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Autore: namelessjuls    26/02/2020    1 recensioni
Fra le atrocità commesse dall'animo umano, spesso si dimentica la più crudele rivolta al genere femminile: la caccia alle streghe.
Perdurata per secoli, raggiunge il suo apice nella metà del Seicento. Donne morte, donne malate incomprese, donne "volubili" e donne incantatrici: non esiste cura per loro, solo la forca.
1654, contea di Essex.
Ophelia è una giovane abitante della ormai tiepida e spenta comunità di Salem. Qui mancano i soldi, manca la condivisione, ma certo non si scarseggia di paura. Ophelia non è sposata, e i suoi lunghi capelli rossi sono una macchia difficile da nascondere, soprattutto agli occhi del fratello Adam. Lui, che della bramata sorella vive e respira, preferirebbe uccidere che lasciarla andare.
Una sventura, però, destinata ad accadere quando il lord Uriah Donovan irrompe nelle loro vite.
Lui, signore della città, con le mani sporche del sangue di centinaia donne innocenti in tutta la contea. Lui, il lord cacciatore di streghe, ora davanti alla loro porta con la vecchia promessa di avere in sposa la giovane.
E cos'è il matrimonio per una donna libera, se non l'ennesima delle prigioni?
Genere: Fantasy, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Lo riconobbi, ed era lontano: ovunque andassi, lui era al mio fianco.
«Chi sei?» Gli domandai.
Lui mi guardò a lungo. Mi squadrò, mi cercò, mi scelse.
Alla fine, mi diede le spalle.
«Non ancora.»

Essex, 1654.

Stava per nevicare in quel quieto giorno di settembre.
Fra le foglie più base dell'acero solitario, spiavo le nuvole grigie muoversi sulla mia testa. Lo sentivo nell'aria, nella fredda erba che accarezzava le mie vesti lasciando orme umide: col tempo, certe sensazioni impari a riconoscerle solo nel tempo, nel modo in cui il sole sorge. Sfiorai una foglia arrossata sopra il mio volto, e subito questa si sbriciolò sul palmo della mia mano.
Così fragile per essere una vittima senza colpe.
Diciassette anni di vita passati a Salem mi avevano insegnato poche cose: mansioni da donna, come sopravvivere in un campo di grano e allevare i porci. Talenti utili da sempre, con una piccola eccezione in quel secolo: la gente aveva iniziato ad uccidersi.
«Ophelia!»
Una grande mano gelida piombò su di me, mozzandomi il respiro per pochi istanti. Per prima cosa, riconobbi un ammasso di capelli neri - poi, un volto serio e privo di affetto. Un altro dei suoi servi.
«Ti abbiamo cercato ovunque, sciagurata.» Il signor Brown mi trascinava con forza tenendomi per il braccio. Nemmeno mi guardava, figurarsi ascoltare le mie lamentele o le mie suppliche. Credevo di essere abbastanza lontana. «Adam è così in pena. Povero uomo: proprio con una canaglia simile doveva essere imparentato!»
Sentendo il nome di mio fratello, il sangue mi ribollì nelle vene. Me n'ero andata quella mattina, lasciando scritto che sarei tornata solo il giorno dopo: ovviamente, ero stata costretta ad invitarmi una scusa, ma lui non mi aveva creduta. Ero braccata dai suoi uomini, quasi non fossi altro che un animale da macellare. La sua preda prediletta.
«Signor Brown, la prego! Stavo solo raccogliendo delle erbe: mi lasci andare.» Il fattore non mi ascoltò.
Passammo la cinta muraria della città e salutò le guardie - queste, mi videro ma tacquero, rispettando la solita omertà tipica di Salem. Tutti vedevano, ma nessuno parlava.
«Signor Brown!»
Provai ancora a divincolarmi, ma, questa volta, il fattore mi strattonò con forza, facendomi quasi cadere. In quel momento, l'orologio per poco mi sfuggì dalla tasca: lo tenni stretto, cercandovi del coraggio.
