Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Nadine_Rose    05/02/2020    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
AVVISO IMPORTANTE! Se state leggendo questa storia su una qualsiasi piattaforma che non sia Efp o Wattpad, siete potenzialmente a rischio di un attacco malware. Se desiderate leggere questa storia nella sua forma originale e in piena sicurezza, leggetela qui: https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3794886&i=1, https://www.wattpad.com/story/188486067-nell%27abbraccio-del-nemico.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 21

 

La morte nell’anima

 

“A volte io respiro nella notte

e penso a quante luci sono morte

intorno a un cimitero di bambina.”

Alda Merini

 


ImagesTime.com - Free Images Hosting

Immagine dal film “Schindler’s List”

 

La dolcezza della marmellata si perse nel sapore salato e amaro delle lacrime che scendevano copiose e silenziose lungo le sue guance, bagnandole le labbra, ma Sarah continuò lentamente a mangiare, ignara di essere osservata. Ricordò di aver sognato i suoi genitori e rivide l’espressione preoccupata impressa sul volto di sua madre e lo smarrimento che traspariva dagli occhi di suo padre al momento del loro addio, sotto lo sguardo del grande Crocifisso, nella navata centrale della chiesa. Immaginò il loro dolore e la delusione di Samuel, suo fratello, se l’avessero vista in quelle condizioni, mezza nuda, sul letto di un nazista, a mangiare il cibo destinato ai soldati. Se solo avesse seguito Samuel nella Resistenza, a quell’ora si sarebbe trovata a combattere il nemico e non a condividerne le lenzuola. Ma, vigliacca qual era, il pensiero di supportare le brigate partigiane, come tante altre ragazze della sua età, non l’aveva nemmeno lontanamente sfiorata alla partenza di suo fratello. Bevve l’ultimo sorso di tè diventato ormai freddo e, tremante, posò la tazza sul vassoio, trattenendo un pianto più disperato.

 

Entrato nel suo ufficio, prima di sedersi alla scrivania, Hermann frugò nelle tasche alla ricerca delle sigarette e si accorse di aver lasciato il pacchetto sul comodino. Scrupolosamente osservante dei propri gesti e rituali quotidiani, si stupì non poco di tale dimenticanza e, a passo sostenuto, si diresse verso la camera da letto. Pensò che Sarah, considerata la fame che le aveva tormentato lo stomaco per tutta la notte, avesse già finito di mangiare e che, in quel momento, stesse rassettando la stanza. Ma, avvicinatosi alla soglia, udì un lamento sommesso, simile al miagolio di un gattino e spinse delicatamente la porta fino ad aprire un piccolo spiraglio. La vide di spalle, seduta sul bordo del letto, ancora in sottoveste e con la colazione davanti. Mangiava a rilento e non voracemente, come aveva immaginato, mentre i singhiozzi trattenuti le scuotevano le spalle e la testa, facendo ondeggiare i capelli. Indugiò sull’uscio, non sapendo come confrontarsi con quegli occhi lucidi ed eloquenti, con quelle labbra mute e tremanti e, per la prima volta nella sua vita, si scoprì vigliacco davanti alla fragilità e alla forza di una ragazza la cui esistenza era stata catapultata in un incubo e lui era uno dei mostri. Il delicato tintinnio della tazza, che Sarah aveva posato sul vassoio, lo riportò alla realtà e, scuotendo un po’ il capo come per liberarsi da pensieri che non gli appartenevano, si costrinse a ricordare i numerosissimi impegni della giornata e a farne un alibi per non rientrare nella stanza. Fra soli tre giorni, sarebbe partito il primo convoglio diretto verso Auschwitz e, sotto il suo comando, tutto doveva filare alla perfezione. Non poteva perdere altro tempo e, mentre la schiena della ragazza fu scossa da un singhiozzo più forte, l’SS-Obersturmführer chiuse lo spiraglio e si allontanò dalla porta. Indossò di nuovo la sua corazza d’indifferenza, ma non aveva più voglia di fumare.

 

“Sarah! Sarah!” Al di là del filo spinato che divideva il Campo Nuovo dal Campo Vecchio, una voce familiare la chiamò, ma Sarah fece finta di non sentirla e continuò a camminare più velocemente verso la sua baracca.

Se si fosse fermata, don Franco, anche solo con uno sguardo, avrebbe capito tutto e lei non voleva.

“Sarah! Sarah!” Il sacerdote perseverava nell’intento di parlarle e Sarah, sentendo il suo respiro farsi più affannoso per l’incedere troppo veloce, considerata l’età avanzata, non ebbe altra scelta che rassegnarsi a quel confronto e a un’eventuale condanna.

Assai trafelato, in una tonaca sgualcita e impolverata, con la barba incolta e il viso segnato da mille preoccupazioni, don Franco sembrava più invecchiato dal suo arrivo a Fossoli.

