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Autore: Ghen    05/08/2009    3 recensioni
I morti non crescono, non mangiano, non bevono, non parlano, non dormono.
I morti non vivono.
I morti non muoiono.
I morti quando si svegliano impazziscono, diventando delle bestie omicide… Ma se vengono svegliati prima che questo avvenga? Verranno liberati dalle catene in cui si sono imprigionati nel loro subconscio e torneranno umani.
No, sono solo fantasie…
[IV classificata al contest "[Original concorso 5] La Primavera e... il Morto" di Eylis]
Genere: Malinconico, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La morte è una cosa terribile, così dicono.
La morte porta via dal mondo, così dicono.
Ma la morte si sa, deve giungere prima o poi.
Il problema è se non arriva;
perché tutti lo sanno
che un morto non può morire ancora.

Izaeh
.:La morte non porta alla morte:.
 
 
 


Urla, grida, rumori assordanti e frenetici, in quella notte d’inferno.
Tutto il villaggio prese le fiaccole e come impazzito si precipitò giù per la piazza.
La Luna l’illuminava appena; le nuvole le oscuravano la vista e gli alberi davano il loro contributo, aiutati dal vento che soffiava forte.
Quello che stava per accadere era una vera barbarie, un gesto cattivo e sicuramente disumano: stavano per dare al rogo una compaesana.
Due uomini la tenevano stretta per non fuggire a quella povera fanciulla, pur consapevoli che non sarebbe comunque fuggita.
Quella ragazza, dai lunghi e mossi capelli biondo platino, dalla pelle pallida come la porcellana, loro non avevano ancora capito, che era già morta.
 
La tenevano talmente stretta che avrebbero potuto spezzarla, ma lei non portava espressione di dolore nel volto. Quel suo volto ibrido senza anima, dava luce solo ai suoi grandi occhi a specchio.
Così li chiamavano i suoi occhi chiari, che non portavano pupille, che non emettevano luce, che riflettevano solo ciò che le stava davanti.
Izaeh, si chiamava.
 
Era una piaga, così dicevano.
Portava sfortuna, così dicevano.
I raccolti non fruttavano a causa sua, così dicevano.
La gente si ammalava a causa sua, così dicevano.
 
Era una strega, così dicevano.
 
Izaeh però non aveva mai fatto niente per farli credere ciò, e forse, proprio questo li aveva condotti a convincersene.
Izaeh non mangiava, non dormiva, non usciva dalla sua casa, non parlava, non si muoveva, non cresceva.
Izaeh era stata bambina quando lo erano stati gli anziani del villaggio. Quando questi divennero adolescenti, Izaeh si fermò.
 
Era una strega, così dicevano.
 
Cominciarono a credere che fu lei la causa dei mali al villaggio, che essendo una strega faceva loro il malocchio e, Izaeh, che mai dava segno di essere umana, poteva solo sempre più farglielo credere.
 
La volevano uccidere.
Quale cosa migliore delle fiamme purificatorie per uccidere una strega?
Solo non riuscivano a capire che lei non era una strega, che era un’umana ormai morta, morta da tanto tempo.
 
Un morto ancora non morto.
Ecco cosa era Izaeh.
Perché si sa, un morto non può morire ancora.
 
«Bruciamola!!».
Gridavano dando sfogo al loro rancore, mentre più si avvicinavano ai legni posti al centro della piazza.
Non si accorsero, dal tanto baccano, dei piedi che lenti si avvicinavano. Estrasse una freccia, una delle tante nella sua schiena, e preparò l’arco.
La vedeva bene, lei, che impassibile era ancora tenuta troppo stretta alle sue delicate braccia.
La mira non gli serviva, era facile adesso che erano fermi per preparare il fuoco.
Ed ecco che la freccia scoccò, veloce e silenziosa, passando inosservata in mezzo agli abitanti in fermento.
E la colpì.
 
La freccia si conficcò nel suo addome, attraversando il vecchio vestito sudicio e malridotto che da tanto, troppo, tempo indossava.
I due uomini che la stringevano mollarono subito la presa, spaventati dal liquido cremisi che cominciò ad uscire dal corpo della strega, che indifferente, non si era neppure accorta della freccia.
Non portava dolore, lei. Lei che il suo corpo aveva ormai abbandonato, per non soffrire più.
 
«Tsk!». Si avvicinò quell’uomo con il suo arco in mano, pronto ad afferrare un’altra freccia. «Allora è vero che sei una di loro!», disse rauco. «Vediamo come si uccide uno che è già morto!».
Gli abitanti del villaggio presero a correre agitati, da una parte all’altra come formichine. Scappavano.
Avevano visto con i loro occhi l’immortalità della strega, e avevano troppa paura per sfidarla, adesso.
Ormai è però tutto passato, ora, e gli abitanti ricominciarono a vivere sereni, giorno dopo giorno. Trascorsero anni da quella notte.
Quella notte in cui Izaeh era scomparsa, e il suo cacciatore però, era rimasto.
Lo trovarono morto all’alba i primi paesani.
O almeno pensarono si trattasse di lui; lo si poteva solo supporre in realtà. Quello che ne restò non erano altro che pezzi irriconoscibili di carne umana.
Erano felici che se ne fosse andata. Aveva fatto troppo del male da quando era strega, e aveva perfino, non ucciso – ma fatto a pezzi – un uomo.
Erano convinti della sua colpevolezza quegli stolti e incivili: la chiamavano strega, affibbiavano a lei i mali nel villaggio, e deciso loro, che quel morto massacrato d’un cacciatore, era opera sua.
Sua! Sua che non si muoveva?
No, non era opera sua.
 
«Che bel profumo che hai! Sei sempre più profumata e bella!».
La sua voce era chiara e intonata come quella di una musa. Era una melodia ad ogni sillaba. Ma lei non era un musa.
Non si avvicinava per niente ad una creatura armoniosa come ingannava la sua voce.
 
Le passava la spugna nella schiena nuda. I lunghi capelli glieli aveva disposti in avanti, per non darle fastidio.
«Sei contenta? Questo bagno ci voleva proprio!».
Ma Izaeh non rispose, non poteva, non c’era.
«Oggi sei ancora più profumata e bella! Più di tutti gli altri giorni! Sempre di più, sempre di più…».
Avvicinò il suo volto, fine, molto più bianco di Izaeh; con i suoi occhi gialli splendenti, le guance appena rossastre, le labbra rosse e carnose, i canini che brillavano alla pallida luce.
La sua bocca si aprì e le baciò il collo.
«… Sempre più buona…!».
Spalancò la bocca e la morse.
Aprì gli occhi e gli richiuse, godendo appieno del nettare rosso di cui si nutriva avara.
Lunghe gocce di sangue calavano dal corpo inerme di Izaeh, che presto si unirono all’acqua nel pavimento, scendendo lungo lo scarico.
 