«Ragazzina, cerca di stare zitta. Tuo fratello mi ha ordinato di riportati a casa e questo è il mio compito. Puoi urlare quanto vuoi, ma non servirà a nulla.»
Lo fissai con rabbia, quasi sperando di poterlo bruciare con un solo sguardo. Ero così furiosa che mi pareva di essere fuoco. «Sai bene cosa mi farà se mi riporti a casa.»
Nessuna traccia di pentimento dipinse il suo volto. Per l'appunto, scrollò le spalle, riacciuffandomi con prepotenza. «Io sono solo un fattore.»
Spezzata in due, mi feci trainare dall'uomo attraverso il centro del paese. Lui camminava serrato, ma sul volto notai la sua attenzione verso il traffico di cittadini in movimento. La folla si stava diluendo lasciando l'alto patibolo ben visibile ad occhio nudo: un singolo palo, piantato al centro della piazza, e circondato da legna secca e carbone.
Era una donna, un'altra.
Le vesti le erano state strappate e giacevano a terra, lontane dai carboni. Glieli avevano tolti per sfizio, per toglierle l'ultima vaga e triste traccia di onore. Spogliata della sua libertà, della sua anima di essere umano, e, infine, del suo corpo. Pochi sanno quanto può essere difficile descrivere i segni nascosti in un corpo morto, e ancor meno quelli di un corpo morto bruciato. Non restava nulla, nemmeno il sangue, ma una vaga traccia di una sagoma che non sa nulla di umano. Quel giorno, restavano le catene in ferro che l'avevano costretta alle fiamme, e un vago profilo di carne e ossa che culminavano in un viso sfigurato. I capelli, che ormai rassomigliavano a fieno, parevano appiccicati malamente al capo consumato. Era tutto nero, tutto cenere. E parlavamo di neve se pur tutti, in fondo, sapessimo che cosa fosse per davvero.
L'anima di una strega.
«La vedi quella?» Chiese il fattore. «Quella è la fine delle donne pazze che scappano. Un giorno, tuo fratello si stancherà di proteggerti e tutti vedranno chi sei davvero: una maladonna.»
Dicendo questo, si voltò verso di me, mal guardando le lunghe ciocche di capelli rossi sgusciare dal mio mantello. «Brucerai.»
Non osai parlare, rassegnata da quelle parole, nemmeno così nuove alle mie orecchie.
Gli uomini mi incolpavano - ci incolpavano - delle follie in cui erano certi li costringessero. Il mondo andava a rotoli, e la colpa non era che delle donne: loro, incantatrici e viziose, così piene di veleno da far perdere il senno ad un uomo con un solo bacio. In quel secolo, ci eravamo scoperte streghe. Ed io, con i miei lunghi capelli rossi, ero una sudicia macchia nel pudore del paese. Le vedevo - le persone - seguire il mio passaggio con chiacchiere e commenti languidi. Si dicevano tristi per la morte dei miei genitori ma nessuno mi aveva stretto la mano al funerale, e si preoccupavano per mio fratello - ormai l'uomo di casa - che era rimasto solo a domare la furia della sorella. Come al solito, tutti vedevamo ciò che gli faceva più comodo.
«Signor Rooney! Signor Rooney, siamo tornati!» Il fattore mi spinse dentro il giardino della mia abitazione. Feci appena in tempo a sentire il cancello chiudersi, che la porta si aprì.
«Ophelia.» Adam era lì, vestito dei suoi eleganti abiti da povero arricchito. Portava i capelli neri pettinati sulla fronte, ed i suoi occhi cerulei sbucavano appena sotto le ciglia folte. Mi bastò vederlo per sentire tutto il mio corpo raggelarsi. Ero come una foglia secca fra le sue dita.
«Grazie, signor Brown,» disse, avvicinandosi a me e prendendomi per il polso. Mi conficcò le dita nella carne, facendomi dolere, ma restai zitta. «Vi prego di tornare al vostro lavoro: questa sera, vi farò trovare il vostro compenso.»
Il signor Brown ringraziò con un gesto del cappello e ci lasciò soli. In un attimo, tutto cambiò, compreso il volto di Adam.
