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Autore: Red_Coat    18/03/2020    1 recensioni
Questa è la storia di un soldato, un rinnegato da due mondi. È la storia del viaggio ultimo del pianeta verso la sua terra promessa.
Questa è la storia di quando Cloud Strife fu sconfitto, e vennero le tenebre. E il silenzio.
Genere: Angst, Guerra, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cloud Strife, Kadaj, Nuovo personaggio, Sephiroth
Note: Lime, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'L'allievo di Sephiroth'
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"Indossò il suo odio come una crudele seconda pelle"
-Anonimo-
 
Il marchio del Pianeta, questo era il significato letterale del termine con cui era stato identificato il morbo che aveva colpito gli abitanti di Gaia subito dopo la caduta di meteor. Ma forse proprio per questo non era il termine più adatto, perché presupponeva che dietro la sua nascita e repentina diffusione ci fosse l'ira do un essere che aveva dimostrato di essere senziente solo fino a un certo punto.
L'ira, o almeno quel genere di ira vendicativa e crudele, sanguinaria, erano sentimenti radicati solo in fondo a un cuore di natura umana.
 
***
 
La strada verso il ghiacciaio era lunga e pericolosa, man mano che ci si avvicinava il gelo diventava sempre più persistente e le tempeste più frequenti, al contrario degli umani che invece erano sempre meno individuabili.
Dopo aver attraversato il passo ed essersi perso a contemplare la forza con cui il vento gelido sferzava i fiocchi di neve, Victor Osaka decise di fermarsi a riprendere fiato alle terme di Modeoheim, allettato dall'idea di un bagno nelle fonti termali ormai abbandonate.
Fu una delle poche cose positive, anzi l'unica perché non appena calò la notte gli incubi e i ricordi tornarono a tormentarlo con una potenza rinnovata, tenendolo sveglio a lungo, gli occhi gonfi e arrossati dal pianto e dalla stanchezza e l'animo sfinito, come se non fosse abbastanza la stanchezza già accumulata.
Per primo tornò a trovarlo lo spirito di Angeal, sotto forma del peggiore dei suoi incubi, lo stesso che lo aveva terrorizzato la notte in cui aveva dipinto la sua morte.
Ed esattamente come quella notte tremò, pianse ed ebbe freddo, combattendo nuovamente con la febbre e i brividi dovuti al sudore che a contatto con l’aria gelida della notte gli si era ghiacciato sulla schiena, peggiorando ulteriormente le sue condizioni. Neanche l’alcool che ingurgitò nel tentativo di riscaldarsi un po’ lo aiutò, anzi non fece che peggiorare il suo stato psicofisico. Arrancava alla ricerca di caldo, nonostante la folta pelliccia che rivestiva il suo nuovo soprabito; quello vecchio lo aveva ancora, sotto di esso, perché la pelle avrebbe dovuto fungere da isolante.
Ma forse non era colpa del soprabito né delle basse temperature, forse il freddo che provava veniva da molto più in fondo, da quella parte di lui che c’era sempre stata e non se ne sarebbe andata mai, sopravvivendo perfino alla scomparsa del corpo. E che ora, ancora una volta, lo stava chiamando.
Poco prima del sorgere definitivo del sole, risvegliatosi dall’ennesimo incubo che gli aveva strappato di forza un urlo dalla gola, ora brucente e arrossata, decise di rimettersi in marcia, sempre più stanco, l’ultima sigaretta tra le labbra e grumi di lacrime rapprese sulle ciglia lunghe e sottili.
Avanzò verso nord est, tenendo ben salde tra le mani la bussola ma senza nemmeno guardarla davvero. C’era una voce che lo aveva svegliato da tutti quegli incubi appena avuti, le cose che diceva cambiavano ma il timbro era sempre lo stesso, inconfondibile.
 
“Hey, tu.”
“Vieni a provarci.”
“Come osi?”
“Va tutto bene?”
“Basta, smettila adesso!”
 
Un bambino. Ma un bambino che aveva già sentito, durante uno dei suoi sogni più inaccessibili.
Una frase per ogni sogno, come se volesse scacciarlo, farsi largo tra la ragnatela confusa da essi creata e strapparlo all’angoscia, ora che non c’era più nessuno a farlo.
E ogni volta quello spettro fastidioso gli lasciava qualche istante prima di ritornare all’attacco, come se stessero duellando tra di loro e lui fosse solo un campo di battaglia da difendere.
Solo riflettendoci però capì che non era tutto. “Va tutto bene?”
Quella frase … anche il suo Generale gliel’aveva rivolta, quando erano ancora maestro e allievo, anche più di una volta.
Possibile che …?
 
***
 
Verso mezzogiorno il cielo si rischiarò e la tempesta che aveva vorticato sulla sua testa fino a quel momento sembrò dissolversi, lasciandolo solo col cielo azzurro e una strana confusione chiara nelle mente. Sembrava come se non riuscisse a ricordare altro se non ciò che stava facendo in quel momento, ovvero camminare e proseguire sempre diritto fino alla prossima meta, e quando ricordi vaghi sfioravano la sua mente erano sempre relativi a un passato troppo remoto per salirgli in cuore oppure ai suoi sogni; in entrambi i casi comunque lui non sembrava avere alcun potere su di essi, potendosi limitare solo ad osservarli apparire e scomparire come gli sbuffi del suo respiro caldo contro l’aria gelida.
Lo aiutarono ad ignorare la fame e la stanchezza fino a che, un’ora dopo, il suo corpo non decise che ne aveva abbastanza e si spense di colpo, facendolo precipitare nel manto di soffice e fredda neve che ricopriva il sentiero senza che lui avesse anche solo il tempo di accorgersene.
 
***
 
Si risvegliò all’interno di un piccolo ambiente illuminato fiocamente da qualche torcia. Era una piccola casa di legno, a due piani. Lui si trovava al piano terra, disteso su una semplice coperta vicino ad un piccolo falò acceso, su cui bolliva una pentola di bronzo che aveva tutta l’aria di borbottare qualcosa di buono.
Dal piano di sopra provennero rumori di passi, un vecchio alto e dal viso spigoloso scese le traballanti scale reggendosi ad un bastone di legno scuro e si avvicinò a lui, accogliendolo con un sorriso rassicurante.
 
«Come vi sentite?» chiese, toccandogli la fronte «Per fortuna la febbre è sparita, se foste rimasto un altro po’ nella neve avreste rischiato di rimanerci seppellito.»
 
Si stranì.
 
«Dove mi trovo?» chiese per prima cosa, mormorando con un filo di voce, poi però cambiò subito idea «No, anzi … da quanto tempo sono qui?»
 
Il vecchio ridacchiò, mentre attizzava il fuoco e dava una controllata alla zuppa. Cereali. O fagioli rossi? Sentì lo stomaco rianimarsi e chiedere la sua parte. Se lo coprì con una mano e lo sgridò digrignando i denti. “Fa’ silenzio, cretino!”
L’uomo che lo ospitava sorrise senza farglielo capire, poi prese dall’unica credenza lì vicino tre scodelle di legno e le mise una affiancò all’altra, riempendole. Nel frattempo rispose alle sue domande con calma.
 
«Siete nel mio rifugio, io mi chiamo Dan e sono un esploratore. Sono rimasto bloccato qui dallo scorso inverno, poi c’è stata l’apocalisse e ho deciso di restare. Mi sembrava il luogo più sicuro e poi …»
 
Si fermò, ascoltando i lamenti provenienti dal piano di sopra. Victor si mise in ascolto con attenzione. Sembrava una voce maschile, ma non riuscì a dirlo con certezza, aveva i sensi ancora un po’ ovattati e i rumori si spensero quasi subito.
Vide il vecchio Dan sospirare.
Scosse il capo, sospirando tristemente.
 
