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Autore: Saelde_und_Ehre    01/03/2020    4 recensioni
Fronte Orientale, inverno 1942.
L'esercito tedesco è intrappolato nell'inferno ghiacciato di Stalingrado, accerchiato e ridotto alla fame, mentre il gelo miete più vittime dei proiettili.
Due ufficiali della Wehrmacht, provati da mille difficoltà ma per nulla intenzionati ad arrendersi, decidono di unire le loro forze per proseguire l'avanzata verso la città, ma tra loro si instaura un legame più forte della rovina incombente.
Una storia d'amore, di guerra e di morte.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ed eccoci giunti all'atto conclusivo.
Avverto il lettore casuale: qui troverete un epilogo volutamente tragico e romanticheggiante, da prendersi come la conclusione "ideale" di un'opera di finzione narrativa e non come un'appendice di storiografia contemporanea.
Come sempre, grazie a tutti quelli che sono arrivati fin qui e in particolare coloro che hanno seguito, commentato o preferito questa storia.

 

V.
 
 
A Stalingrado, la Sesta Armata è ormai allo stremo. Combattono da giorni, forse settimane, nessuno se lo ricorda più.
Hanno ricevuto l’ordine di resistere a oltranza.
La terra è sommersa dal gelo, ma le esplosioni fanno ribollire il cielo. La lotta è senza quartiere: nelle strade, nei rifugi, nelle fabbriche, casa per casa.
Soldati valorosi cadono uno dopo l’altro, come foglie in autunno. Quell’immensa coltre bianca sarà la tomba di molti.
Del migliaio che erano all’inizio di quell’avventura, ne restano poco più di cento: il maggiore Hermann Richter li conosce tutti, uno per uno, come se fossero suoi fratelli, ma tra questi ce n’è solo uno con cui abbia condiviso qualcosa che va al di là del bene e del male.
Finiremo come gli Spartani alle Termopili – quel pensiero, condiviso tempo addietro col suo compagno ma mai espresso ad alta voce, torna a riecheggiare come una sentenza fatale.
 
Mentre i tuoni continui dell’artiglieria scuotono la terra facendo piovere dal soffitto pezzi d’intonaco, nella fabbrica accorrono due ufficiali di un reparto di fanteria sbandato.
In testa al gruppo – poco più di una squadra – c’è un maggiore alto, spalle larghe, coi capelli neri e l’espressione grave; subito dopo viene un tenente biondo e robusto, con un MP40 che gli pende dalla spalla. Avrà poco più di vent’anni, ma dà l’idea di essere un combattente temprato da mille battaglie. Passano davanti a loro, non guardano in faccia nessuno.
Hermann sente la voce alta e chiara del maggiore che impartisce ordini, poi chiama a sé il tenente e guida gli uomini altrove: forse non li rivedranno mai più. Nota che intorno al polso hanno una fascetta nera con una scritta bianca, che segna la loro appartenenza a una divisione d’élite: sono tra quelli che, se cadranno vivi nelle mani dei rossi, verranno sicuramente passati per le armi. Come lui, come Eugen.
D’istinto si volta verso il compagno: è impassibile, anche se riesce a indovinare un tremito di apprensione nella mano che stringe la cinghia del fucile.
Sente un groppo salirgli alla gola. Non sa dire se teme la morte, ma sa che se quella fiamma dovesse spegnersi, di nuovo per lui resterebbe solo un abisso di gelida oscurità.
Vorrebbe dirgli qualcosa, ma nulla di ciò che gli viene in mente può avere posto in quel contesto.
È Schwerin, con un gesto repentino, che lo afferra per un polso e lo trascina in un angolo buio, passando inosservato in mezzo ai soldati che cercano di farsi coraggio l’un l’altro. Gli poggia le mani sulle spalle; i pozzi blu dei suoi occhi sono mobili e inquieti, ma l’espressione è risoluta. “Così è deciso,” mormora, “la guerra va avanti, nonostante tutto.” In un impeto azzera le distanze che li separano e lo stringe a sé, approfittando di quel poco tempo che è loro concesso.
Richter ricambia la stretta come se temesse di vederlo svanire da un momento all’altro, appoggia la guancia contro la sua fronte. Su di loro grava l’ombra scura di un macchinario per la lavorazione dell’acciaio, che li nasconde agli sguardi altrui. Si concedono di indugiare un po’ più a lungo l’uno tra le braccia dell’altro, si beano del reciproco calore, godono degli ultimi istanti di luce prima che le tenebre avanzino.
Uno scossone più violento li richiama alla situazione contingente. L’orchestra dei cannoni riprende a suonare, ed è l’atto conclusivo.
Le luci delle candele sfarfallano, un pezzo di soffitto crolla rivelando uno squarcio di cielo caliginoso. Un lampo rischiara le sagome di apparecchiature in disuso.
I soldati si riversano fuori dal rifugio, mentre in lontananza ruggiscono gli hurra dei nemici e le detonazioni dei fucili.
Un comandante deve condividere la sorte dei suoi uomini.
A malincuore, i due ufficiali sciolgono l’abbraccio e riprendono le armi.
È finito il tempo dell’esitazione, adesso si può solo combattere.
 
