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Autore: CHAOSevangeline    11/02/2020    2 recensioni
{Accenni Mello/Near}
"Near non accettava di avere una fobia, non serviva qualcuno gliela ricordasse. Non lo accettava perché riconosceva quanto la sua preoccupazione avesse radici irrazionali: uno specchio non lo avrebbe mai potuto ferire, eppure contro di lui poteva tutto.
Ma essere logici non serviva, non sempre: non risolveva il problema, non estirpava quella fobia alla radice.
Perché era freddo, razionale, ma era pur sempre un bambino."
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mello, Near | Coppie: Mello/Near
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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II.
 
 


«Perché hai una fissa per le costruzioni?» una voce tagliente si fece strada nei suoi pensieri. «Mi irrita.»
«Tutto ciò che faccio ti irrita, Mello», lo apostrofò con voce incolore. «Tu hai una fissa per me. Anche io ti irrito.»
Se Near avesse tratto il minimo piacere dai silenzi che riusciva a strappare a Mello prima delle sue esplosioni di rabbia sarebbe stata una delle persone più appagate al mondo.
C’erano dei momenti e dei luoghi, e soprattutto delle condizioni che tuttavia rendevano Mello più mansueto nei suoi confronti. Territori neutrali dove era come se fra loro vigessero gli accordi di una tacita tregua.
Near sapeva che allora non avrebbe rischiato la morte per aver avanzato quella valutazione oggettiva seppur scomoda, ma ebbe almeno la decenza di smetterla di impilare distrattamente le tessere del domino che in qualche modo erano giunte sul comò per fare un favore ai nervi di Mello.
In qualche modo, parlando di come i tasselli del domino erano arrivati fin lì, significava che Near aveva avuto la prontezza di portarli con sé anche in un momento in cui meno di ogni altro avrebbe dovuto pensare a delle tesserine di plastica.
«Io non ho una fissa per te.»
Certo.
«In ogni caso ti irrito.»
«Sono felice tu l’abbia capito.»
«Non serviva un genio.» Near attese un istante e gli parve di leggere negli occhi di Mello una certa allerta, il sentore di una frase che non voleva udire. «Anche se si dà il caso che io lo sia.»
Ogni oggetto in quella stanza si sarebbe potuto rivelare una potenziale arma in grado di stroncare la sua vita; che fosse vivo con vicino cuscini e coperte senza che uno dei primi fosse premuto sul suo viso e le altre attorcigliate attorno al collo per rubargli l’aria, era un miracolo.
No, un miracolo era irrazionale. Doveva ringraziare la loro tregua.
La tregua di Mello: Near non aveva scelto quasi nulla, non ce l’aveva mai avuta troppo con lui.
Si voltò verso il biondo. Gli parve di scorgere l’ombra di un sorriso sul volto sfregiato dall’ustione, ma di questo si trattava: di un’ombra. Non c’era nulla di concreto sulle labbra di Mello e Near non vedeva ragioni per immaginare l’inesistente.
«Non era detto per sminuirti», aggiunse come se potesse servire a rincuorarlo.
L’aveva detto per giustificarsi, non per scusarsi, anche se non vedeva ragione nemmeno nella prima azione. Sapeva di irritare Mello e che, a senso suo, non ce n’era motivo. Sapeva del suo complesso di inferiorità. Ma si era impegnato.
«Che stronzo», sibilò Mello.
Appunto. Non servì.
Il biondo incrociò le gambe sul letto e si accese una sigaretta. Poi prese una palla di stagnola vuota e gliela scagliò contro.
«Ah, i vecchi tempi», esalò stoico Near.
Mello lo guardò schifato. Se dal ricordo rievocato o dalle sue parole non gli fu chiaro. Era certo al novantotto percento lo fosse per entrambe le cose.
Near non sapeva perché talvolta si trovassero in quelle situazioni, lui rivestito di tutto punto e impassibile come se nulla fosse accaduto, Mello a torso nudo che si fumava una sigaretta. Di solito non gli tirava più la stagnola, ma tant’era. Fra i due credeva che quello più propenso a seppellire l’accaduto per primo sarebbe stato Mello, eppure sembrava invece volersi godere fino in fondo quei momenti.