«Arrivo, Ben!» disse col tono più rassicurante che riuscì a trovare.
 
Poi prese due delle tre ciotole e gliene mise una vicino, dirigendosi al piano di sopra con l’altra.
 
«Scusami, torno subito.»
 
Mentre lo aspettava, Osaka si tirò su e prese d’assalto la zuppa, tirando un sospiro di sollievo dopo averla finita, sorprendendosi egli stesso della propria voracità. “Dio mio, ma da quanto tempo non mangiavo?”.
Si pulì le labbra con il fazzoletto di seta che portava sempre in tasca, ripromettendosi di lavarlo il prima possibile, poi tornò a stendersi, fissando le travi del soffitto, la mente ora un po’ più limpida.
I lamenti dal piano di sopra ripresero a farsi sentire, l’uomo sembrava soffrire parecchio e ad un certo punto mentre si affrettava ad aiutarlo il suo compare tento di rassicurarlo.
 
«Non agitarti, Ben! Così peggiori la situazione. Va tutto bene, sta tranquillo. Tutto si sistemerà.»
«Li vedo ancora, Dan! Ancora quel mostro, quegli occhi …» gemette con un singhiozzo.
 
Victor, che aveva chiuso le palpebre per un istante, le riaprì di colpo accigliandosi. “Occhi? Quali occhi? Quale … mostro …?”
 
«È un incubo, solo un incubo! Sta calmo.» fece nel frattempo l’altro, con la voce sempre più incrinata dal nervosismo «Se continui ad agitarti così te ne andrai anche prima del previsto …»
«Sarebbe meglio, Dan …» piagnucolò disperatamente «Sarebbe davvero meglio andarmene per un infarto e non per questa … piaga orribile! Come ha fatto a trovarmi? Come? Sono sempre stato qui, lontano dal mondo! Che razza di diavoleria è?»
 
L’ex SOLDIER si mise a sedere a gambe incrociate, tornando ad ascoltare con attenzione la conversazione che ora si era fatta davvero interessante. Morbo? Che parlassero … di quel morbo? Aveva solo sentito parlare del Geostigma, durante quel suo viaggio. Si diceva che a Midgar gli infettati fossero molti ma che col trascorrere del tempo si stesse espandendo per tutto il globo, senza una definizione precisa. Molti pensavano ancora che fosse infettivo, ma quella superstizione stava venendo smentita dall’esperienza.
Non c’era ancora una cura, né una spiegazione logica. La gente che lo contraeva al di fuori della grande città non aveva avuto contatti coi superstiti, e durante la caduta di Meteor era al sicuro, a casa. Per contro, molti che erano rimasti a Midgar non lo avevano contratto, come sua madre ad esempio.
Ci aveva pensato a lungo, quasi ossessivamente, niente affatto convinto dalla spiegazione che ne davano gli altri, che fosse stato il pianeta stesso a produrlo come una sorta di controindicazione alla guerra che aveva combattuto.
No, doveva esserci un altro motivo dietro, e quelle parole all’improvviso sembrarono rendere ancor più limpido quel concetto …
Smise di ascoltarli, assorto in quei pensieri. La mente prese ad elaborare teorie e a scartarle, come fossero forzieri da aprire e controllare il più velocemente possibile per riuscire a trovare quello col tesoro nel più breve tempo possibile.
 
«Shh, Ben!» il vecchio tornò ad ammonire l’amico «Abbiamo ospiti. Mangia la zuppa e fa silenzio. Risparmia il fiato per la prossima crisi.» gli consigliò.
 
Poi gli spiegò in breve chi fossero gli ospiti e un’altra domanda si aggiunse a quelle che indussero il Soldier alla riflessione.
 
«Ha anche lui il geostigma?»
«No, non credo.»
«Allora non dovevi farlo entrare. E se fosse infettivo? Se si ammalasse per causa mia?» protestò a quel punto Ben.
«Ma che dici? Non è infettivo, a quest’ora dovremmo essere ammalati entrambi, non trovi?» fu la replica «Mangia, mangia. Hai bisogno di nutrirti!» lo incoraggiò poi.
«A che serve? Tanto morirò ugualmente …» concluse l’altro, prima di accettare il consiglio.
 
Dan scese nuovamente al piano di sotto senza replicare, limitandosi a scuotere la testa con fare rassegnato. Nel mentre Victor ritornò a pensare. “Non è infettivo … ma allora cos’è? Da dove viene?”
Sembrava davvero che da quelle risposte dipendesse la sua vita, e non riusciva a capirne il motivo, sapeva solo che doveva trovarle.
 
«Eccomi qua.» disse il vecchio, tornando ad attizzare il fuoco e poi sedendoglisi di fronte «Scusami, ma stiamo vivendo una situazione complicata, non ha altri al di fuori di me ad aiutarlo. Pensandoci è stato un bene che siamo partiti insieme.»
«Da quanto tempo sta male?» gli chiese lui
 
L’anziano ci pensò un attimo su.
 
«Da circa un mese dopo la caduta della meteora.» ricordò, scuotendo le spalle «Eravamo usciti in cerca di cibo, lui è caduto in un lago ghiacciato su cui stavamo pescando e … lo ha preso. Così … quando l’ho tirato su n’era pieno, oltre che tremante dal freddo.»
 
“Acqua? Com’è possibile? A quell’altezza, così lontano da Midgar?”
 
«Non ho mai incontrato un malato di stigma prima d’ora. Dev’essere doloroso...» chiese.
 
Doveva sapere. Doveva capire.
L’uomo sospirò annuendo profondamente.
 
«Ha spesso forti dolori, incubi e febbre alta… io …» all’improvviso si fece triste, quasi disperato.
 
Si nascose le palpebre dietro una mano e soffocò un singhiozzo, scuotendo il capo.
 
«Vorrei tanto che ce la facesse, ma …»
 
Singhiozzò in silenzio, angosciandolo. Victor da parte sua sentì un nodo tornare a stringerglisi in gola e la situazione peggiorò quando l’uomo si decise a rivelargli.
 
«È il mio unico fratello … ho solo lui a questo mondo, nessun altro … sé se ne va anche lui, cosa mi resterà?»
 
Il silenzio all’improvviso si fece ancora più fitto e rumoroso del solito, il cuore batté all’impazzata e gli occhi tornarono ad empirsi di lacrime che con tutto sé stesso Osaka cercò di scacciare, ingoiando a fatica un groppo e stringendo i pugni.
 
«Scusami. Scusami tanto, mi sono lasciato andare, non avrei dovuto …»
 
Si riprese il vecchio, ma ormai la frittata era fatta.
 
«No, non preoccupatevi.» rispose lui, facendosi serio, gli occhi felini accesi di una luce determinata ma ora leggermente più cupa «So come vi sentite, davvero. Io ho perso mio fratello, poco prima dell’apocalisse … e non c’è giorno che non passi senza piangerlo …»
 
Le labbra s’incresparono in una smorfia di dolore, il respiro divenne più pesante. Abbassò lo sguardo, puntando le sue pupille verso il pavimento di terriccio scuro.
L’uomo si sorprese, poi però gli appoggiò una pacca sulla spalla che, inaspettatamente, servì allo scopo di confortarlo.
 
«Se posso fare qualcosa …» gli disse.
 
Un sorriso lieve apparì sulle labbra sottili dell’allievo di Sephiroth.
 
«Avete già fatto abbastanza, ora è il mio turno. Se c’è qualcosa che posso fare per voi, lo farei volentieri.»
 