«Muoviti.» Prima mi trascinò, poi mi spinse dentro casa nostra, facendomi cadere a terra mentre chiudeva la porta alle sue spalle. Eravamo soli, di nuovo. Stava per nevicare. «Un'altra volta, Ophelia! Sei scappata un'altra volta! È la terza questo mese.»
Urlava, quasi paonazzo, e il suo viso peggiorava ad ogni parola. Diventava più brutto, più lontano, come se non fosse altro che uno sconosciuto. Di quel bambino con cui avevo condiviso una vita, rimaneva solo l'ombra peggiore.
«Ero nel bosco, cercavo delle erbe,» tentai di scusarmi.
«Erbe?» Canzonò il ragazzo, sarcastico. Mi afferrò per il braccio, costringendomi ad alzarmi, e mi sbatté contro il muro. Il sangue mi salì alla bocca, ma non ebbi il tempo di sputare, che le mani di Adam mi strinsero la gola, mozzandomi il respiro.
«Con chi eri? Chi è lui? Hai trovato un altra amante, stupida ragazzina.» Lo schiaffo arrivò gelido e silenzioso. «Dimmi il suo nome!»
Cauta, mi massaggiai la guancia stanca. Credevo che, col tempo, mi sarei abituata a tutto quello, ma non era mai stato così: le botte facevano ancora male. Non smettevano mai.
«Non c'è nessuno, Adam. Non c'è nessun altro.»
Occhi diversi ricambiavano il mio sguardo. Adam non era mai stato solo un fratello: sin da piccoli, dalla mia nascita, lui non aveva mai smesso di preoccuparsi per me. Mi seguiva, mi controllava, mi stringeva a sé. Per un tempo, aveva tentato di contenersi: i nostri genitori erano in vita e, di norma, ogni figlia apparteneva di diritto al padre. Lui decideva il suo presente e il suo futuro, compresa tutta la strada nel mezzo. Poi, erano morti, ed io ero passata di diritto ad Adam. Sapermi sua - sapermi legalmente sua - aveva fatto scattare qualcosa nella sua mente. Ero sempre stata una sorella, ma non ero mai stata sua, corpo e anima. Iniziò a fare cose che non aveva mai fatto, e ne aveva tutto il potere. La sua mano strinse il mio mento, alzandolo verso il suo. La sua pelle era calda, comprese le sue labbra. Sfiorò le mie, beandosi del sapore del mio profumo.
«Ophelia,» sussurrò. Non riuscivo a guardarlo, perciò fissavo il soffitto mentre sentivo le sue dita slegarmi il laccio del mantello. «Voglio che tu sappia che la colpa di tutto questo è solo tua. Sei così...disgustosa.»
Baciò il mio collo e strinse il mio fianco, spiando le curve sotto le mie vesti. «Dillo. Dillo che sei tu a volere tutto questo. Lo so che mi hai stregato, ma non dirò nulla se tu sarai gentile. Sarai gentile, non è vero?»
I suoi occhi mi tagliavano come lame, ma io non avevo parole. Restavo assente, non riuscendo a capire come fossimo arrivati a tal punto. Come, dal nulla, fossimo giunti a quella frenesia.
Porti sfortuna, Ophelia?
«Chi è?»
Adam si allontanò velocemente da me, sistemandosi gli abiti alla rinfusa. Io restai immobile, osservandolo avvicinarsi alla porta e uscire velocemente. Un altro dei suoi soliti ospiti. Mi sfilai con pesantezza il mantello, appendendolo al chiodo. Una manica mi era scesa lungo le spalla, lasciandola scoperta, e subito mi mossi per sistemarla. Come se nulla fosse, corsi in cucina, iniziando a preparare il pranzo. Tutto normale, dovevo convincermi che fosse tutto normale. Cominciai a piangere in silenzio, raggomitolata sulle stoviglie e un piatto di carne. Ero sconfitta, totalmente arresa: per quanto ci provassi, non sarei mai scappata da quella casa. Il mio nome mi perseguitava, Adam lo faceva e il mio stesso essere femmina. Il signor Brown aveva ragione: mi avrebbero uccisa.
