Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 25.09.2021
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Capitolo
Nono
7
settembre 1511, domenica
“Potevate
anche farvi annunciare”, commentò freddamente il
conte
Gianfrancesco di Gambara, senza neanche premurarsi di staccare gli
occhi dalla
mappa che stava consultando assieme al capitano Jacob Empser.
“Monseigneur du Molard
… signor marchese Galeazzo …
signor marchese Teodoro … come posso
aiutarvi?”
“Scartiamo
per cortesia i convenevoli e veniamo al dunque”,
tagliò
corto il barone d'Uriage, piazzandosi davanti al bresciano. “Ovvero
che siete un ladro e
un porco.”
La testa
di Gambara guizzò in alto. “Come
prego?”, sibilò ostile e
perfino i due nobili lombardi sobbalzarono stupiti dal sermo adoperato
dal
francese, solitamente più gentile e diplomatico nella scelta dei vocaboli.
“Avete
udito benissimo.”
Il conte
sospirò snervato: “Se vi state riferendo
all’uccisione di
quella vostra guardia, vi ripeto che si è trattato di un
…”
“Chi
se ne fotte di quel coglione che s’è fatto
ammazzare sì
stupidamente!”, sbraitò fuori di sé il capitano delle fanterie guascone, giunto al limite della sopportazione, rovesciando il
tavolo che per poco non cadde sul piede del condottiero tedesco Jacob Empser,
costringendolo a balzare all’indietro. “Siete
un ladro ché
approfittando della confusione generata dalla morte del capitano
Mercurio vi
siete impossessato di un nostro prigioniero; un porco ché
vi
nascondete dietro l’Empereur per tenervelo ben stretto alle
sottane! Già ci trattate alla stregua di servi, impedendoci d'attraversare la Piave e far rifornimenti e ora ci rubate i prigionieri, frutto delle nostre imprese? Pardi, per chi ci prendente?!”
Digrignando
i denti ma seguitando a sorridere affettato, il
Gambara replicò tagliente: “Abbiate
dunque l’amabilità di spiegarmi, quale
negozio avevano le loro illustrissime signorie nel padiglione del
signor
Mercurio” e indicò Teodoro Trivulzio e Galeazzo
Pallavicino, che aprirono la
bocca per replicare, sennonché il conte li interruppe:
“Ma ormai poca importa:
vi recherà immenso piacere apprendere di come egli sia
sopravvissuto alla sua
disfatta a Treviso: proprio stamane gli stradioti l’hanno
riportato in barella
al suo padiglione. Dite, quale fretta vi spronava ad accaparravi il
patrizio veneziano,
da non poter neanche attendere la conferma del decesso del capitano
Mercurio?”,
li sfotté con velata ed accorata perfidia.
Il
marchese Teodoro Trivulzio si difese carezzevolmente astioso:
“Ci limitavamo a prendere in custodia un prigioniero
pericoloso, nel frattanto
che attendevano sue notizie!”, rigirò abile la
questione, in realtà sorpreso di
quella novità quanto il marchese Pallavicino e il medesimo
du Molard. “In
passato questo nostro zelo ci ha molto giovato, o mi
sbaglio?”
Il
cinquantatreenne nipote di Gian Giacomo Trivulzio si riferiva
alla cattura il mese scorso del capitano Alessio Bua, per mano di
Giulio
Sanseverino in una sua audace sortita. Quest’ultimo aveva
subito contattato a
Treviso il capitano Vitello Vitelli, proponendo di scambiare lo
stradiota per
il comandante spagnolo Francisco Maldonado. Onde forzare la mano al
recalcitrante condottiero, il Sanseverino l’aveva avvisato
che, in caso di
rifiuto, nessuno stradiota veneto fatto prigioniero sarebbe stato
restituito
alla Signoria.
Il
bresciano grugnì sardonico: “Pericoloso! Ma chi
credete d’aver
catturato? Un altro Bartolomeo d’Alviano? Piuttosto direi un
insolente
ragazzino che non sa tenere la lingua a freno!”
Notando
la vendicativa foga in quelle dure parole e sovvenendosi
dei pesanti insulti cui il prigioniero aveva subissato il conte,
Teodoro
Trivulzio insistette mellifluo: “Dunque restituitecelo, se
per voi non ha alcun
valore.”
“Molto
volentieri, se si trattasse di un patrizio qualsiasi”,
s’ostinò invece il Gambara, intuendo il gioco
dell’altro. “Purtroppo,
quell’Emiliani è un nipote di un consigliere
ducale e questo a me – e
all’Imperatore di conseguenza – è
sufficiente per considerarlo un nostro prigioniero.”
“E
con ciò?”, corrugò la fronte Soffrey du Molard,
non comprendendo dove
il conte volesse andare a parare. “Cosa vale un
consigliere?”
“Niente”,
mentì ineffabile il signor Gianfrancesco, rimettendo in
piedi il tavolo calciato per terra. “Assolutamente
niente.”
Ignoravano
spesso gli stranieri come il Doge, pur essendo il
personaggio più eminente di tutta Venezia, non
rappresentasse che la facciata
dello Stato, il suo potere diviso con i suoi sei Consiglieri e i tre
Capi della
Quarantia Criminal. Non era dunque lui bensì questo Minor
Consiglio a
presiedere i Consigli di Stato; non lui bensì il Minor
Consiglio che vagliava
le credenziali e discuteva con gli ambasciatori; che effettuava le
visite negli
uffici di Palazzo Ducale, nei cantieri
dell’Arsenale, alle udienze
dei tribunali, salvo rari casi in cui si necessitava della presenza del
Doge.
Solo il Minor Consiglio disponeva del diritto di grazia ed esaminava in
ultima
istanza le suppliche e le petizioni dei condannati. Sulle lire e sui
ducati,
l’effigie al rovescio raffigurava un uomo inginocchiato ma
irriconoscibile nei
tratti del Doge in carica, un personaggio stereotipato di fattezze
anonime,
talmente insignificante che lo si poteva imprigionare su decisione di
due Avogadori
su tre. Il Doge quindi era niente di meno d’un simbolo,
un’efficace maschera
per celare un potere ben più articolato e complesso,
difficile da agganciare e
con cui intessere relazioni privilegiate anche per via dei frequenti
cambi di
carica.
Per
questo un’occasione simile il conte Gianfrancesco voleva
sfruttarla al massimo: Dio solo sapeva quando gli sarebbe ricapitata,
una volta
scaduti gli otto mesi di mandato del consigliere Batista
Morexini! Come
posso negare all’Imperatore una leva così preziosa
su chi veramente governa la
Serenissima Repubblica?
Du Molard
strinse scettico gli occhi, odorando puzza d’imbroglio.
Contrariamente al bresciano, non conosceva tutte le dinamiche politiche
interne
di Venezia, però gli era bastata la testardaggine di
Mercurio Bua nel
contendersi quel patrizio con La Palice per convincersi
dell’importanza di quel
prigioniero. “Vi rammento”, tornò
cocciuto alla carica, “che l’Empereur
può
essere colui che ha voluto quest’impresa; tuttavia, chi sta
cacciando fuori i
soldi è le Roi! Di conseguenza, considerato
l’abnorme debito del
vostro Habsbourg nei suoi confronti, minimo ci
dovete risarcire con questo prigioniero.”
“C’è
tanta gente importante a Treviso, che vi procurerà ottimo
bottino. Vi rifarete con loro”, scrollò il conte
incurante le spalle.
“E’
la vostra ultima parola, monseigneur de Gambara?”,
avanzò d’un
passo verso di lui il capitano delle fanterie
guascone, fissandolo
lungamente dritto negli occhi.
“Sì.”
“Perfetto.”
E senza
aggiungere altro du Molard uscì dalla tenda ad ampie
falcate, lasciando gli altri astanti interdetti e a guardarsi
disorientati per
qualche istante, prima che la tremenda realizzazione delle sue
intenzioni
calasse in Gambara che, imprecando furioso, lo imitò in
egual misura seguito a
ruota da Trivulzio e Pallavicino.
***
Presa la
Messa e comunicatosi, sier Zuam Paulo Gradenigo si
preparò all’ennesima giornata intensa, spendendo
due buone ore a rampognare gli
stradioti i quali, insofferenti per la paga mancata, davano
preoccupanti segni
d’irrequietezza e solo la passata esperienza come loro
comandante aveva aiutato
il provveditore a trovar le giuste parole, onde rimetterli prontamente
in riga
e anzi, spronandoli ad impiegar maggior zelo nelle loro operazioni di
avanscoperta, alla ricerca di informazioni e di bottino. Simile
trattamento
l’aveva riservato anche ai soldati di Troilo Orsini,
trasformatisi
all’occasione in petulanti comari.