A rispondere fu l’altro inquilino, dal piano di sopra. Prima un urlo di dolore che allertò entrambi, poi una supplica quasi straziata.
 
«Un modo per smettere di farmi soffrire!» disse l’altro «L’avete? Qualsiasi modo, lasciate stare quello che dice mio fratello …» la voce rotta, affaticata «Anche la morte sarebbe mia amica, adesso … se solo la incontrassi.»
 
Il vecchio Dan abbassò nuovamente il capo, scuotendolo con vigore.
 
«Sta’ zitto Ben! Non sai cosa dici.» lo ammonì dal piano di sopra.
«No, tu non lo sai!» gli rispose quello, poi si rivolse direttamente a Victor «Vieni qui straniero. Devo dirti un paio di cose, prima che sia troppo tardi per farlo.»
 
Lui sospirò. Non era dell’umore adatto a raccogliere le ultime volontà di un estraneo, ma sembrava importante, e poi … doveva vederlo. Il geostigma, aveva bisogno di constatarne gli effetti personalmente, per poter capire. Gli mancava un tassello, e confrontarcisi avrebbe potuto procurarglielo, quindi decise di alzarsi e raggiungerlo, lasciando l’altro ai suoi tormenti.
Salì lentamente gli scalini in legno scricchiolanti, uno ad uno, un passo dopo l’altro senza fretta. Quando arrivò in cima trovò l’uomo, più giovane, alto e possente, disteso in un letto fabbricato artigianalmente, con un materasso imbottito di paglia ed una coperta fin troppo leggera come unico riparo dal freddo.
Si fermò per un istante a guardarlo da lontano, riscoprendosi intimorito. L’uomo lo guardò, e quasi subito tornò a lamentarsi, reggendosi le tempie con le mani.
Osaka attese, fermo al suo posto, che fosse lui a chiedergli di avvicinarsi, dopo essersi ripreso.
Era più giovane, si. Forse cinquant’anni o qualcosa di più, ma comunque molto più giovane rispetto all’altro.
E una grossa macchia di lifestream gli ricopriva parte del volto e tutto il braccio destro, profonda e purulenta, come la peggiore delle ferite infette.
Rabbrividì, ma s’impose di rimanere lucido. Vide una smorfia apparire sulle labbra dell’uomo.
 
«C-chi sei tu … ragazzo? D-Da … da dove vieni?» domandò, gli occhi sgranati come se avesse appena assistito ad un apparizione.
 
Victor non rispose. Si limitò ad osservare quegli occhi, il volto sudato e terrificato, stremato dalla fatica, e senza quasi pensarci si mosse seguendo l’istinto. Allungò una mano verso la piaga nera che occupava la fronte, e non appena la toccò fu come … sentire quel dolore. L’uomo urlò, di nuovo in preda alle visioni, e per poco non lo fece anche lui, piangendo. Vide nuovamente quella creatura, quella che suo fratello chiamava madre, e Sephiroth … la sua rabbia, il suo dolore. Lo sentì ridere, come il giorno in cui era morto, e all’improvviso capì. No, certo. Ovviamente non poteva essere il pianeta il responsabile, ma Sephiroth sì, lui poteva, perché la morte non era altro che l’ennesima via d’accesso ad un’altra vita.
Era come gli aveva detto: “Non ti starai rammaricando per la perdita di questo corpo mortale?
Non era il momento giusto. Gli unici a doverlo fare erano coloro che avevano creduto di essere salvi.
 
«Ben! Ben!»
 
La voce spaventata dell’uomo che lo aveva salvato lo riscosse di colpo, riportandolo alla realtà. Lo lasciò andare, spostandosi un passo indietro per far spazio a lui, che s’inginocchiò al capezzale del fratello, ormai morente.
Lo sforzo era stato troppo, per un fisico già così debilitato. Ma mentre lo guardava Victor pensò che adesso anche nei suoi occhi c’era una luce diversa. Quella che gli altri chiamavano crisi, in realtà era tutto ciò che restava di Sephiroth che cercava di emergere, di riappropriarsi di un corpo, anche se non era abbastanza.
Ci voleva qualcosa in più, per poterglielo permettere. Ma cosa? Anche se divisa in mille frammenti, l’anima del generale stava cercando di ricomporsi e rinascere, e a lui mancò il fiato.
“Cosa devo fare, Sephiroth?” tornò a parlargli, per la prima volta con un po’ più di speranza, o forse era solo l’ennesima disperata illusione “Che vuoi che faccia per aiutarti? Qualsiasi cosa!”
I suoi occhi si riempirono di lacrime, fraintese da Dan che nel frattempo aveva visto suo fratello chiudere gli occhi per sempre, e ora gli si buttò al collo, piangendo e urlando il suo nome, chiamandolo e disperandosi.
Osaka lo fissò senza parlare, gli occhi pieni di lacrime che iniziarono a scivolare lente verso terra, in silenzio, l’espressione atona, il cuore in cenere.
 
«Non essere triste, Dan …» mormorò quindi, posandogli una mano sulla spalla «Non piangere e lascialo andare, molto presto vi rivedrete. In fondo … la morte non è che l’inizio di qualcosa di nuovo, e giuro che le vostre sofferenze non saranno vane.»
 
Il vecchio lo scrutò senza capire. Non era necessario che lo facesse, non ora, perciò gli voltò le spalle e se ne andò, riprendendo il suo cammino solitario verso la prossima meta.
“Portalo con te, Sephiroth. Ora il Pianeta ti appartiene, anche se … non è affatto come avevo immaginato. Era questo il tuo piano? Davvero?”
 
***
 
Per Vincent Valentine non era stata affatto piacevole la visita dei suoi ex colleghi nell’angolo di paradiso che era riuscito a crearsi nonostante tutto, a Kalm. Ma non tutti i mali vengono per nuocere, si dice, e quella breve chiacchierata almeno gli aveva permesso di buttar giù un piano, tanto per cominciare.
Prima aveva bisogno di conoscere il nemico, i suoi ultimi spostamenti e la sua attitudine. In questo specialmente Reno gli aveva dato una grande mano, raccontandogli diverse cose sul passato di quell’uomo che, a poco a poco, anche se tendeva sempre a rimanere a debita distanza emotiva dai suoi obiettivi, gli aveva regalato un ritratto diverso da quello che si era dipinto nella sua mente in un primo momento.
Ex SOLDIER first class, unico allievo di Sephiroth, e questo già diceva molto sul suo conto anche ad uno come lui che era stato “lontano dalle scene” durante gli anni dell’ascesa di quest’ultimo. Si era congedato non appena lo aveva fatto anche il suo maestro, dopo aver completato la missione assegnatagli e l’addestramento delle sue reclute, e questa era un’altra informazione fondamentale. Era un nemico da non sottovalutare, scrupoloso e ligio al dovere, ciò significava che non era da escludere nessuna pista, nemmeno quella più improbabile.
Poi c’era il lato umano, ed era questo a metterlo più in crisi, anche perché … erano tante le cose che li accomunavano, sorprendentemente. Più di quanto avesse pensato.
Tanto per cominciare, la Shinra gli aveva portato via un padre e un figlio ancora piccolo, e per questo ora lui mirava alla vendetta. Peccato che fosse stato Reno ad innescare la bomba, fatalità che li aveva già portati a scontrarsi e aveva rivelato altri aspetti più pericolosi della sua personalità.
Quanto era profonda la sua devozione, il suo senso di protezione e il suo affetto verso coloro che aveva perso o che voleva proteggere, tanto più era cieca la sua rabbia e crudele il suo modo di combattere. Non si risparmiava, ma ancora non aveva ucciso nessuno di loro. Ecco spiegato il motivo per cui avevano deciso di rivolgersi a lui, che non era conosciuto dal nemico come un “cane della Shinra”. Non più per fortuna.
L’ultima volta che era stato visto era al cratere nord, poco prima della caduta di meteor, ma negli ultimi giorni erano avvenuti fatti inspiegabili e tremendi alla popolazione di Junon, sui quali i turks avevano indagato per primi. Tuttavia c’erano molte altre questioni di cui occuparsi ora, prima fra tutte la protezione del Presidente che stava cercando di ricostruire una nuova città sulle ceneri di Midgar, perciò avevano deciso di “affibbiargli” quel compito, trovando l’inaspettato appoggio di Chaos.
Anche lui aveva qualche domanda da fare a Victor Osaka, perciò aveva accettato ed era partito, nonostante l’idea di tornare a lavorare per il suo vecchio padrone non gli piacesse affatto. Non aveva trovato molto a Junon, solo un silenzio surreale e macchie di sangue rappreso nella casa del capo villaggio. Mancavano armi, alla cittadella, particolare che nessuno stranamente aveva notato. Non era una buona notizia, ed essere il primo a saperlo gli restituì la sensazione che in realtà i turks non avessero voluto farlo. Ne avevano ancora una paura matta, tutti quanti, perfino Tseng che sembrava quello meno coinvolto. Forse non era stato Victor Osaka, si disse, forse erano stati gli abitanti del villaggio a prenderle, o magari qualche banda di predoni che aveva voluto approfittare dell’assenza di controlli. Forse, o forse no. Quello non era il momento per sottovaluta la situazione, perciò si diede del tempo per pensare, e per il momento decise di ritornare a casa, a Kalm, dove altre notizie piuttosto inquietanti lo raggiunsero prima che agli altri.
Fu Reeve a chiamarlo. Aveva messo su un’organizzazione che si occupava di preservare la rigenerazione del pianeta e dell’umanità. Monitorava i casi di Geostigma, dava aiuto ai superstiti e svolgeva anche operazione di sicurezza.
Circa tre settimane più tardi il suo nome apparve sullo schermo del suo cellulare, in modalità silenziosa.
 