 
 
«Irvin, da questa parte!».
Una ragazza s’inoltrava nella scura foresta in quella giornata dal sole troppo opaco, come spesso accadeva da quelle parti.
Non erano luoghi dove il sole splendeva radioso: le giornate erano sempre buie e appannate, non per niente i morti da quelle parti del territorio erano sempre più numerosi. Dicevano che era un po’ colpa loro se il sole non risplendeva laggiù, colpa di quelle terribili creature, ma in fondo la colpa era di chi ce li lasciava, i parenti, che vedendoli in quello stato decidono di abbandonarli.
Ma d’altronde era quasi impossibile che un famigliare stabilisca di tenere con sé uno di loro.
Comportava molti sacrifici “stare dietro” ad un morto.
Un giorno sono delle persone normalissime e quello successivo sono morti, creature che stanno in piedi, ma come delle semplici bambole: la loro anima si è chiusa nelle catene del loro subconscio e il loro corpo è rimasto vuoto. Non si nutrono, non vivono, e non muoiono.
Hanno smesso di crescere, il loro tempo si è fermato.
Sono impossibili da uccidere, e quando questi si risvegliano, impazziscono.
Pazzi, che uccidono e devastano tutto ciò che incontrano come delle belve senza cuore, perché lo diventano, delle belve senza cuore: la loro anima è morta in quelle catene in cui si è imprigionata.
Che si è imprigionata da sola, sì, perché  morti lo diventano se decidono di non soffrire più, se decidono di abbandonarsi, perché la vita ha preteso da loro troppe cose.
E sempre più crescevano i cacciatori, che avevano il compito di salvaguardare la popolazione dalle creature oscure nel mondo, compresi i morti. Perché lo avevano trovato loro il modo di ucciderli, prima del loro risveglio, prima di diventare pericolosi per l’umanità.
 
«Irvin, dai! Mi è sembrato di vedere un’entrata da quella parte!».
Fece la mano e un ragazzo a pochi passi da lei la raggiunse.
«Sei sicura che sia il covo di un vampiro?», chiese il ragazzo, con una strana luce negli occhi.
La giovane al suo fianco lo sorrise, annuendo. «Non mi sbaglio!», aggiunse.
Era una giovane ragazza, sui vent’anni d’età. Dai lunghi e lisci capelli fino alle spalle, violacei, come quelli del ragazzo che le stava al fianco. I suoi occhi celesti, bellissimi, quanto il cielo sereno che lì era raro riuscire a vedere.
Lui, invece, alto e robusto, dagli occhi di un blu profondo, come la notte stellata.
Loro due, fratelli, cacciatori fin da tenera età, per volere dei loro genitori, che entrambi facevano il mestiere.
«Va bene.», disse il ragazzo. «Andiamo!». Scese dalla rupe lentamente, seguito dalla sorella.
In basso vedevano un mucchio di alberi e  fiori, chiusi per un nascondiglio; chiusi appena, come a voler intimidire lanciando una sfida, allo stolto che ne sarebbe entrato.
Si fermarono a pochi passi e il giovane si volse alla compagna.
«Non sappiamo quanti siano né dove siano, per cui la prudenza è il primo passo da rispettare. Stammi sempre vicina e non fare sciocchezze… chiaro?».
«Uff!», sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Me lo dici ogni volta, Irvin! Non sono più una bambina da un sacco di tempo! Cominci a diventare pedante, lo sai?».
«Sei la mia sorellina, è normale che mi preoccupi per te.», si difese.
«Sì, ma alle lunghe diventi insopportabile!».
Roteò gli occhi, sorpassandolo di qualche passo per entrare nel buco scuro in mezzo agli alberi.
Allargò gli occhi quando vide quel lungo corridoio buio davanti a lei.
Adesso ne potevano essere certi, sì, quel territorio era il covo si un essere sovrannaturale. E poteva essere un vampiro, perché queste creature che all’inizio dei tempi non erano in grado di usare la magia ora non solo ne erano capaci, alcuni, ma riuscivano a creare luoghi anche solo immaginandoli con la forza della mente. Si erano evoluti loro, con il passare dei secoli, non come gli umani, che erano al massimo riusciti a creare un’arma per distruggerli.
Iniziarono a percorrerlo.
«Stammi vicina.».
«Me l’hai già detto!».
Il corridoio finì e una gran luce gli involse.
Davanti ai loro volti sbalorditi si affacciava un grande salone dalle mattonelle bianche e nere, dall’intoccabile soffitto fatto di vetro dove filtrava una luce intensissima, e degli alberi che padroneggiavano su tutto con i loro bellissimi fiori e colori.
Era sicuramente un’illusione, pensarono poco dopo.
Questo posto non poteva esistere nel cuore quella foresta, la luce del sole non poteva esserci perché il sole non risplendeva laggiù e i vampiri – se di loro era il covo – non sopportavano la forte luce di questo, e gli alberi freschi e vivi, che sbucavano dalle mattonelle intatte con le loro possenti radici, era impossibile che ci fossero.
Era uno spettacolo molto bello però, di questo potevano esserne certi. I vampiri proprietari del covo avevano buon gusto.
 
«Chi siete? Come osate entrate in casa mia?».
La voce melodiosa echeggiava per tutta la grande sala.
La ragazza sorrise, osservata dal fratello.
«Avevo ragione, vedi? Io non mi sbaglio mai!», disse.
«Non sappiamo ancora se si tratti di un vampiro, né quanti siano.», fece lui, storcendo un po’ il naso.
«Ma perché ti secca tanto darmi ragione una buona volta?».
Veloce corse in avanti, per le lunghe scale accanto agli alberi, che portavano al piano superiore.
Il fratello la rincorse subito, seccato che fosse partita per prima ancora una volta. Afferrò una pistola dal suo cinturino, caricandola a mano.
Lo stesso fece la sorella, brandendola da sotto la sua giacchetta nera.
 
Salì di corsa le scale e si fermò, puntando la sua pistola davanti al tronco di un albero.
Non vi era niente in quel punto, finché un’immagine sfuocata emerse da una piccola nube di fumo e presto si formò una ragazza snella e affascinante.
Dai corti e lisci capelli neri, tenuti indietro da una coroncina rossa ed un vistoso fiocchetto del medesimo colore.
Portava indosso una camicetta bianca, con il cravattino rosso. Una gonnella paffuta e grande, nera.
Lunghe calze bianche fino alle ginocchia, che finivano con dei pizzi, e delle scarpette nere luccicanti ai piedi.
I suoi gialli occhi sembravano sereni, mentre l’osservava per nulla intimorita.
Veloce arrivò anche Irvin, che le puntò anch’esso contro la pistola.
«Oh, ma siamo più svegli di quel che credevo!», dissero le sue labbra rosse e carnose in una dolce nota. «Siete gli ennesimi cacciatori che trovo sulla mia strada, nella mia lunghissima vita!».
«Sei un vampiro, giusto?», sorrise.
«Sì!», annuì, facendole un dolce inchino. «Mi chiamo Saya!».  
«Ahah!», rise, continuando a tenerla d’occhio. «Chi aveva ragione?».
«Tu!», sbuffò il ragazzo. «Poi sono io il pedante.». I suoi occhi però rotearono subito verso la sua sinistra, dietro ad una rossa tenda. Presto ci puntò la pistola, pronto a tutto.
Gli occhi gialli della vampira si voltarono e il suo sorriso si spense, diventando più seria.
Irvin afferrò la tenda e veloce la tirò giù, per vedere chi realmente si nascondeva dietro di essa.
Ed eccola, rigida come una statua di bronzo, con mezzo passo appena marcato; dietro di lei una porta aperta, dove un poco di vapore usciva lento.  
«Un’altra!», subito disse, accentuando il suo disapprovo. Ma nella sua testa si corresse subito, perché pensandoci bene quella non poteva essere un vampiro. Un morto.
Sembrava una graziosa bambolina, vestita con un lungo abito grigio di pizzi e merletti; compresa la fascetta che le teneva dietro i bei lunghi capelli profumati. Era in ottimo stato, se non fosse per i segni visibili e freschi dei morsi sul suo collo.
«Quella è una mia amica!», affermò la vampira, sorridendo nuovamente. «L’ho adottata molti anni fa! Sapete, era tutta sola e la volevano uccidere…», s’imbronciò. «Così adesso me ne occupo io!», tornò a splendere il suo sorriso dai denti acuminati e bianchi.
«Certo…», sorrise il ragazzo. «E’ ovvio. Con una come lei hai cibo per anni, per secoli, finché non si risveglia. Bella comodità.».
La vampira alzò le spalle, innocentemente.
«In quanti siete?», chiese la ragazza alla vampira, facendosi più seria e puntandole meglio la pistola, disgustata. 
«Ci siamo solo io ed Izaeh in casa!», fece dispiaciuta, abbassando gli occhi gialli contornati di un nero potente. «Vivevo sola prima del suo arrivo…».
«Dobbiamo crederle?», chiese al fratello.
«Se ce ne sono altri sbucheranno molto presto.». Il tono della sua voce era piuttosto chiaro: voleva fare la finita.  
«Oh, non vorrete già ucciderci, spero!», abbassò lo sguardo ancora una volta. «Ho appena finito di fare il bagno ad Izaeh e adesso devo metterla al letto!».
«Era il vostro ultimo bagno.», fece serio Irvin. «Non porterai più al letto nessuno.».
Stava per sparare, glielo si leggeva negli occhi. Affondava sempre più il dito nel grilletto.
«Ma non puoi farlo, non puoi ucciderci! Stavo tentando di risvegliare Izaeh!».
A queste parole, gli occhi celesti della ragazza davanti a lei si sgranarono.
«Ci stavo quasi per riuscire, adesso cammina un po’! Prima non muoveva nemmeno una gamba se non la spingevo io!».
Irvin puntò gli occhi nel mezzo passo abbozzato di Izaeh e capì. Era uscita da sola da quella stanza dalla porta aperta.
«I morti sono pericolosi.», disse, puntandole la pistola alla tempia. «Se si risvegliano diventano bestie omicide.».
«No, se riesci a svegliarli prima che si sveglino da soli! Ho fatto delle ricerche in proposito, sai?», continuava la vampira.
La pistola che aveva puntata contro stava lentamente scendendo. La giovane stava sempre più abbassando la guardia, mentre pensava, con i suoi occhi sempre più spalancati.
«Tutte sciocchezze.», disse freddo.
«No, è tutto vero invece…», esclamò voltando gli occhi gialli alla ragazza davanti a sé.
 