I proiettili schizzano ovunque, fischiano e sibilano fendendo la caligine densa. La neve cade da un cielo color cinabro, così cupo che non si capisce più se è notte o giorno.
È finito il tempo dei cavalieri e degli scontri onorevoli: la battaglia è una carneficina che non risparmia nessuno. Il sangue bagna le strade; gli uomini combattono spinti dalla forza della disperazione, scagliandosi contro i nemici come bestie invasate.
Anche Richter e Schwerin vengono risucchiati dalla mischia. Combattono fianco a fianco in una strada sventrata da un cratere, circondati da cadaveri e rovine; i superstiti dei loro battaglioni si stringono a coorte e cadono uno dopo l’altro.
Da una spaccatura nel terreno, tra la neve fitta e il fumo denso delle esplosioni, sbuca fuori un soldato che brandisce un mitra, si ripara dietro un muro e spara una raffica.
Con un balzo fulmineo, Richter sferra una spallata al compagno per spingerlo in copertura; fa per rispondere al fuoco, ma si sbilancia all’indietro e il fucile gli cade.
Schwerin estrae la pistola e l’eco della detonazione squarcia la cappa plumbea. Il russo crolla a terra e rimane immobile, ma Hermann non si rialza: barcolla, poi si aggrappa a lui, gravandogli addosso con tutto il suo peso.
In quell’istante sembra che il tempo si cristallizzi: tra loro cala una quiete assordante, opprimente e agghiacciante. Come un fulmine nella notte, la verità si palesa ai suoi occhi e non può fare a meno di gridare il nome del compagno – il frastuono è così forte che nessuno lo sentirebbe.
Hermann tenta di rimettersi in equilibrio, senza dire nulla, puntellandosi a un frammento di muro, ma la sua giubba è intrisa di sangue e sul torace spiccano i fori di due proiettili.
Sfidando il fuoco nemico, Eugen lo porta al riparo trascinandolo praticamente di peso, lo adagia contro un ridotto e inizia a sbottonargli febbrilmente la giacca, cercando di tamponare l’emorragia che ormai gli ha tinto la camicia di rosso.
“Tieni duro, Hermann,” lo esorta, stringendo i denti. Ormai ha imparato a riconoscere un uomo in fin di vita, sa che le sue parole sono vane, ma non vuole e non può abbandonarlo. “Sono qui con te, non me ne vado.”
L’altro annuisce appena: tiene le palpebre abbassate e respira debolmente, ma si sforza di sorridere. “Lo so, Eugen.”
Schwerin gli scosta i capelli dalla fronte madida, gli accarezza la guancia con un gesto delicato. “Sono qui con te, camerata... non ti lascio solo.”
Hermann allunga una mano verso di lui, ed egli la stringe saldamente tra le sue, come se quel gesto bastasse a trattenerlo. “È finita... ma tu non ti arrendere,” sussurra, poi la sua stretta si fa inerte.
Eugen rimane per un istante interminabile con le sue mani tra le proprie, ancora incredulo e annichilito. Anche se il mondo per lui sembra essersi fermato, l’urgenza della battaglia preme da ogni lato; le urla si odono fin lì. Adesso, l’unica cosa che gli resta è l’onore – la consapevolezza che il loro sacrificio, forse, non sarà vano.
Con estrema lentezza, gli depone le mani sul petto e gli sistema il colletto dell’uniforme, poi si china su di lui e gli posa un ultimo bacio sulla fronte fredda.
Anche nell’immobilità della morte, i suoi lineamenti hanno un’espressione serena, ma la sua pelle ha perso il tepore a cui si è ormai abituato. Tutto questo non si ferma per così poco... né per me, né per lui, è il suo unico pensiero, mentre si sforza di ricacciare indietro i ricordi dei loro momenti di quiete e delle battaglie combattute insieme.
Non sa – e forse non osa – dare un nome a ciò che lo lega a quell’uomo ma, ora che lui ha versato il proprio tributo, si sente di nuovo assalire dal gelo. La fiamma che ardeva sotto la neve – quella benevola, che scalda – si è spenta, e adesso restano solo le fiamme che distruggono, che divoreranno tutto fino a quando non resteranno altro che rovine e desolazione.
Le esplosioni lo riportano brutalmente alla realtà. Si rialza, senza nemmeno curarsi di ripulire i pantaloni, e raccoglie le sue armi.
Ci rivediamo nel Valhalla”, mormora tra sé e sé, riservando un’ultima occhiata a colui che, forse per troppo poco tempo, ha condiviso con lui ogni cosa. La sua fiamma si è spenta, ma cercherà di serbare il ricordo del suo calore.
 
Di nuovo da solo, il maggiore Schwerin si riunisce alla battaglia a testa alta, in attesa che il suo destino si compia. Raduna i suoi uomini e li esorta a non mollare, per poi lanciarsi insieme a loro all’assalto.
Stalingrado è caduta, l’unica cosa che si può fare è cercare di perdere con onore.
Non si accorge neanche del proiettile che lo raggiunge, né del sangue che macchia la sua uniforme.
Si lascia cadere accanto al compagno ed esala l’ultimo respiro volgendo lo sguardo al cielo cupo, carico di neve, col fucile ancora stretto tra le mani.
La battaglia è persa – ma la guerra, nel frattempo, continua.
  
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