«Oh, maledizione.» Sobbalzai, presa di sprovvista, quando notai di non essere più sola. Alle mie spalle, regalmente seduto sullo stipite della porta, un gigantesco cane nero mi osservava con i suoi occhi rossi. Corrugai la fronte e mi asciugai le guance, confusa. Non avevo mai avuto un cane: Adam li detestava e, ogni qual volta avessi tentato di salvare qualche vagabondo, mi aveva impedito di tenerlo con me. Me li strappava a forza e, davanti ai miei stessi occhi, li fucilava senza ritegno. Ogni volta, toccava a me ripulire il sangue.
«E tu chi dovresti essere?» Domandai, tirando un breve sorriso. Questo scomparve presto, notando l'insolita freddezza dell'animale. Se ne stava lì, stretto nella sua grandezza, e non si muoveva, continuando a fissarmi. Occhi rossi? Non avevo mai visto un cane con gli occhi rossi, né uno che mi guardasse come se volesse giudicarmi. Iniziai ad innervosirmi.
«Ophelia.» Sentendo il comando di Adam, mi diedi da fare ad ascoltarlo. Presi i lembi del mio abito, attraversai con cura la stanza, passando con cautela vicino all'animale. Ero certa che mi avrebbe morsa o, comunque, avrebbe fatto qualcosa, ma, invece, si limitò a fissarmi. Poi, mi seguì, restando un passo dietro a me.
«Adam?» Mio fratello era seduto al tavolo, ben piegato su un foglio di pergamena che leggeva fitto. Poco lontano da lui, un giovane uomo restava in piedi vicino al camino. Non credevo di averlo mai visto prima, ma il suo volto non mi piacque: tirato, severo, visibilmente nobile. Quando si accorse di me, alzò un sopracciglio biondo, mal vedendomi.
«È quindi questa la ragazza, mio signore?»
«Non credo di conoscervi,» ammisi, non capendo. Il cane, intanto, si era accomodato al fianco del giovane, condividendo il gelo. Insieme, facevano davvero paura.
«Ophelia,» mi zittì malamente Adam. Poi, rivolse uno sguardo torvo all'uomo, stringendo i denti.
«Voglio presentarti Uriah Donovan, il nostro nuovo moderatore.»
«Preferisco cacciatore di streghe,» intimò lui, altezzoso: «a quanto mi pare di vedere, Salem necessita della mia presenza.»
Ripensai al cadavere appeso al palo. Erano fini come quella che ogni donna temeva, ormai. Potevi essere inquisito per qualsiasi cosa, anche per aver cambiato abito. Ma Salem non aveva mai avuto un cacciatore di streghe, questo no.
«Io sono Ophelia.» Finsi un inchino, ma non abbassai lo sguardo. Uriah lo notò subito, ma tacque.
«Quindi siete voi la ragazza,» constatò tiepidamente: «ahimé, la fortuna è un dono di pochi.» Guardai Adam, cercando risposte che non riuscii ad avere. Cosa voleva quel uomo? Perché sapeva il mio nome?
«Non credo di capire, mio signore.»
«Vi assicuro che anche io vorrei non capire,» commentò con fatica il nobile. Malamente, sfilò la pergamena dalle mani di Adam. «Però, a quanto dice questo documento, voi siete mia moglie.»

Angolo
Buongiorno a tuti!
E' da tanto che non pubblico su efp e, ahimé, ho anche dimenticato come si imposta la pagina, quindi perdonate se non vado a capo ad ogni punto haha
Detto ciò, parliamo della storia: è una storia a carattere storico incentrata su una storia romantica e con temi fantasy - un pà un mischio, insomma :)
Detto ciò, saranno presenti diversi temi delicati, soprattutto riguardanti la situazione femminile :)
Spero che vi sia piaciuto il capitolo e di sapere cosa ne pensate, mi farebbe davvero piacere!!
A presto,
Giulia
  
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