«Vincent, ho sentito Reno, so che ti stai occupando di … quel caso.»
 
Perfino lui che non lo aveva mai conosciuto ne aveva paura. Neanche fosse uno spettro terrificante evocato dal suono del suo stesso nome.
 
«Sono contento che sia così, ma credo che ti servirà aiuto da adesso in poi.»
«Perché?» chiese, insospettendosi.
«Ti raggiungerò domattina, ne parleremo di persona.» gli rispose quello, facendolo sospirare.
 
E ti pareva. Mai una volta che riuscissero a lasciarlo in pace, ma … quell’assenza di altre prove era sospetta in effetti, sperava solo che quell’incontro fosse in grado di procurargliene altre.
 
***
 
Reeve si presentò a casa sua l’indomani mattina, puntuale come un orologio, e portò con sé degli audio di alcune testimonianze e alcune foto che quelle persone avevano scattato con i loro cellulari. C’era perfino un video, talmente inquietante e irreale da sembrare quasi artefatto, e il dubbio gli venne quasi subito infatti.
 
«Zombie?» chiese, accigliandosi.
«Sembra impossibile, vero?» assentì l’altro, mostrandosi d’accordo «Anche io avevo i miei dubbi, per questo ho inviato qualcuno dei miei ragazzi lì, per tentare di trovare questa creatura, e …» si fece scuro, sospirò pesantemente.
«Immagino l’abbiate trovata.» concluse lui la frase al suo posto.
 
Questi si limitò ad annuire.
 
«Siamo riusciti a sedarla e trasportarla alla base, ma i nostri laboratori non sono ancora completi per poterla studiare appieno.» gli spiegò serio «Dalle prime analisi tuttavia, sembrerebbe essere davvero ciò che immaginiamo. Inoltre, inspiegabilmente, ha una forza e una rapidità sovrumana.»
«Avete avuto perdite?»
 
Tuesti si fece nuovamente scuro, annuendo.
 
«Tre dei cinque soldati che avevo inviato, nonché due membri della servitù dell’uomo. La cameriera è morta poco dopo averci chiamato, è stata aggredita alle spalle …»
 
Chiuse gli occhi, voltandogli le spalle e stringendo i pugni.
 
«Se solo avessi visto in che condizioni erano ridotti …» bofonchiò tristemente, ma subito dopo tornò a guardarlo quasi implorandolo «Per questo non voglio che tu vada da solo. Ho portato qualcuno dei miei, ci aspettano fuori. Ti accompagneremo sul posto e ci manterremo in contatto. La WRO si è assunta il compito di gestire questa storia. Non oso nemmeno immaginare cosa accadrebbe se quegli esseri si moltiplicassero, e …»
«Cosa ti fa pensare che Victor Osaka centri in questa storia?»
 
Calò per un attimo il silenzio, uno strano e teso.
 
«Quanto sai di lui?» gli disse.
 
Vincent inclinò di lato il capo corrucciandosi, in ascolto.
 
«Va bene…» annuì questi «Andiamo, ti spiegherò tutto strada facendo.»
 
***
 
C’era un documento tra i file riservati del professor Hojo. Un documento che riguardava proprio Victor Osaka e ciò che era riuscito a scoprire in merito, ovvero … nulla.
L’unica cosa che li aveva insospettiti era stato quello strano rapporto fatto da uno dei suoi apprendisti alla fine dei test subito dopo averlo arruolato. Parlava di “elevata adattabilità alle cellule di tipo J” e di “capacità di assorbirne le caratteristiche senza mutazioni nel corpo e nella mente”.
Era difficile per i non addetti ai lavori capirne il significato, ma per chi come loro aveva in qualche modo appreso i fondamenti del progetto Jenova questi poteva significare una sola cosa.
 
«In SOLDIER erano in molti a sostenere che Victor Osaka fosse il degno erede del suo maestro, alcuni dei miei ragazzi prima lo erano e i più vecchi se lo ricordano. Quando Sephiroth scomparve, a Midgar molti iniziarono a contare sulla sua presenza per sentirsi al sicuro, nonostante anch’egli fosse lontano dalla città in quel momento. Lo hai mai visto combattere?»
 
Vincent andò indietro con la memoria al loro primo scontro, almeno per quello che riusciva a ricordare fino al momento in cui Chaos aveva preso il contro.
Annuì, e Reeve fece lo stesso.
 
«Allora sai di cosa parlo. Siamo riusciti ad avere accesso ad alcuni filmati della sala di simulazione, e mettendoli a confronto con quelli di Sephiroth che avevamo già … la differenza si nota appena, e sta nel fatto che Victor è appena un po’ più istintivo.»
 
Valentine si fece serio. Dove voleva arrivare con quel discorso.
 
«Credi che siano riusciti a replicarlo?» chiese.
 
La sola prospettiva lo faceva inorridire. Dunque non si erano accontentati di distruggere madre e figlio.
Ma il suo interlocutore scosse il capo.
 
«Credo che abbiano fatto molto di più.» replicò.
 
Poi estrasse dall’unico baule presente nell’abitacolo dell’elicottero un plico e glielo consegnò. All’interno vi trovò uno dei tanti studi sul DNA di Sephiroth che il professore aveva raccolto durante la sua crescita, e un altro, appartenente alla recluta Osaka.
Erano praticamente quasi identici.
Valentine sgranò gli occhi, sorpreso.
 
«Impossibile …» mormorò quasi senza accorgersene «Sephiroth non aveva fratelli.» affermò, praticamente certo.
 
Reeve annuì.
 