Sorrise.
«Tutto vero!».
 
I suoi occhi si fecero delle piccole fessure gialle e veloce scattò verso la giovane cacciatrice.
Uno sparo.
 
Il corpo del vampiro cadde a terra accanto al tronco di sua invenzione, in uno schizzo di sangue più nero che rosso, con il cranio forato in mezzo agli occhi.
Irvin abbassò la pistola e il fumo uscito da questa scomparve pian piano.
«Mai abbassare la guardia.», disse. «La lezione vale per entrambe, sorellina!».
Questa si voltò a lui, leggermente scioccata, sospirando. «Perdonami… Non mi ero accorta del pericolo!».
Il ragazzo alzò la pistola e fece cadere da questa altri due proiettili.
Sorrise leggermente beffardo.
«Non sapeva che avevo pronti proiettili per vampiro dentro alla pistola, e non per morto.».
Mise i due proiettili per vampiro ancora buoni dentro ad una taschina nel suo gilet nero, e da un’altra ne tirò fuori uno diverso, con la punta a due piccole lame, che caricò alla pistola.
La puntò contro Izaeh, determinato.
«E anche qui si conclude.».
«Noo!», si mise in mezzo la ragazza dai capelli violetti, a braccia spalancate.
«Che cosa diamine stai facendo?», sbottò seccato.
«Non ucciderla, Irvin!», supplicò. «Fratellone, ti prego! Si può svegliare… Ha camminato, l’hai visto anche tu?!».
I suoi celesti occhi brillavano di una luce che Irvin aveva già visto altre volte. Era la luce della speranza, la speranza che non avrebbe dovuto esserci neanche questa volta.
«Togliti.». Serio, pacato, diretto, quasi impassibile alle sue moine.
«No!!», quasi gridò, fin troppo decisa. «Non te la farò uccidere, me lo devi concedere! Guardala meglio, Irvin! Lei è stata trattata da questa vampira come un cibo inesauribile, ma qualcosa di buono lo stava facendo per lei… Stava tentando di risvegliarla…», la speranza nei suoi occhi era sempre più luminosa, mentre le sue guance si coloravano di rosa. «E’ come diceva la mamma, Irvin… Si possono risvegliare!».
«Questa vampira non sapeva a cosa andava incontro tentando di risvegliarla. Non esiste. Quando si risvegliano impazziscono, non tornano come prima. Credevo di aver già superato questo discorso con te!».
«Ma non è così! Non è così! La vampira aveva ragione… come la mamma…».
Ecco, i suoi occhi stavano adagio lacrimando, lucidi, mentre diede uno sguardo veloce al corpo della vampira che si stava lentamente sgretolando.
«La mamma non aveva ragione, e lo sappiamo entrambi.», replicò.
Non voleva fare di nuovo luce su quest’argomento, ma lo stava forzando a farlo. Non voleva nemmeno lui ricordare…
«Abbiamo ucciso tantissimi altri morti, cos’ha questa di speciale?».
«Che tornerà normale! Ne sono certa!», abbozzò un sorriso speranzoso. «La vampira ci stava riuscendo ed io continuerò l’opera… Realizzerò il desiderio della mamma…! Irvin… ti prego!».
Abbassò l’arma.
Ormai era inutile. Sua sorella aveva vinto anche questa volta.
«Grazie, Irvin!!», gli saltò addosso, abbracciandolo forte. «Sei il miglior fratello del mondo!».
Ma il ragazzo alzò gli occhi al cielo, sbuffando. «No… ti voglio solo dare del tempo per farti capire chi aveva ragione.».
Bhè, che avesse ragione lui o lei questo non lo si poteva ancora capire…  
 
Passarono giorni e giorni da quando Irvin e sua sorella presero in custodia la morta Izaeh abitando nello strano luogo creato dal vampiro Saya.
Questo non si dissolse dopo la sua morte, e poteva solo condurli a capire che doveva trattarsi di un vampiro molto forte e vissuto tanto allungo, perché quelli giovani non avevano tutto questo potere.
Era un luogo incantato, creato come un vero paradiso.
Gli alberi all’interno della dimora fiorivano continuamente, perdendo spesso i loro petali, colorando di rosa il pavimento bianco e nero.
Era sempre primavera laggiù, forse la stagione preferita della vampira.
 
«Io mi chiamo Laween! E così tu sei Izaeh, vero?».
Le parlava, sempre.
Era il primo passo per stabilire un contatto con un morto: parlargli.
Doveva parlarle continuamente, su tutto, su qualsiasi cosa.
Doveva interagire con lei, farle capire di essere ancora presente in questo mondo, che lei c’era e che gli altri la vedevano.
Sua mamma glielo ripeteva sempre: “il morto è colui che si è chiuso nelle catene del suo subconscio. Per farlo tornare bisogna spezzare quelle catene facendogli capire che non se n’è andato ed è tra noi.
Forse la vampira parlava spesso con Izaeh, perché in un qual modo Laween si accorgeva di come la morta fosse abituata alle chiacchiere. Sembrava che ascoltasse, anche se forse non era proprio così. D’altronde i suoi meravigliosi occhi a specchio non battevano ciglio e non poteva capire realmente se l’ascoltasse o meno.
 