Pareva sempre aver ottenuto una grande vittoria. Ma a Near non andava di perdersi nelle pieghe perverse della mente di Mello, dunque non chiedeva. Avrebbe immaginato i suoi pensieri se solo fossero rientrati in un campo di sua competenza, logico e razionale. Così non era e Mello la faceva da padrone.
Per una volta a Near stava bene: sapeva non avrebbe capito e nemmeno ci provava. Era riposante.
Quindi ognuno se ne stava per sé, a distanza di sicurezza come se fino a poco prima non fossero stati vicini, pelle contro pelle. Era quasi come se dovessero disintossicarsi.
Nella stanza calò il silenzio, nemmeno più il rumore secco delle tessere del domino che incontravano il legno del comodino mentre Near le sistemava in verticale a turbare la quiete.
A cadenze regolari Mello esalava il fumo.
«Quello che mi hai chiesto prima», cominciò Near. «Era una vera domanda?»
«Perché fai le costruzioni?»
«Sì.»
«Era più un appello disperato.»
«Ah.»
La cosa davvero fastidiosa, no, odiosa di Near, oltre al suo essere Near nella più totale interezza, era il modo in cui diceva le cose: non traspariva nulla. Persino quando poco prima aveva fatto notare il proprio essere un genio non l’aveva fatto per vantarsi; si trattava di un dato di fatto e non vedeva perché non farlo presente. Non si vantava, non si irritava. Faceva appello solo alla logica e Dio solo sapeva dove Mello avrebbe voluto ficcargliela. Se l’avesse mandato a fanculo perché l’aveva colpito con la stagnola si sarebbe quasi sentito felice.
Cristo, non gli aveva rinfacciato nemmeno l’aver ucciso la sua intera squadra! Non ne avevano mai parlato per la verità.
Mello ci aveva pensato per giorni e giorni dopo l’accaduto: faticava a comprendere Near, ma non ne era incapace. Era questo a dargli davvero fastidio; riuscire a stare nella testa di quel mostriciattolo cadaverico era un affronto a sé stesso. Buffo come non percepisse tale il modo in cui avevano condiviso quella stanza.
Per tornare alla questione squadra sterminata, Mello era giunto alla conclusione che l’unico pensiero che doveva aver attraversato la mente del suo rivale doveva essere stato un sonoro «beh, Mello ce l’ha con me. Vorrà rallentarmi. Ha senso.»
Lo aveva agghiacciato. Non tanto la freddezza di quel pensiero, lo sapeva emotivamente stitico dopotutto, quanto la facilità con cui aveva indovinato. E sì, anche un po’ che per lui tutto fosse bianco o nero. Ma non poteva giudicarlo da quel punto di vista: lui si sarebbe fatto ammazzare per raggiungere un traguardo.
Se nella voce di Near poteva esistere qualcosa che non fosse scherno o l’irritante piattezza del suo tono, Mello avrebbe potuto giurare di averlo captato in quell’unica sillaba: ah.
Era dispiacere.
Voleva parlare di qualcosa? Voleva parlarne a lui?
Non era curioso, Mello. Non era assolutamente curioso di scoprire come Near si sarebbe potuto rivelare se mosso dalla volontà di aprirsi, di sembrare umano o anche solo di imitare il comportamento di un umano normale.
Neanche un poco.
D’accordo, forse un po’ sì.
No, era davvero curioso.
«Ho appena acceso la sigaretta.»
Vide nel cipiglio di Near che non aveva colto affatto.
Leggeva tra le righe, ma per capire qualcosa di banale come un’interazione sociale aveva bisogno di essere preso per mano o di un calcio in culo.
Mello alzò gli occhi al cielo mentre inspirava il fumo. Quanto avrebbe voluto aiutarlo con il secondo metodo. L’avrebbe mandato pure in capo al mondo.
«Se vuoi dire qualcosa hai il tempo di una sigaretta.» Espirò. «Non te lo chiederò di nuovo e non dirò niente.»
Near non lo guardò più. Ormai aveva iniziato a vivere della convinzione che esclusi alcuni istanti, Mello offrisse di più con la propria voce che non con gli sguardi: quelli sembravano sempre terribilmente arrabbiati.
