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Autore: The Custodian ofthe Doors    26/03/2020    4 recensioni
[ AU!Police| Seguito di Una pista che scotta| II| Detective!Alec| PoliceOfficer!Simon| SemiCriminal!Magnus| AlecSimonMagnus!squad]
Alexander Lightwood è un Tenente della Omicidi di New York City a capo di una squadra a dir poco particolare e se un tempo era famoso per la sua pazienza e la sua calma imperturbabile, oltre che per la sua sfortuna, ora lo è anche per aver risolto il grande Caso Circle a trent'anni dalla sua archiviazione.
Ma i problemi non sono finiti e non arrivano mai da soli.
Dopo il ritrovamento del quaderno del Circolo di Asmodeus vecchi mostri sacri della criminalità risorgono dalle loro ceneri, attirati dalla consapevolezza che il proprio nome risulti su quelle pagine assieme a tutti i loro segreti più grandi.
New York apre il sipario e mette in scena, per l'ultima volta, l'ennesimo atto di uno spettacolo che in troppi temevano di rivedere, in cui troppi saranno costretti a recitare di nuovo o per la prima volta.
I demoni stanno tornando, crimine e giustizia saranno ancora costretti a combattere assieme questa battaglia che nasconde più di quanto non possano credere.
La chiamata è stata fatta e nessuno potrà ignorarla.
Che gli piaccia o meno.
Genere: Azione, Commedia, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Simon Lewis, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XIV
La mossa dei Neri.








 
Passato.

Al mondo nulla è bianco o nero. Nulla si fonda sulla base di un assoluto stato di giustizia o ingiustizia. Nulla era buono o cattivo.
Al mondo ogni essere oscillava sulla sottile linea della duplicità, senza esclusione alcuna. Così l'uomo nasceva già nel peccato originale ma puro e senza colpe. Si cominciava sin dall'inizio a raccontare ad ogni bambino come dovesse comportarsi, cosa andasse bene fare e cosa non andasse, come ogni persona dovesse dimostrare qualcosa alle altre.
Sii buono.
Comportati bene.
Devi aiutare.
Devi ascoltare.
Devi stare zitto.
Devi parlare solo se interpellato.
Devi dire la tua.
Non devi dire la tua.
Devi alzarti e correre.
Devi star seduto ed attendere.
Devi fare qualcosa per gli altri.
Devi fare ciò che gli altri si aspettano da te.
Su questa rigida via venivano posti tutti i bambini, tutte le persone, gli uomini che mai avevano calcato la terra. Da qui in poi quegli esseri dovevano scegliere cosa fare, sa abbassare la testa ed obbedire sempre, se farlo solo alcune volte, se farlo solo quando era giusto, se non farlo mai.
Ma cos'era giusto? Cos'era sbagliato?

La bambina abbassò la testa, nascondendola tra le gambe piegate al petto, proteggendosi con le mani piccole e pallide, sporche di pennarello.
Oh, come si era arrabbiata mamma, non aveva macchiato solo la pelle ma anche i polsini della maglietta giallo limone che le aveva messo quella mattina. Ma in fondo la bambina sapeva che la mamma non era arrabbiata proprio con lei, sapeva che aveva avuto una giornata pessima al lavoro e che quella sfuriata di prima era stata esagerata, solo l'ennesima goccia che aveva minacciato di far traboccare il vaso. Sapeva che quando avrebbe smesso di discutere con la nonna sarebbe venuta da lei a scusarsi, a coccolarla, a chiederle cosa volesse per cena.
Però in quel momento sentiva solo le urla della nonna, che le ripeteva quanto non andasse bene qualcosa che la bambina non capiva, che invece la mamma aveva fatto male.

Sbagliato.

Gridava che sua nuora doveva ascoltarla, fare come diceva lei, che ne avrebbe parlato con suo figlio, il suo papà, e che allora c'avrebbe pensato lui a rimettere in riga la moglie. Al suo posto, dove era giusto che fosse, come gli aveva insegnato suo marito, il nonno che mai aveva conosciuto.
La bambina, ad essere onesti, non vedeva l'ora che il papà tornasse, perché sapeva che lui avrebbe sistemato ogni cosa, che non avrebbe fatto come diceva la nonna ma che avrebbe aiutato la mamma a fare tutto ciò che non le riusciva per mera mancanza di tempo.
Non vedeva l'ora che tornasse papà, che finalmente la nonna se ne andasse da lì, che la smettesse di dire che quando mancava il figlio lei doveva per forza di cose stare costantemente da loro perché la sua mamma era una buona a nulla.
La sua mamma era la mamma migliore del mondo. Era una brava persona. L'aiutava, l'ascoltava, sapeva quando rimaner solo in silenzio a coccolarla o quando parlare a vanvera riempiendo il vuoto della casa silenziosa e desolata. Riusciva a stare tanto zitta ma poi, quando doveva, sapeva parlare e sapeva farlo bene. Era sempre così logica e convincente. Era perfetta.
E lo era anche papà. Sì, anche il suo papà con lo sguardo stanco ed il sorriso dolce, che scattava da una parte all'altra dell'America dietro al suo capo, un uomo d'affari facoltoso e sempre tanto impegnato.
La bambina lo sapeva che suo padre mancava così spesso da casa solo per colpa del lavoro, sapeva anche che non era una colpa, ma che lo faceva per loro, per il suo futuro, per mandarla alle scuole giuste.
Però… però quando c'era lui casa era bella e rumorosa, piena di luce e di gioia, la stessa che sua nonna riusciva a risucchiare via solo con la sua presenza.
Non la voleva lì, quella donna era cattiva, lo era soprattutto con sua madre e a lei invece diceva tante cose strane, come che doveva lasciare i suoi giochi ai bambini, che non doveva giocare con loro ma stare solo con le femmine, che con i maschietti non doveva litigarci perché loro erano più forti. Le diceva che le avrebbe insegnato – almeno a lei – quale fosse il posto di una donna.
La bambina la odiava, la odiava da morire. Avrebbe fatto di tutto per non averla più intorno, di tutto.
La sua migliore amica, la piccola Céline, bionda e timida, con gli occhietti azzurri e le ciglia chiarissime come la sua pelle, sempre a testa bassa e balbettante, le raccomandava di non farsi sentire mai quando diceva quelle cose.
Céline non aveva una famiglia bella come la sua, perché sì, sua nonna era cattiva e le rovinava la vita, ma i suoi genitori le volevano bene e facevano di tutto per lei, per renderle quella vita grigia più colorata possibile.
I genitori di Céline, no.
Sua mamma era molto malata, rimaneva sempre a letto, sempre per più tempo. Non aveva la forza di far nulla, non aveva la forza neanche di rispondere a suo marito.
Ecco, il padre di Céline era tutto ciò che il suo non era e mai sarebbe stato, e quanto ne era felice.
Se infatti un uomo come lui avesse anche solo intuito i pensieri della bambina, quelli così cattivi verso sua nonna, così insubordinati, di certo avrebbe fatto una brutta fine. Si sarebbe ritrovata quegli stessi brutti lividi sulle braccia che aveva la sua amichetta.
Pensare al fatto che ci fosse qualcuno messo peggio di lei, qualcuno che lei amava, che sentiva vicina, l'aveva in qualche modo calmata. Il pensiero egoistico umano, quello che dice “c'è di peggio, per fortuna io non sono in quelle condizioni”, era potente e rigenerativo come una pomata lenitiva su un livido. Ti faceva sentire forte, ti faceva credere che il dolore se ne sarebbe andato via e non sarebbe più tornato, che bastava pochissimo per farlo svanire.
La bambina si asciugò le lacrime forte di una nuova convinzione: se non poteva far nulla per aiutare la sua piccola amica, in quella bruttissima situazione, poteva far qualcosa per tirar su di morale la sua mamma, abbattuta dalle parole cattive della nonna.
La mamma l'avrebbe protetta, sarebbe stata orgogliosa di lei, che si era eretta forte e coraggiosa contro la strega cattiva.
Si era alzata dal suo nascondiglio ed era andata in cucina ad aiutare la persona che preferiva al mondo. Avrebbe cominciato dalla mamma, l'avrebbe aiutata a sconfiggere nonna e poi, diventata più forte, avrebbe aiutato Céline a sconfiggere il suo papà così cattivo.

