La Città dell’Immaginazione nasconde un segreto che pochi conoscono. O forse, più che segreto sarebbe corretto chiamarla area riservata. Una fitta rete di canali, scale, passaggi, vie e stanze si snoda infatti sotto la superficie della città; nessuno sa bene quanto a fondo vada, o quanto vasta sia.
Le chiamano le Catacombe.
Si
dice siano gli strati antichi della città che sprofondando
durante i
millenni hanno dato origine a quest’ambiente sotterraneo.
Sono un
luogo di cui molti cittadini ignorano l’esistenza, di cui
pochi
conoscono l’accesso, ma quelli che ne hanno bisogno sanno
perfettamente come arrivarci. Questi cunicoli occulti, queste stanze,
sono dei veri e propri laboratori: impregnati di magia e storie fin
nelle fondamenta, sono ottimi rifugi segreti e discreti dove gli
abitanti possono esercitare e sperimentare le loro abilità,
per
creare mondi e storie: progetti che una volta divenuti
realtà e
completi, potranno tramutarsi nelle opere che poi andranno nelle
biblioteche della città, arricchendo e rinnovando il suo
stesso
tessuto.
È qui che tutto si produce, o comunque gran parte.
Come un cuore pulsante e silenzioso che enorme e nascosto dà
nuova
vita alla città. La riservatezza a riguardo è
garantita dagli
stessi utilizzatori; ognuno ha infatti una propria stanza, spesso con
un’entrata segreta, per cui ognuno conosce solo il proprio
percorso. I veterani qualcosa sanno ma per rispetto non ne parlano,
mentre i più giovani in genere non si rendono nemmeno conto
del
contesto in cui si trovano.
Non c’è né giorno né notte
in
quel luogo, solo silenzio, concentrazione e lavoro incessante; ognuno
viene e va in base ai propri ritmi, alle proprie necessità.
Io venni a conoscenza di questo segreto per caso. Mi stavo incuneando per le calli di Venezia diretto verso la stazione; avevo appena finito lezione e con la testa divagavo per i pensieri più strani, quando all’improvviso girato l’angolo mi ritrovai di fronte ad un muro. Credevo di aver sbagliato strada sovrappensiero. Mi voltai ma di fronte a me non c’era più Venezia: ero in un piccolo vicolo ricco di edifici strani, ognuno diverso dall’altro. Lo percorsi fino in fondo. Respiravo un’aria fresca che sapeva di libertà e di vita. Sbucai sulla via principale: gente e personaggi di ogni genere la percorrevano con vivacità.
Io
rimasi immobile, incantato, col viso immerso nella luce del sole
caldo e brillante che calava nel mare lontano, al termine della
strada.
Tutto si fermò per un attimo: il senso di
familiarità
e di felicità, la bellezza di quel panorama,
l’atmosfera inconfondibile: ero di nuovo nella
Città dell’Immaginazione. Tutte
le preoccupazioni, le ansie per lo studio, la frenesia, sparirono
finendo in qualche luogo molto lontano da me, mentre mi pervadeva un
senso di pace e allegria. In qualche modo, per quanto inspiegabile,
ci ero entrato ancora.
Poi di colpo tornai in me e mi resi conto che non potevo stare lì: era ormai il tramonto, e soltanto i cittadini avevano il diritto di permanere entro le mura dopo quel momento. Decisi di nascondermi: non capivo, ma ancora una volta non me ne sarei andato prima di aver scoperto il motivo del mio arrivo, o per lo meno non prima di aver approfittato un po’ di quell’occasione.
Tornai
in mezzo ai vari vicoli mentre il mare in lontananza abbracciava gli
ultimi raggi di sole, e dopo aver vagabondato un po’ decisi
di
entrare in una taverna, e di ordinare qualcosa da mangiare, senza
pensare a come avrei potuto pagare.
Fantastico. Si percepiva
nell’aria una calda ospitalità, la
convivialità dei clienti che
consumavano i loro pasti tra brindisi e risate, persino la luce
diffusa dalle lampade pareva dare il benvenuto.
Avevo appena cominciato a mangiare rincuorato quando entrarono un paio di omaccioni enormi sussurrando che c’erano degli intrusi nella città, e che bisognava trovarli ed eliminarli.
‘Ecco,
fine del divertimento’ pensai, capendo che dovevo andarmene
alla
svelta e realizzando che non sarei potuto uscire dalla porta
principale a causa delle due guardie. Il brusio cominciava ad
aumentare, così mi alzai e con tutta la naturalezza
possibile mi
diressi verso il retro del locale: sarei uscito dalle finestre del
bagno.