Si disse che non sapeva perché gli avesse chiesto se fosse davvero interessato. Non sapeva se fosse mosso da una speranza, piuttosto che da un bisogno.
Si disse anche che in quei momenti nulla sembrava avere logica e lui smetteva di cercarne una, dunque perché non approfittarne?
«Le costruzioni e i puzzle mi fanno sentire come se avessi davvero il controllo», spiegò come se non stesse nemmeno parlando di sé. «Costruirli o comporli è facile. Imparare a farlo è facile. Quando ho finito li butto giù. Dipende da me, sono io a decidere di farlo.»
«Che cazzata.»
Il buon proposito di Mello di non parlare era andato a puttane praticamente subito. Formulato quel pensiero Near si rese conto che il tempo trascorso con il biondo influenzava lui e il suo vocabolario più di quanto volesse.
«Quindi fammi capire. Tu costruisci perché ti senti padrone di ciò che fai, ma poi lo butti giù per lo stesso motivo?»
«Minimizzato, ma sì.»
«È da spostati. Non so come hai fatto a non diventare un criminale.»
«Forse tu potresti illuminarmi sul tema.»
Alzati gli occhi, Near un mezzo sorriso sulle labbra di Mello lo trovò davvero. Quando era quasi certo l’altro non potesse scoprirlo, il biondo si abbandonava a quelle espressioni sghembe che sarebbero valse come un punto guadagnato. Near ne sarebbe stato felice se solo ne avesse voluto uno.
Mello si nascose in fretta con le dita che tenevano la sigaretta.
Per Near quello scambio era quanto di più simile a un intimo schema di scherzo e ironia. Era piacevole.
Near non voleva gli altri, ma ne aveva bisogno. Come ogni essere umano.
Sorrise anche lui. Near non si era mai visto sorridere: avrebbe convenuto di essere un po’ inquietante, in quel caso.
«E non sorridere», sbottò Mello. «Mi fai senso.»
«Non ti facevo senso cinque minuti fa.»
Per Mello fu una doccia gelata e si sentì alle strette.
«Ti ricordo che ho una pistola.»
«Se dovessi morire verrebbero a chiedere a te prima di accusare Kira.»
Mello dovette dargliene atto. Proprio come alla Wammy’s House.
Dopo avergli concesso quel ludibrio, pensò che tornare alla psiche di Near fosse più conveniente.
«Continuo a pensare che la tua fissa sia una stronzata», gli fece presente. «È tipo quella fobia idiota che hai.» Near si irrigidì. «Quella per gli specchi.»
Mello prendeva la mira con le parole per colpire dove più supponeva facesse male. Allora non era così: allora non si stava davvero rendendo conto di aver iniziato a muovere i passi in un campo minato di cui Near aveva ancora un controllo troppo labile.
Si sarebbero potuti fare male davvero. Entrambi.
Near ebbe la conferma che i loro scambi non potevano mai essere del tutto piacevoli o del tutto sofferti. Era come se pagassero uno scotto per i momenti sereni.
«Cos’è che ti preoccupa?» insistette Mello. «Che lo specchio ti risucchi? Renderti conto di quanto sei pallido o…»
«Mia madre è morta in una stanza con uno specchio.»
Fu schietto come lo era quando si provocavano.
Mello ammutolì. Persino lui si rese conto di aver superato la linea di non ritorno.
«Mi hanno trovato lì che lo fissavo
Near non si aspettò nulla, perché Mello era troppo orgoglioso per chiedere scusa: non si sarebbe mai scusato con nessuno, se ci si aggiungeva poi la sua identità e la sua funzione di nemesi, il tutto si complicava.
E poi delle scuse Near non le voleva nemmeno: lo avrebbero fatto sentire strano.
Se scavava in quella parola tanto generica, strano, la giusta accezione che trovava era diverso. Lui era sempre stato diverso. Era diverso dalla maggior parte dei comuni ragazzini ed era diverso anche dagli stessi ragazzini che, come lui, erano diversi da tutti gli altri. Se loro erano insieme nell’essere soli, lui era completamente isolato. Aveva solo sé stesso. Sé stesso e Mello, in un equilibrio molto precario e indefinito.