Quella sera la mamma le aveva lavato via tutto il pennarello dalle mani e le aveva sorriso piena d'orgoglio.
«Quando papà chiamerà gli diremo che non deve preoccuparsi per noi, che siamo coraggiose e che riusciamo a tener duro anche aiutandoci solo a vicenda.»
«E papà sarà felice? Non è che si arrabbia perché ho detto alla nonna che non farò più quello che mi dice? Perché le ho detto che non ti deve più parlare così?»
La madre le aveva sorriso dolcemente. «No tesoro, anzi, sarà felice che tu, già a quest'età, sia riuscita a fare qualcosa che lui ha imparato a fare solo di recente.»
«Davvero? Cosa?»
La donna si era fermata per asciugarle le manine, soddisfatta nel vedere la pelle morbida e rosea ora tutta pulita e profumata, come la saponetta ovale che le aveva strofinato con attenzione sui palmi. Le baciò le mani facendola ridere e poi le carezzò con gentilezza la guancia paffuta.
«Riuscire a dire di no quando si deve, riuscire a combattere anche se si è più deboli, anche se non si hanno le spine, mia piccola rosellina.»



 




Presente.



L'attico di quel palazzo si trovava al ventiduesimo piano, un'altezza notevole ma di certo non una delle più grandi di New York City.
Il corridoio che dava sulla porta d'ingresso era vuoto, abbellito solo da alcuni quadri moderni e da dei grandi vasi pieni di rami bianchi. Era freddo e pulito, di quella tipica eleganza che piaceva tanto ai ricconi di ogni genere, qualcosa che di certo avrebbero apprezzato anche i suoi genitori, visto quando piacesse loro il rigore e le linee semplici.
Non era mai salito sino a lì, non ne aveva mai avuto motivo e mai era stato invitato, ma quella volta la situazione era diversa, quella volta l'avevano chiamato, avevano chiesto esplicitamente di lui.

Aveva chiesto.

Bussò alla enorme porta blindata, suonare il campanello gli sembrava inutile, sia perché si aspettava che il suo ospite fosse lì ad aprirgli nell'immediato, sia perché quella nana rossa gli aveva messo l'ansia quando gli aveva detto che sarebbe stata la prima persona invitata in quella casa da- dannazione, sette mesi? Erano già passati sette mesi? Quand'era successo?
Alexander sospirò e poggiò per un attimo la testa contro il legno laccato, scostandosi quando sentì dei passi ovattati arrivare dall'altra parte della parete.
Quando Jonathan gli aprì Alec provò il fortissimo impulso di chiedergli se stesse bene, il suo viso pallido era tirato ed aveva l'aria di uno che non dormiva da giorni, forse settimane, forse da quei dannati sette mesi.


«Ce l'hai fatta.» disse solo con voce piatta.
Alec annuì. «C'era traffico sulla sesta.» rispose con lo stesso tono.
Il biondo si fece da parte e lo fece entrare. «Colpa di quel concerto, stanno deviando tutte le vie più trafficate.»
«Finirà anche questo.»
Quella conversazione aveva un che di surreale, così come l'aveva quel posto che pareva non veder la luce del giorno da secoli. Come l'antro oscuro di un mostro che teme la luce della stella maggiore Casa Morgenstern era sigillata in ogni sua finestra, ogni suo spiraglio. Erano chiuse le serrande, erano chiuse le finestre, chiuse anche le tende e chiuse tutte le porte. L'ombra grigiastra che permeava ogni cosa non era altro che il pallido e finto riflesso della giornata di sole che splendeva fuori da quelle mura fredde e sterili, che puzzavano di polvere e di stantio come le soffitte.
Alec però non fece commenti, rimase in piedi al centro della sala d'ingresso attendendo che Jonathan tornasse da ovunque fosse andato, la cucina probabilmente, con due bicchieri ed una bottiglia di bourbon.