La guardò con un’espressione infinitamente triste: le guance livide e gli occhi privi di luce gli confermarono la veridicità di quanto aveva sentito sulla povera Sarah e rimase senza parole, come quando, qualche giorno prima, un uomo e una donna gli confessarono di aver praticato l’eutanasia sulla loro figlia malata terminale per sottrarla alle sofferenze dell’arresto e della deportazione. Nel vortice della follia antisemita, dell’uomo contro l’altro uomo, cos’era giusto e cos’era sbagliato?

“Sarah”, iniziò a parlarle con voce spezzata, “perdonami. Non sono riuscito a proteggere te e i bambini.”

Quel «perdonami», rivoltole da un ministro di Dio, suonò strano alla ragazza che avrebbe voluto – e, forse, dovuto – rispondere con un «non è colpa vostra», ma rimase in silenzio, poiché aveva bisogno di sentirselo dire per tutto il male che le era stato fatto. Corrucciò la fronte in un moto di rabbia, ripensando all’abuso subito e fece per andarsene.

“Sarah!” Don Franco la fermò, chiamandola con voce più forte e angosciata. “Non permettergli di farti diventare ciò che non sei.”

Gli occhi di Sarah si velarono di lacrime. Don Franco sapeva già tutto e, con un fil di voce, ponendo la domanda prima a se stessa, gli chiese: “Chi sono io?”

“Tu sei quella bambina, poi quella ragazza che correva verso la chiesa con il suo libro dei canti e che, sorridente, saliva in cantoria con gli occhi e il cuore pieni di sogni e speranze”, ribatté don Franco, anche lui con gli occhi inumiditi dal pianto trattenuto, “quella ragazza che, con grande amore e pazienza, nonostante la paura, mi ha aiutato a prendermi cura dei bambini in canonica.”

Ma Sarah dissentì con la testa e, profondamente angosciata, quasi sul punto di piangere, disse: “No, quella bambina e quella ragazza sono morte lì dentro.” E, atterrita, rivolse lo sguardo all’edificio occupato dai tedeschi per poi girare definitivamente le spalle a don Franco.

“Non lasciarle morire, Sarah!” proruppe l’anziano sacerdote, non in tono di rimprovero, ma come una supplica disperata, mentre la ragazza camminava in fretta verso la sua baracca, senza fermarsi, senza voltarsi. “Non lasciarle morire”, ripeté più rassegnato.

 

Quando fu nella sua baracca e sul suo letto, con la testa sotto la coperta, Sarah poté finalmente dare libero sfogo a tutte le lacrime che aveva trattenuto; lacrime di paura e rassegnazione, di rabbia e vergogna, di sconforto e confusione; lacrime convulse, irrefrenabili, sonanti che non rimasero a lungo inascoltate. All’ennesimo singhiozzo, infatti, sentì un qualcuno salire sul letto e premerle sulle gambe. Scostò un po’ la coperta dal viso, ritrovandosi davanti il faccino di Giulio, il bambino più piccolo, che la guardava con un’espressione triste e interrogativa e, invano, tentò di frenare le lacrime, tirando su col naso un paio di volte.

“Sarah, perché piangi?” domandò innocentemente il bimbo. “Ti fa ancora bua?”

Senza rendersene conto, Sarah si ritrovò ad annuire e il piccolo, piegatosi su di lei, le diede un bacio sulla guancia, quella più livida.

è passata?” riprese il bimbo, mentre Sarah, commossa, non riusciva a trattenere le lacrime ed emise un singhiozzo più forte.

Alla mancata risposta della ragazza e al suo incontenibile pianto, il piccolo Giulio rattristì di più lo sguardo, poi si fece pensieroso e, un attimo dopo, assunse un’espressione allegra. “Il mio papà mi ha promesso che, quando torniamo a casa, mi compra un cavalluccio grande così!” disse e, sulle ultime parole enfatizzate, spalancò le braccia più che poteva. “Se vieni a casa mia, ti faccio fare un giro, però non devi piangere più”, concluse serioso.

Sarah sorrise debolmente al tentativo del bimbo di consolarla, immaginandosi l’improbabile ed esilarante scena. “Va bene”, sussurrò, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, “non piango più.”

Il piccolo era riuscito nel suo intento e ricambiò con un largo sorriso per poi accovacciarsi accanto a lei. Sarah lo abbracciò e, baciandogli la fronte, pregò Dio che i nomi di Giulio e degli altri bambini non fossero sulla lista dei deportati verso Auschwitz. Dopo pochi istanti, vinta dalla stanchezza fisica e mentale, mentre il piccolo riempiva il silenzio della baracca canticchiando una dolce nenia inventata, la ragazza chiuse gli occhi e, senza accorgersene, dormì fino al giorno seguente, fino a quando una sirena non fischiò all’impazzata.

 

“Sara, non piangere.

Tienimi chiuso dentro questa stanza.

Rompi i tuoi giochi contro l’arroganza del mondo

che è pieno di

cose inutili da fare,

cose inutili da dire.

Quante cose inutili abbiamo nella testa.

Ma il tuo sorriso resta...

In the middle of the night.”

 

Pino Daniele, Sara  

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Nadine_Rose