«Sei piena di ferite… Ma com’è possibile che un corpo solo ne abbia così tante? Come te le sei fatte?».
Quando ogni notte e quando era ora del bagno Laween spogliava Izaeh, si accorgeva sempre più di come questa ragazza avesse vissuto allungo da morta: tagli dovuti ai morsi della vampira Saya, ma non solo, aveva cicatrici ovunque.
Glieli premeva, come per assicurarsi che fossero reali.
«Non è possibile…», esclamò ancora, a bocca aperta; i suoi occhi fissi sui segni dei tagli di anni. «Il tuo corpo ne ha subito parecchie in questi anni, eh, Izaeh?».
 
Irvin teneva stretto fra le mani un libro; a lui piaceva leggere e ne aveva trovati parecchi nel covo della vampira. Molti riguardavano letterature sui morti, e gli studi fatti su di essi.
Adesso capiva di cosa parlava quella Saya quando diceva di voler risvegliare quella morta.
I libri confermavano le teorie – assurde – citate da sua madre e da quella vampira.
Ma Irvin non poteva crederci.
La sua speranza era morta molto tempo fa.
Stringeva quel libro con forza, mentre il suo sguardo si direzionava in basso, al piano inferiore, dove sua sorella stava in compagnia di quella morta.
Non toglieva loro l’occhio di dosso. Temeva che si sarebbe risvegliata e avrebbe fatto del male alla sua sorellina… non glielo avrebbe permesso. Non per niente non mollava la sua pistola con un solo proiettile per morto all’interno – sempre quello destinato a lei che non aveva usato precedentemente –, che portava sul suo cinturino.
Laween lo vide osservarle e gli fece la mano, con immenso sorriso.
«Guarda, Izaeh! Irvin ci sta guardando! Lo vedi? E’ lassù!», le esclamò strattonandola un po’. «Ciaoo, Irvin!!».
Sua sorella era proprio una sciocca idealista.
Come poteva vedere vita in quel corpo? Soprattutto dopo quello che era successo…
Era proprio come la loro madre.
Proprio come lei…
 
«Mammaaaa!!».
Entrò di corsa in casa, quasi inciampando sul tappeto polveroso della stanzetta.
«Ssst!», fece la giovane donna – giovane, sì, ma dall’aspetto troppo trasandato e trascurato –, intimidendo il piccolo con un’occhiata.
Stava seduta su di una sedia vecchia e scomoda, di legno, come tutto ciò che stava loro intorno. In mano portava un vecchio cucchiaio arrugginito, in cui prese della minestra da un piattino sul tavolo, amorevolmente.
Al suo fianco un uomo. Anch’esso trasandato, – immobile come una vecchia statua –, con la sua barbetta incolta e i suoi occhi spalancati e vuoti… a specchio.
«Apri la bocca, amore!», diceva.
Ma l’uomo non si muoveva e il figlio la guardava deluso.
Aprì lei la sua bocca e ci svuotò il cucchiaio.
Il bambino lo vedeva… Vedeva lo sguardo di sua madre abbattuto ad ogni movimento che avrebbe sperato facesse. Stava impazzendo, si stava stancando, lo vedeva.
«Cosa c’è, Irvin? Volevi qualcosa?», non lo guardò neppure.
«No…», emise con un esile filo di voce. «Non importa.».
 
«Izaeh, riesci a sentire il profumo di questi fiori?».
Le passò un fiorellino sotto il naso, di quelli rosa caduti dagli alberi freschi.
«E’ molto buono, sai? Mi ricorda i prati in cui andavo a giocare da bambina… Tu andavi nei prati quando eri piccola?».
Proprio come la loro madre…
Izaeh non faceva il minimo gesto.
Era solo tempo perso.
 
***
 
Rideva, rideva divertita come non mai.
Aveva sdraiato Izaeh sul pavimento, un giorno, e poi ci si era sdraiata anche lei al suo fianco.
In quel particolare giorno quanto mai quelli prima, stava nevicando di tantissimi fiori senza interruzioni, in quel paradiso che avevano chiamato “Primavera”.
Si muoveva gioiosa fra i mille fiori che le cadevano addosso. Non riusciva a smettere di ridere, talmente era felice.
Si era messa a buttarli su di Izaeh che quasi l’aveva sepolta.
«Guardati! Sembri un prato fiorito!», rise.
Fiorito…
«Che non ti venga in mente di buttarti di nuovo nell’erba a giocare! Sono stato chiaro, ragazzina?».
Quella voce…
«Mi piacciono i prati fioriti!».
Era bambina… I prati… Le risate…
«Izaeh! Guarda che se non ti muovi ti riempio di fiori! E’ una promessa!», la minacciò raccogliendo un gran numero di petali colorati.
Veloce glieli gettò addosso, ridendo divertita.
Le risate…
Stava ridendo da sola, in mezzo ai fiori, nell’erba che la superava in altezza.
Izaeh.
«Cosa ci fai qui?».
Una voce le fece interrompere le risate giocose, voltando la sua testolina bionda in alto.
«Pensavo di essere stato chiaro con te… Noi qui non ti vogliamo!».
Era un bambino altezzoso, di bassa statura e magro. Coi suoi pantaloncini stretti e corti, e la magliettina fresca, appena lavata.
Al suo fianco altri due bambini, che sembravano la sua copia per la postura e il viso arrogante.
«A me piace stare qui, non potete obbligarmi ad andarmene!». La sua voce nasale e piccola.
«Questi lo dici tu, carina!».
«Izaeh! Ti voglio riempire finché non mi dici di smetterla!».
«Ancora! Ragazzi, ancora!», dava ordini, scuotendo le braccia. «Riempitela finché non sarà contenta!». E poi si rivolse a lei, con tono malvagio. «Te la sei cercata, biondina! La prossima volta fai quello che ti dico!».
I due bambini non tanto presto smisero, correndo via insieme al loro piccolo capo, appena sentirono le urla di un uomo.
«Lasciatela stare!! Piccoli bastardi!». Arrivò correndo come meglio poteva quell’anziano, agitando il bastone della sua scopa.
Si affacciò alla piccola, sepolta da pietre, erba e terra.
Piangeva, mescolando le sue lacrime al terriccio ancora fresco.
«Izaeh…!». Non sapeva cosa dire, inchinandosi a lei per ripulirla. «Devi difenderti da quei bastardelli! Ricordati sempre che i prepotenti lo fanno soltanto perché hanno paura di te, piccolina mia! Quando farai capire loro che non possono farti niente cambieranno atteggiamento, vedrai!».
La prese sulle ascelle alzandola dalla terra, per poi spolverarle il visetto pallido.
«Ma non è vero, nonnino… Io non ci riesco…!».
«Izaeh, non ne hai abbastanza?», si fermò per ridere ancora. Ma i suoi celesti occhi si spalancarono quando videro una cosa che non aveva mai visto prima… La mano sinistra di Izaeh… si stava muovendo.
«Nonnino…». Allungò la sua manina sinistra, accarezzando il viso raggrinzito del signore. «Io non voglio più sentirmi così…!».
Il nonno l’abbracciò, trovando la forza per lacrimare.
«Irviiin!!». Gridò talmente forte che rimbombò per interi minuti la sua voce nella dimora.
Il ragazzo corse velocissimo, balzando in giù dal piano superiore. Credeva fosse successo qualcosa di terribile… ma forse lo era, infatti.
Qualcosa di terribile.
Si bloccò quando vide le dita di quella morta muoversi.
Afferrò svelto la sua pistola, puntandogliela contro.
«No, che stai facendo? Non spararla, Irvin! Ti ho chiamato per annunciarti i nostri progressi… Vedi? Si muove… La mamma aveva ragione!».
«La mamma non aveva ragione!! Basta fantasticare!!», urlò. «Il gioco è finito, sorellina! Adesso devo spararla…!».
Era fin troppo serio. Forse… impaurito.
«Noo!», quasi le veniva da piangere. «Irvin, ti prego… Non ha fatto niente di male! E’ una buona cosa che ha mosso le dita… si sta risvegliando! Se continuo tornerà normale!», tracciò uno dei suoi soliti sorrisi speranzosi.
«Si sta risvegliando, appunto! Non tornerà normale e lo sappiamo entrambi… Se si risveglia sarà più difficile… Fammela uccidere!».
Gli occhi della ragazza rimbalzavano. Sapeva cosa voleva dire. Perché le parole del fratello suonavano quasi come una preghiera…
«No…», pianse; più per quello che le ricordava che per quello che stava succedendo. «Se vuoi sparlarle dovrai farlo prima con me!».
No… Non avrebbe dovuto fargli questo.
«Mamma, siamo tornati!». La sua voce allegra.
I suoi passi seguiti da altri più lenti alle sue spalle.
«Facciamo piano… Forse la mamma è andata a dormire!», esclamò la vocina dietro di lui.
Entrarono e videro la stanza vuota, salirono così le scale di legno, dove sentirono i primi rumori. Rumori… strani.
Si fermarono a metà scala, perplessi, ma salirono correndo quando sentirono un grido forte di dolore.
«Stai dietro di me!», disse il ragazzino dai capelli violetti alla sorellina poco più piccola, tirandola indietro.
Spalancò la porta e terrorizzato scacciò un urlo, come la bambina, che si portò le mani alla bocca.
A pochi passi da loro vi erano delle grandi pozze di sangue, che portavano ai piedi nudi nelle ciabatte rotte della loro mamma, che si reggeva la pancia, poverina, dove il liquido cremisi sgorgava a fiumi. Anche la sua bocca ne era immersa, spalancandosi alla vista dei figli.
«Noo…», emise appena, con un’esile filo di voce. Non aveva di certo fiato, si reggeva in piedi a malapena.
Ma quello che catturò tantissimo l’attenzione dei bambini, era lui, sveglio, in piedi, frenetico, non smetteva di agitarsi impazzito, buttando all’aria tutto ciò che vedeva intorno. Le sue mani e braccia, imbrattate di sangue vivido.
La donna alzò un braccio verso di loro, per catturarne ancora gli sguardi persi.
«Sca…», voleva parlare, ma non ci riusciva e loro la fissavano sempre più impauriti. «Scappate… via… Andateve… Andatevene via!!», riuscì ad urlare.
La femminuccia fece un passo indietro, ma il maschietto restò immobile, osservandola vomitare sangue.
Strinse i pugni.  
I loro genitori, prima di questo incidente, li avevano addestrati come dei cacciatori, come un tempo lo erano loro.
Era arrivato il momento di crescere.
Vide a terra la pistola e veloce l’afferrò, facendo agitare la sua sorellina.
«Noo!», pianse, stringendolo al braccio, per non farlo sparare. «Non uccidere il papà, ti prego, Irviin!».
Ma lui era deciso; i suoi occhi fermi scambiarono l’occhiata dilatata della madre.
«Irvin…», mugugnò fra il pianto.
«Sto per fare quello che avrei dovuto fare giorni prima.», disse appena, liberandosi dalla presa di sua sorella e puntando l’arma verso il padre. «E’ finita, mamma.». Un’ultima lacrima.
Sparò.
 