«È quello che pensavamo anche noi, ma poi scavando a fondo nei computer del reparto scientifico abbiamo trovato questo. Era stato cancellato, non sappiamo per quale motivo, ma qualcuno deve averglielo fatto forse su ordine del Professore, per poi evidentemente pentirsene subito dopo. Non sappiamo esattamente chi lo ha ordinato, né perché lo ha fatto, ma …»
«Questo come collega Osaka agli zombies?» lo interruppe nuovamente
«Pagina 7.» gli suggerì Reeve.
 
E andandoci, a pagina 7, Vincent Valentine trovò le risposte che cercava.
 
«Chiunque egli sia, Victor Osaka è l’anello di congiunzione tra Jenova, il genere umano e i Cetra.» concluse Tuesti, rabbrividendo assieme a lui «E se prima gli zombies ci apparivano quasi assurdi, ora non siamo più tanto sicuri che lo siano. Cosa potrebbe fare un essere umano che ha in sé la potenza magica di un Antico fusa al DNA di un essere alieno?»
 
Quella domanda tornò a gravare sulle loro teste con un’inquietante presentimento all’improvviso sempre più pesante e reale, assieme ad altre ancora più terrificanti che, paradossalmente, aprirono la mente del turk a nuove piste da seguire e nuovi alibi da analizzare.
E cosa avrebbe potuto fare quell’essere se, ad esempio, fosse sopravvissuto alla morte del suo Generale e fratello (prospettiva che ancora lo sbalordiva) e avesse deciso di vendicarne la morte facendone ricadere il peso su tutti gli abitanti inermi del Pianeta che l’aveva voluta? Gli zombies forse erano la soluzione meno inquietante.
 
«Nessuno lo ha più visto, da dopo la battaglia?» tornò a chiedere, aprendosi a quella possibilità.
 
Reeve scosse il capo, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e incrociando le dita delle mani, sospirando nervosamente.
 
«Lo stiamo cercando anche noi da quando abbiamo saputo, ma sembra scomparso.» spiegò «Abbiamo setacciato ogni angolo nascosto, perfino ogni punto di sfiato del lifestream, e interrogato tutti gli abitanti dei villaggi vicini. Gli ultimi avvistamenti risalgono a prima dell’apocalisse. A questo punto … non siamo più così tanto sicuri che basti cercare un corpo …»
 
Vincent Valentine si scurì, facendosi pensieroso. All’improvviso con uno scossone un po’ troppo forte il velivolo oscillò paurosamente, fermandosi di colpo.
La voce del pilota si fece sentire dall’interfono.
 
«Signore, siamo arrivati?»
 
“Di già?” pensò stranito Vincent. Erano partiti da appena un quarto d’ora. Guardò il vecchio amico e lo vide sorridergli ma tornare sin da subito serio.
 
«Voglio farti vedere una cosa, prima. Ti aiuterà a renderti conto di chi abbiamo di fronte.»
 
Credeva di non averne bisogno, ma non appena mise il naso fuori dall’abitacolo dovette ricredersi.
Di fronte a lui si parò uno scenario impressionante, una landa desolata che un tempo era stato una pacifica campagna ora ridotta a un’interminabile distesa di pietra che scricchiolava ad ogni loro passo, scossa da un leggero vento tiepidi proveniente dal mare. Tutto era pietra. Il villaggio, la casa sul lago, e perfino il lago stesso, al centro del quale un piccolo isolotto custodiva come un prezioso scrigno una tomba di una giovane donna dai lineamenti marcatamente asiatici, piccoli occhi a mandorla chiusi in un sonno eterno, guance di granito, e delicata dita affusolate unite sul ventre rigonfio, segno evidente di una gravidanza mai giunta al termine.
Vincent la guardò sentendo una profonda tristezza impadronirsi di lui, e il suo primo pensiero andò alla sua Lucrecia, l’unica donna che avesse mai amato. Pure lei aveva avuto un destino simile, anzi forse anche peggiore. Sospesa tra la vita e la morte, il corpo ormai divorato dalle cellule di quel parassita, intrappolato in uno scrigno di cristallo ma la mente ancora viva, fin troppo, a rimembrare ogni giorno l’errore imperdonabile che l’aveva costretta a quella condanna.
Cosa era accaduto a questa donna, invece? Qualcosa la sapeva già.
 
«Hikari Saitò, nipote della donna che si occupava di questo posto.» disse Reeve, indicando la casa poco distante «Era un ostello per pescatori. All’anagrafe di Midgar però risulta sposata con Victor Osaka, madre di un bambino di nome Keiichi, cinque anni. Purtroppo …»
«Lo so …» lo interruppe Valentine, guardandolo negli occhi «Reno me l’ha detto.»
 
Reeve guardò il suo sguardo serio e annuì, tirando un sospiro. Quella storia faceva male da qualsiasi angolazione la si guardasse, di chiunque fossero gli occhi.
 
«Non abbiamo idea di cosa sia accaduto qui, ma ispezionando meglio i dintorni vicino a casa dei suoi genitori abbiamo trovato uno scenario simile. Tutta la strada che porta dal settore 8 alla stazione è stata completamente pietrificata e ridotta in detriti. Di sua madre non c’era traccia …»
 
Valentine tornò a guardarsi intorno, lasciando correre il suo guardo assorto sull’orizzonte plumbeo e freddo.
 
«Credete sia opera sua?» domandò, anche se non sarebbe stato necessario.
 
Quando avevano combattuto, la prima volta, aveva visto Victor Osaka intrappolarli in gusci di pietra per potersela vedere solo con Cloud, e l’incantesimo era stato difficile da spezzare. Quindi sapeva bene che poteva farlo. Tuttavia … renderlo eterno era un’altra storia. Quando potenza magica ci sarebbe voluta?
L’uomo scosse le spalle.
 
«Possiamo solo immaginarlo, alla luce dei fatti …» risolse.
 
Infine insieme tornarono a guardare la giovane donna intrappolata nella pietra, ma non per molto perché continuare a farlo all’improvviso sembrò a Valentine quasi un’invadenza, e quel pudore, quel rispetto profondo per il dolore che quell’immagine portava con sé lo spinse a rinunciare, voltando le spalle a tutto e tornando indietro il più in fretta possibile, mentre il fondatore del WRO lo seguiva aspettandosi un commento che non arrivò. Mai.
 
«Muoviamoci.» gli consigliò alla fine l’ex turk, quando furono entrambi nuovamente al riparo tra le mura di ferro dell’abitacolo.
 
Tuesti annuì, e dopo un breve sospiro diede ordine al pilota.
 
«Allora …» provò a parlare, sedendoglisi di fronte.
 
Vincent lo guardò nuovamente negli occhi, una luce torva in fondo alle iridi cremisi.
 
«C’è altro che dovrei sapere?» chiese, accettando con sollievo il cenno di diniego del suo interlocutore.
«È tutto.» fu la risposta «Crediamo, alla luce dei fatti e in base alla posizione in cui è stato trovato lo zombie, che stia tornando al cratere nord, anche se non sappiamo cosa mai possa trovarci ancora lì.»
 
Il turk tornò a farsi attento. Cratere Nord? Che altro c’era da vedere, lì?
 
«È possibile che si stia muovendo mosso solo dalla follia del momento, se ha perso anche sua madre …»
 
S’interruppe, stringendo i pugni sul soprabito blu che indossava. Anche lui aveva perso sua madre a causa dell’apocalisse, quando era arrivato a casa sua aveva trovato la sua tomba in giardino, segno che almeno qualcuno aveva provveduto a darle una degna sepoltura. Non aveva neanche potuto starle accanto per dirle addio …
Scosse il capo per scacciare quei pensieri, tossendo per schiarirsi la voce.
 