‘Addio ospitalità e tutto il resto’,
pensai con
malinconia. Allarmato aprii la porta e guardandomi le spalle la
richiusi.
Buio. Arretrai barcollando e finii addosso a delle lunghe aste di legno. Porco cane. Il ripostiglio delle scope. E adesso? Cominciava a crescere la tensione quando vidi uno spiraglio di luce tremolante alla mia sinistra. Tirai un sospiro di sollievo, forse non mi ero sbagliato del tutto. Mi diressi verso la luce inciampando su un secchio e finii contro un piccolo portoncino sghembo con una grossa chiave arrugginita inserita. Senza pensarci due volte armeggiai con energia per riuscire ad aprirlo, mentre alle mie spalle giungeva attutito il vociare della gente. La serratura finalmente scattò: il passaggio dava su una scalinata in pietra che scendeva ripida. Non sembravano i bagni, ma non avevo scelta. Richiusi la porta alle mie spalle e cominciai a scendere.
Sbucai in un lungo corridoio sotterraneo. I muri erano composti da grossi blocchi di pietra grigi, con delle torce appese per illuminare il percorso. Lungo le fughe scorrevano rivoli luccicanti che sembravano stillare dalla roccia stessa per poi sparire nel pavimento. L’aria che si respirava era densa e umida, caratteristica degli ambienti sotterranei; un soffio di vento proveniente da chissà dove, un gocciolio lontano. Ad intervalli regolari su entrambe le pareti c’erano dei portoni, chiusi, antichi. Eppure l’atmosfera era carica, come se fosse tutt’altro che un luogo abbandonato, come se stesse per accadere qualcosa.
“Benvenuto nelle Catacombe”, mi sentii dire dal mio fianco.
Era la vecchia signora che già avevo incontrato le volte scorse. Preso dall’ambiente non mi ero nemmeno accorto del suo arrivo.
“Prendi, questa è per te, aprila una volta fuori” mi disse consegnandomi una pergamena. Preso dall’ambiente non mi ero nemmeno accorto del suo arrivo. Ma da dove era arrivata? E se lei era lì voleva dire che altri stavano per arrivare? Che mi sarebbe successo?
“Non preoccuparti ora, camminiamo un po’” disse, come leggendo le preoccupazioni sul mio volto.
Venni così a sapere cos’era quel luogo in cui ci trovavamo, la sua storia, la sua importanza. Noi per la precisione eravamo sul livello più superficiale. Volendo si poteva scendere, nessuno sapeva per quanto.
Decise di farmi vedere come funzionavano le stanze, e così, aperta una porta, mi fece entrare.
Fu incredibile. Davanti a me non c’era una piccola sala come mi aspettavo. Eravamo nel bel mezzo di un bosco fittissimo: le cime degli alberi si perdevano alte nel cielo, un tappeto di aghi di pino stava sotto i nostri piedi, in lontananza si scorgevano delle montagne, da cui provenne un lungo fischio, come un richiamo.
“Ecco, ci siamo appena introdotti di nascosto in una storia durante la sua creazione” mi disse la vecchia con un sorriso bonario.
Ero
completamente affascinato.
Camminammo tra gli alberi e qua e là
cominciammo a vedere sparse a terra spade, frecce e scudi.
Chissà
che stava succedendo.
Mi disse che all’inizio l’autore si
trova in una camera vuota come qualunque altra; poi immaginando i
suoi pensieri prendono forma, e mano a mano che ci riflette e crea,
il suo mondo si arricchisce, fino a diventare indefinitamente vasto.
Una volta conclusa la storia tutto resta impresso in un libro e la
camera si svuota.
Chiunque se ha abbastanza fantasia può
sperimentare ed elaborare finché lo desidera. Quando un
cittadino o
un autore ne sente il bisogno, scopre una stanza. A lui o lei
sembrerà di averla creata con la fantasia, ma in
realtà la stanza
c’è già, semplicemente
troverà il modo per raggiungerla.
O
forse era destino che la trovasse.
O forse l’ha fisicamente
cercata.
“Non è ancora ben chiaro
quest’aspetto”. Dal
bosco provenne un urlo e un rumore di zoccoli al galoppo.
Mi disse che probabilmente l’autore non si era reso conto della nostra intrusione, ma fortunatamente ci trovavamo ai margini delle terre in cui si stava svolgendo il tutto.
