato.
Quando
fu nella sua baracca e sul suo letto, con la testa sotto la coperta, Sarah poté
finalmente dare libero sfogo a tutte le lacrime che aveva trattenuto; lacrime
di paura e rassegnazione, di rabbia e vergogna, di sconforto e confusione;
lacrime convulse, irrefrenabili, sonanti che non rimasero a lungo inascoltate.
All’ennesimo singhiozzo, infatti, sentì un qualcuno salire sul letto e premerle
sulle gambe. Scostò un po’ la coperta dal viso, ritrovandosi davanti il faccino
di Giulio, il bambino più piccolo, che la guardava con un’espressione triste e
interrogativa e, invano, tentò di frenare le lacrime, tirando su col naso un
paio di volte.
“Sarah,
perché piangi?” domandò innocentemente il bimbo. “Ti fa ancora bua?”
Senza
rendersene conto, Sarah si ritrovò ad annuire e il piccolo, piegatosi su di
lei, le diede un bacio sulla guancia, quella più livida.
“è passata?” riprese il bimbo, mentre
Sarah, commossa, non riusciva a trattenere le lacrime ed emise un singhiozzo
più forte.
Alla
mancata risposta della ragazza e al suo incontenibile pianto, il piccolo Giulio
rattristì di più lo sguardo, poi si fece pensieroso e, un attimo dopo, assunse
un’espressione allegra. “Il mio papà mi ha promesso che, quando torniamo a
casa, mi compra un cavalluccio grande così!” disse e, sulle ultime parole enfatizzate,
spalancò le braccia più che poteva. “Se vieni a casa mia, ti faccio fare un
giro, però non devi piangere più”, concluse serioso.
Sarah
sorrise debolmente al tentativo del bimbo di consolarla, immaginandosi
l’improbabile ed esilarante scena. “Va bene”, sussurrò, asciugandosi le lacrime
con il dorso della mano, “non piango più.”
Il
piccolo era riuscito nel suo intento e ricambiò con un largo sorriso per poi
accovacciarsi accanto a lei. Sarah lo abbracciò e, baciandogli la fronte, pregò
Dio che i nomi di Giulio e degli altri bambini non fossero sulla lista dei
deportati verso Auschwitz. Dopo pochi istanti, vinta dalla stanchezza fisica e
mentale, mentre il piccolo riempiva il silenzio della baracca canticchiando una
dolce nenia inventata, la ragazza chiuse gli occhi e, senza accorgersene, dormì
fino al giorno seguente, fino a quando una sirena non fischiò all’impazzata.
“Sara, non piangere.
Tienimi chiuso dentro questa stanza.
Rompi i tuoi giochi contro l’arroganza del mondo
che è pieno di
cose inutili da fare,
cose inutili da dire.
Quante cose inutili abbiamo nella testa.
Ma il tuo sorriso resta...
In the middle of
the night.”
Pino Daniele,
Sara