«Tuttavia non possiamo perderlo di vista, dobbiamo almeno assicurarci che non sia lui la causa degli zombies.»
«Quindi quali sono gli ordini?»
 
La domanda dovette suonare a Reeve come una sorta di fune di salvataggio, perché lo spinse a sorridere annuendo e riprendendo la tranquillità che aveva perso. Almeno in parte.
 
«Per ora limitati a trovarlo, vivo o morto. Quando lo avrai fatto riferisci per ricevere altri ordini.»
 
Vincent Valentine annuì, sforzandosi di sorridere a sua volta. Almeno per ora non avrebbe dovuto perdersi in un altro combattimento rischiando di perdere nuovamente il controllo.
 
***
 
Mr. Valentine non era affatto l'unico a sapere dei sospetti ricaduti su Victor Osaka e su quel luogo, in un primo momento da tutti considerato ormai privo d'importanza.
Non appena Reeve aveva comunicato a Rufus la sua idea, questi aveva ordinato ai suoi turks di recarsi ad ispezionarne i dintorni, nella speranza di trovare qualcosa, qualsiasi cosa che li aiutasse a far luce sul mistero.
Che Victor Osaka fosse vivo o no, che l'unico zombie presente su Gaia fosse o no opera sua, tutto si riduceva ad una lunga sequela d'interrogativi solo relativamente importanti di fronte alla minaccia sempre più pressante del geostigma, che continuava a spandersi a macchia d'olio rendendo la ricerca sempre più difficile.
Gli studi di Kilmister continuavano, ma non era più lui a condurli da quando, circa due settimane prima, l'uomo aveva avanzato una proposta fin troppo indecente per i gusti del rampollo Shinra.
Le visioni che tutti i pazienti avevano erano le stesse, identiche in tutto e per tutto, e isolando i genomi del morbo in essi era stato trovato parte del gene di tipo S. Quel pazzo di uno scienziato, usando questa come scusa, aveva intenzione di riprendere gli studi del suo insegnante, il Professor Hojo, e magari coinvolgere oltre ai suoi pazienti anche proprio lo scomparso, Victor Osaka.
Ovviamente glielo avevano impedito. Era stato Rufus stesso a farlo, piantandogli una pallottola al centro del cuore e assegnando il suo lavoro a Marcus, che finalmente aveva potuto mettere in atto tutto il suo sapere medico ad opera solo ed esclusivamente dei suoi pazienti.
Ma ciò che era accaduto aveva fatto scattare nel neo e ormai ex presidente una sorta di pessimo presentimento, che lo aveva spinto a mandare i suoi "cagnolini" in quella missione all'apparenza senza senso.
Lui stesso lo aveva detto, spiegandone le ragioni a Tseng.
 
«Può darsi che Victor sia morto, e che Kilmister avesse torto. In quel caso sarà stato un viaggio inutile e nessuno ve ne darà la colpa. Ma ammettiamo solo per un attimo l'ipotesi che ci sia ancora qualcosa, lì sotto ... E che Victor Osaka sia vivo, lo sappia, e lo stia cercando ... Possiamo davvero permettere che lo trovi prima di noi?»
 
Tutto aveva assunto un senso ora. Anche la strana calma piatta che avvolgeva quel mistero, e all'improvviso avevano trovato anche una risposta al più inquietante degli interrogativi: Se Osaka era vivo, perché non si era già mostrato alla ricerca di una vendetta?
Così erano partiti, senza perdere neanche un istante, tutti e tre su uno degli elicotteri appartenuti alla compagnia, come una sorta di missione non così tanto segreta poi mentre dall'altra parte Vincent Valentine si occupava di tener d'occhio le mosse del nemico.
E arrivati al cratere nord circa una settimana prima di lui, di sicuro non si aspettavano quello che trovarono ad accoglierli tra il fitto labirinto di grotte scure, sentieri scoscesi e mostri famelici.
Assolutamente proprio non se lo sarebbero mai aspettato.
 
***
 
Con un dolore sordo la pallottola colpì la sua spalla, e la potenza del colpo lo spinse a cadere in avanti.
 
«Tseng!» Elena lo chiamò allarmata, accorrendo a sorreggerlo mentre la sparatoria continuavano.
 
Ad un tratto entrambi bloccarono la loro corsa, costretti da due dei tre nemici che si erano improvvisamente trovati alle calcagna.
Erano due giovani uomini, entrambi albini e vestiti di nero. Uno usava solo un guanto da combattimento potenziato, con una funzionalità taser tale da riuscire a frantumare perfino la pietra, l'altro una doppia katana.
Il pistolero era alle loro spalle, e non la smetteva di sparare. Quanti colpi aveva ancora in canna??
 
«Dimmi che ce l'hai ancora?» mormorò tra i denti Tseng, coprendosi con una mano la ferita.
 
Elena gli mostrò la scatola nera a chiusura ermetica che teneva nascosta sotto il braccio, dietro a un lembo della giacca.
Sorrisero, e per fortuna poco prima che i due avversari potessero tornare all'attacco, con un fragore assordante l'elicottero si abbassò frapponendosi tra di loro e permettendo ai due turks di trovare scampo.
 
«Tutto bene?» fece il pilota.
«Vai, Reno! Vai!» gli ordinò il wutaiano, e questi ubbidì, lasciando indietro il pericolo.
 
Finalmente libero di potersi arrendere, Tseng si adagiò sul sedile dell'abitacolo e lasciò ricadere la testa all'indietro, tirando un grosso sospiro mentre Elena si affrettava ad aprire la cassetta di primo soccorso per una medicazione almeno superficiale della ferita.
 
«Oh... Credo ti sia rimasto qualcosa incastrato tra l'omero e la scapola, Capo.» commentò il rosso, ridacchiando.
«Ti sembra il momento di scherzare, Reno??» si offese la bionda, correndo in sua difesa.
 
Dal canto suo il wutaiano si limitò a sospirare di nuovo, nascondendosi gli occhi dietro una mano.
 
«Sto iniziando a stufarmi di ritrovarmi sempre in situazione del genere.»
 
Il rosso ridacchiò di nuovo.
 
«Sarebbe anche ora ...» replicò, poi si fece serio, guardando dallo specchietto retrovisore Elena che nascondeva la preziosa scatola nera dentro al comparto segreto sotto ad uno dei sedili «È quello che penso?»
 
Li vide guardarlo e annuire entrambi, trionfanti.
Strinse i pugni attorno ai comandi. "Allora aveva ragione, quel pazzo di uno scienziato." pensò, e un brivido percosse rapido la sua schiena quando l'ennesimo sospetto si affacciò alla sua mente.
 
«Dimmi che quel proiettile non è di chi penso io, ti prego ...»
 
Il wutaiano scosse il capo, ma non riuscì ad esserne sollevato.
 
«Non lo è.» confermò, concludendo però torvo «Ma chi pensi tu potrebbe essere l'ultimo dei nostri problemi, adesso. Pensa a guidare, ti spiegherò tutto appena saremo alla base.»
 
Reno sbuffò, rimettendosi con difficoltà a concentrarsi sui comandi.
"Non mi piace. Non mi piace per niente, qualunque cosa sia."
 
\\\
 
I tre giovani uomini rimasero a guardare immobili l'elicottero alzarsi in volo sollevando un nugolo di neve e polvere, e scomparire con rapidità sopra le loro teste, oltre le nubi bianche che si affollavano sopra le alte cime del cratere.
 