Non gli era mai pesato troppo: la sua era una condizione che non poteva cambiare. Dunque perché crucciarsi? Meglio conviverci: era così, con le sue difficoltà e zone d’ombra. Tante zone d’ombra, da cui Near sembrava voler lanciare un grido d’aiuto con il proprio candore assordante.
L’unica cosa per cui odiava, no, termine immotivatamente forte, non apprezzava sentirsi così era quando pensava ai suoi genitori. Avvertiva un tremito in fondo al cuore, nelle sue caverne più profonde che Mello lo avrebbe accusato di aver cementato e chiuso con un lucchetto casomai la malta straripante non fosse una misura di sicurezza sufficiente. Avvertiva un senso d’ingiustizia capace di far crollare il suo lucido ragionamento: non avrebbe dovuto essere così. Conviveva con la sua realtà, con sé stesso e con le proprie paure, ma non avrebbe dovuto essere costretto a questo come a tante altre cose.
Alla Wammy’s House, prima fra tutte.
Alla paura degli specchi.
Ad essere solo.
Ma Near, ecco, si trovava nello stesso campo minato dove aveva appena messo piede Mello. Viveva con ambo i piedi su una mina e il nuovo, ciò che forse avrebbe potuto essere meglio, gli impediva di muoversi per timore gli scoppiasse sotto i piedi.
Near odiava sentirsi solo, e si sentiva solo esclusivamente quando pensava a sua madre.
Mello non gli avrebbe mai chiesto scusa e questo Near lo sapeva: era logico credere non gli interessasse farlo. Ma allora prese il suo tacere come una cortesia, una prova di rispetto nei suoi confronti in qualche modo.
Near si rese conto che lui e Mello avevano una cosa in comune, più profonda delle battute caustiche divenute routine: condividevano una regola non scritta.
Non si getta sale sulle ferite degli orfani.
Nessuno di loro avrebbe saputo come curare le ferite dell’altro, le avrebbero solo slabbrate con tentativi fallimentari. Nessuno dei due amava sé stesso a sufficienza, nessuno dei due aveva ricevuto abbastanza affetto per poterci riuscire. Nessuno sapeva come darne a qualcun altro.
Benché sfogarsi fosse importante, benché gridare facesse bene e parlare ricollocasse nella loro mente portentosa e fragile al contempo i tasselli del loro passato.
Nulla di tutto questo avrebbe dato loro indietro anche solo un briciolo di ciò che avevano perduto. Non li avrebbe aiutati a vivere meglio.
Era inutile causarsi altro dolore.
Non si getta sale sulle ferite degli orfani.
Per lunghi istanti il tempo venne scandito dalla cenere e dal fumo di sigaretta.
«Non ti starò a dire stronzate come “non devi aver paura, è tutto nella tua testa”», disse infine Mello. «Ci viviamo nella nostra testa. Quel posto fa fottutamente paura.»
Near impiegò qualche attimo a realizzare che Mello aveva ammesso di provare paura.
Era forse la manifestazione più grande di umanità che Mello avesse condiviso con lui. Certo, Near sapeva che era umano, ma a volte se lo dimenticava come Mello doveva dimenticarsene parlando di lui.
«Dico che forse ti passerà prima o poi. Forse, poi non dire che ti ho illuso io.» I suoi occhi guizzarono per un istante. «Dipende da te. Abbiamo sempre potuto contare solo su noi stessi.»
Fece una smorfia, quasi stesse immaginando Near che gli si parava davanti anni dopo rivendicando un risarcimento per il conto in sospeso.
«Anzi, deve passarti prima o poi. Non posso dire che sei un cazzo di robot se te la fai sotto davanti agli specchi.»
Near pensò di voler cambiare discorso, ma non lo fece.
«È per questo che mi ci hai messo davanti quella volta?»
La tacita regola che Near credeva condividessero, Mello una volta l’aveva infranta.
Ricordava cosa aveva fatto alla Wammy’s House e Near lo sapeva.
Aveva faticato a porre quella domanda. Near paventò per un istante che Mello lo afferrasse e trascinasse davanti allo specchio del bagno. Che gli tenesse aperti gli occhi per costringerlo a guardare.
«No», rispose Mello. «L’ho fatto perché volevo farti male.»