«Se non ti piace c'è la tequila.» disse l'altro indicandogli con un cenno l'enorme divano verde che troneggiava al centro del salone.
Il moro scosse la testa e si accomodò, togliendosi lentamente la giacca e la sciarpa scura, piegando entrambi con cura e ponendoli vicino a sé, come se non volesse occupare troppo spazio in quella dimora troppo grande e troppo vuota.
Alec era cresciuto in una casa a cinque piani, malgrado la mansarda non fosse utilizzata così tanto. Ognuno di loro aveva avuto il suo periodo “in piccionaia” come la chiamava nonna Phoebe, un momento della loro vita in cui starsene sopraelevati, lontani da tutti e tutto, anche dai comuni oggetti di tutta la vita, rimanendo appollaiati davanti alla grande finestra che apriva quel varco di luce proprio nel punto più alto del muro, scrutando la vita dall'alto, li aveva fatti sentire sicuri, malinconicamente incompresi ma anche melanconici e solitari come i personaggi di un romanzo.
L'attico in cui abitava Jonathan era proprio ciò che era stato un tempo per lui la soffitta, solo che il giovane vi viveva, solo e isolato, non come aveva fatto lui nei magici momenti dei suoi diciassette anni ma come faceva chi stava cercando di scappare da qualcosa e per farlo ci si era chiuso dentro. Era malsano e non parlava solo del fatto che tra quelle mura pareva esserci solo ossigeno ormai inutilizzabile, ma soprattutto del fatto che Jonathan lì dentro si allontanava da tutti piangendo un dolore ed un tradimento senza lacrime e al contempo torturandosi per le colpe che non aveva, per quel “non aver capito” che era costato tanto a tutti e che il fantasma di suo padre, che ancora camminava silenzioso per quelle camere, gli ricordava con cruda e dolce pena.
Non sapeva cosa dirgli, in verità avrebbe voluto consolarlo, dirgli ancora una volta che non era colpa sua, che non avrebbe potuto comunque fare nulla ma sarebbero state solo le ennesime parole vuote dette da qualcuno che non poteva capire il suo vero dolore.
Alec aveva sofferto tanto in vita, era inutile negarlo, non avrebbe avuto senso. Aveva sofferto per quegli anni di solitudine in cui gli pareva di non riuscire neanche a respirare, che non vi fosse abbastanza aria per permettere anche a lui di vivere, quando la lingua non ne voleva sapere di muoversi nella bocca e le corde vocali non riuscivano a vibrare neanche una parola. Aveva sofferto vedendo i suoi fratelli crescere e correre lontani da lui dopo aver cercato per tutta la vita di non farli cadere, di stare al loro passo… ma come si può star dietro a due stelle impazzite? Dopotutto, si era sempre detto, le stelle sono palle infuocate, piene di vita, di forza, brillano nell'oscurità dell'universo e spandono le loro radiazioni per anni luce; come poteva lui, semplice e pallida luna, astro dipendente da un pianeta che l'attraeva a sé impedendogli di andare alla deriva e di morire in una disastrosa collisione con qualcosa di più grande e potente di lui, compararsi agli astri splendenti? Neanche era in grado di brillare di luce propria, doveva per forza elemosinare il riflesso di una stella maggiore, abbastanza vicina per sfiorarla con i suoi raggi.
Oh, ne aveva impiegato di tempo a trovare quella luce… ne aveva impiegato di tempo per rendersi cono che non erano persone ma eventi, emozioni, sensazioni, quelle di cui rifletteva la luminosità. C'aveva impiegato così tanto tempo che nel mentre era riuscito a cadere ancora più in basso e più rovinosamente di quanto non avesse mai fatto prima. Nel processo che l'aveva portato ad accettare la sua condizione di satellite solitario Alec aveva sofferto la possibile perdita di un fratello, l'aveva sofferta due volte. Aveva sofferto il dolore negli occhi delle sue stelle, quello nella voce di sua madre, quello nei silenzi di suo padre. Aveva sofferto la partenza di quella famiglia allargata che si era riuscito a costruire neanche lui sapeva come. Aveva sofferto l'allontanamento dal suo solo all'apice della curva più lontana della sua orbita. La guerra che gli aveva dato tutto quello che non voleva e tolto tutto quello a cui teneva. Aveva sofferto perdite che mai avrebbe accettato ed aveva accolto dolori che tutti fuggivano solo per sentirsi più vero, un po' più umano. Alec aveva sperimentato la sensazione della vita che scivola via dal corpo ben tre volte ed era stato pronto ad accettarlo ogni volta.
Ma mai, mai qualcuno di coloro che tanto faticosamente aveva imparato ad amare, o qualcuno che, amare, era stato facile come neanche respirare lo era, l'aveva tradito come Valentine aveva tradito suo figlio.
Alexander guardò Jonathan mentre versava quell'alcolico brunastro nei due bicchieri e si disse che no, non avrebbe ripetuto le solite parole di rito, non gli avrebbe detto di uscire da quell'antro e tornare a vivere in tutto e per tutto perché, per prima cosa, non poteva neanche lontanamente immaginare come si dovesse sentire mese dopo mense Jonathan a convivere con il fardello che portava sulle spalle; e seconda cosa, perché conosceva il sadico e masochistico piacere che derivava dal rimanere chiuso nella propria cripta assieme a tutti i propri demoni attendendo solo che la morte calasse la sua scure su di te. Sapeva quanto pensare di essere un mostro sapesse di giusto, di corretto e sapeva ancor di più che godimento poteva pervaderti le membra quando qualcuno ti dava ragione, quando tutti smettevano di essere così schifosamente finti e delicati con te e cominciavano a dirti la verità, quella cruda e brutale, quella fatta di marchi a fuoco che ti sarebbero rimasti per sempre addosso come stigmate di una croce che mai, mai, avresti portato abbastanza a lungo sulle tue spalle.
Solo che tutte queste cose, in un qualche modo, Alec le aveva già affrontate nel suo percorso psicologico, aveva già ammesso le sue colpe e trovato qualcuno abbastanza intelligente e capace da dirgli che sì, aveva le mani sporche di sangue ma che questo non lo rendeva né meno uomo né meno mostro: spettava solo a lui decidere se voler tornare ad essere umano o se invece vestire di manti neri e sinistri artigli.
Non poteva più sperare di aver un'aureola scintillante in testa, ma poteva scegliere se lasciar che sul capo gli crescessero delle corna o null'altro che capelli.
Quando aveva ripensato con calma a quel paragone, una volta tornato a casa, Alec si era sentito solo terribilmente confuso e aveva passato la settimana seguente a tastarsi il capo con fare pensieroso.
Continuò ad osservare il ragazzo finché quello non gli porse uno dei bicchieri. Per allora Alec aveva deciso che non si sarebbe comportato diversamente dal solito solo perché si trovava nel luogo di pianto del collega, che farlo sarebbe servito solo a farlo incazzare e, soprattutto sarebbe stata una grandissima mancanza di rispetto.
Non che lui e Jonathan si rispettassero molto di più che per quel che concerneva il loro lavoro e i loro ideali. Neanche sempre per quelli visto che spesso si sparavano frecciate avvelenate per le loro decisioni.
Prendendo un respiro profondo Alec bevve a mala pena un sorso e poi posò il bicchiere sul tavolino.


«Cosa succede?» domandò con voce ferma e atona, senza la minima inclinazione.
Era l'Alec di sempre e Jonathan parve apprezzare la cosa.
«Davvero? Non mi dici nient'altro?» lo provocò.
«Tipo?»
«Tipo che non mi fa bene vivere qui, che dovrei andarmene e “ricominciare a vivere”.» spiegò semplicemente.
Alec si strinse nelle spalle. «Mi pare che tu stia ancora respirando, vieni in ufficio, rompi le palle come sempre, quindi a vivere vivi. Non sono la tua balia e neanche tua madre, ma se proprio ci tieni a farti dire qualcosa: apri quelle finestre, questa casa puzza, non so neanche come sia possibile che ci sia abbastanza ossigeno per due persone.»
Jonathan sogghignò. «Stronzo frigido-»
«Posso presentarti qualcuno pronto a dissentire.» disse solo.
«Non mi interessano le tue avventure sessuali. E poi casa è enorme, c'è ossigeno per mezza Mela qui. Ma forse non sei abituato a questo lusso.» disse ancora provocatorio.
L'espressione di Alec non mutò di una virgola. «Non giocare al ricco viziato con me Morgenstern, entrambi i miei genitori hanno lavori decisamente più che remunerativi. Vivrai anche in un attico ora, ma ricorda che sei cresciuto a Brooklyn, io in una villa a cinque piani con tanto di seminterrato, giardino e garage.»
Per un attimo ci fu silenzio, poi Jonathan scoppiò in quella risata da iena che, in qualche oscuro motivo, fece piegare le labbra di Alec in un ghignò storto e predatorio.
«Dio santissimo Lightwood! Non facevamo stupide gare del genere dal liceo.»
«Intendi dalla volta che sono stato messo in punizione per colpa tua?»
Jonathan sorrise allargando le braccia in un gesto scenico, il bourbon che oscillava pericolosamente nel bicchiere. «Non è stata solo colpa mia, ricordati che le risse si fanno in due.»
«Quindi farti prendere a calci in culo per tutta la palestra tu la chiameresti rissa? Strano, mio padre mi ha accusato di averti brutalmente picchiato senza motivo.»
Il biondo ridacchio come un moccioso. «Ti ha accusato? Magnifico! Mio padre mi ha chiesto come fosse possibile che quello con il naso rotto fossi io.»
Detto ciò si lasciò ricadere sul divano, sprofondando nei cuscini e finendo il contenuto del suo bicchiere in un colpo solo.
Alec storse il naso ma non disse nulla, non su quello.

«Perché mi hai chiesto di venire qui?» domandò serio.
Jonathan non lo guardò, gli occhi puntati sul pavimento, o forse sul muro, più probabilmente in un nulla che solo lui riusciva ad individuare.
«Perché devo raccontarti un paio di cose e non voglio che qualcuno lo sappia.» disse a bassa voce, la sincerità disarmante di quel tono così pesante.
Il detective si mise meglio sul divano, poggiando una mano su quella stoffa verde e resistente, notando solo in quel momento come essa sembrasse essere l'unica nota di colore di quella casa, per il resto completamente avvolta nel grigiore che permeava anche il suo proprietario.
«Stiamo parlando di lavoro o di qualcosa che ti riguarda in prima persona?»
Il silenzio di Jonathan fu più che esplicativo.
«Entrambi.» annuì Alec. «Parla.»
L'ultima parola fu un imperativo a cui neanche il diavolo in persona sarebbe riuscito a sfuggire.