«No!» protestò il più grande dei tre, capelli cortissimi e basette argentee sugli zigomi «La Madre! L'hanno presa, l'hanno presa! No!» iniziando a piangere senza riuscire a fermarsi, stringendo i pugni e prendendo a calci le rocce che trovò a portata di mano «Maledetti bastardi!»
«Smettila di piangere, Loz.» lo ammonì stancamente il mediano, lunghi capelli argentei e la pistola fumante ancora tra le mani, avvicinandosi a loro.
 
Poi guardò il più piccolo, che stava ancora osservando in silenzio il punto in cui il velivolo era sparito.
Era serio. Fin troppo serio.
 
«Kadaj ...» gli disse «Che facciamo ora?»
 
Lo vide scuotere appena il capo, i capelli argentei lunghi appena a sfiorargli le spalle ondeggiarono emettendo un leggero fruscio.
 
«Non capisco ...» rispose, ma senza guardarlo.
 
Sembrò quasi stesse parlando tra sé.
 
«Avrebbe già dovuto essere qui. Perché è in ritardo?»
 
Attirando su di sé gli sguardi degli altri due, che lo fissarono preoccupati.
 
«Già, perché?? Se fosse stato qui la Madre non ci sarebbe stata rubata!!» sbottò arrabbiato Loz.
«Pensi gli sia capitato qualcosa?» domandò Yazoo, più pacatamente.
 
Ma il giovane continuò a tacere, limitandosi a scuotere il capo.
Non avrebbe saputo cosa rispondere, e poi ...
 
«Verrà ...» risolse alla fine, sull'onda di un pensiero che all'improvviso parve rassicurarlo «Lei me lo ha garantito. Ce la riprenderemo grazie a lui, dobbiamo solo aspettare.»
 
Lasciando nuovamente correre i suoi occhi verso i fiocchi di neve che vorticavano giù dalle pareti scure.
Aspettare, certo. Ma per quanto tempo ancora?
 
***
 
Un ritorno senza passare dal via, senza soste, senza guardarsi indietro. Un lungo e ripetitivo giro attorno al circolo del mondo, esattamente come le anime in pena all’interno del lifestream, senza possibilità di fermarsi o di conoscere la meta, lo scopo, il fine ultimo.
Questo fu per lui l'ultima parte di quel viaggio a ritroso sui suoi passi e nel tempo, che sembrava aver accelerato la sua corsa. Aveva terminato le sue ultime provviste poco prima di cadere svenuto nella neve, quindi dovette arrangiarsi con ciò che trovava per soddisfare la fame sempre crescente, aggravata dal freddo che si faceva sempre più intenso e richiedeva al corpo uno sforzo maggiore per mantenere stabile la temperatura. Questo si rifletteva sulla sua potenza fisica, ogni giorno sempre più flebile, e sulla sua lucidità mentale ovviamente, già di per sé scarsa. La solitudine faceva brutti scherzi, spesso i suoi sogni erano affollati dalle voci e dai volti di chi aveva perduto, dagli odori, dai colori e dai sapori a lui cari e familiari che sembravano così reali, cosi vivi ancora, prima dell'inevitabile momento in cui la consapevolezza di essere solo e perso in quel mondo malato e disinteressato alla sua esistenza. Arrivato al momento della fatidica scalata non aveva più tanta voglia di farcela, la febbre ad annebbiargli i sensi e un profondo senso di disperazione in cui si sentì sprofondare guardando dal basso l'enorme montagna di ghiaccio che si estendeva a perdita d'occhio verso il cielo scuro sopra la sua testa.
La prima e la seconda volte erano state migliori, le aveva affrontate con ancora una speranza in cuore, mentre questa ...
Continuava a chiedersi perché avrebbe dovuto farlo, e a pensare che se Sephiroth aveva lasciato qualcosa per lui lì allora avrebbe dovuto andare. Ma anche il migliore dei suoi propositi di vendetta si riduceva a un cumulo d'inutili pretese alle quali proprio non riusciva a rimanere aggrappato. Si sentiva sconfitto, senza speranza. Non sapeva nemmeno perché continuasse a respirare e rimettersi in piedi dopo ogni risveglio. Strinse i denti e andò avanti, pensando a tutto ciò che poteva infondergli la forza per riuscirci e stringendosi di più nel cappotto quando il freddo si fece insopportabile, la folta pelliccia del cappuccio del suo nuovo soprabito ad adornare il suo volto pallido e smunto.
Finalmente in cima, iniziò la sua discesa lungo il crinale appena in tempo prima di cadere a terra distrutto e restarci, impelagato nell'ennesima ragnatela di sogni in attesa di un altro incubo che giungesse a svegliarlo. Stavolta però non fu tanto orrendo come si aspettava. Era venuto il momento che qualcuno gl'indicasse la nuova strada da seguire.
 
\\\
 
C'era silenzio. Un silenzio tranquillo, pacifico, ma pesante, che premeva contro le tempie e faceva male, annebbiava e confondeva.
Victor riaprì gli occhi e cerco di capire se fosse ancora un sogno o già realtà, ma sulle prime non riuscì a farlo.
Era ancora lì, sul margine interno del cratere, ma non sentiva dolore né fame o sete, e nemmeno la terra sotto le sue guance, il pietrisco contro il quale era sbattuto. Solo il battito del suo cuore era forte, ancora ben presente. Si mise a sedere e si guardò intorno; i contorni erano sfumato, l'orizzonte indefinito, ogni suono ovattato come dentro ad una bolla di sapone, e di fronte a lui se ne stava in piedi ad osservarlo la sagoma di un bambino vestiti di bianco, lunghi capelli argentei a sfiorargli quasi le ginocchia, e occhi felini puntati dritti nei suoi.
Gli mancò il fiato, s'irrigidì schizzando in ginocchio e compiendo un passo indietro lo fissò annaspando, impossibilitato a credere perfino ai suoi stessi occhi.
 
«S-Sephiroth ...» sibilò con dolore, in un rantolo indistinto mentre gli occhi tornarono a empirsi di lacrime.
 
Questi alzò il volto altero, sorridendo appena.
 
«Finalmente sei arrivato.» gli disse severo, tornando serio «Sei in ritardo.»
 
Osaka abbassò colpevole lo sguardo, annuendo.
 
«Lo so ...» bofonchiò, con un sospiro «Io ...»
 
Ci mise un po’ prima di concludere la frase, il respiro troppo corto e il dolore all'improvviso di nuovo troppo forte per riuscire a respingerlo.
Sephiroth ... Quel bambino era ...
 
«Scusami ...» mormorò infine, le labbra contorte in una smorfia di dolore.
 
Non era solo per il ritardo che stava chiedendo scusa.
 
«Io non ...» scosse il capo, gli occhi brucianti e le pupille che faticavano a trattenere ancora le lacrime.
«Non importa.» tagliò corto l'altro, con la solita freddezza, richiamandolo all'ordine «La strada la conosci. Non fermarti.»
«Dove, Sephiroth?» tornò a chiedere allora lui, di nuovo in sé «Cosa sto cercando? Dovrei almeno saperlo.»
 
Il bambino sogghignò appena, tornando a guardarlo negli occhi con aria trionfale.
 
«Lo capirai quando lo troverai.» rispose soltanto, per poi svanire assieme a quel sogno che aveva portato con sé.
 