La donna cadde addosso all’uomo in preda ad un altro attacco di follia, mentre agitava le braccia. E subito dopo scivolò a terra, perché non venne sorretta.
I suoi occhi ancora spalancati, colmi delle gocce del dolore, mentre incontravano quelli blu del figlio, adesso aperti fino all’estremo.
«Mamma…», sussurrò.
Si era messa in mezzo, e l’aveva salvato.
«Noooooo!!», gridò Laween, buttandosi a terra. «Irviiin!! Hai ucciso la mammaa!!».
Il bambino abbassò la pistola, svuotato dall’azione che aveva appena commesso.
Ma non poteva abbassare la guardia, non era finita veramente.
Quello che una volta era il loro padre gli vide, ad occhi sgranati, fermo ad inquadrarli.
La bambina si fermò osservandone lo sguardo e – preoccupata – arretrò di qualche passo con il sedere, fino a toccare la parete. « Irvin…», si lasciò sfuggire.
L’uomo gridò, mettendosi a correre furibondo verso i figli…
Gli occhi ripresero a guardare e l’arma venne alzata.
Sparò.
 
Ma non questa volta.
Si lasciò scivolare l’arma dalle mani, che cadde sul pavimento in un tonfo, in mezzo ai petali che continuavano a cadere inesorabili.
Laween lo fissò dritto in quegli occhi persi.
Non aveva sparato. Questa volta non aveva sparato.
Non disse una sola parola, niente. Prese a calci l’aggeggio e se ne andò, con volto chino sul pavimento.
La ragazza non avrebbe dovuto fargli questo. Lo sapeva lei, ma era l’unico modo che conosceva per fermarlo: il dolore.
 
***
 
Altri giorni passarono e Irvin non si mise più in mezzo. Le controllava come sempre, da lontano, con la sola vista di un elemento in disparte.
Le vedeva sempre più vicine; vedeva sempre più Laween affezionarsi a lei, e lei, muoversi sempre più.
Camminava più velocemente, muoveva il capo, anche senza nessi logici, e alzava le braccia e le mani. Era sempre fredda e i suoi movimenti calcolati, però era un progresso enorme.
Laween prese un libro dalla biblioteca e si mise a sfogliarlo – come spesso faceva – accanto ad Izaeh, entrambe sedute sui tronchi degli alberi in fiore che ormai le rappresentavano.
Sembrava un testo scolastico degli umani, con grande sorpresa della ragazza.
«Oh!», fece. «Questi sono vecchi temi dei bambini delle elementari! Chissà di che anno sono?!», rise. «Tu ne facevi temi quando eri alle elementari, Izaeh? Io ne avevo fatto uno, mi pare… Ma ero piccola ed era piano di erroracci!», rise ancora.
Chiuse il libro, osservandola nel volto senza emozioni.
«Quanto vorrei vederti ridere, sai…?», accennò un mezzo sorriso.
Gettò il libro ai piedi del fusto in cui erano sedute, sui petali rosa raccolti in un mucchio.
La fissò, immergendosi nei suoi grandi occhi a specchio.
«Io non li odio questi occhi, sai? Però sono brutti, perché ti tengono separata da me…».
Avvicinò lentamente il suo volto a quello pietrificato di Izaeh, continuando a fissarla.
«Sei sicura… di non sentire proprio niente?». Non sembrava certamente una domanda, ma tant’è che cercava disperatamente la risposta, poggiando le sue candide labbra a quelle della fanciulla dagli occhi a specchio.
Irvin le vide e allargò gli occhi. Non poteva crederci! Com’era stata capace di fare questo?
La lasciò andare, osservandola ancora. Ed ecco che arrivò un altro evento per cui esserne fieri: aveva mosso le labbra.
Sorrise, più entusiasta che mai.
«Allora l’hai sentito! Allora l’hai sentito!», l’abbracciò.
 