La storia non cambiava da qualunque punto di vista la si provasse a prendere.
Ciò che era successo sei anni fa era ben o male di dominio pubblico e Alec ne conosceva anche qualche dettaglio di troppo grazie ai suoi genitori e anche grazie a Lucian, che più di una volta si era presentato per chiedere consiglio a sua madre.
Quello che ovviamente gli era sfuggito era la presenza di quella ragazzetta, perché nei verbali si parlava si tre uomini ed una donna di età non meglio specificata, e del tatuaggio che l'allora Tenente Garroway aveva chiesto a Jonathan di non citare nel suo rapporto per il semplice fatto che, in una situazione come quella, non era possibile vedere nulla. Jonathan aveva comunque messo una postilla in quelle pagine di racconto, in cui spiegava di aver visto il disegno di quella che gli era parsa una rosa ma che, viste le circostanze non fu minimamente preso in considerazione.
Ciò che non sapeva invece era come l'agente Morgenstern fosse arrivato nell'edificio dove era andato a cercar informazioni e perché fosse così sicuro di trovarle lì.

«Una soffiata di anni fa.» disse evasivo senza guardarlo in faccia.
Alec non ci cascò e puntò lo sguardo da falco dritto sul volto dell'altro. «Era un contatto di tuo padre.» non era una domanda, era una semplice constatazione dei fatti.
Jonathan digrignò i denti ma annuì. «Se te lo avessi detto mi avresti costretto a portarti con me.»
«L'avrei fatto, sì.»
«Non avrebbero parlato con te davanti.»
«Con te che sei apparso su tutti i giornali come il figlio devoto costretto a sparare al padre per la giusta causa invece hanno parlato?» la nota sarcastica e dura nella sua voce fece abbassare la testa al biondo per la frustrazione.
«Non sapevano nulla, me lo hanno assicurato e-»
«Dei criminali da cui ti mandava tuo padre per avere soffiate ti assicurano che non sanno nulla e tu giustamente gli credi.» quel discorso cominciava ad avere qualcosa di surreale e Jonathan si stava sentendo come un moccioso sgridato dal proprio genitore. Paragone schifoso vista la sua situazione ma assolutamente azzeccato.
«Lì conosco, va bene?» disse aggressivo.
Alec non si scompose neanche di una virgola. «Questo sì che migliora la tua situazione.»
Jonathan alzò gli occhi al cielo lasciandosi sfuggire un ringhio di pura frustrazione.
«Ascolta.» iniziò rabbioso. «Non li conosco perché sono amici miei, è gente che non fa traffici proprio legalissimi ma che- Ah! Ma ti pare che ti debba venire a dire come lavora la Crimine Organizzato? Sono accordi particolari e non venire a farmi la morale sul fatto che non dovremmo scendere a patti con i criminali solo per trovare i pesci più grossi perché così alimentiamo comunque l'illegalità! Tu non sai cosa voglia dire dover aver a che fare con quel tipo di gente, non è il tuo lavoro, tu-»
«In effetti non ho sempre il piacere di trattare con “quella gente”, la maggior parte delle volte che la conosco io è già morta.» l'assoluta apatia che emanava la sua voce colò sul pavimento come un rivolo più denso di fumo, bloccando per un attimo Jonathan prima che riprovasse a prendere la parola.
Alec fu più veloce, nonostante la lenta fermezza delle sue parole.
«Quello che non riesci a capire, di questa situazione, non è il problema dell'alimentare la piccola criminalità a sfavore della comunità lecita e legale della nostra città. Gli accordi della OCCB non sono affar mio. Il mio compito è trovare gli assassini. Voi agite per impedire gli omicidi, io per risolverli. Voi lavorate con le persone, io con i cadaveri.
Il problema che si sarebbe potuto creare non è neanche inerente al fatto che quella gente te l'abbia presentata tuo padre, chi ti abbia mandato da loro, perché probabilmente ti hanno dato davvero giuste informazioni per un altro, ipotetico, accordo, questa volta stipulato con tuo padre.
Il problema, Morgenstern, sta nel fatto che sei in una squadra, che mi sono fidato di te quando mi hai chiesto di farlo ma che, volontariamente, hai omesso di dirmi che il luogo in cui stavi per andare avrebbe potuto lasciarti libero anche dentro un sacco nero.» lo sguardo freddo di Alexander lo scavò nel profondo, esaminando ogni più piccola piega del suo animo, pesando le intenzioni, le azioni ed i risultati.
Ciò che ne ricavò fu una risposta più che semplice: non lo stava rimproverando per esser andato a rischiare la propria vita, lo stava rimproverando perché prima di farlo non l'aveva avvertito.

Figlio di puttana.

Jonathan si ritrovò suo malgrado a sorridere storto, un qualcosa che, probabilmente, aveva un po' ripreso proprio da Lightwood.
Avevano passato una vita ad incrociarsi su ogni via percorsa ma erano bastate quelle settimane a stretto contatto per attaccargli alcune delle sue maledette abitudini. Per far sì che Jonathan potesse intuire le parole dietro i suoi sguardi silenziosi e fermi, freddi come il cielo terso la notte.
E proprio come succedeva quando la stella maggiore era ormai sparita e le stelle brillavano timide e fioche contro le luci accecanti della città, Jonathan si ritrovò a prendere una boccata d'ossigeno, di quell'aria fresca e rigenerante che solo la notte può donarti. Gli sembrava quasi di aver passato gli ultimi mesi stipato dentro ad un locale con troppa gente, troppo calore, troppa luce, troppi rumori. C'erano le centinaia di persone che lo guardavano con diffidenza, le moltitudini di voci che gli ronzavano attorno, di sé, di ma, di forse; c'era il calore opprimente della colpa, del senso di inadeguatezza, della sua famiglia – quello che ne restava almeno – che si era stretta attorno a lui per tenere i cocci uniti senza rendersi conto che c'era già della colla tra quei frammenti e loro, con quella presenza opprimente e apprensiva, la stavano facendo sciogliere. C'erano i riflettori puntati su di lui, altro calore che non permetteva a quel mastice biancastro e mal messo di fissarsi tra le crepe ancora malamente unite e i pezzi più grandi che continuavano a minacciare di cadere. C'era lo sguardo della Herondale che era accecante come il flash dei giornalisti, come i fari di uno stadio, opprimente come l'abbraccio di sua madre, doloroso come il suo sguardo, impietoso come Jonathan necessitava fosse ma non al modo in cui aveva bisogno. C'era tutto questo in quel locale straripante di persone, di attenzioni, di aspettative, di malelingue, di idee già fatte, già assicurate, già scritte.
C'era tutto quel mondo così soffocante e poi- poi, proprio come succedeva quando eri ad una festa a cui non avresti mai voluto partecipare, Jonathan aveva scorto da lontano la porta sul retro, lontana da tutti, grossa e rassicurante con i suoi maniglioni antipanico.
Si era allungato verso quella porta a Natale e aveva goduto del freddo del metallo spesso, respirando quell'aria un po' più fresca che proveniva dritta da sotto l'uscio. C'era stato poi un momento in cui la folla lo aveva ritirato dentro ma poi, di nuovo, ancora una volta, una mano bianca come quella di un fantasma si era allungata verso di lui. Aveva atteso paziente che trovasse il giusto equilibrio per districarsi da quei corpi ed arrivasse ad afferrarla. Non gli aveva aperto la porta, no, non l'aveva fatto, ma lo aveva ritirato vicino alla maniglia e aveva lasciato che fosse lui stesso a premere su di essa e caracollare fuori, sull'asfalto un po' umido ma così refrigerane.
Gli occhi blu di Alexander Lightwood erano stati il riflesso di quel cielo notturno che gli aveva offerto finalmente la possibilità di ricominciare a respirare, di far abituare la gola al freddo pungente dell'inverno ed i polmoni ed il sangue alla salvifica presenza dell'ossigeno.
Lightwood gli aveva dato fiducia, un qualcosa che di solito la gente era veloce a negargli o che, in contrapposizione, gli aveva sempre dato solo in virtù del suo nome.
Avrebbe cercato lui in ogni caso, avrebbe richiesto la sua presenza perché sapeva quanto voleva continuare ad essere un Morgenstern pur non essendolo più. Gli aveva dato fiducia quando l'aveva lasciato andare per la sua strada, a seguire la sua pista, ed ora, nel momento di pausa in cui si tiravano le somme, stava continuando a guardarlo con la stessa fiducia e con un qualcosa di nuovo.
Jonathan era un membro della sua squadra, Alexander teneva in conto la sua salvezza quanto quella degli altri.
A conti fatti, Jon non poté far altro che alzare le mani ed accettare una sconfitta che non ne aveva minimamente il sapore, che sapeva molto di più di aria fresca e pulita, condita da una nota piccante di una rivalità mai apertamente detta che sempre li aveva legati e sempre l'avrebbe fatto.
Per quella volta decise che chinare il capo non sarebbe stato segno di debolezza, per quella volta quelle parole non gli avrebbero bruciato se non nel tentativo di trattenere una risata forse fuori luogo.