Near non si aspettava niente di diverso, di più o di meno. Mello aveva detto la verità e forse qualcuno l’avrebbe preso per pazzo, ma Near la reputava una cosa preziosa.
«Volevo farti male almeno quanto…»
Gli occhi di Near furono nei suoi. Mello si fermò.
«Lascia perdere.»
Senza finire la frase gli aveva rivelato fin troppo. Near lesse nei suoi occhi la frustrazione di averlo fatto. Non lo torturò come lui aveva fatto in passato.
«Guardarsi allo specchio è sopravvalutato.»
Mello attese, poi colse quell’occasione.
«Dio, è per questo che sei sempre preso così di merda.»
«Mello», lo chiamò Near, quasi volesse rimproverarlo. Ormai aveva applicato un filtro al linguaggio scurrile del biondo. «Credevo fosse vietato nominare il nome di Dio invano.»
«Non è stato invano.»
Near accennò un sorriso divertito.
«Hai davvero scomodato Dio per me?»
Il rosario che riposava sull’addome asciutto e scoperto di Mello parve un monito.
«Non sentirti speciale.»
«Ce lo dicono da una vita, che lo siamo. Ma non mi sono mai sentito così.»
Mello pigiò il mozzicone di sigaretta nel posacenere. Restò in silenzio un istante, quasi si trovasse in bilico su un filo e dovesse scegliere se afferrare un’occasione unica o lasciarsi cadere nell’oblio.
Perché hai paura?
Cos’è che ti spaventa?
Avrebbe potuto chiedere, essere diretto. Avrebbe voluto.
«Cos’è che vedi quando guardi nello specchio?»
Se Near avesse risposto avrebbe spalancato un portale. Si sarebbe mostrato più vulnerabile e indifeso di quanto non avesse mai fatto con chiunque altro.
Forse anche Mello vedeva qualcosa di simile a lui. Forse voleva saperlo per questo.
Un mezzo sorriso, furbo, prese forma sulle labbra di Near.
«Hai finito la sigaretta», gli fece notare. «Ed entrambi abbiamo del lavoro da fare.»
Mello schioccò la lingua, ma non ribatté.
Near gli aveva ricordato la distanza che per anni aveva voluto mantenere da lui. Gli aveva fatto un piacere.
Non si sarebbero illusi con la normalità proprio allora.
 
 
Quando la sua squadra, nella quasi più totale interezza, era stata distrutta, Near si era trovato a dover fare una scelta: rimanere con il loro sangue addosso o ripulire le proprie ferite e andare avanti.
Non aveva un solo graffio a lacerargli la pelle eppure la morte di tutti quegli uomini pesava su di lui come la scanalatura di un proiettile; non sentiva dolore, fisicamente non avrebbe potuto, ma ne avrebbe portato per sempre il segno.
Rimanere sporco o ripulirsi. Non c’era stato nulla di metaforico nella scelta che doveva prendere: Near si era trovato nel bagno piastrellato, candido di un biancore asettico e così puro da far male. Era inverosimile.
Nella stanza lattea, lui era lordo di sangue.
Ricordava di non aver pensato molto. Era inevitabile, c’era lo zampino di Mello e ormai le cose erano andate così.
Si era tolto i vestiti in favore di un cambio identico. Aveva strofinato la pelle laddove poteva vederla e, dove invece non poteva, s’era sciacquato alla bene e meglio.
Quelle abluzioni fatte a tentoni erano state sufficienti. A sembrare pulito, non a sentirsi così.
Allora non era riuscito a fronteggiarsi, a togliere il telo dallo specchio che all’SPK era celato.
Erano passati anni dalla Wammy’s House, da Roger che appendeva il telo all’anta del suo armadio e portava via sottobraccio lo specchio sopra il suo lavandino.
Era in un bagno diverso, a un’età diversa. Era in un paese diverso.
L’unica costante era il coraggio che mancava, la paura che strisciava.
Non era riuscito a raccontarsi del tutto nemmeno alla persona che aveva sospettato potesse comprenderlo più di ogni altra e alleviare almeno in parte i suoi pesi.
Ma qualcosa era diverso.
Era accaduto qualcosa, che Near aveva visto e lasciato succedere.