“Quaranta
giorni senza paga!”
“Il
vino ce lo date talmente annacquato che neanche si distingue
il sapore!”
“Qui
le donne ci menano! E ci tirano addosso i pitali!”
“La
Madre Superiora ci ha presi a scoppettate, insultando noi e le
nostre madri!”
“E’
indecente! Almeno un pochino di svago!”
“O
lo stipendio!”
“Niente
denaro, niente vino, castità perpetua … A questo
punto
ingaggiate dei monaci, no?”
Al che il
provveditore, sorridendo loro ambiguo, aveva replicato
con feroce malizia: “Mi par di capire, signori miei, che qui
a Treviso non si
lavora abbastanza se avete tutte queste energie da spendere per
lamentarvi,
ubriacarvi e correre dietro alle donne. Sta bene: risolveremo la
questione
raddoppiando i vostri turni di guardia e le ore a potenziare la difesa
cittadina, ché il bravo soldato crolla stanco sulla sua
branda!”
Dopodiché
Gradenigo si era recato a Porta Santi Quaranta, là dove
sospettava trovarsi il luogo principale dell’attacco dei
nemici (se non
addirittura dove si sarebbero accampati) e pertanto personalmente si
era messo
a coordinare l’allagamento della campagna circostante
più altri tre punti
limitrofi, grazie al piccolo capolavoro ch’era il Ponte de
Pria. [1]
Allo
stesso tempo, aveva dato ordine di continuare i lavori di
deviazione del fiume Sile, augurandosi che la squadra dei guastatori
avesse ben
colazionato e sprizzasse d’energia poiché nessun
trevigiano, essendo domenica,
si era presentato ad aiutare. Dinanzi alle giuste obiezioni del
capitano Renzo
di Ceri, il quale gli proponeva di trascinare quei pigri gaglioffi per
i
capelli se necessario alle loro postazioni di lavoro, Gradenigo aveva
ribattuto
serafico che se voleva svegliarsi con un pugnale in gola, facesse pure.
L’assalto al granaio assieme alla malcostume e generale
indisciplina dei
soldati aveva creato una sottile crepa tra la popolazione locale e le
autorità
e il provveditore non osava sfidare la sorte, inimicandoseli proprio
ora al momento
del bisogno.
Le
lettere della Signoria divenivano cadaun giorno sempre più
perentorie e intransigenti, spronando una miglior difesa della
città e del
territorio fino a pretendere due aggiornamenti al dì sulla
situazione nella
Marca. Gradenigo rispondeva loro promettendo che avrebbe
fortificato in
perfezion Treviso, assicurandoli che se Dio voleva
quell’assedio,
allora esso sarebbe stato a vergogna e a danno dei franco-imperiali,
spedendoli
, così giurava, uno ad uno all’inferno. Certo,
aggiungeva poi alla fine, se
avessimo almeno 5,000 fanti e più denari per le paghe, si
potrebbero ottenere
maggior risultati.
I nemici,
aveva poi fatto scrivere il provveditore quella mattina
al suo segretario, ancora indugiavano a Montebelluna in attesa di un
buon
numero di artiglierie; si contavano più o meno 8,000
imperiali però assai mal
equipaggiati; 2,000 francesi più 300 uomini
d’armi, quest’ultimi partiti alla
volta di Bassano. La sua spia gli aveva riferito inoltre come i
franco-imperiali stessero lavorando a dei gabbioni, ponti e scale e
confermava
da una conversazione origliata dal padiglione del conte Gianfrancesco
di
Gambara la loro ferma intenzione di seguitare in questa loro impresa di
Treviso, malgrado la batosta di due giorni addietro. L’unico
inghippo rimaneva
la crescente scarsità di pane, la reciproca diffidenza tra
tedeschi e francesi,
nonché un raffreddamento di stomaco e polmoni che stava pian
pianino colpendo
un buon numero di soldati, costringendoli ammalati nelle loro tende.
Infine,
niente nuove sulla calata dell’Imperatore, sier Antonio
Zustignan orator e dottor
spiegava in Collegio come Maximilian si trovasse inattivo a Sterzene,
senza dar
segni di aver preparato alcun esercito d’affiancare a quello
di La Palice.
Per il
resto, pioggia, pioggia, tantissima pioggia.
“Ma
è il pisciatoio d’Italia questo?”,
bofonchiò tra sé e sé il
capitano Renzo di Ceri, scostandosi i capelli bagnati dalla fronte e
rabbrividendo alla sensazione dell’acqua che, entratagli
dentro la gorgiera,
gli scivolava gelida lungo la schiena. Non si sovveniva più
dell’ultima volta
in cui aveva goduto del secco calore degli abiti asciutti.
“Non può smettere di
piovere per qualche giorno?”
Accanto a
lui Vitello Vitelli starnutì, tirando su col naso.
“Sempre a lagnarvi peggio d’una femmina, voi,
eh?”, lo rimbeccò, sogghignando
all’occhiataccia dell’Orsini che, al secondo
starnuto, s’allontanava da lui per
precauzione. “Cacasotto …”, lo
schernì sottovoce.
“Benvenga,
invece, la pioggia”, ribatté sier Zuam Paulo.
“Anzi,
spero che continui così per i prossimi due o tre giorni:
allora sì, che i
franco-imperiali dovranno trasformarsi in rane se vorranno giungere qui
a
Treviso - o in pesci per attraversare la Piave”, disse,
mentre osservava
l’acqua della Botteniga alzarsi lenta ma inesorabile di
livello al punto di
confondersi con la linea dell’orizzonte,
espandendosi. “Avvisate
invece i vostri balestrieri di prepararsi - stanotte cavalcheranno
assieme agli
stradioti. Vediamo se riescono a danneggiare un po’ i nemici,
così da far
bottino e smetterla d’importunare sia i cittadini che i
villani …”, lanciò
l’uomo un’occhiata assai eloquente
all’Orsini, che ebbe la decenza di arrossire
al ricordo degli arrabbiatissimi contadini inseguire con falci e
forconi i suoi
uomini, pizzicati a rubare nei loro casolari con la scusa di
perlustrare il
territorio.
“Era oggi che
Matteo da Zara doveva partire per Mestre? Per i rinforzi?”, gli
chiese confermaVitello Vitelli, levando
d’impaccio il collega. “E con loro spero porti anche le paghe.
Viaggerà via fiume. Questo lo rallenterà non poco
…”
“Meglio
impiegarci un’ora in più e arrivare a
destinazione, che
prendere la scorciatoia e sparire nel nulla”,
sentenziò brusco Gradenigo, il
pollice premuto sulla lunga e orrida cicatrice bianca sul collo e segno
della
palese protezione dall’oltretomba da parte del suo carissimo
fratello sier Zuam
Gradenigo, morto ironicamente per un’analoga ferita presso
Valiceno.
Sia
Vitelli che Orsini tacquero saggiamente, indovinando l’evento
cui il veneziano stava sottintendendo.
Ogni uomo
porta la croce di un grande rimpianto nella vita sua e
di due si tormentava ancora il provveditore generale di Treviso: il
primo, di
non esser stato al posto del fratello in quell’agguato di
tredici anni addietro
così da rovesciarne le sorti e risparmiare al minore quel
triste destino – Zuam
Paulo aveva combattuto contro Gian Giacomo Trivulzio, cos’era
per lui quella
lurida masnada a confronto? Il dolore del ricordo del feretro di Zuam
giungere
a Pisa tuttora lo straziava così come la frustrazione di non
esser stato più in
quel momento provveditore di campo, bensì semplice synico.