«Va bene, me lo sono meritato. Chiedo scusa, capo.»

Il sorriso di Alec, storto e sbilenco, con l'angolo sinistro che precipitava in basso ed il destro che s'alzava verso lo zigomo, fu solo l'ennesima sferzata di vento che gli carezzava la pelle gentile dopo tutto quel caldo soffocante.
«Molto maturo da parte tua ammetterlo, agente.»
Il tono monocorde pervaso da una nota di ironia quasi famigliare, neanche lontanamente canzonatoria.
«Quando va detto, va detto. Che nessuno osi insinuare che Jonathan Christopher Morgenstern non sia in grado di riconoscere i suoi errori e correggerli.» disse sicuro, guardandolo dritto degli occhi.
Il cielo notturno si dissipò di quelle poche nuvole rimaste ed il sorriso fine della luna brillò.
«Che nessuno osi dire che i miei agenti non sappiano trovare le falle e aggiustare il tiro.»
«Solo il meglio, non siamo mica matricole.»
«No, non lo siamo più. Siamo poliziotti.»
«Facciamo rispettare la giustizia.»
«Proteggiamo la gente e troviamo verità.»
«Che ci piacciano o meno.»
Quell'ultima frase gli valse uno sguardo più penetrante degli altri, la loro lunghezza d'onda sovrapposta e non più parallela.
Alexander si alzò e lo fissò dall'alto, come un cavaliere che scende da cavallo per offrire una mano al compagno disarcionato durante uno scontro. Non vi era armatura scintillante, ma nessuna protezione sembrava servire alla Luna, che tanto aveva visto la sua pelle colpita e ferita ma ancora brillava stoica ed immortale nella buia infinità dell'universo, come una piccola fiamma che illumina il cammino degli eroi.

Luce nel buio.
Lightwood.


«Preparati, abbiamo un caso da risolvere ed una rosa da trovare.»
Detto ciò prese il proprio bicchiere e ne versò metà nel suo, bevendo poi d'un sorso ciò che ne rimaneva.

Quando Alec se ne fu andato, con l'accordo di vedersi al Dipartimento, Jonathan fissò la bottiglia di bourbon ed i due bicchieri.
Il suo bicchiere era vuoto, quello del suo collega pieno. Ma Alexander aveva smezzato il liquore e aveva di nuovo riempito quel calice.
Jonathan lo fissò per un momento, poi lo raccolse e lo posò sul mobile, deciso a non berlo.
Il bicchiere era vuoto e ora invece, grazie a qualcuno, conteneva di nuovo qualcosa.
Alec non gli aveva dato la soluzione a tutto, non aveva avuto pietà di lui, non lo aveva trattato come l'origine di tutti i mali come aveva fatto la Herondale, come una bambola di cristallo come faceva la sua famiglia.
Aveva versato un po' del proprio bicchiere nel suo, ora stava a lui decidere se vederlo mezzo pieno o mezzo vuoto.
Tornando sui suoi passi superò il divano e si diresse sicuro verso le finestre, tirando le tende, aprendo i vetri e alzando le serrande.
Il vento freddo di marzo era stato mitigato da quello più clemente d'aprile.
L'aria fresca si infranse sul suo corpo, permettendo ai polmoni di riempirsi di tutto l'ossigeno che quella casa non aveva più, penetrando nel salone, nella cucina, sino a risalire le scale e giungere in quelle camere che un tempo avevano ospitato una famiglia che ora non c'era più.

Dopo tutti quei mesi Jonathan e la sua casa tornarono a vivere.

Il bicchiere poteva ancora essere mezzo pieno.









Con il passare degli anni Alec aveva imparato che i crimini erano tutti terribili in modo diverso.
I suicidi e gli incidenti erano quelli più tristi, forse perché si parlava di persone addolorate che non erano riuscite ad uscir fuori da un periodo, o una vita, troppo scura, o perché si parlava di morti avvenute per colpa di uno scatto d'ira da parte di una persona che mai ne aveva avuti, per una spinta troppo forte, per il gioco innocente di due bambini che poi si era trasformato in tragedia.
Quando poi la morte riguardava dei bambini la cosa peggiorava in modo quasi disgustoso. Vedere quei corpi così piccoli, così indifesi… non importa che avessero due anni o dodici, prima di una certa età ci si ritrovava a pensare che dovevano essere stati spaventatissimi, che non avevano capito nulla di ciò che gli era successo, dai nove, dieci anni in su invece il problema era l'inverso, sapevi che probabilmente avevano compreso ogni cosa, che c'era stato un momento in cui avevano capito che sarebbero morti.
Le violenze fisiche, stupri e torture, ti facevano venire l'amaro in bocca, la voglia di vomitare, di buttare altro schifo su quello che già ti si parava davanti agli occhi.
Le morti violente, incidenti stradali, mutilamenti, cadute da altezze considerevoli, quelle ti facevano venire uno schifo diverso rispetto alle violenze, ti facevano vedere i corpi come ciò che erano: carne da macello, nulla di più, nulla di meno. La fortuna dell'uomo era stata solo quella di esser risultati come la specie più intelligente – neanche troppo – o sarebbero stati alla stregua del bestiame.
Ma se c'era una tipologia di omicidio che gli faceva salire la rabbia pura, la nausea, il voltastomaco, e l'indescrivibile necessità di prendere a pugni qualcuno fino a farlo svenire, fino a farlo diventare uno di quei crimini da morte violenta, beh, quelli erano i casi a grande risalto mediatico.
Anche questi si dividevano a loro volta in due categorie: quei casi che venivano presi a cuore dai giornalisti, omicidi perpetrati in modo particolarmente violento, casi in cui la famiglia della vittima chiedeva la giustizia che non aveva avuto, sparizione di bambini, donne incinte, gang e simili; e gli omicidi di persone famose o quanto meno molto conosciute.
Alec odiava i primi perché sembrava che fossero più importanti di tanti altri casi esattamente identici, o peggiori anche, passati in sordina, ed i secondi perché i giornalisti, le male lingue, i roumors non facevano altro che intralciare il suo lavoro e metter in giro false voci che depistavano le indagini. In quei casi era difficile condurre un interrogatorio, cercare una persona, portarla alla centrale anche per la più stupida domanda di routine. Era successo che delle prove sparissero, che oggetti inutili ma presenti sulla scena del delitto fossero rivenduti, che fan dell'orrore si presentassero in massa nel luogo in cui si era perpetrato il crimine. E più era efferato, peggio era.
Quando era arrivato al Dipartimento e la segretaria del Capo Blackthorn l'aveva chiamato con quell'espressione tirata in volto, Alec aveva capito immediatamente che quel caso non gli sarebbe piaciuto. Quando aveva visto il volto scuro di Blackthorn aveva capito anche perché non gli sarebbe piaciuto.
Alexander odiava i casi ad alto risalto mediatico. Era riuscito a scampare l'ultimo solo ed unicamente perché era in ospedale a combattere per la sua stessa vita.