Appoggiò una mano su quello che sembrava solo un tronco rugoso ed improvvisamente sulla sua superficie comparve la forma di una porta. In un batter d’occhio ci lasciammo alle spalle chissà che intrighi e battaglie,e fummo di nuovo fuori, o meglio dentro il corridoio.
Continuammo
a camminare scendendo scale, attraverso cunicoli e diramazioni.
Mi
spiegò che inspiegabilmente i vari ambienti venivano
contagiati in
qualche modo dal genere della storia, e che stanze che ospitavano
storie di uno stesso genere si trovavano allo stesso livello.
In effetti il contesto cambiava: i muri diventavano intonacati di bianco, il pavimento diveniva sabbioso e soffiava un vento caldo e secco, al posto delle torce c’erano lampade; salita una scalinata e aperta una botola ci trovammo in quello che sembrava un tipico corridoio d’albergo, illuminazione elettrica, un vago odore di tabacco nell’aria.
Domandai cos’erano quei rivoli che continuavamo a vedere lungo i muri.
“Quelli”mi disse, “sono effettivamente prodotti dalle stesse pareti. Questo luogo è così impregnato della storia antica della città, di nuovi racconti che esplodono all’interno delle stanze e di luce, di meraviglie, di segreti, di fantasia, che alla fine i muri ne trasudano l’essenza.”
“E dove va a finire tutto ciò?” domandai.
“Si dice che scenda giù in profondità fino al centro, dove fu fondato il primo insediamento, nessuno sa quanti metri sotto di noi. Da lì irrora il terreno e poi risale fino ad andare a costituire le fondamenta attuali della città, fondendosi con gli edifici.”
“Accidenti, e qualcuno è mai arrivato fino in fondo?” chiesi sempre più stupefatto.
“In teoria è possibile” mi disse, “ma di fatto nessuno l’ha mai fatto. Più si va giù più si trovano stanze di storie complesse, elaborate. Si arriva al punto in cui non c’è nessuna stanza precisa. Realtà e finzione smettono di avere contorni definiti e si fondono insieme. Non deve essere facile né giungerci né uscirne.”
Persi in queste dissertazioni giravamo per altri corridoi, salite, discese, finché giungemmo ad una scala a pioli che terminava con una grata da cui giungeva la fredda aria notturna.
Salimmo e ci trovammo di fronte alle mura della città.
Eravamo alla fine. Degli enormi cancelli chiudevano l’entrata, e stavano evidentemente per aprirsi per la mia partenza. Era notte inoltrata ed ero già stato fortunato ad essere rimasto lì fino a quel momento.
Volgendomi non potei fare a meno di notare una donna che camminava silenziosa e sola. I fluenti capelli biondi e ricci che le ricadevano sulla spalle erano illuminati dalla luna. Elegante in un vestito blu, misteriosa, seguita da due gatti, uno bianco e uno nero. Era bellissima, e si allontanava inesorabilmente, come se non ci avesse nemmeno visti. Era la Signora dei Sogni, mi disse la vecchia, che di notte camminava per la città sola, unica protettrice e dispensatrice dei sogni degli uomini. Pochi avevano avuto la fortuna di scorgerla.
Era un ultimo privilegio che mi era stato concesso, non ne avrei avuti altri. Qualcosa mi diceva che non sarei tornato.
“Sì, questa è la tua ultima volta nella città” mi disse la vecchia confermando il mio pensiero, “te ne andrai da qui: fuori da questi cancelli si stende la sterminata Foresta della Lettura. Lì potrai rimanere e tornare quanto e quando lo desideri. Potrai imparare a conoscerne i rischi e le bellezze, le fatiche ed i tesori. Dovrai imparare a sopravviverci. E se mai un giorno ti fosse concessa l’opportunità di tornare, sarà solo giungendo da lì.”
Dicendo questo sfiorò i cancelli e questi si aprirono. A malincuore oltrepassai quel limite dopo averla ringraziata.
Feci qualche passo e poi mi ricordai della pergamena che mi aveva dato. La presi dalla tasca e la aprii. Conteneva una storia, forse l’ultima che mi avrebbe mai dato. Mi voltai verso la vecchia.
Sparita.
Non c’era più nessuno nella notte.
Silenzio.
Ero solo. Solo con le imponenti mura e i cancelli.
Socchiusi.
Sorridendo me li lasciai alle spalle insieme alla città, alle sue bellezze a me interdette, inoltrandomi tra gli alberi scuri.