Nella lunga e ultima
veglia al corpo del fratello nella chiesa di Santa Croce in Fossabanda a Pisa, Zuam Paulo si era
fatto
narrare esattamente quanto accaduto, sorridendo amaro dinanzi al
coraggio del
suo Zuaneto che pur quando gli erano stati addosso in cinque e gli fu
intimato
di arrendersi e darsi prigioniero a Firenze, egli, sprezzante,
sciabolandoli
tutti li aveva gridato: “Rendite ti!”
prima del colpo mortale al
collo. “Quei maladeti florentini,
manza-bàgari, busi-verti,
onti-spurij, fioi-di-putana-turcha, caga-alto!”, aveva
imprecato con
le lacrime agli occhi l’allora pagatore di campo, incurante
del luogo sacro, i
pugni serrati e mordendosi il labbro fino a ridurlo in carne
viva. “Me
la pagheranno! Anche a costo di sgozzarli uno ad uno!” Ed
ecco dunque
il suo secondo rimpianto, ovvero di non aver avuto né modo
né occasione di
potersi vendicare di man propria su di Paolo Vitelli, Giovanni
de’ Medici e
Caterina Sforza. Se solo avesse potuto metterli gli artigli addosso!
Altro che
prigionieri! Zuam Paulo Gradenigo avrebbe riservato
loro i metodi
turchi, in particolare al Vitelli che gli accecava gli uomini e glieli
mutilava
delle mani. Il veneziano avrebbe infatti dato ordine di segarli vivi in
due per
poi impalarne le metà sulle picche più alte,
cucendo infine le loro teste su
cagne impagliate da presentare in dono alla Signoria. Dateve
cum un
legno,[2] lo esortava invece la perentoria lettera di sua
moglie madona
Maria Malipiero Gradenigo, all'epoca incinta e pertanto rimasta a
Venezia,
lettera recapitatagli personalmente tramite suo fratello sier Marco
Gradenigo. Non è né il luogo
né il momento d’andar fora de vada. Ste inzendènti (orribili,
ndr.) turcherie non fanno onore né a V.S.
né al nostro Zuaneto. Limitatevi
a compiere il vostro dovere in nome e per la gloria della Signoria
Nostra e lasciate
la vendetta a Missier Domino Iddio: vedaré, colendissimo
sior marido mio, come il
Suo castigo non mancherà d’abbattersi sopra i
fautori di quest’orrendo delicto
– videlicet el Villan, ea Gata de Forlì et quel
Zanizero dil Vitelli. Qui
gladio ferit gladio perit. Savia profetessa la sua
Maria, ché nel giro
di neppure due anni, mentre Gradenigo sfogava in Albania la sua rabbia a
danno
dei turchi, il Popolano calava di malattia nell’Ade; sua
moglie perdeva lo
stato e la libertà per mano del Valentino e la testa di
Paolo Vitelli,
illuminata da una torcia, dileggiata dai medesimi fiorentini per cui
aveva
combattuto.
Perdonami,
fratello, per non aver potuto né proteggerti né
vendicarti. Veglia su di me. Guida la mia mano. Che almeno io possa
difendere e
vendicare i torti subiti dalla Signoria Nostra per la cui gloria noi
nasciamo e
moriamo.
“Il
collaterale Pietro Antonio Battaglia da Cremona e il signor
Carlo Valiero giungeranno entro la fine della prossima settimana - con l’ordine
d’ispezione credo - il
primo da Padova e il secondo da Venezia”,
interruppe Vitello Vitelli il denso silenzio impostosi tra i tre, dopo
essersi
schiarito la gola. “Evidentemente, la Signoria non si fida
troppo dei nostri
resoconti.”
E
co la se fida mai, pensò
Gradenigo. “Sta bene”, rispose
atono, la bocca arricciata meditabonda. Ci scommetteva il mignolo
destro che
dietro le pressanti lettere del Minor Consiglio si nascondeva il tocco
di sier
Batista Morexini. Da quando quest’ultimo era stato nominato
ad agosto
consigliere ducale, il tono del Consiglio era cambiato in uno
più spiccio e
affatto incline ad udire scuse. Nulla quaestio a riguardo, solo che
sier Zuam
Paulo sospettava che dietro l’apparente ansietà
del Minor Consiglio si celasse
la ripicca del Morexini contro il podestà di Treviso sier
Andrea Donado “dalle
Rose”, che aveva ignorato le lettere di suo nipote sier
Hironimo Miani, in cui
gli denunciava i transiti dei contrabbandieri e di come urgesse il suo
intervento. La questione si era conclusa con un nulla di fatto, manco
con la
chiusura del passaggio dello Scalon giusto per dar al ragazzo un
contentino ed
ecco che, a punizione della loro leggerezza, Castelnuovo di Quero
cadeva,
magari proprio per colpa di uno di quei sentieri di contrabbando.
Sorteggiato
inoltre l’altro nipote sier Marco Miani per la custodia di
Treviso, naturale
che il loro barba Morexini sfruttasse la sua posizione onde tenere ben
puntati
gli occhi sulla città e sui suoi capi.
“Sta
bene”, ripeté il patrizio veneziano, dirigendosi
verso il
bastione di San Bartolomeo per controllare come procedeva
l’allagamento a Porta
San Tomaso. “Aggiungete alla missiva ai provveditori di
Padoa, ch’i stagan vigilanti e
fasse qualche
bon’opera contra quei nemici pur ch’i pagamenti
nol’i impedissa”, riferì il
provveditore al segretario che annuendo s’appuntò
mentalmente il messaggio che
avrebbe trascritto al primo riparo disponibile. “Su di un
secondo foglio, indirizzata
alla Signoria, richiedete i seguenti … Cospetto e tacca via!
Cos’è questo … questo
… quest’obbrobrio?”,
s’interruppe all’improvviso Gradenigo,
spalancando schifato la bocca dinanzi all’orrore
architettonico dinanzi a sé.
“Sono
casematte?”, gli fece eco un confuso Renzo di Ceri, colui
che aveva dato l’ordine d’erigere alcuni bastioni
in forma di casematte e
d’alzarli in altezza.
Sier Zuam
Paulo contrasse i muscoli della mascella. “Vi pare si
costruiscano così le casematte?”
“Sempre
sono state così.”
“E
sempre la fortezza è caduta!”, sbottò
il provveditore,
sciogliendo dalla cintura il fodero con la spada e, tra le grida di
protesta
del capitano Orsini e dei manovali, col pomolo buttò
giù i mattoni non ancora
fissati. “Noi stiamo demolendo mezza città, per
non dar possibilità ai cannoni
di farci danno con crolli e voi ben pensate di alzare
le casematte?” e quando giudicò essersi ben
sfogato, intimò
ad un paonazzo Renzo di Ceri: “Rifate le volte a botte
secondo le misure e
indicazioni di Fra’ Jocondo: non ci troviamo qui per giocare
agli artisti!”
“Sono
giorni che ci lavoriamo e abbiamo lavorato bene!”, si difese
indignato l’Orsini.
“Un
lavoro raffazzonato, superficiale e alla checcefrega,
tipico di voi papalini!”
“Cosa
pretendete da noi? Non abbiamo né uomini, né
risorse, né
finanziamenti necessari – nome di Dio, cosa vi
aspettate?!”
“La
perfezione!”
“Siete
un vecchio pazzo balordo, allora!”
Neppure
il tempo di terminare la frase, che sier Zuam Paulo
afferrò fulmineo il capitano delle fanterie per la gorgiera,
la punta del pugnale all’altezza del pomo
d’Adamo. “Innanzitutto,
voi quel tono con me non lo usate, poppante.
Secondo, voi siete
al nostro soldo e
perciò lavorate secondo i nostri parametri
senza proferir né ai né bai,
ma solo signorsì e
se io voglio quelle cazzo di casematte basse, voi costruirete quelle
cazzo di
casematte basse e le vostre opinioni ve le tenete ben serrate in quella
lercia fogna
della vostra bocca!”, lo redarguì feroce.
“Inoltre, credete che non conosca la
mentalità di voi condottieri? Morto un committente se ne fa
un altro: oh, caro
mio, state ben certo che se Treviso dovesse cadere voi cadrete con
essa,
giacché prima che ci facciano prigionieri
m’assicurerò di tagliarvi
personalmente la gola, acciocché voi rimpiangiate
all’inferno la vostra
negligenza e faciloneria!” , lo minacciò il
provveditore senza tanti giri di
parole, la sua pazienza giunta invero al limite. Nonostante le provate
capacità
militari, sulla fedeltà dell’Orsini egli ancora
non si fidava completamente: la
Signoria forse aveva archiviato nel dimenticatoio il suo rifiuto di
servirla
due anni addietro per fedeltà al Papa, ma non di certo
Gradenigo che lo teneva
ben sottocchio, pronto ad agire al minimo suo sgarro.