Il famoso ristorante da tre stelle Michelin era situato a West Village, sulla Hudston St. .
Hugh Cobe era uno di quei chef divenuti famosi alla vecchia maniera. Niente programmi in tv, niente libri, niente gare e concorsi. Si era formato in un'accademia di alta cucina, aveva lavorato per mezza Europa, partecipato alla realizzazione di più banchetti per i reali di ogni dove, tornando poi in America per aprire il suo ristorante, uno ed uno soltanto.
Era famoso per i suoi filetti, che fossero di pesce o di carne aveva poca importanza: in quanto a cuocere tagli spessi e delicati di ogni tipo lui era il migliore.
O almeno questo era quello che aveva detto loro Magnus.
Jonathan, che si era guadagnato il posto vicino al guidatore e ancora sfoggiava quel sorrisetto soddisfatto, annuì concorde.

«Ma anche le sue crudités non avevano nulla da invidiare ai piatti cotti.»
Magnus alzò un sopracciglio, passando sotto il nastro giallo che delimitava il marciapiede e gran parte della strada di quell'isolato al passaggio pubblico. «Sei stato qui a cena?»
«Pranzo. Era decisamente più tranquillo, c'erano meno coppiette e meno vecchi ricconi che alzavano troppo il gomito sino a diventare molesti con le loro stupide risate.» disse semplicemente stringendosi nelle spalle.
Quella mattina Jonathan sembrava più rilassato del solito, Magnus se ne era reso ben conto e per una volta aveva deciso di non tirare la corda.
«Concesso. Anche perché i vecchi ricconi girano sempre con qualche bella bambina al braccio e fin troppo spesso sono decisamente troppo giovani.» fece un verso schifato.
Simon si tirò su gli occhiali con il dorso della mano, guardando curioso l'amico. «Scusa, non eri tu quello che cambiava accompagnatrice ogni giorno?»
«Più ad ogni ora del giorno, ad essere onesti, ma io non sono mai andato con minorenni… cioè, quando lo ero anche io sì, ma mai minorenni-minorenni.» mise in chiaro annuendo.
Fu il turno di Jonathan di alzare un sopracciglio. «Perché, ci sono minorenni più minorenni di altre?»
«Assolutamente, non me la sono mai fatta con ragazzine di quattordici anni.»
«Neanche quando ne avevi tu quattordici?»
«No, a quei tempi mi facevo le sedicenni. O mi facevo fare dai sedicenni.» ammiccò.
«Diamine Mags! Sei stato precoce!» disse Simon sorpreso.
«Certo che sì, Steve, ma mi hai visto? Sono un figo da paura ora, immagina che sex-symbol che dovevo essere da piccolo, mi cercavano tutti!» con un sorriso compiaciuto fece l'occhiolino a Simon e si girò baldanzoso verso Jonathan per chiedergli quando lui fosse entrato nel magico mondo del sesso, ma il fatto che il biondo non si fosse intromesso nei suoi vaneggiamenti avrebbe dovuto far scattare qualcosa sia nella sua di mente che in quella sia Simon.
Morgenstern teneva lo sguardo fisso davanti a sé, cercando palesemente di non mostrarsi troppo divertito. Al suo fianco Alexander fissava gli altri due con un'espressione così glaciale che avrebbe potuto tranquillamente far nevicare di nuovo.
«Un'altra parola non inerente al caso e mi aspetterete sui sedili posteriori di una volante finché non avrò finito di esaminare la scena.»
Simon incassò la testa nelle spalle e si nascose dietro a Magnus che invece regalò al Detective un sorriso accecante.
«I sedili posteriori sono quelli che preferisco! Non rischi di dare culate al volante e far partire il clacson!» trillò allegro.
«Sono a tua disposizione allora, chiedi all’agente Peterson se può aprirti la sua voltante e digli di inserire il blocco bambini. Ti veniamo a prendere appena avremo finito.» il suo di tono era invece calmo e basso, come se stesse parlando del tempo e non dell’imbarazzante punizione di un uomo adulto per non esser riuscito a tenere la lingua a freno.
Alexander avanzò sicuro superandoli, salì le scale della lussuosa entrata e, mostrano il proprio distintivo all’agente sulla porta, scomparve nel ristorante.
Gli altri tre rimasero fermi sul viale senza saper cosa fare. Magnus alzò un sopracciglio scettico.
«Pensate che mi stesse prendendo in giro o che dicesse sul serio?» chiese dubbioso.
Morgenstern si strinse nelle spalle. «Tu lo sai?» e si avviò anche lui verso la scena del crimine.
Simon gli sorrise incoraggiante. «Scherzava, sicuramente scherzava. O forse no, non lo so… noi facciamo finta che non sia successo nulla ed entriamo lo stesso, va bene?»
L’altro sbuffò. «Dovremmo regalargli qualcosa tipo un collare che si illumina ogni volta che fa una battuta o risponde con sarcasmo.» borbottò seguendo l’amico.