Allora, solo allora, svegliandosi davvero, Victor Osaka si rese conto di aver appena assistito all'ennesima illusione.
Era tutto come all'inizio del sogno, ma i ciottoli sotto la guancia facevano male, lo stomaco protestava reclamando la sua quotidiana razione di cibo e la schiena, le gambe, tutti i muscoli del corpo erano in preda a spasmi indolenziti, gli occhi facevano male ed erano appannati, la mente era vuota.
Si rialzò in piedi a fatica, aiutandosi con le mani e perfino con la punta della sua katana per riuscire a restate in equilibrio, poi decise che era venuto il momento di rimettersi in marcia, ingollò d'un fiato tutto il contenuto di una fiala di elisir e masticò una delle poche barrette proteiche rimaste mentre, passo dopo passo, ripercorreva la strada verso il punto in cui aveva perso ogni cosa e anche di più, pregando che nel frattempo la moltitudine di mostri che lo avevano accolto la prima e la seconda volta si fossero stancati di aspettare nell'ombra e avessero deciso di lasciargli campo libero, andandosene in giro a terrorizzare qualche altro povero gentiluomo o in alternativa ammazzandosi tra di loro nel tentativo di passare il tempo.
 
\\\
 
Con un ultimo schizzo di sangue e un rumore viscido la testa dell'ultimo gargoyle si staccò dal resto del corpo e rotolò ai suoi piedi.
Victor sospirò sollevato, per poco non cadde in ginocchio. Era stato uno scontro stranamente estenuante, io suo fiatone lo dimostrava.
Scosse il capo, nascondendo la ciocca bianca nel palmo di una mano. Quell'angolo di cranio gli doleva da morire.
 
«Così non va, proprio no.» si disse «Dovevo portare qualche altra scorta con me. Sto perdendo troppo forze ...»
 
Una voce gli rispose.
 
«Esattamente.»
 
Si riscosse di colpo, alzando gli occhi davanti a sé.
Il Sephiroth bambino era riapparso, ora lo fissava contrariato.
 
«Sei debole. Non dovresti.» osservò corrucciandosi.
 
Osaka sospirò di nuovo, abbassando il capo e arrossendo appena, ritrovandosi a provare la stessa identica sensazione d'umiliante impotenza provata ai tempi di SOLDIER in presenza del suo Generale, confrontandosi con la sua inettitudine.
Prim'ancora che potesse parlare, il bambino scomparve e riapparve a pochi metri dietro di lui.
 
«Non importa. Seguimi.»
«Sephiroth ...» lo chiamò a quel punto, gli occhi improvvisamente lucidi.
 
Questi si voltò a guardarlo, e sulle sue labbra apparve appena percepito un sorriso.
 
«Come faccio a … vederti?»
 
Era una domanda più che naturale, forse pure fin troppo ovvia.
Il sorriso si trasformò in un ghigno, il giovane lo scrutò ancora per qualche istante con una luce famelica e trionfale negli occhi, poi tornò a voltargli le spalle e sparì, non prima di aver ribadito il suo invito a seguirlo con un cenno della mano.
 
\\\
 
La caverna non era come la ricordava, a seguito del risveglio di Sephiroth e delle Weapons lo scenario era cambiato molto.
La parete di cristallo si era frantumata contro il pavimento, cospargendolo di acuminati pezzi di cristallo che alla luce del sole riflettevano i colori dai quali era composta, e facevano scricchiolare la suola dei suoi stivali ad ogni passo.
I margini dell'arena circolare erano totalmente liberi, dentro di essi, molto in fondo, sporgendosi s'intravedeva il bagliore verdastro del flusso vitale.
Il resto era solo roccia scura e fredda, e silenzio. Il soffitto era saltato, lasciando la volta scoperta e da essa, ora, scendevano lenti alcuni fiocchi di neve portati dalla bufera, ricoprendo il centro del circolo con un soffice manto bianco e freddo.
Era così strano ... Victor Osaka si fermò a guardare quello scenario desolante, fissando con sgomento il punto in cui aveva rivisto per la prima volta il suo maestro e generale.
Un corpo inerme, monco, ma che infine era risorto con la magnificenza di un dio, ali bianche al posto delle gambe e una corona di stelle ad ornare il capo.
Tutto finito, dopo la gloria di un momento.
Deglutì, ingoiando a vuoto per respingere le lacrime e reclinando il capo, ma non ebbe tempo per continuare a compiangerlo.
All'improvviso il rumore di una spada che usciva dal fodero si fece sentire, assieme a quello di una sicura che scattava e un altro suono simile, che sulle prime non riuscì a distinguere.
Solo quando riaprì gli occhi e due pupille feline identiche alle sue gli si puntarono contro capì.
Tre giovani uomini lo circondarono, tutti e tre vestiti in nero e dai capelli bianchi. Non appena le loro armi s'incrociarono contro la sua katana, una lunga, dolorosa scossa pervase tutta la lama e poi i suoi occhi, la sua mano e il suo braccio, correndo lungo la sua spina dorsale e facendo risuonare le parole di Sephiroth all'infinito dentro la sua mente.
"Cosa sto cercando?" aveva chiesto.
 
"Lo saprai quando lo troverai."
 
A quanto pareva, quel momento era infine arrivato.
 
***
 
«Presidente!»
 
La voce preoccupata di Tseng lo raggiunse nella calma placida del sonno in cui era caduto, dopo aver superato l'ultima crisi.
Era stato orrendo, la febbre aveva iniziato a salire raggiungendo quasi i quaranta nell'arco di un solo giorno, e quello dopo lo stigma aveva iniziato a "farsi sentire", sempre più forte fino a fargli perdere i sensi.
Era stata la prima volta per lui. Gli era servita a rendersi conto di quanto avesse avuto ragione Kilmister nell'inquadrare quella malattia.
Erano spasmi di dolore inaccettabili, identici ai morsi di una famelica e rabbiosa creatura, e durante qualcuno di quegli spasmi erano tornate a tormentarlo le parole che Victor Osaka gli aveva rivolto tempo prima, durante il loro primo incontro.
"Tu non sai nemmeno cosa sia la paura, Rufus Shinra."
Dopo quegli ultimi eventi credeva di saperne qualcosa in più.
"Diventerò il tuo peggiore incubo."
Lo rivide, a tratti, quel suo sguardo torvo, malevolo e minaccioso. E quella ciocca bianca che all'improvviso rese l'immagine confusa, sovrapposta a quella dell'uomo alla quale aveva votato la sua vita.
Sephiroth. Lui non l'aveva mai conosciuto, per questo si era stupito. Era suo, quel geostigma. La sua rabbia, il suo odio, la sua vendetta. E Victor ne faceva parte.
Una prospettiva capace di far tremare i polsi perfino a lui, che aveva sentito il cuore accelerare di colpo i battiti fino ad arrestarsi di colpo. Dopo non ricordava che buio, e la voce di Marcus che lo chiamava, cercando di capire se fosse ancora vivo.
Lo era. Vulnerabile? Si, anche.
Molto, soprattutto senza i suoi ragazzi, che per fortuna erano ritornati.
Riaprì gli occhi e guardò ognuno di loro, le loro espressioni tramutarsi da spaventate a sollevate nel vederlo di nuovo in sé. Elena sorrise guardando Reno, anche lui lo fece.
 
«Hey, boss. Ci ha fatto prendere un bello spavento.» lo accolse, cercando di riportare un po’ di buon umore.
 
Tseng si limitò a fissarlo, in attesa della fatidica domanda che puntuale arrivò.
 
«Esito della missione?»
 
Il wutaiano annuì serio.
 
«Positivo, Presidente. L'abbiamo trovata, ma ...» sospirò, e Rufus sentì la disperazione impadronirsi per un attimo di lui, prima della conclusione «Abbiamo avuto uno spiacevole imprevisto. Possiamo farvi rapporto più tardi, quando vi sentirete meglio.»
 
Shinra scosse il capo.
 
«Sto già meglio.» risolse, sollevandosi e appoggiando la schiena contro la testiera del letto «Iniziate, e non omettete nessun particolare.»
 
Se c'erano pessime notizie meglio cavarsi quel dente il prima possibile.
 
 
(Continua …)
   
 
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