Quanto al
capitano Renzo di Ceri, egli fissava sconvolto il
veneziano quasi lo vedesse per la prima volta in vita sua: il giorno
delle
presentazioni ufficiali, non gli aveva suscitato una granché
d’impressione,
giudicandolo assai anonimo come ogni burocrate della Serenissima,
pedante,
pignolo e tendente al brontolamento cronico. Invece ora, con quegli
occhiacci
da belva assatanata e scintillanti di morte e dannazione, il
condottiero
riconobbe l’ostinato avversario di Gian Giacomo Trivulzio, di
Ranuccio da Marzano,
di Paolo Vitelli e dei Turchi.
“Signor
provveditore, per cortesia, ci stanno osservando tutti
…”,
s’intromise Vitello Vitelli, appoggiando cautamente una mano
sull’avambraccio
dell’uomo, tacito invito a non scambiare il suo collega per
un puntaspilli.
Allentando
la presa, il patrizio veneziano rinfoderò il pugnale,
asserendo in tono più conciliante: “Non dubito vi
abbiate messo impegno, signor
capitano Lorenzo; tuttavia, non possiamo permetterci un solo errore,
poiché
questo di Treviso non sarà un assedio
bensì l’assedio: dopo
di noi
c’è solo Venezia e se cadiamo sarà la
fine, Padova da sola non riuscirà a
reggere l’attacco di tutti i Collegati. Io sarò
vecchio e appunto in quanto
tale ho ben compreso come il mondo della mia giovinezza sia morto,
distrutto
dalla guerra alla moderna cui se vogliamo sopravvivere non ci resta che
adattarci e anche in fretta. Quelle spanne in meno sulle volte delle
casematte
che voi tanto sottovalutate, corrispondono invece alla sottile linea
tra la
sicurezza e la perdita della nostra artiglieria! Capite?”
“Capisco”,
gracchiò Renzo di Ceri, massaggiandosi la gola offesa.
“Però sul serio avremmo bisogno di più
uomini e mezzi, o non riusciremo mai a
completare i lavori in tempo e La Palissa potrebbe piombarci addosso da
un
momento all’altro!”
“Avrete
tutto a disposizione, di questo ve lo garantisco”,
convenne Gradenigo, auspicandosi che, a furia d’insistere,
prima o poi la
Signoria avrebbe ceduto, inviandogli quanto desiderato. “Oggi
focalizzatevi
sulle casematte, domani riprenderemo col guasto. Signor capitano
Vitello,
quanto a voi, per cortesia sovraintendete i lavori di deviazione del
Sile”,
ordinò ad entrambi i condottieri, scendendo le scale assieme
al segretario. “Voi,
invece, recatevi da sier Hironimo Capelo, sier Alexandro Pexaro e sier
Vicenzo
da Riva: ho da conferire urgentemente con loro.”
“Vi
servo, zelenza!”
Osservando
la figura del provveditore montare a cavallo,
finalmente Vitello Vitelli espresse la sua opinione: “Siete
invero poco furbo”,
apostrofò aspro il collega. “Cosa andate a
litigare con chi ha combattuto per
due anni contro i Turchi sulle montagne albanesi?”
Ironia
della sorte, non era quello ciò che turbava Renzo di Ceri:
analizzando l’altezza delle casematte, a malincuore il
condottiero dovette
ammettere quanto quella vecchia volpaccia asserisse il vero nel
descriverle
troppo alte e perciò vulnerabili ai colpi di cannone nemico.
“Dai,
al lavoro! Sennò qua er castigamatti ce mena a tutti
quanti!”,
incitò l’Orsini i manovali, che grugnendo in
disappunto ricominciarono l’intera
costruzione pressoché daccapo.
“Sier
Lunardo”, salutò il provveditore il concittadino
appena
giunto da cavallo dal porto cittadino. “Quali nuove? Mi
è stato riferito di un
gran viavai di gente a San Martim”, domandò
incuriosito, riferendosi al
brulicare di bastasi indaffarati a ponte San Martino, in un serrato
andirivieni
di botti e di sacchi diligentemente poi stipati nei magazzini per le
provviste
durante l’assedio.
“Rifornimenti
da Chioza, sior proveditor! Un piccolo regalo da
parte loro, per augurarci la buona sorte!”
“Da
Chioza?”
Zustignan
rise di gusto. “Un piccolo scherzetto al Duca di Frara. I
marinai mi hanno raccontato, come don Alfonxo avesse ordinato di
trasportare dal
Polesene a Frara quanti più rifornimenti possibili. Appena
saputolo, i nostri
chiozoti hanno armato alcune barche, eletto capitano un loro
concittadino –
Piero Pagan – e risalendo il Po hanno catturato sette
burchielli ferraresi
carichi di botti di vino, poiché erano venuti a vendemmiare
alle basse …”, e qui
sier Lunardo s’interruppe, asciugandosi le lacrime agli occhi. "E così il Duca alla fine è rimasto a bocca asciutta!"
Doveva
esser stato uno spettacolo indimenticabile quello dei
marinai chioggiotti assalire all’arrembaggio le imbarcazioni
ferraresi cariche
dei vittuarie, col coltello tra i denti e tanta cattiveria in corpo, nonché dei ferraresi buttati fuoribordo a far compagnia alle anatre. .
“Scommetto
che quei vendemmiatori ferraresi li hanno lasciato andare;
chissà se quel gran cancaro del Duca ci avrebbe concesso
uguale magnanimità,
lui che faceva decapitare i nostri prigionieri! Suo padre in questo era più savio ed equilibrato.”, storse
Gradenigo disgustato
la bocca.
Sier
Lunardo scosse paziente il capo. “Perché don
Alfonxo sarà pur
il “duca artigliere”, peccato che non capisca come
un morto non valga nulla,
contrariamente ai vivi da cui sempre qualcosa si può
ricavare.”
“Avete
ragione”, gli concesse sier Zuam Paulo, stringendo nervoso
le redini del cavallo. “E a proposito di provviste: ho dato
incarico di
trasportare domani il laterizio e i legnami; sier Alexandro e sier
Vicenzo porteranno
i materiali via barche, mentre sier Hironimo via carri. Meglio
sfruttare al
massimo la lentezza e i tentennamenti del nemico, finché
possiamo …”
“Chi ha tempo non
aspetti
tempo, sior Provedador.”
***
Blu
e bianco mischiati nella luce accecante del meriggio. Quel
calore tremendo eppur confortante che gli penetrava le ossa. Lo
sciabordio
delle onde, l’ombra protettiva della Fortezza. Le risate dei
fratelli, il
latrato del cane Argo.
Mitéra
che li chiamava, scherzosa, ridente.
L’armatura
luccicante di Patéras. Il primo pugnale nelle sue mani.
Ricorda gli Antichi: guai ai vinti!, riecheggiavano le sue parole
mentre con la
lama fendeva l’aria o il duro tronco centenario di un olivo,
Patéras che
assisteva orgoglioso assieme a theíos.
Ombre,
tutte ombre che lo stavamo chiamando insistentemente. Le
loro pallide braccia che lo ghermivano. I visi scarni, gli occhi
incavati.
Larve umane, orride, fredde, avide. Vieni con noi, hai già
penato abbastanza.
Vieni, trova in noi il ristoro dell’oblio.
No,
non ancora!
Sì,
ora!
Patéras
… Mitéra … suo fratello maggiore
… parenti … amici …
compagni d’arme … quanti volti! Quanta morte!
Vieni
con noi, tocca a te ora!
Una
risata cristallina, civettuola di giovane donna che lo adulava
e al contempo lo scherniva – bella, raggiante, vestita
d’oro, gli occhi
risplendenti come il suo rubino. Ma come! Non vuoi seguire neppure me?
Patéras!
Patéras!
Il
suo angelo gli correva incontro, le mani piene di fiori
primaverili colte su campi fecondati di cadaveri. A che vita
l’aveva costretta?
Patéras!,
lo invocava la piccina in braccio alla madre,
quest’ultima livida e inclemente, degna figlia di suo padre.
No!
No! Aikaterinī, aspetta! Non andartene! Non portatemela via!
La
moglie gli si avvicinò, gli occhi di bragia, la bambina
piangente. Come hai potuto farci questo? Che uomo sei?
No!
Sarebbe
meglio se crepassi!
No!
Così
da liberarci dal tuo disonore!
No!
Della
tua crudeltà!
No!
Della
tua insensatezza!
No!
Torna
da me, allora!
No!
No!
Allora
muori, non ci servi!