Near odiava l’idea di mostrarsi vulnerabile forse quanto quella di scoprire la superficie riflettente e guardarla troppo a lungo. Era questo il suo vero problema: il tempo. Poteva sfilare davanti a uno specchio senza fermarsi, senza lasciarsi intaccare. Certo si irrigidiva, ma non perdeva il controllo di sé neppure entrando nel suo raggio una, due, tre volte.
Era guardarci dentro, la vera ragione del suo disagio. Guardare il mondo dello specchio. Guardare sé stesso.
Forse ciò che gli aveva detto Mello durante quella serata tanto insolita perché fra le più normali trascorse insieme non era sbagliato: dipendeva da lui. E se lui si era stancato di quella paura allora forse non l’avrebbe cancellata, ma l’avrebbe soffocata come per anni lei era stata in grado di fare con lui.
Dipendeva da lui superarla. Dipendeva da lui quello stesso terrore.
L’aveva sentito, compreso con abbastanza forza quando le immagini gracchianti della televisione gli avevano raccontato cos’era accaduto a Mello.
Non c’era più. No, niente termini sdrucciolevoli: era morto.
Near non confondeva mai realtà e finzione, non l’aveva mai fatto: la sua logica glielo impediva, aveva soppresso la sua fantasia come un rampicante sopprime la vitalità delle piante fin da quando aveva memoria. Persino i suoi giochi avevano sempre avuto la logica concreta e solida della costruzione o del simulacro di qualcuno, come i pupazzetti che aveva forgiato poco tempo prima in onore del suo primo e prevedeva più complesso caso da risolvere.
Near non immaginava: vedeva, sentiva.
La storia dello specchio c’era stata, esisteva e con lei erano esistiti i genitori di Nate River. Continuavano a farlo anche se solo nel suo nome, nei suoi tratti somatici, nel candore dei capelli e della pelle. Dove avrebbe contato che ci fossero, nel suo cuore, c’era appena qualche racconto e tante spine inamovibili. Tanti pezzi che mancavano e lo rendevano incompleto.
Near non riusciva a convincersi di qualcosa che non vedeva, ecco perché lo specchio lo stregava tanto quand’era piccolo: era curioso di cosa avrebbe potuto trovare.
Eppure era riuscito a imporsi una paura irrazionale basata su qualcosa che non gli era mai stato detto.
È colpa tua.
Questo sentiva Near, anche se nessuno lo diceva.
Le parole gli rimbombavano nelle orecchie e gli pulsavano nel sangue.
Sei un mostro.
Se lo leggeva negli occhi.
Un brivido freddo strisciò lungo la spina dorsale del più geniale ragazzino della Wammy’s House. Il nuovo L, Near, Nate. Tanti nomi per una stessa persona che non era riuscita a capire la cosa più importante.
È colpa tua non gli era mai stato detto da nessuno.
Se l’era detto lui, da solo.
E l’aveva gridato così forte nella propria testa da poterlo sentire con le orecchie.
Per questo Near non si guardava allo specchio. Mello, in parte, l’aveva colto: Near non voleva vedersi. Si era scrutato troppo a lungo in un momento in cui non avrebbe voluto né dovuto farlo.
Near conosceva per certo il proprio nome, Nate River. Lo sapeva. E sapeva che suo padre aveva ucciso la mamma mentre lui era nascosto sotto il letto della camera con lo specchio.
Non con un’arma o con gesto. Non era nemmeno lì. L’aveva uccisa con una propria scelta. Era responsabile quanto chi impugnava il coltello.
Ogni tanto capitava si presentasse a casa loro: si mostrava con una scusa, incontrare Nate oppure qualche falso sentimentalismo. Di solito voleva dei soldi.
Near sentiva, non immaginava: il frusciare delle banconote era vero non solo nei suoi ricordi, ma anche nella realtà dei fatti.
Aveva smesso da quando avevano traslocato l’ultima volta. La mamma diceva che traslocavano per trovare il loro luogo felice, Near si rendeva conto adesso che era vero, ma anche di tutta la verità: stavano scappando.
La mamma gli aveva insegnato che se le sentiva dire il nome di quell’uomo poteva fingere di non esserci.
«Non uscire finché non te lo dico io.»