Le lasciò andare le labbra, ridendo appena.
«Allora? Ti è piaciuto?».
Izaeh riaprì gli occhi, guardandolo stranita. Arrossiva, non sapeva che dirgli.
Abbassò gli occhi, imbarazzata.
«Beh… Non lo so…!», si fregò il braccio destro. Sorrideva a malapena, tentando di mantenere represso il suo entusiasmo da adolescente.
«Va bene!», fece il ragazzo d’improvviso, alzandosi in piedi dal tronco del vecchio ceppo. Aveva rovinato tutta l’atmosfera. «Quando ti verrà in mente vienimelo a dire, eh!».
Corse via ed Izaeh lo seguì con lo sguardo. Due ragazzi dietro ad un albero gli facevano la mano e questo rise come un forsennato, arrivando a loro. Non si preoccupava nemmeno del fatto che la ragazza lo potesse sentire.
Si tirò in su le bretelle, fiero come un vecchio pavone.
« Com’è stato?», gli chiese uno dei due, quasi a squarciagola.
«Oh, niente male!», fece quello, altezzoso. «Vi dirò che non è stato affatto male!».
«Lo rifaresti? Anche se si tratta di lei?», chiese l’altro.
«Beh, non so… Non è stato male, questo sì. Ma si tratta pur sempre di lei, no?».
«Che coraggio che hai avuto!  Io non ci sarei mai riuscito!».
«Già!», proseguì l’altro. «E’ vero che puzza?», risero.
Risero tutti e tre.
Lo facevano apposta a gridare… Volevano che sentisse Izaeh, che depressa chinò lo sguardo, andandosene versando lacrime amare.
 
***
 
La notte arrivò ed Izaeh era coricata al fianco di Laween, che l’abbracciava, come ogni notte.
Certo Izaeh non dormiva, ma la ragazza la coricava ugualmente, come se potesse farlo.
La porta di quella camera buia si aprì appena cigolando, seguita da dei passi scaltri.
Si affacciò al letto, con la pistola nella mano destra.
Un altro tentativo.
Quella morta si sarebbe risvegliata prima o poi e avrebbe fatto del male a sua sorella, soprattutto al cuore.
Voleva proteggerla, perché non era riuscito a farlo con la loro madre e perché era suo dovere.
Puntò la pistola alla tempia.
Sapeva bene che era orribile il suo atto. Ucciderla nel cuore della notte, quando la sua adorata sorellina dormiva. E al suo fianco per giunta.
Si morse un labbro.
Sapeva che non c’era altra scelta, però.
Doveva agire, e il prima possibile.
Lui era un cacciatore, non doveva dimenticarlo.

 
«Vuoi uccidermi stanotte?».
Che voce calda.
Lui l’osservò come se fosse tutto naturale, abbassando l’arma.
«Sei pericolosa per mia sorella. Tu non sai niente di noi…».
«E tu non sai niente di me!», accennò una risata, mettendosi seduta che, come uno spettro, attraversò il suo corpo di ghiaccio tenuto stretto fra le braccia di Laween.
«Non m’interessa sapere di te.», ammise. «Voglio solo proteggere lei, nient’altro.».
Serio la guardava distaccato, come se non volesse avere legami con lei… per paura.
La ragazza si alzò dal letto, sorridendo. Si mise a fissarlo, con gli occhi a specchio senza pupille.
«Non voglio che tu ti risveglia.», aggiunse.
«Lo so!». Non smetteva di sorridere. «Non ce l’avrò con te se deciderai di spararmi! Quel proiettile è per me!».
Il ragazzo passò uno sguardo alla pistola e dopo nuovamente su di lei.
«Non m’interessa sapere di te…», tornò a dire, come si gli fosse stato appena chiesto. «Voglio solo che mia sorella sia felice…».
Forse chiesto da se stesso.
Paura.
Izaeh sorrise ancora e ancora, accarezzando i suoi lunghi capelli biondi, creando boccoli con le dita.
Il ragazzo abbassò lo sguardo.
Paura di affezionarsi.
Voleva tenerla lontana.
Lei lo sapeva; e forse era meglio così.
«Fai quello che devi fare, Irvin! Io sono già morta…».
Quest’ultima frase lo spiazzò, rialzando lo sguardo, dando luce ai suoi occhi blu spalancati.
Lei non era già morta… Lei si muoveva… Non era già morta…
 
Tutto finì, come un breve sogno.
Irvin fissò la pistola con i suoi occhi sempre aperti, e dopo fissò per breve il corpo di marmo di quella morta.
Voltò improvvisamente il suo capo a lui, come se l’avesse sentito, come se potesse vederlo in quegli occhi senza vista.
Fece un passo indietro. Si morse ancora il labbro inferiore, guardando prima la sorella e poi lei, quella Izaeh.
Uscì dalla stanza camminando a grandi passi, richiudendo dolcemente la porta.
 
***
 
Si voltò guardando indietro, perché sentiva ancora quei bambini che a bassa voce parlavano male di lei. Si nascondevano fra i banchi, ma riusciva comunque ad osservare i loro occhi divertiti e a sentire le risa.
«Dai, Izaeh! Continua pure, non importa anche se la campanella è suonata!».
La distrasse, rivoltandosi svelta.
Stava in piedi con il foglio in mano, leggermente tremava.
Quei bastardelli, come li chiamava suo nonno, la mettevano sottopressione.
Non dovrebbe avere paura di loro… non dovrebbe.
Si tirò dietro all’orecchio i corti capelli, e tossì, per dar nuova forza alla sua voce.
«Dai, ti ascolto! E’ un bel tema il tuo!», disse di nuovo la giovane insegnante, sorridendole dalla sua cattedra, distante una sola fila di banchi da lei.
Continuò a sentire le loro risatine cattive, ma non se ne volle preoccupare, ricominciando a leggere lo scritto.
«Io voglio molto bene a tutti e due! Non voglio sostituirli mai perché sono delle bravissime persone!».
Leggeva un po’ a sbalzi il tema che aveva scritto quella mattina, in una giornata come un’altra, alle prime soglie delle elementari.
L’argomento che dovevano trattare i bambini era quello di descrivere i propri genitori… Per Izaeh però, fu diverso.
«Sono contenta di aver avuto i miei nonni! Non voglio perderli mai perché loro mi vogliono bene…», quasi si bloccò; era sempre stata una bambina particolarmente sensibile. «solo loro lo fanno». La maestra non riuscì a sentire bene queste ultime parole; la voce della piccola si era fatta molto bassa e il disordine in classe stava aumentando, così come i loro schiamazzi.
Izaeh non aveva mai avuto i genitori.
 
«Irviiin!!», gridò quella mattina. «Irvin, vieni! Corri!».
Il ragazzo giunse nella stanza e vide sua sorella che tentava di alzare Izaeh dal letto, come ogni mattina, ma questa volta non riusciva a spostarla.
«Non riesco a muoverla…», disse tentando di alzarle un braccio. «Oggi è più rigida della prima volta che l’abbiamo incontrata!».
Il giovane si avvicinò e la sorella la lasciò andare.
«Cosa pensi che abbia?», domandò. Era visibilmente preoccupata.
Si fermò ad osservarla e non sembrava diversa affatto. Però…
Più la guardava e più qualcosa non lo convinceva.
Spalancò gli occhi, avvicinando la sua orecchia destra al petto della ragazza.
«Sta…», si rimise diritto, incredulo delle stesse parole che stava per dire. «… dormendo!».
«Eh?».
Il ragazzo si toccò la fronte, stranito. «Sta dormendo… Sogna… Ha le pulsazioni del cuore di chi dorme…», fissò un punto nel pavimento. «E deve anche essere un sogno nervoso a giudicare dal battito.».
Gli occhi di Laween si accesero, felicissima.
«Davvero dorme?». Sembrava la notizia più bella che avesse mai sentito. «Ma è una cosa meravigliosa, Irvin! Te ne rendi conto? I morti non sognano… ma lei sta sognando! Sta sognando!», si mise a saltellare dalla gioia. «Sono così felice per Izaeh… Si risveglierà presto!».
Irvin ancora non riusciva a crederci.
 