Aikaterinī,
aspetta … Lasciami spiegare …
I
lineamenti cambiarono, la loro dolce femminilità
s’indurì in una
più maschile.
E
se lo vide di nuovo davanti, ridente e biancovestito, senza
catene e col puttino in braccio. Accanto a lui, Jacomo Mamalucho, vestito di seta, gli rideva in faccia.
Ciò,
signor beota! Cosa fai, mi muori così da coglione? - lo schernì
- Sei proprio un macaco fanfarone!
Dal
nulla gli balzò addosso una scimmia che gli tirò
la barba per
baciarlo in bocca mentre l’altro se la rideva alla grossa.
“Maledetto!
T’ammazzo io!”, ruggì un delirante
Mercurio Bua,
afferrando un disgraziato a caso per il colletto della casacca e
trascinandolo
seco. “Come ti permetti, razza di stronzetto? Ti spezzo le
ossa una ad una …”
Schiaffeggiando
via assai scocciato la mano artigliata alla sua
povera preda, liberandola, il cerusico di campo sbraitò
insofferente: “Insomma,
qualcuno me lo può tenere fermo? O legatelo direttamente,
sennò qua finisce che
lo eviro e allora sì che avrà motivo di dolersi
sul serio!”, dovendo infatti
egli operare alla coscia, in pericolosa prossimità
dell’inguine.
Immediatamente,
Leka Busicchio e un altro stradiota gli strinsero
con una corda le caviglie e i polsi all’improvvisato tavolo
operatorio, intanto
che i suoi compagni immobilizzavano il convulso greco-albanese onde
facilitare
l’impresa.
“Si
salverà?”, s’informò
apprensivo Busicchio, osservando preoccupato
il collega giacere pallido ed esangue sul tavolo, la pelle un malsano
misto tra
giallognolo e bluastro e sudata per via della febbre montante.
“Me
lo avessi chiesto un istante fa, ti avrei detto di no”, gli
confessò brutalmente onesto il cerusico, mentre passava la
lama sulla fiamma e
indicava al suo assistente di preparare una tintura
d’oppiacei che poi
costrinse il poco collaborativo paziente ad inghiottire. “Ora
invece …
Santissimi Cosma e Damiano [3]! Mai visto un moribondo con
così tante energie
…”
Il
capitano stradiota si morse il labbro inferiore, in pena e allo
stesso tempo arrabbiato col Bua, biasimandolo intimamente per la sua
ostinatezza a voler rimanere a tutti i costi sul campo di battaglia,
malgrado
questa fosse stata già persa in partenza.
“Leka”,
biascicò Mercurio, la lingua gonfia e impastata e gli
occhi guizzanti in ogni direzione, esausti dallo sforzo di rimanere
focalizzati. “Perdio, Leka!”
“Eccomi!”,
si portò il condottiero al suo fianco.
“Andrà tutto
bene … il cerusico qui …”
“Stai
zitto e dimmi: la battaglia?”
“Persa.”
“Quanti
dei nostri?”
“Un
quarto.”
Mercurio
s’umettò le labbra secche, deglutendo malamente
acida
bile. “Dove siamo?”, si guardò attorno
disorientato.
“A
Montebelluna, nel tuo padiglione. San Giorgio sia benedetto,
non siamo incappati in alcun agguato, sebbene poco ci mancasse che quel
cavaliere veneziano …”
Il
greco-albanese, che fino a quel momento aveva ascoltato ad
occhi chiusi e semicosciente, spalancò le palpebre, girando
il collo di scatto.
“Dov’è?”, ringhiò,
realizzando ora il perché avvertisse qualcosa mancare nella
sua tenda, impedendogli un pronto riconoscimento.
“Te
l’ho già spiegato: quel veneziano
l’abbiamo seminato alle
pendici del Mont- …”
“Non
quello, l’altro!”, gli
esplicò (male) Mercurio,
digrignando i denti nel tentativo di puntellarsi sui gomiti, solo per
realizzare d’esser legato al tavolo. Il che
aumentò la sua arrabbiatura.
“L’altro! L’altro! Quel maledetto uccello
del malaugurio, quello stronzo
infame, quell’insolente farabutto, quella brutta scimmia,
quella femmina
mancata, quel …” e appurando quanto Leka
l’avesse perso in calle, uscì dai
gangheri e incominciò a far pressione sui lacci, prontamente
premuto giù
disteso dai fin troppo solerti stradioti ora al comando
dell’inflessibile
cerusico.
Quand’ecco
entrare nella tenda Zilio Madalo, cui Mercurio
s’appellò manco San Giorgio redivivo sceso in
terra: “Zilio, almeno tu salvami
da questi farisei! Dov’è finito?”
Il suo
sottoposto gli rispose sollevando Thomà e portandoglielo ad
altezza d’orecchio. “Parla s-cieto, puto, e
lesto!”, l’intimò perentorio il
capitano di ventura. “Dove xélo el tòo
patron?”
“Lo
gh’han i todeschi!”, gli spiegò conciso
il bambino. “Co si
pensava che geravate morto, vanti xéi venui tre omeni
tajani, do dil partio di
Franza et on d’Alemagna. El mio patron lo gh’han
messo in la cheba, i disen
cheo portan in Alemagna, perhò i franzosi no xéi
contenti, i lo volen ancha
lhori e se lo litigano chome la veste sancta di Domino Jesu
Christe.”
“Tre
uomini italiani, due di parte francese ed una tedesca?”,
corrugò Mercurio la fronte. Il fratellastro del Gran
Scudiero era partito
assieme a La Palice e de Boisy alla volta di Vicenza, quindi dovevano
trattarsi
sicuramente di Pallavicino e Trivulzio. Ma chi militava per
l’Imperatore pur
italiano? L’unico che gli veniva in mente era il conte
Gianfrancesco di
Gambara, il cui arrivo era stato annunciato … Il Bua
socchiuse gli occhi e
cercò di recuperare dalla mente annebbiata dalla febbre e
dagli oppiacei le
ultime missive ricevute e dunque i prossimi movimenti
all’interno
dell’accampamento. “Allora ci ha già
raggiunto … Sistu seguro, che gera per
dasseno on tajan a soldo di l’Imperador? Se ciamelo Zuan
Francesco de Gambara?”
Thomà
gli lanciò un’occhiataccia. “Gambara,
gambero, gambera … chi
sonjo, mi, el Imperador che cognesse tuti i nobeli di sta terra? Mi ve
conto solo
zò che gh’ho vardà e sentio! No
franzosi, no todeschi, tre tajani i xéi entrai!”
“Pulito,
basta che ti te tasi”, lo liquidò uno snervato
Mercurio,
avvertendo una maggior pesantezza sia nel cervello che nelle membra.
Fatto
cenno col capo a Zilio di metter giù Thomà, gli
ordinò: “Pigliati i più robusti
dei nostri e vammelo a riprendere con qualsiasi mezzo, lecito e non!
Anche a
costo di spaccare il muso a tutti i francesi e tedeschi di questo
campo! E se
quegli schifosi di Trivulzio, Pallavicino e soprattutto di Gambara
dovessero
intralciarti, hai la mia benedizione di spedirli a guardar crescere le
margherite per le radici!”
Fiutando
guai e conoscendo la natura fin troppo zelante di Madalo,
Leka s’intromise, offrendosi anch’egli volontario
così da evitare un inutile
massacro prima e dopo per le punizioni sicuramente inflitte a scontro
terminato. “M’accerterò di riportartelo
indietro”, assicurò il dubbioso
collega. “Tu devi solo pensare a guarire.”
Mercurio
Bua annuì debolmente, adesso sul serio sfinito.
Una volta
usciti gli stradioti e finalmente tranquillo di lavorare
in santa pace, il cerusico s’avvicinò al paziente
con un bastoncino, cacciandoglielo
tra i denti. “Ah, urlate pure se vi va. Prometto di non
giudicarvi”, asserì,
sorridendogli d’una poco rassicurante e gaudente ferocia.
“Ti
piacerebbe”, bofonchiò Mercurio, preparandosi
mentalmente alla
peggior ora della sua vita, dopo ovviamente il primo incontro con la
suocera.
***
Hironimo
s’era appena addormentato quando captò lo stridore
del
cancello della gabbia, accompagnato da rauche grida sia in francese che
in
tedesco. A destarlo completamente fu però la presa e il
conseguente strattone
alla caviglia, costringendolo a scivolare fuori dalla gabbia in un
doloroso e
pesante tonfo, finendo dritto in una pozzanghera a mangiar fango e
acqua.
