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Autore: Artemide12    09/03/2020    1 recensioni
Le resta solo l’ultimo atto. Deve solo morire.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Mint Aizawa/Mina
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'After and Before'
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IL CIGNO BLU capitolo 3

Il neon azzurro dell’insegna crea una pozza di luce blu sul marciapiede. Lo shop è l’unico della strada ad essere aperto.

L’interno è un collage di sgargiante arte moderna, musica trap e odori chimici sepolti da fragranze per ambienti. È l’ultimo posto in cui Mina riesce a immaginare se stessa. È il primo posto da tempo in cui c’è qualcosa di nuovo.

Un uomo con la testa rasata e una folta barba bionda – un vichingo mascherato in abiti moderni – ammicca da dietro il bancone. «Cosa posso fare per te uccellino?»

Mina stringe le bretelle dello zaino. Lascia che la porta a vetri si chiuda alle sue spalle, ma rimane a qualche passo di distanza dal bancone. «Ho appuntamento con Ebony Loo.»

L’uomo solleva le sopracciglia, squadrandola con aria scettica. Quando distoglie lo sguardo scrolla le spalle e si mette a frugare sotto al bancone. «Arriverà a momenti.» Le porge dei fogli stampati. «Intanto puoi compilare queste liberatorie. Posso avere un documento?»

Mina gli consegna la carta d’identità e si guarda intorno in cerca di una penna mentre l’uomo inserisce dati in un computer.

«Sette ore

Mina si trattiene dall’alzare gli occhi al cielo. «Posso pagare» si limita ad assicurargli. I suoi genitori non le hanno ancora bloccato la carta di credito. Si sono resi conto che manca da casa da tre settimane? Forse sfruttano le transazioni bancarie per sapere cosa fa e dove si trova. Forse prestano attenzione solo alle spese più ingenti. Forse noteranno questa. Forse no.

«Lo dico per te!» continua intanto l’uomo, rivolgendole per la prima volta un sorriso più rilassato. «Devi essere più tosta di quello che sembri.»

Mina ha la vaga consapevolezza di aver perso ulteriormente peso. Senza gli allenamenti per il balletto è sparita persino quel poco di fame dovuta alla stanchezza che le era rimasta.

«Diciotto anni di danza classica» commenta, e dal tono è chiaro che la conversazione deve chiudersi qui. Finisce di compilare la liberatoria, poi attende di riavere indietro la carta d’identità.

Si va a sedere su una poltroncina proprio accanto all’entrata. Le vecchie abitudini sono così radicate nei suoi movimenti che inevitabilmente accavalla le gambe, giunge le mani in grembo e raddrizza la schiena.

Contro il rosso fuoco della pelle sintetica, Mina non è che un’unica macchia nera – impermeabile nero, capelli neri, gonna nera, calze nere, scarpe nere, occhi neri, occhiaie. Ha dovuto ricomprare i collant perché quelli del balletto si sono strappati. Quelli nuovi sono più pesanti ma hanno delle cuciture micidiali.

Dall’altra parte della vetrina, la notte è buia e sconfinata.

Un orologio da parete ticchetta ogni secondo.

«Wilhelmina Aizawa?»

Mina trattiene un sussulto e solleva lo sguardo senza tradire la sorpresa. La ragazza davanti a lei è un pugno in un occhio – con guance e naso ricoperti di lentiggini disegnate, lunghissimi dreadlocks scuri annodati in una specie di coda, insetti tatuati praticamente a casaccio sulle braccia e una canottiera arancione accecante accostata a dei pantaloni mimetici.

«Sono io.» La sua voce suona più altezzosa di quanto volesse. Si alza in piedi con un secondo di ritardo. Ebony Loo è più alta di lei solo di qualche centimetro, ma la sua presenza è estremamente più imponente, come una tigre pimpante in confronto a un fantasma evanescente.

La segue in una delle stanze sul retro dello shop, oltre una porta con il nome “Bonnie” scarabocchiato sopra. Dentro, l’odore di candeggina impregna l’aria, bozze di disegni e illustrazioni di cartoni animati tappezzano le pareti e uno specchio è stato montato sul soffitto.

«Non ricordavo quale dei due design avessimo scelto alla fine quindi li ho stampati entrambi.»

Mina si issa sul lettino pieghevole al centro della stanza. I suoi piedi non toccano terra.

Ebony le mostra due stencil e lei indica quello più grande.

«Bene! A occhio direi che la dimensione è quella giusta, spogliati e cominciamo.»

Sotto l’impermeabile e lo scaldacuore, Mina non indossa nulla. Li piega velocemente, poi si stende a pancia in giù sul lettino.

Le mani di Ebony la fanno trasalire. Le strofina qualcosa di umido sulla schiena. Le fa cambiare leggermente posizione e applica lo stencil con estrema minuzia.

«Cercherò di procedere in modo simmetrico così se decidiamo di fermarci prima avrai comunque qualcosa di decente.» Mina odia che parli al plurale. «Sicura di non voler passare la crema anestetizzante?»

«Sicura.»

«Bene.» Ebony avvicina un carrello al lettino. Sopra ci sono delle garze pulite e una decina di bisturi diversi. «Cominceremo dalle incisioni e lasceremo le sezioni da rimuovere alla fine. Ti senti pronta?»