Near lo prendeva come un favore: non gli piaceva incontrarlo. Era per colpa sua che doveva immaginare di avere i capelli simili a quelli di qualcuno, se si sentiva sempre diverso.
«Mamma», l’aveva chiamata una volta Nate. «È una colpa essere fatto come sono io?»
Aveva sei anni quando gliel’aveva chiesto.
«E come sei tu?»
Lei era incredula.
«Con i capelli e la pelle così bianca», le aveva risposto.
«Tesoro, no. Sei perfetto così.» L’aveva stretto al petto e gli aveva arruffato le ciocche bianche. «Chi te l’ha detto? Qualcuno a scuola?»
«Papà. Ha detto che tanto non me la sarei presa perché non ho emozioni.»
Era per frasi del genere che se n’erano andati a vivere da soli.
Per simili ferite e per qualcosa che sua madre chiamava dipendenza dal gioco. All’epoca non conosceva il giusto significato di quell’espressione. Nemmeno riusciva a capire come il gioco potesse essere qualcosa capace di fare male.
A Near non dispiaceva nascondersi.
Quel giorno era sotto il letto, perché l’armadio era chiuso a chiave e lui non riusciva a far girare la chiave nella toppa.
Era rimasto lì, in silenzio. Senza immaginare una storia avventurosa di cui essere protagonista: era nascosto da un mostro ma non serviva immaginarlo perché fosse vero. Però Near sentiva qualcosa di diverso nell’aria, una preoccupazione frizzante come corrente elettrica.
Il portoncino d’ingresso si era spalancato accogliendo la tragedia.
Dall’ingresso sentiva parlare due uomini e sua madre che tentava di allontanarli. Poi la voce si era alzata e dei passi erano rimbombati sul pavimento, sempre più vicini.
Non erano quelli della mamma.
Near vedeva tutto attraverso lo specchio.
La sentiva sbraitare, perché erano pericolosamente vicini a lui.
Si era sentito afferrare per il braccio e trascinare fuori. La pelle che strideva e scottava contro il pavimento.
Near aveva il cuore in gola. Poi l’uomo l’aveva lasciato, solo una mano fuori dal nascondiglio. Un grido strozzato e uno strano rumore, quasi di carne. Poi c’era stato un tonfo accanto al letto.
Non distingueva le parole, cosa stesse accadendo fuori dal reame buio sotto il letto.
Near era rimasto immobile.
«Non uscire finché non te lo dico io.»
Era la regola. E lui non riusciva a non seguirla, in quel momento.
Era stato stanato dal sangue quando gli uomini erano ormai fuggiti. Prima ancora di vedere lei, Near si era trovato a fissare sé stesso nello specchio.
Lì l’aveva catturato, lì l’aveva chiuso nella propria prigione di angoscia. Nella propria prigione dove Near era l’unico ad esistere, candido solo nell’aspetto perché dentro ormai era macchiato.
Avevano ucciso la parte di lui che la mamma proteggeva e che lui ancora non aveva imparato ad amare.
Lui, con gli occhi così neri e la pelle così bianca. Lui, che nemmeno allora, con il pigiama sporco di sangue, riusciva a piangere.
Lui.
E lì era rimasto, finché non erano giunti i soccorsi.
Quegli uomini li aveva messi in prigione L pochi giorni dopo l’arrivo di Near alla Wammy’s House. Lasciavano sempre scie di sangue quando recuperavano i crediti. Suo padre non aveva avuto una fine migliore, dopo aver lasciato il nome di chi avrebbe potuto pagare per lui.
Ironico come per la prima volta nella sua vita Near facesse parte di un qualcosa di più grande di lui solo perché qualcosa di grande l’aveva anche perso.
Ricordava poco di quel giorno, immagini sbiadite e parole che gli erano state riportate. La concretezza non aveva valore.
Aveva fissato lo specchio per non guardare altro, pietrificato.
Ecco perché Near aveva deciso che quella strada era giusta per lui, che calcare i passi di L l’avrebbe reso felice. Ecco perché odiava che chiunque scegliesse per qualcun altro.
Lei non aveva potuto scegliere.
Per questo non aveva impedito a Mello di andare incontro al proprio tragico destino: se l’era scelto lui. E lui non era nessuno per privarlo anche di questo.