Senza
capire i come e i perché, si sentì schiaffeggiare
via la
mano che lo stringeva per poi venir issato in piedi e malamente
scaraventato
contro le sbarre, nascosto dal corpo massiccio della sua guardia, la
quale
puntò la sua picca contro il gruppetto di soldati guasconi
dietro i quali
Hironimo riconobbe il capitano du Molard.
“Laisse-nous
passer! C’est
un
ordre!”, ringhiò il guascone al tedesco, estraendo
la daga e avvicinandosi
minaccioso.
Quell’altro
gli rise in faccia, affatto impressionato. “Wahnsinn! Meine Pflicht ist es,
die Befehlen zu
gehorchen. Und mein Kapitän hat mir gesagt, dass er unser
Gefangener ist! So …
verschwindet ihr alles!”
Osservando
inebetito quell’assurda conversazione in idiomi
così
dissimili tra di loro, Hironimo, ripresosi dallo sguarattamento
iniziale, si
rese conto di tre grandi verità: primo, sebbene schiacciato
dalla schiena del
tedesco comunque si trovava fuori dalla gabbia.
“Je
ne parle pas
allemand, sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le
vénitien! C’est le
maréchal de La Palice qui le commande !”
Secondo:
aveva i ceppi solo ai polsi.
“Leckt
mich!”
Terzo:
nessuno lo stava badando sul serio.
“Veux-tu
désobéir au
maréchal? Veux-tu pendre au gibet?”
Il
tedesco poteva anche ignorare in totum la lingua francese, ma
quell’insistente ripetizione del nome di La Palice
incominciava a smuovere gli
ingranaggi del suo cervello, riempiendogli la testa di dubbi.
L’ordine di
vegliare sul prigioniero veneziano gli era stato dato, in effetti, dal
conte di
Gambara che rappresentava l’Imperatore. Tuttavia, il
comandante in campo era La
Palice e se quel guascone gli si stava avvicinando col nome del
maresciallo in
bocca, forse un valido motivo sussisteva per cedere il prigioniero.
D’altro
canto, però, perché il maresciallo non era
lì con loro? E
neppure il Gambara o almeno il capitano Jacob Empser? Cosa voleva il capitano
delle
fanterie guascone da lui?
No,
finché uno dei suoi commilitoni o comandanti non si fosse
presentato assieme a loro, l’imperiale non si sarebbe
scrostato di un
centimetro dalla sua postazione.
“Wo
ist denn mein
Kapitän? Was befehlt er?”,
insistette egli assai sospettoso.
Il
guascone batté
snervato il piede per terra, sbuffando e con lui anche du Molard, che
esclamò
esasperato: “Est-ce qu’il n’y a pas un
foutu allemand ici qui connaît le
français afin d’informer ce fils-de-pute, que le
vénitien appartient au Roi de
France?”
E il
tedesco, che tanto stupido non era, captando qualche parola
abbastanza simile alla sua lingua incominciava a capire
l’inganno cui tentavano
di sottoporlo, alterandolo grandemente specie quando avevano intenzione
di
fregarlo sì meschinamente. Stette quindi per ribattere che
il prigioniero non
apparteneva al Re di Francia bensì all’Imperatore,
quando un’esclamazione da
parte di du Molard lo distrasse, costringendolo a voltarsi di scatto: i
suoi
medesimi occhi s’ingrandirono alla vista di come Hironimo con
l’agilità di una
scimmia si fosse arrampicato sopra la gabbia e stesse gattonando dalla
parte
opposta per scappare.
In un sol
uomo, si lanciarono tutti sulla gabbia; il guascone anzi
ne approfittò per sganciare un bel cazzotto contro il
tedesco, tramortendolo,
per poi issarsi sulle sbarre sennonché, girandosi, il
giovane Miani gli frustò
via la mano con le catene: “Toga qua!” e il
guascone cadde rovinosamente per
terra, reggendosi la mano dolorante.
Medesima
sorte toccò agli altri suoi compari che tentavano di
raggiungere il patrizio, il quale a guisa della coda del cavallo,
scacciava le
moleste mosche francesi tra un: “A ti! A ti! Et ancha a ti!
Ne gh’ho qua per tutti!”
supplendo con calci in faccia laddove le catene non arrivavano.
Dinanzi
all’inefficacia di quel bizzarro assedio, i guasconi
allora cangiarono tattica e afferrate le sbarre della gabbia presero a
scuoterla con l’intenzione di far cascare Hironimo a guisa di
mela dall’albero,
non calcolando come il giovane s’aggrappasse simil gatto,
rimanendo in beffardo
equilibrio. Purtroppo per loro, la guardia tedesca, imprecando, si
riscosse dal
suo forzato torpore e riconosciuto il suo assalitore, lo
ghermì per la spalle e
costretto a voltarsi gli ricambiò la cortesia ricevuta tre
volte tanto, per poi
passare ad un altro francese.
Ciò
provocò una fulminea reazione a catena: accortisi dei
compagni
in difficoltà, alcuni guasconi abbandonarono la gabbia e si
gettarono quasi di
peso sul tedesco, arrivando a bloccarlo per ambedue le braccia e a
colpirlo tra
faccia, addome e pure inguine, cacciando l’uomo urla disumane
a quell’ultimo
tormento che sortì l’effetto d’attirare
l’attenzione dei suoi commilitoni.
Indignatissimi, gli imperiali sopraggiunsero di corsa, tuffandosi per
liberarlo
dall’impari lotta in una confusa mischia di corpi e cazzotti.
Nel
frattempo, Hironimo scendeva quatto-quatto dalla gabbia,
approfittando della confusione col progetto di raggiungere indisturbato
il
limitare del bosco, là dove sperava essersi rifugiato anche
Thomà quando
l’aveva visto scappare dal padiglione di Mercurio Bua al
momento del suo cambio
di custodia. Il patrizio procedette dunque come i granchi, guardandosi
costantemente attorno e nascondendosi all’occasione dietro un
carro, un barile
o una tenda, soddisfatto da come i soldati fossero presi dalla loro
contesa –
accresciuta in una vera e propria rissa di campo –
apprestandosi col cuore in
gola allo scatto finale, quel lembo di terra vuoto tra
l’accampamento e la
selva.
Ancora un
po’ … ancora un po’ …
Hironimo
corse, maledicendo le gambe intorpidite dai lunghi giorni
di forzosa inattività e chiudendo la bocca onde risparmiare
ossigeno.
All’improvviso
una mano gli afferrò un lembo del camicione,
tirandolo indietro e, perduto l’equilibrio, ingamberandolo al
punto da cadere
prono per terra e trascinando seco il suo assalitore, che lo
soffocò col suo
peso. Subito Hironimo si sistemò supino e memore degli
esercizi di lotta libera
sulle spiagge del Lido roteò il bacino così da
portare le ginocchia all’altezza
del mento e, inarcandosi, strinse tra le cosce il collo del soldato
francese
per ribaltarsi prima sul fianco e poi sopra di lui, così da
finire l’uomo con
un pugno sul naso.
Al
francese che l’aggredì alle spalle, il giovane
Miani elargì
prima una frustata con le catene e poi, rotolando sulla schiena e
scivolandogli
alla giusta altezza, una tallonata sui testicoli.
Rimessosi
in piedi, il patrizio riprese la corsa ma oramai la sua
fuga era stata scoperta e in più lo insidiavano da
più lati, sia francesi che
imperiali. Ad uno egli afferrò il braccio e, torcendoglielo,
l’atterrò
dolorosamente. Ad un altro gli cinse le catene al collo per usarlo come
scudo
umano ed avanzare di qualche spanna; un altro ancora si
ritrovò piegato a
metà in avanti col braccio tra le gambe e
Hironimo, dandogli un
calcio ben assestato al sedere, lo usò come ariete di
sfondamento contro i suoi
compari. Il più abile tra questi riuscì ad
afferrarlo per il colletto del
camicione e lo strattonò verso di sé; facendo
perno con la gamba e tirando in
direzione opposta, Hironimo riuscì a divincolarsi in qualche
vorticosa
piroetta, pur stracciando l’indumento e ritrovandosi
letteralmente in mutande.