Il ristorante era sicuramente elegante, con superfici lucide e tovaglie candide. Le ampie vetrate davano una sensazione di grandezza che andava ad accumularsi a quella scaturita dalle notevoli dimensioni dell’ambiente e dei soffitti alti da cui pendevano lampadari a specchio dal profilo di design. Alle pareti pochi quadri ritraevano scorci della città con uno stile moderno, sui mobili posti sotto di essi composizioni floreali fresche coloravano quella sala che sarebbe stata se no solo bianca e metallica.
Non vi erano clienti, quel giorno tutto il locale era stato prenotato per un’importante riunione d’affari.
Alec osservò con attenzione la disposizione dei tavoli, spostati in modo da permettere ad una lunga tavolata unica di svettare nel mezzo della sala principale, proprio sotto la ghiera di luci poste a cerchio nel centro.
La tovaglia immacolata strideva terribilmente con le macchie di sangue che si trovavano sul pavimento, impronte di scarpe di varie forme e dimensione, tutti coloro che si erano affrettati attorno alla vittima quando questa era caduta a terra agonizzante. I piatti dai bordi dorati, i bicchieri lucidi, il vino bianco, le posate splendenti, la zuppa color crema… ogni cosa era perfettamente integrata in quell’ambiente dove quel colore così vivido, così violento risaltava con maggior forza. Il cadavere era riverso in una pozza del suo stesso sangue. Non era stato spostato dal punto esatto in cui era caduto ma ovviamente i commensali si erano affrettati a girarlo nel tentativo di salvare il famoso cuoco da quell’inevitabile morte.
L’uomo era ora in posizione supina, gli occhi sbarrati puntati verso quelle luci accecanti che, come un aureola, lo illuminavano dall’alto. Portava ancora la sua divisa da chef, ora intrisa di sangue, ma non vi erano segni di proiettile, non vi erano ferite da arma da taglio o da arma contundente, nulla che potesse giustificare quell’enorme perdita di fluido. Il viso mortalmente pallido era imbrattato tanto quanto le sue vesti, le labbra viola spalancate, bocca, denti, mento, guance e collo completamente coperti di rosso, come li avesse immersi in una latta di vernice.
Non vi erano segni particolare, nessuna petecchia significativa, nessun livido evidente, guardandolo così, prima ancora di sentire il parere del coroner, Alec sapeva già che quell’uomo doveva esser morto d’emorragia interna. Cosa l’avesse provocata era il punto focale della faccenda.
Attese in silenzio che il medico finisse di esaminare il cadavere e gli fece un cenno con il capo quado questo si volse verso di lui, un sorriso affabile sul volto gentile.

«Buon giorno Lightwood, è la seconda volta che devo darti il “ben tornato”, vi hanno riassegnato ai casi comuni?»
Il dottor Carson inclinò leggermente la testa, socchiudendo gli occhi chiari, infastidito da quella luce così forte che sembrava puntargli contro come un faro.
Anche Alexander si ritrovò a lanciare un’occhiata sbieca all’anello di lampadine e si sposò subito dopo, facendo attenzione a non toccare impronte e macchie, schermando come meglio poteva il medico legale con la sua alta figura.
«Ti ringrazio.» gli disse quello gentile.
«Di nulla. Non credo che questo caso sia poi così comune, sbaglio?»
Carson scosse la testa, i capelli scuri, corti e mossi, parvero quasi ondeggiare morbidi sul capo del dottore. La sua pelle chiara appariva giallina sotto quell’illuminazione e ancora una volta Alec si voltò a guardare il soffitto, l’espressione crucciata.
«Queste luci erano così forti anche quando è arrivato lei?» domandò curioso.
L’uomo annuì. «Sì, ma sono del parere che siano stati i primi agenti arrivati sul posto a chiedere di alzare l’intensità, forse per esaminare meglio il corpo.»
Il tenente non rispose subito, guardandosi in giro pensieroso.
«Siamo in pieno giorno, le finestre sono lontane, è vero, ma l’ambiente è arioso e chiaro, pieno di superfici lucide, riflettenti… perché hanno acceso le luci?» chiese più a sé stesso che agli altri.
«Trovato già qualcosa che non ti quadra?» Jonathan gli si affiancò silenzioso, rivolgendo poi un saluto al medico legale e puntando gli occhi sul cadavere. «Un mucchio di sangue, vedo.»
«Non sei abituato a vederne così tanto? Non dirmi che alla Crimine Organizzato non vi capitano mai scene del genere.» lo punzecchio Magnus, seguito da Simon che, con circospezione, camminava sulle punte per evitare di toccare qualche impronta.
Il biondo si lasciò sfuggire un suono sprezzante. «Certo che vediamo scene sanguinolente, ma l’ultima volta che ne ho vista una con così tanto sangue è stato co-» si bloccò. Non disse altro ma il suo sguardo volò veloce su Alexander che, ritto come un fusto, esaminava ora le luci, ora il tavolo, ora il corpo, saltando da un punto all’altro come se vi fosse un collegamento diretto, un filo che solo lui riusciva a vedere e che legasse le tre zone.
Magnus trattenne il fiato quel tanto che bastava per rendersi conto che il detective non li aveva sentiti. Simon, dietro di loro, deglutì un paio di volte e l’espressione dura di Jonathan suggellò la chiusura di quel discorso prima ancora che fosse aperto.
Nessuno di loro voleva rivangare quella storia, nessuno di loro voleva ricordare che l’ultima scena del crimine con così tanto sangue, con non una ma ben due vittime riverse in una pozza rossa fosse stata a casa di Magnus, che una di quelle vittime, uno di quei corpi, aveva rischiato d’esser Alec stesso. I medici non avevano voluto dir loro quanto sangue avesse perso quella notte, forse solo il diretto interessato lo sapeva ma si premurava di tenerlo per sé.

«Simon?» chiamò d’improvviso Alec.
«Sì?» saltò su lui guardandolo spaesato.
«Vai a chiedere agli agenti se quando sono arrivati le luci erano già così forti, se non sono stati loro scopri chi.»
«Roger!» disse subito facendo per andare, poi si bloccò e guardò l’amico. «Ma non dobbiamo esaminare il corpo? Vorrei sentire cos’è successo.»
Il moro annuì. «Non c’è molto da dire ora come ora. Non ci sono segni di violenza, non ci sono ferite. Solo l’autopsia saprà dirci cosa ha scatenato l’emorragia.»
«È davvero morto così? Per emorragia interna?» chiese Magnus quasi disgustato.
«Non è una bella morte, rientra di sicuro tra le più spiacevoli.» annuì il medico. «Posso solo presupporre che debba esser stato un composto in grado di perforare le pareti dello stomaco, creare ulcere… non è una certezza, solo una vaga idea di cosa potrebbe essere stato. Quest’uomo non è morto soffocato nel suo stesso sangue solo ed unicamente perché è fuoriuscito con tale violenza da non dargli il tempo di sentire la mancanza d’ossigeno. Credo comunque che, malgrado il tutto, riuscisse ancora a respirare.»
«Non ci sono petecchie negli occhi.» disse sbrigativo Alec prima che Magnus formulasse la domanda.
Carson annuì. «Posso farlo portare via? Prima tornerò in obitorio prima saprò dirvi qualcosa.»
Alec fece un cenno vago, qualcosa che fece intuire al medico di dover aspettare ancora un attimo, poi si rivolse a Magnus. «Chiedi la lista dei lavoratori presenti, Jonathan, tu dei commensali.»
Magnus mise su un falsissimo broncio infantile. «Perché a me la servitù?»
«Perché non sai come trattare la gente di un certo rango, a differenza mia.» ammiccò il biondo.
L’altro alzò un sopracciglio in segno di sfida. «Credi davvero a ciò che stai dicendo?»
«Tu riesci a fingere di esser completamente asservito a qualcuno della nobiltà, mastro Bane?» lo scimmiottò continuando sul filo delle sue lamentele. «E soprattutto, riesci a correre abbastanza velocemente da non farti prendere da un qualunque oggetto Lightwood deciderà di lanciarti dopo quella bell’uscita infelice?» domandò stringendosi nelle spalle, un gesto del tutto in contrasto con il ghigno sadico che aveva in volto.
Magnus fece una gran fatica ad ignorare quel “mastro Bane”, specie quando avrebbe voluto specificare che lui era un principe, non un qualunque manovale, ma la realizzazione di aver detto, forse, qualcosa di troppo davanti al detective bastò a non farlo replicare e girarsi lentamente verso di lui.
Alec lo fissava impassibile, non una sola emozione gli passava in volto, non un tremito, non uno sguardo diverso che non fosse quello di ghiaccio con cui guardava tutto ciò che non gli interessava o che, peggio ancora, lo irritava. E quel commento sulla servitù doveva averlo irritato parecchio visto il brivido di freddo che gli era colato lungo la schiena.
Ma Magnus era tanto bello quanto stupido, o forse sarebbe stato meglio dire che fosse un amante della bella vita tanto quanto lo fosse del pericolo, e con un sorriso smagliante si rivolse intrepido al suo capo: «Vuol dire che lui sa leccare il culo meglio di quanto non lo sappia fare io? No, perché su questo potre-»
«La lista del personale.» ripeté con calma mortifera Alec.
«Sempre io?»
«Ora.»
«Comunque possiamo tutti ammettere che se dovressimo seriamente fare una gara di-»
«Magnus?»
«Sì, capitano mio capitano?» chiese battendo le ciglia lunghe.
«Perché ti vedo ancora qui davanti a me?»
A quella domanda Jonathan alzò gli occhi al cielo e, afferrato malamente l’uomo per il collo del cappotto, lo trascinò via prima che il Tenente Lightwood riuscisse ad estrarre la pistola da sotto il giaccone chiuso. Non aveva dubbi che sarebbe stato estremamente veloce anche in quello e per quanto vedere Bane con un buco in testa sarebbe potuto risultare anche divertente, non aveva la minima voglia di ritrovarsi con un secondo cadavere ad inzozzare la scena di un altro crimine, con un superiore tutto sommato buono ma, di certo, che non sarebbe stato troppo facile da ammanettare da arrestare, con un doppio caso da risolvere e con quelle lunghissime e pallose sedute in tribunale. Non metteva in dubbio che Alec si sarebbe subito preso le sue responsabilità e che si sarebbe consegnato alla giustizia senza neanche voler un appello, ma non dubitava neanche che l’intero dipartimento di polizia non lo avrebbe perdonato. O fatto una statua nel caso di Luke, ma questi erano dettagli.
«Forza, signore supremo delle puttanate, a te il personale di sala e di cucina e a me i pezzi grossi, così ha detto il capo.»