Aprì la porta di casa con la solita sicurezza, scorgendo una signora anziana che lavorava a maglia.
La piccola fece due passi e buttò i libri – tenuti stretti dal laccio – sul tavolo in legna, sedendosi sulla sedia poggiando la testolina bionda sulle sue braccia a conserte sul tavolo.
«Cosa è successo?», chiese la nonnina, sulla sua sedia a dondolo. «Non è stata una bella mattina oggi a scuola?».
«No…», si udì. «Come tutte le altre…».
La signora le sollevò lo sguardo un momento e dopo tornò sul suo operato.
«Vuoi parlarne?».
«Non lo so…». Alzò la sua testolina bionda, guardandola. «Nonnina, ma perché tutti i bambini sono cattivi con me? Giocano con tutti tranne con me… Mi odiano e mi trattano male…».
L’anziana avrebbe voluto trovare delle parole adatte da dire alla sua piccola nipote, sapeva però già in partenza che niente avrebbe potuto tirarle su il morale.
«I bambini non sempre sanno quello che fanno, Izaeh. Solo quando saranno grandi capiranno che è sbagliato fare certe cose… Ma non subito, anche lì ci vorrà del tempo.».
Ovviamente, l’espressione della bambina non cambiò.
Tristezza, dolore, paura di sentirsi soli
Erano sensazioni che Izaeh aveva sempre provato, più di ogni altra cosa, da quando riesce a ricordare.
«Quei piccoli bastardi!», si udì già in lontananza. «Non possono trattare sempre così la nostra bambina! Ci vorrebbe qualcuno che desse loro una lezione!».
Era suo nonno…
Si avvicinò alla porta semichiusa, , dove filtrava la luce rossa e opaca del vecchio lampadario, con i suoi piedini nudi, stringendosi alla sua vestaglia per il freddo.
«E cosa vorresti fare, Fernand? Andare a sculacciarli? Lo so anche io che il loro atteggiamento è sbagliato, ma non possiamo fare niente… Sono solo bambini, un giorno capiranno. Izaeh dovrà cercare di farsi forza!», gli rispose la signora.
«Farsi forza? Laue, Izaeh è troppo sensibile, lo sai! E loro la trattano così solo perché è orfana… Non hanno nemmeno un vero motivo. Sono stupidi quei piccoli bastardi…!».
Izaeh chinò lo sguardo.
I suoi occhietti nell’ombra si fecero più scuri, così, voltandosi indietro, prese a camminare per tornare sul suo freddo lettino.
 
Orfana…
Lo era sempre di più.
 
Si era sentita ancora più orfana quando morì sua nonna.
Sempre più sola.
Abbracciava suo nonno, ed entrambi piangevano in quel giorno di nubi del funerale.
Perché…? Cosa aveva fatto Izaeh nella sua vita per meritare questo?
Per essere orfana del mondo…?
Che la vita avesse preteso troppo da lei?
… Izaeh non era così forte…
 
«Sono riuscita a muoverla!! Ha finito di dormire!».
La portò con sé mano nella mano, sotto gli alberi che ormai erano diventati il loro luogo prediletto.
«Cos’hai sognato oggi, Izaeh? Qualcosa di bello?», le sorrideva. «Irvin ha detto che il tuo sonno era nervoso… E’ vero? Spero di no!», rise. «Quando tornerai normale farai dei sogni magnifici, te lo dico io! Di quelli che non vorresti svegliarti! A me capita, sai?».
Prese dei petali rosa dal pavimento, disponendoli sui capelli biondo platino di Izaeh.
«Ti stanno benissimo…», le sorrise ancora.
La morta alzò un braccio e inaspettatamente posò la mano destra su una guancia di Laween, in un carezza.
Arrossì. «Tu tornerai, Izaeh! Vedrai! Vivrai di nuovo e sarai felice!».
 

Felice?
 
Izaeh nella sua vita era stata veramente felice in poche occasioni. Almeno di quelle che riuscisse a ricordare. 
La sua vita era cominciata con i suoi nonni; poi la scuola; i bambini che la schernivano; i ragazzi quando era più grande, che la evitavano; la morte della nonna… e dopo?
Cosa c’era dopo?

La morte.
 
 
 
«Lei non era mai stata in buona salute. E’ nata malata.».
Quella voce fredda e triste. Irvin.
Abbozzò un sorriso.
«Sapevo che sarebbe successo presto. Ma almeno è stata felice, in questo periodo.».
Stava in piedi, con i petali rosa della Primavera che li cadevano addosso, accarezzandolo.
Salutandolo.
Una lacrima scese sul suo sorriso.
«Forse…», riprese, tentando di mantenere un singhiozzo. «Voleva risvegliarti per sostituirla, in qualche modo…».
Izaeh stava dietro di lui, a pochi passi.
Immobile come sempre.
«Voleva che tu vivessi… come suo ultimo desiderio.», alzò lo sguardo al soffitto, facendo brillare i suoi occhi blu come lucciole, e le lacrime involontarie.
«Credevo che saresti solo riuscita a farle del male ma… adesso lo so. Grazie, Izaeh!», si voltò a lei. «Grazie per averle regalato la vita felice che io non riuscivo ad offrirle!».

 
Riaprì gli occhi sigillati da un’eternità, non più a specchio, ma di un’irresistibile color arancio, bellissimi.
Fu la prima cosa che vide in quel posto totalmente bianco: Laween e il suo sorriso.
«Nonno?». Era appena tornata a casa e chiuse delicatamente la porta. «Nonno, ti ho comprato le uova come mi avevi chiesto… Nonno?».
Non vedeva nessuno e il silenzio padroneggiava in quella casa fin troppo fredda.
Ma quando passò il muretto che divideva la cucina dal resto, tutto iniziò… ma non era un inizio, era solo la fine.
«Nonno!!», gridò la ragazza.
Gli corse incontro, vedendolo sul pavimento con al suo fianco una sedia. Forse aveva provato a salirci ed era caduto, pensò subito… Ed era quando non sentì il suo respiro, o il battito del suo cuore, che non riuscì più a pensare.
La morte si era portata via l’unico appiglio al mondo che le era rimasto.
Ora era sola.
Non poteva uscire di casa perché non aveva più forze che glielo permettevano.
Non poteva mangiare perché la fame non era più tornata.
Non poteva più bere perché non ne sentiva la necessità.
Non poteva più vivere perché cercava la morte. 
Non poteva più morire, perché era già morta.