Nessuno
dei suoi avversari si giovava nella lotta di alcun’arma se
non delle proprie mani, evidente infatti l’ordine di
riportarlo vivo a chiunque
di quei masnadieri lo rivolesse indietro. Tuttavia, malgrado questo
vantaggio,
la stanchezza pesava sempre di più in Hironimo, man mano che
il gruppo di
soldati s’infoltiva e un “Ma va’ in
mona!”, gli sfuggì dalla bocca alla vista
di quel rotto-in-culo di Gambara raggiungere du Molard.
La
presenza dei loro comandanti evidentemente ringalluzzì i
soldati, desiderosi forse di non sfigurare, e di fatti uno di loro,
roteando
all’inverso la picca, mirò alle ginocchia e agli
stinchi del patrizio col
palese scopo di gambizzarlo. Concentrato ad evitare i colpi, Hironimo
non
poteva porre sufficiente attenzione a quanto gli accadeva alle spalle e
la sua
difesa ne risentì, divenendo gli attacchi avversari
più efficaci e la sua
reazione più lenta e imprecisa. Finché una
stoccata particolarmente maligna
alla caviglia gli strappò un mugolo di dolore, incrinandolo
in avanti; in
subitanea successione gli si calò un colpo
all’addome e, cadendo bocconi, sul
trapezio, atterrandolo e subissandolo di calci così da
impedirgli un
qualsivoglia centroattacco. Neanche il tempo di rialzarsi e quattro
paia di
mani afferrarono lo sfinito veneziano per le braccia, tirandolo in
direzioni
opposte manco volessero squartarlo vivo, la vista oscurata dal sudore e
dal
sangue che gli colava dalla fronte e le orecchie che gli martellavano,
ovattando le grida dei soldati.
Quand’ecco
che delle nuove voci più forti e più irose delle
altre
s’intromisero, sovrastandole. La pressione ai suoi muscoli
aumentò di
conseguenza e così il dolore, credendo Hironimo che se
avessero tirato ancora
qualche spanna in più gli avrebbero lussato la spalla come
nella strappata. Si
morse perciò le labbra a sangue, l’orgoglio troppo
radicato in lui per dar a
chicchessia la soddisfazione di vederlo urlare in agonia, come invece
faceva il
suo cuore: Mare … Mare ajuto! I me copan !
I me mazzan! Mare! Mare!
“Se
il Bua lo rivuole indietro, che se lo venga a prendere di
persona!”
Cosa? Che
stavano dicendo? Mercurio Bua non era morto a Treviso?
Poco
importava ciò che gli stradioti – ché
di loro si trattava –
avessero latrato di rimando. La stretta e la pressione alle braccia
svanirono e
come una marionetta senza fili Hironimo cadde per terra, respirando
liberamente, per poi accomiatarsi dal suolo e, in una vorticosa
capovolta,
trovarsi a contemplare la schiena di colui che solo
quell’energumeno di Zilio
Madalo poteva essere, a giudicare dall’altezza. E correva
anche veloce,
constatò Hironimo con strano distacco, osservando gli
sbraitanti
franco-imperiali alle loro calcagna e come Leka Busicchio aprisse la
strada a
Zilio a suon di pugni a chiunque gli si parasse
innanzi. Dopodiché,
preso un profondo respiro, il veneziano incominciò a mordere
e a graffiare il
volto del mercenario, rallentandolo e così per la par
condicio anche gli
stradioti dovettero faticar non poco onde salvarsi da
quell’immensa zuffa.
Nessuno
si accorse, nel parapiglia generale, degli uomini dalle
dubbie uniformi avvicinarsi alle zattere costruite per trasportare via
fiume le
artiglierie attese da Vicenza. Nessuno tranne forse un soldato tedesco
che,
notando alcune inesattezze nei colori, aveva
esclamato: “Du bist kein
Franzose!” per beccarsi una pugnalata sui reni e uno
sbrigativo:
“Et
no, beo ti!”
Liberatosi
della presenza ingombrante del tedesco, Bernardin fece
cenno ai suoi compari di sbrigarsi, rimanendo di vedetta onde captare
il minimo
interesse alle loro azioni. Quella rissa pareva un dono inviatogli da
San Liberale,
benedisse il trevigiano mentalmente il loro santo patrono, non poteva
capitare
più a proposito così da operare in fretta, a
colpo sicuro e senza neppur
attendere l’incerta complicità della notte.
Boicottati in pieno giorno nel loro
stesso accampamento, che smacco per quei boriosi! Appena rientrato a
Treviso,
l’uomo si ripromise di accendere un cero lungo un braccio
nella cripta del
Duomo, davanti alle reliquie del santo. [4]
“Dèmo
su! Lesti!”, li spronò, mentre i marciani
gettavano del
liquido viscoso e infiammabile sulle zattere.
Afferrate
delle braci da un bivacco abbandonato, Bernardin le
lanciò una per ciascuna imbarcazione. “Via,
via!”, intimò ai compagni di
correre veloci verso il bosco, prima che le fiamme
s’alzassero e inghiottissero
le zattere inermi.
***
“Cos’è
quella faccia? Non speravi che sopravvivessi?”
“E
con ciò? Che vuoi da me? Un applauso?”
Quando
Hironimo poté finalmente metter di nuovo i piedi per terra
fu nel padiglione di Mercurio Bua, là dove il suo
proprietario, terminata la
sua agonia sotto i ferri del cerusico, lo stava aspettando disteso
sulla
branda, la schiena appoggiata su di una pila di cuscini così
come la gamba
ferita. Il suo valletto d’arme l’aveva ripulito e
aiutato ad indossare una
camicia pulita, dal cui colletto aperto si notava la stretta fasciatura
e la
perspirazione della febbre che tuttora piagava il greco-albanese,
malgrado
l’espressione adesso meno delirante. Il condottiero si
limitò d’arcuare
scocciato il sopracciglio alla vista dei profondi e rossi graffi sul
volto di
Zilio, assai contento quest’ultimo d’essersi
liberato di quel gattaccio selvatico
antropomorfo che ora teneva in ginocchio ben fermo per le spalle. Non
che il
veneziano se la passasse meglio, pallidissimo e ricoperto
d’ematomi ed
escoriazioni manco un San Rocco.
“Va’
dalla tua nënë (mamma, ndr.)”, spinse
Mercurio col braccio
buono Thomà, il quale senza manco capire che accidenti gli
avesse ordinato
corse d’istinto verso Hironimo, il quale prontamente
l’abbracciò protettivo,
lanciando un’occhiataccia al capitano di ventura, accusandolo
dei più turpi
delitti.
“Adesso
che te l’abbiamo riportato, puoi startene tranquillo a
riposare?”, rimbeccò Leka Busicchio il suo
collega, interrompendo sul nascere
la vivace protesta che questi stava per rifilare al patrizio veneziano
e le sue
insensate chimere denigratorie. “Azzoppato e febbricitante
non ci sei affatto
utile! Anzi, una palla al piede!”
“El
xé senpre ‘na bala al pie”,
bofonchiò tra sé e sé Hironimo,
prontamente rampognato da un celere scappellotto da parte di Zilio.
“Ringrazia
il fratello di questa … pescivendola!”,
sbottò
petulante Mercurio, indicando il giovane Miani che gli rispose con un
gesto
assai scurrile delle dita e beccandosi un altro ceffone alla nuca.
“M’ha
fronteggiato da turco, quel vigliacco, altrimenti l’avrei
sgozzato io!”
“Sì,
ma intanto ci sei tu in barella e se non ti dai una calmata,
qui finisce che ti spediscono a Trento o a Milano a sbollire i tuoi
umori
biliosi!”, non si commosse Leka, arrabbiato quanto se non di
più del
conterraneo. “Inutile atteggiarti da struzzo: hai fatto una
figura di merda a
Treviso! Pertanto, se vuoi conservare un minimo di dignitosa
autorità in
quest’accampamento, ti conviene mantenere un profilo basso e
non impegolarti in
altre cazzate! E questo include …”
“Capitano!
Capitano!”, l’interruppe gridando uno stradiota,
irrompendo trafelato nel padiglione. “Fuoco! …
Fuoco! …”, ansimò, deglutendo
malamente l’aria.
“Come?
Dove?”
“Le
zattere! Le zattere per trasportare l’artiglieria! Sono
andate
tutte a fuoco! Non se n’è salvata nessuna! Il
campo è in subbuglio! Sono anche
scappati dei prigionieri! I tedeschi stanno entrando in tutte le tende
per
rubare cibo, vino, denari e Dio sa cos’altro!”