Non credeva ai mondi paralleli, Near, o che la sua mano sarebbe sprofondata nella superficie dello specchio, plasmatosi denso come mercurio intorno alle sue dita per accoglierlo in un universo alternativo.
Near sapeva solo che, guardandosi, cercava i propri occhi. Lo spaventava vederli vuoti, illeggibili. Sembrava lo accusassero.
E odiava ciò che vedeva. Odiava il ragazzino che si era trovato alla Wammy’s House e poi all’SPK.
Odiava il ragazzino immobile fuori quando l’animo si scuoteva.
E ora che il telo sgualcito giaceva, strappato come un cerotto, fra le sue falangi tremanti, odiava vedere le proprie iridi nere, la pelle pallida. Odiava le venuzze che apparivano sulla cute sottile delle occhiaie se la stendeva con le dita e il pulsare vitale della giugulare sul suo collo esile.
Non aveva più sangue sui capelli, sugli abiti o sulla pelle. Ma lo sentiva sempre addosso.
Near odiava quel che aveva collegato alla propria immagine. Odiava essere la sintesi di qualcuno che aveva amato e di qualcuno che aveva imparato a odiare, che gli aveva portato via tutto.
Odiava che qualcuno scegliesse per gli altri. Per questo detestava Kira.
Odiava non aver potuto scegliere nulla di tutto ciò che era diventato.
Strappare quel telo era stata la sua unica vera possibilità. E l’aveva colta.
Tardi, con paura. Ma l’aveva fatto.
Strinse tra le dita la porcellana del lavandino, l’acqua che scrosciava nel silenzio della stanza, rumorosa ai suoi timpani come un fiume in piena che distrugge una diga.
Aveva il respiro accelerato, il battito frenetico. Sudava sotto la flanella leggera del pigiama.
Non era pronto, non sarebbe mai stato pronto.
Raccolse l’acqua con le mani a coppa e se la gettò sul viso, ghiacciata.
Dentro non sarebbe mai stato pulito, ma almeno poteva guardarsi e capire la propria paura.  Poteva guardarsi e capire che quella paura era sempre stata una sola: lui stesso.
Lui e le sue emozioni illeggibili, fredde, anonime.
Lui stesso prima di tutto.
Lui e il suo senso di colpa.
Quando spense la luce del bagno Near capì che non avrebbe mai guardato lo specchio come tutti. Non avrebbe mai accettato davvero ciò che vedeva, né smesso di temere che gli mostrasse qualcosa di terribile.
Ma l’aveva guardato, l’avrebbe guardato ancora.
E l’aveva scelto lui.





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Come ho accennato nelle note iniziali, questa storia è un progetto nato nell’estate del 2018 che sono però riuscita a concludere solo pochi giorni fa.
Continuavo a rimetterci mano, a modificarlo, a dirmi “devo sistemare questo e quell’altro”.
Mi sento sicura? Non lo sono mai, ma mi sono detta basta, di pubblicare. Avevo bisogno di vederla completa.
Conosco Death Note da moltissimi anni e Near è uno dei miei personaggi preferiti. Ho scritto su di lui qualcosa appunto nel 2018 e sicuramente prima, su di lui e sulla Mello/Near. Approcci imbarazzanti dovuti alla mia tenera età. In questo racconto ci sono tante headcanon, tante idee su di lui. Mi è piaciuto molto seguire il flusso di pensieri di un personaggio che viene spesso detto incomprensibile e vuoto. L’apporto di Mello poi è stato considerevole.
Come ho accennato, la storia doveva partecipare al concorso Phobos & Deimos indetto da meryl watase. La paura che avevo scelto per Near è appunto l’eisoptrofobia, cioè la paura degli specchi. Di solito affligge individui particolarmente superstiziosi, ma anche chi teme di vedersi riflesso per i più svariati motivi. Credo di essere scesa molto nel dettaglio per quanto riguarda le motivazioni di Near e spero siano state chiare.
Spero di tornare presto nel fandom, con qualche racconto sugli altri ragazzi della Wammy’s House e qualcuno che si soffermi di più su Mello e Near. Adoro i racconti che colmano i vuoti del loro passato e spero di avere idee.
   
 
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