«Laween…», lo disse per la prima volta, con un soffio di voce.
Lei era riuscita a farle rivivere la sua intera vita e adesso anche la morte.
La morte che l’ha fatta nascere ancora. 
La ragazza socchiuse i suoi occhi celesti, facendo sfoggio di uno dei suoi sorrisi migliori.
«Sei libera!», le disse. « Adesso sei libera, Izaeh! Spezza quelle ultime catene e dammi la mano!», gliela porse, avvicinandosi di qualche passo.
Si vide, chiusa come un bocciolo, nuda, tra quelle catene sospese per aria in quello spazio completamente bianco. Catene arrugginite e mezze rotte, le fissò.
«Le ho rotte io!», ammise la ragazza. «Una dopo l’altra… Pian piano sono riuscita a spezzarle… Adesso potrai riuscire a vivere da sola…!».
Da sola? Senza lei?
Le alzò lo sguardo, sorridendole per la prima volta.
Sorriso che ricambiò, entusiasta.
«Sei morta di nuovo e adesso rinascerai…!».
Izaeh allungò il braccio, tendendole la mano.
Spingendosi in avanti, senza sforzi, quelle catene si spezzarono, polverizzate, rimanendone più nulla.
Sfiorò le dita della ragazza, per stringerle la mano, ma queste si dissolsero, diventando i petali rosa tanto amati.
«No!», emise Izaeh.
Ma la ragazza davanti a sé continuava a sorriderle, mentre il suo corpo sempre più svaniva in quei magnifici petali che fin dall’iniziò erano stati il loro simbolo.
«Sii felice, Izaeh!», le sussurrò. «Ti voglio bene…».
Svanì.
«Laween…». Le scese una lacrima. Una sola limpida lacrima dai suoi occhi a specchio.
Irvin spalancò gli occhi lucidi.
Aveva sentito bene? Izaeh aveva parlato! Aveva chiamato sua sorella!
«Ma tu…», fece, sorpreso.
La ragazza strinse forte gli occhi, gettandosi di peso a terra. E gridò, gridò con tutte le sue forze, pestando il pavimento sui cui stava sopra, dando vita ad un pianto senza fine.
Era impazzita? Lo pensò Irvin, in quel preciso momento. Si era svegliata ed era impazzita.
La vide rialzarsi, facendosi forza sulle gambe, e lo vide.
Il ragazzo palpitò una sola volta, alla vista dei suoi bellissimi occhi color arancio.
Non più a specchio.
Izaeh voleva avvicinarsi a lui.
La storia si ripeteva.
Doveva prendere la pistola e spararla.
Avvicinò la mano al cinturino ma, non la sfiorò nemmeno quell’arma. Si bloccò prima, tremando.
Non poteva.
Era finita.
Aveva già commesso questo errore, non l’avrebbe rifatto.
Ormai era troppo tardi.
Si era già affezionato ad Izaeh.
Lei corse verso di lui, ma niente era come si sarebbe aspettato.
L’abbracciò, piangendo sulla sua camicia bianca.
Irvin sorrise, sorpreso.
 
Ci era riuscita. Laween – la sua sorellina – ci era riuscita.
La mamma aveva ragione. Laween aveva ragione.
«Avevi ragione anche questa volta…».
 
La morte non ha portato la morte.
 
Chiuse gli occhi blu e sorridendo ancora, dolce, ricambiò l’abbraccio, stringendola forte.
A pochi passi da loro, le mattonelle bianche e nere della Primavera erano state rimosse, per lasciar spazio alla terra umida, dove in un rialzo sfoggiava una piccola croce.
I petali rosa degli alberi caddero come sempre, posandosi sulla croce come avrebbero da oggi fatto senza fine.
 
 
 
 
 
***
 
«Oh, ma anche tu sei carino!», afferrò un altro fiore rosa, reggendolo con l’altra mano insieme al resto dei fiorellini.
Alzò lo sguardo al cielo azzurro, sempre più bello e soleggiato.
Il vento solleticava un po’ i suoi lunghi capelli biondo platino e quando vide che era abbastanza forte, donò i fiorellini a questo, che se li portò via.
Sorrise, accarezzandosi il pancione rotondo.
«Izaeh!».
Si voltò, per ricominciare un nuovo giorno, un nuovo capitolo della sua vita.
Un nuovo capitolo che sarebbe iniziato, ogni mattina, da quel giorno e per sempre, che sarebbe continuato; e di un altro libro che sarebbe a poco cominciato, con il pianto di una neonata.

 
 
 
La morte non aveva portato alla morte questa volta.
La morte aveva portato la vita.
 
Fine

 
 
 
 
 
[8,093 parole, titolo compreso]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*************************************************************************
Quarta classificata e devo dire in completa sincerità che lo sapevo °______° Ovvero, non mi ha per niente spiazzata perché già da ieri sera la mia testa malata si era impuntata con la quarta posizione. Mi faccio paura da sola, non abbiate timore xDD
E sono contenta del risultato, certo la prima voce (ovvero quella della grammatica, ortografia, ecc.) è stata pessima ma è giusto così xD Nel senso che me lo merito ù___ù Più ci sto attenta a quelle cose e più le sbaglio: sarà destino?! xDDD Sarà che lettura dopo lettura si finisce per sapere le cose a memoria e non leggerle più per davvero, mah.
Comunque, come dicevo sono contenta perché la giudice è riuscita a comprenderla, ad apprezzarla e mi ha dato prova che sono riuscita a trasmettere quello che volevo anche se non ci speravo *____*
Mi piace quando mi capiscono xD E’ una cosa molto rara, comunque.
 
Infine, vi lascio il mio commento alla storia che avevo allegato alla mail alla giudice nella spedizione dell’elaborato.
“Ecco, all’inizio l’idea mi piaceva molto, adesso… diciamo che non mi soddisfa pienamente, anche se mi piace lo stesso ^^ Sarebbe potuta venire su un po’ meglio a mio parere, ma non ne avrei avuto comunque il tempo, quindi va bene così.
Non so se si capisca molto la narrazione… vi sono un susseguirsi di tagli fra presente e passato e devo ammettere che non sapevo come cavarmela, infatti non so come ne sia venuto fuori; se si capisca, ecco ^^’ Inoltre noterai il cambio di carattere, fra times e verdana. Ho utilizzato il times per la normale narrazione, anche per i pezzi nel passato (solo in corsivo); ma sentivo il dovere di cambiare carattere per certi avvenimenti, sennò la comprensione sarebbe stata ancor più andata a farsi benedire XD Anche se non so se così ci sia comunque riuscita, come dicevo prima.
Vi compare infatti un avvenimento molto strano, lo dico anche io --> [SPOILER se non hai ancora letto] Irvin riesce a parlare ad Izaeh anche se lei – ovviamente – non può parlarlo. Mi sembrava una scena molto importante, anche se non capisco da dove ne sia uscita. E’ venuta da sé e mi è piaciuta molto. Praticamente Irvin ed Izaeh scambiano quattro parole come se potessero sempre farlo, consapevoli del fatto che non possono. Izaeh è morta, non si erano mai parlati, ma in pratica “si conoscono”, perché vivono sotto lo stesso tetto. E’ molto strano, come ho detto, e non riesco a spiegarlo nemmeno io ^^’’ Ma mi piace tanto quella scena **
Difatti nella scena finale Izaeh sa perfettamente chi è Irvin.
Un’altra nota da sottolineare è che la fine mi ha messa una tristezza infinita (parlo come se fossi anch’io una semplice lettrice XDD). Sapevo che sarebbe finita così perché ancor prima di scrivere il titolo l’avevo già deciso, ma mi è scesa un’angoscia pazzesca scrivendola; mi domando se faccia quest’effetto anche semplicemente leggendola, ma non penso ^^’’ Perché non sono sicura di aver trasmesso come avrei voluto tali emozioni.
Quella scena è ambientata nel subconscio di Izaeh, per l’ultimo saluto di Laween. Non saprei dire se Izaeh si sarebbe risvegliata senza quel fatto… Propendo verso il no, comunque; e quindi, anche se triste, era necessaria.
L’ultima, l’ultima scena è invece malinconica. Il pianto di una neonata, da notare ^^ Non è tutto lasciato alla casualità XD [FINE SPOILER se non hai ancora letto]”
 
Questa è la targhetta; molto carina, mi piace ^^
 
 
 
Avevo anche fatto un piccolo schizzo del viso di Izaeh, ma ora non posso scannerizzarlo e forse lo editerò in futuro =)
 
Alla prossima, comunque!  
Ciao, ciao da Ghen =^_____^=
   
 
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