Tutto ciò che Mina sente è un’opprimente nostalgia. Di casa, del passato. Della lotta e di emozioni vere. Di uno scopo.

«Sono pronta.»

Segue il rumore di plastica stirata mentre Ebony indossa guanti di lattice, poi di metallo che urta altro metallo. Una mano si poggia sulla sua schiena.

«Allora ci siamo.»

La lama è fredda e sottile. La prima incisione è appena sotto la spalla, rapida e precisa come il taglio di un foglio di carta. Non causa che un brivido.

La seconda è più fastidiosa. Si protrae per un secondo di troppo e Mina si ritrova a contrarre i muscoli. Gira la testa di lato, appoggia la guancia sulle mani e si impone di rilassarsi.

La terza incisione è più profonda. La lama si trascina dietro una linea di fuoco.

«È sopportabile? Vuoi qualcosa da mordere o--»

«Continua e basta.» Mina solleva la testa quanto basta per rivolgere alla tatuatrice un’occhiataccia.

Ebony sta per risponderle a tono, quando lo sguardo le cade sui suoi polsi e sulle cicatrici esposte. Nessuna è fresca ma tutte sono profonde. Mina riabbassa la testa in modo da coprirle e chiude gli occhi.

Un momento più tardi, le incisioni riprendono. Ebony non riapre bocca per quasi tutto il processo e i suoi gesti si fanno via via più ravvicinati e più decisi.

Il disegno è fatto di tratti semplici, quasi stilizzati sulle scapole e poi sempre più allungati e incurvati via via che scendono su tutta la schiena.

Sotto la pressione delle lame, la sua pelle si piega prima di spaccarsi. Da alcune ferite sgorgano brevi rivoli di sangue, caldi e umidi come lacrime. La maggior parte delle incisioni si limita a esporre carne viva.

È strano – sentirsi aprire così, sentire l’aria infiltrarsi nel suo corpo attraverso tante piccole crepe.

Ebony alterna lato su cui lavora, coprendo l’altro con della plastica.

Mina rimane perfettamente immobile. Anche quando le gambe cominciano a protestare per aver mantenuto la stessa posizione troppo a lungo, le braccia le si intorpidiscono e la sua schiena è così in fiamme che deve mordersi la lingua e le guance e le labbra e si sente girare la testa.

Il dolore è qualcosa a cui aggrapparsi. Reale, tangibile. I fantasmi non soffrono.

Accetta di fare una pausa solo per farsi dare uno specchio. Lo angola in modo da poter vedere il proprio riflesso sul soffitto.

Il suo battito accelera all’istante. I colori sono sbagliati – rosso e rosa e marrone invece di blu e nero e azzurro – ma la forma è quella giusta. I contorni combaciano con i suoi ricordi.

Le ali. Le sue ali.

Non le stesse che ha perso, non quelle che vorrebbe, ma di nuovo reali.

A furia di tagliar via la pelle stanno riemergendo.

E si stanno fossilizzando. Queste ali non potranno sollevarla in volo, saranno scolpite sulla sua schiena, ruvide e statiche. Questo è un rito funebre, una mummificazione, non una rinascita. È la liberazione e la rassegnazione di un’idea finalmente messa su carta.

Ebony riprende e Mina segue i suoi movimenti attraverso gli specchi.

Ogni nuova incisione, ogni porzione di pelle rimossa, è un’altra piuma che viene cementata nella sua carne. Questo è il lutto che le è stato negato quando i suoi poteri sono spariti da un giorno all’altro.

Ci sono cicatrici nelle sue cellule, in tutti quei punti in cui il dna animale è stato inserito e poi cancellato?, oppure si sono rigenerate abbastanza da aver dimenticato la mutazione? E se questo è il suo default biologico perché allora la sua mente si aggrappa ai ricordi di un’altra forma?

Probabilmente sviene. Per un po’ tempo e spazio perdono di significato e quando lo riacquistano sono in qualche modo distorti. Sfasati.

Ebony è seduta davanti a lei invece che alle sue spalle. Le porge un bicchiere d’acqua.

Mina allunga immediatamente una mano per prenderlo e tutta la sua schiena urla in protesta, pronta a spaccarsi in mille pezzi. Le sfugge un sibilo, poi si costringe a bere in piccoli sorsi anche se la sua gola è in fiamme. Quando il bicchiere è vuoto, torna a stendersi.

«Possiamo riprendere.»

Ebony ha l’aria esausta. «Abbiamo finito.»

Mina risolleva lentamente la testa, pronta a giurare che stia scherzando. Ebony si sfila i guanti e li getta in un cestino insieme alle garze sporche. Allontana il carrello dal lettino e comincia a mettere via i bisturi.

Mina recupera lo specchio.

Sotto uno strato di plastica, le sue ali giacciono ripiegate sulla sua schiena. Immortalate nella loro posizione di riposo. Per quanto si concentri, non riesce a muoverle neanche un po’. Fanno male, ma è un dolore destinato a morire.

Una lacrima la coglie di sorpresa. Le rotola lungo la guancia prima che possa trattenerla o asciugarla. Poi altre ne seguono la scia.

  
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