Un
silenzio mortale calò nella tenda e lentamente ogni sguardo
accusatore e incredulo cadde su Hironimo che, stringendo a
sé Thomà e
raddrizzando battagliero le spalle, berciò infastidito:
“Ciò! Non mi guardate
così ché io non c’entro
un’emerita cippa!” e notando come gli stradioti
continuassero a fissarlo astiosi, esclamò indignato:
“E come avrei fatto,
sentiamo? Mi stavate tutti attaccati al culo peggio delle mosche sul
latte, mi
dite come sarei riuscito a pestarvi e allo stesso tempo bruciare le
zattere e
liberare i prigionieri?” D’un tratto ansioso, si
rivolse a Mercurio: “Si è
trattata di una mera coincidenza, non ne sapevo niente!”
Il
greco-albanese lo squadrò a lungo, esitante. Il suo naturale
istinto gli diceva di non fidarsi, che molto probabilmente il patrizio
aveva
funto da specchietto per le allodole così da permettere ai
suoi conterranei
d’agire indisturbati, sfruttando
l’immunità conferitagli dal suo status sociale.
Dall’altra parte, però, suonava come un piano
esageratamente elaborato e basato
su parecchie variabili di natura troppo incerta per concludersi con
successo.
Semplicemente,
risolse il condottiero, il giovane Miani aveva
creato in maniera casuale e inconsapevole il momento giusto per gli
uomini
giusti.
“Zilio”,
comandò Mercurio, gli occhi sempre puntati su Hironimo.
“Lavamelo come si deve da capo a piedi, bendagli la ferita al
fianco e poi
dagli una delle mie camice pulite. Dopodiché, prendi la
chiave e aprigli uno
dei ceppi e richiudilo al mio polso, cosicché se me lo
vogliono rubare di nuovo
stavolta dovranno passare sul serio sul mio cadavere.
L’accampamento è in
tumulto, stanotte ci si può aspettare di tutto sia dai
marciani che dai
franco-imperiali! Armatevi dunque e vigili! Leka”, disse al
collega, ponendogli
una mano sulla spalla, “ti ringrazio per il tuo aiuto.
Ammetto d’aver agito da
sconsiderato e spero che tu voglia ancora combattere al mio fianco. E
per
cortesia taci, non ho mai sopportato i tuoi sentimentalismi”,
lo chetò avanti
che Busicchio potesse replicare. “Invece, piglia le cose di
valore dalla tua
tenda e i tuoi uomini più gagliardi: veglieremo assieme
finché la situazione
non si acquieta. Fai appostare i nostri ai padiglioni e ai cavalli e
spero che
nessuno qui tra voi abbia tanto sonno, ché sarà
una notte assai lunga …”
Sollevati
per il ritrovato polso del proprio comandante, simili ad
api gli stradioti s’adoperarono zelanti ad adempire alle
direttive di Mercurio
e in meno di un’ora si disponevano armati di tutto punto al
suo capezzale,
studiando accorti l’entrata della tende e le ombre convulse
che s’agitavano
dietro, stringendo la zagaglia o l’elsa della spada o
accarezzando nervosi
l’impennaggio delle frecce. Persino il convalescente stava
impugnando la sua
arma, il braccio incatenato ben stretto ai fianchi di Hironimo che a
sua volta
teneva Thomà sedutogli sulle ginocchia.
Tutto
questo in un silenzio da predatore, i respiri ridotti a
flebili sussurri e i cuori tuttavia tambureggianti in gola, in netto
contrasto
con le acute grida convulse che riecheggiavano all’esterno.
“M’ero
scordato di dirti”, mormorò piano Mercurio al
patrizio,
“adesso che siamo legati spero non ti scandalizzerai,
donzelletta mia, quando
dovrò usare il pitale!”
“Non
preoccuparti per me, pan de zucaro”, gli sorrise con
magnanima sufficienza Hironimo, pur tuttavia sperando che il suo tono
di voce
non tradisse la crescente ansia per la sorte sua e di Thomà.
Ironico come
dovesse affidarsi a quel satanasso onde sopravvivere. “Spero
invece non mi
creperai d’invidia, quando toccherà a me
pisciare!”
In altre
circostanze, il Bua gli avrebbe pizzicato il fianco a mo’
di punizione per quel suo umorismo puerile. In quel momento,
però, gli fu grato
d’averlo aiutato a sdrammatizzare e quindi distendergli i
nervi e ragionare più
lucidamente, specie quando la tenda prese a muoversi a causa dei primi
assalti,
scostandosi appena da rivelare la punta di una
lama e la mano che
l’impugnava ...
Continua
…
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Come
sempre, ricordiamo che le vicende qui sono romanzate per
supplire sia alla mancanza di fonti che alla concisione del Sanudo in
certi
eventi.
Un
contadino fuggito dal campo dei franco-imperiali notificò
come
essi fossero venuti pesantemente alle mani, così da fornire
un’occasione d’oro
ai marciani di bruciare le zattere destinate a trasportare
l’artiglieria.
Conoscendo i soldati mercenari, possiamo ben intuirne i motivi
– soldi, cibo,
donne, naturale antipatia tra francesi e tedeschi, etc. –
ciononostante, perché
non fare il Nostro la ragione di questo litigio? Inoltre,
sì, i soldati
dormivano armati e non per paura dei marciani bensì dei loro
stessi alleati,
poiché le ruberie nelle rispettive tende erano
all’ordine del giorno.
Se
pensate poi che Gian Paolo Gradenigo stesse esagerando nelle
sue fantasie su come punire i responsabili della morte di suo fratello
Giovanni
Gradenigo, hé, sappiate invece che quelli erano veramente i
metodi dei turchi,
per quanto orribili essi possano suonare.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] non sappiamo come Fra’ Giocondo
ideò
l’originale Ponte de Pria (Ponte di Pietra in italiano),
essendo la forma
attuale quella della ricostruzione del 1521, sotto la podesteria di
Priamo
Legio. Pertanto, abbiamo tenuto quanto più vaga la
descrizione.
[2]
Dateve cum un legno =
dattele in testa col legno, cioè
prenditi a legnate in testa, modo di dire per darsi una
calmata. Andar fora
de vada = fuori di testa, impazzire.
[3] Ss. Cosma e Damiano = protettori
dei medici e chirurghi, sono stati appunto due medici romani
martirizzati sotto
Diocleziano, gemelli e fratelli maggiori dei santi Antimo, Leonzio ed
Euprepio.
[4]
San Liberale = San
Liberale d’Altino, patrono di Treviso, di Castelfranco Veneto
e di tutta la
diocesi trevigiana, fu un militare, un predicatore e asceta, grande
avversario
dell’eresia ariana, che s’adoperò per
tutta la vita a sradicare dal territorio.
La leggenda, oltre che a legarlo ai santi martiri Teonisto, Tabra e
Tabrata, narra
che fu lui a salvare Treviso da un’incursione degli Unni o
dei Longobardi, a
seconda della versione.
Laisse-nous passer! C’est
un ordre! = lasciaci
passare ! E’ un ordine!
Wahnsinn! Meine Pflicht
ist es, die Befehlen zu gehorchen. Und mein Kapitän hat mir
gesagt, dass er
unser Gefangener ist! So … verschwindet-ihr alles! = Follie! Il mio dovere
è di obbedire agli ordini. E il mio
capitano mi ha detto ch’egli è un nostro
prigioniero! Quindi … sparite tutti!
Je ne parle pas allemand,
sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le
vénitien! C’est le
maréchal de La Palice qui le commande ! = Non
parlo tedesco, brutto
coglione! Smettila di rompermi le palle (lett. Lasciami in pace) e
dammi il
veneziano! È il maresciallo de La Palice che lo comanda!
Leckt
mich !
= sucamelo!
Veux-tu
désobéir au maréchal? Veux-tu pendre
au gibet? = vuoi
disobbedire al maresciallo ? Vuoi pendere dalla
forca ?
Wo ist denn mein
Kapitän? Was befehlt er? = dov’è
allora il mio capitano? Cosa comanda?
Est-ce qu’il n’y a pas un
foutu allemand ici qui connaît le français afin
d’informer ce fils-de-pute, que
le vénitien appartient au Roi de France? = non
c’è qui un fottuto tedesco che conosca il francese
da informare questo figlio
di puttana, che il veneziano appartiene al re di Francia?
Du
bist kein Franzose!
= Non
sei francese!