Alexander sentì a mala pena le proteste di Magnus su quanto al massimo fosse il signore supremo delle puttane e non delle puttanate – e questa battutina gli sarebbe costata davvero cara poi – e su come gli stesse sgualcendo il cappotto con quella presa da scimmione.
Il detective riportò lo sguardo sul cadavere, presto dimentico dei suoi colleghi, e lo esaminò ancora senza muoversi dalla sua posizione.
Da lì poteva immaginare perfettamente il cuoco alzarsi da tavola, magari dopo aver dato qualche colpo di tosse. Forse aveva accusato qualche fastidio, aveva riconosciuto un sapore scorretto, aveva chiesto scusa ai suoi ospiti e, spostata la sedia con un po’ troppo impeto, data la posizione discostata rispetto al tavolo in cui si trovava, si era avviato verso la cucina ed il corridoio che dava sulla zona aperta solo al personale.
Quanti passi aveva fatto? Non era molto alto, forse sul metro e settantacinque, di certo più basso di lui e anche di Jonathan. Probabilmente era riuscito a farne otto, massimo dieci, doveva ricordarsi di chiedere a qualcuno, aveva cominciato, o continuato?, a tossire, sputare sangue, finché l’emorragia aveva avuto la meglio ed il sangue era fuoriuscito con prepotenza.
Alec alzò lo sguardo sul soffitto, osservò uno dei faretti posti sulla vittima e, stringendo gli occhi per combattere la forte luce, riuscì a scorgere delle piccole perle lucide e rosse. Com’era possibile?
Abbassò lo sguardo, lo rialzò, girò su sé stesso e poi si bloccò. Tenne gli occhi fissi sulla vittima, ignorando l’occhiata interrogativa del dottor Carson e si disse che qualcosa gli mancava, qualcosa che avrebbe dovuto veder subito ma che gli era sfuggito.
Doveva far mente locale, ricominciare da capo.

«Potete allontanarvi tutti dalla scena del crimine, per favore?» chiese con voce ferma ma gentile.
Il medico legale continuò a fissarlo curioso ma annuì e si alzò da terra, facendo cenno ai suoi sottoposti di portar via la barella e ai tecnici della scientifica di posare ciò che avevano in mano e far un passio indietro.
«Preferisci che il locale sia vuoto o solo questa zona?» domandò tranquillamente, come se fosse abituato a situazioni del genere e in effetti il dottor Carson lo era, lo era eccome.
Nella sua lunga carriera gli erano capitati tutti i possibili tipi di poliziotto, detective e dirigente presenti al numero 1 di Police Plaza. Da chi voleva assoluto silenzio a chi voleva fotografato anche il granello di polvere, da chi pretendeva che neanche lui toccasse il corpo finché non fossero stati terminati tutti i rilievi e chi chiedeva di portare subito via la vittima, prima ancora di sentirsi dire a che ora fosse morta. Alexander, in passato, gli aveva già fatto una richiesta simile. Se lo ricordava ancora, piccolo di volto, troppo giovane per non esser solo una semplice recluta. Lavorava ancora con Benny e i suoi ragazzi, forse era proprio uno dei loro primi casi, quando si erano resi conto che le nuove leve erano dispari e non si poteva assegnare un altro ragazzo a qualche sergente o tenente. Petter aveva accettato di buon grado di prender con sé e la sua squadra già più che collaudata quel ragazzino altissimo, pallido come un morto, con i capelli neri sempre ordinati e gli occhi così blu da sembrare finti.
Si ricordava come, giunti sulla scena del crimine, i tre detective avessero subito capito cosa fosse successo, uno schema già visto fin troppe volte purtroppo, molto confuso all’inizio ma estremamente facile da riconoscere dopo: una resa dei conti fin troppo sanguinolenta, tipica di una gang che in quel periodo stava mettendo a ferro e fuoco il Queens. Petter aveva chiamato Lightwood, che come ogni pivello che si rispetti non era ancora coinvolto nella vera risoluzione del caso e veniva mandato in giro a trottare dietro deposizioni secondarie, scartoffie e caffè, e gli aveva detto di non andar a fare il suo solito giro ma di guardare la scena del crimine e dirgli cosa fosse successo.
Alexander aveva buon occhio già all’epoca, da quel che sapeva sulla sua famiglia – informazioni che erano cresciute in modo esponenziale da quando Isabelle era entrata nel loro laboratorio – era abituato a star dietro ai danni dei suoi fratelli e scorgere le minime avvisaglie di un qualunque problema. Porgli quella domanda, per molti agenti senior lì presenti, era parsa quasi una cattiveria al tempo, ed il giovane “pivello in prova”, come lo chiamava bonariamente Gabe, aveva cercato di dare il meglio di sé per non sfigurare davanti ai suoi superiori.
Carson se lo ricordava bene, sorprendentemente più di quanto avrebbe creduto possibile: si ricordava Alec che girava la testa a destra e manca, la strada, il muro, la porta, la vittima, il muro, i palazzi, le lampade, la vittima, il coltello, la strada. Aveva fatto un giro su sé stesso, poi si era fermato, aveva aggrottato le sopracciglia e voltatosi verso Petter gli aveva lanciato uno sguardo imbarazzato, le guance rosse come quelle di un bambino preso in fallo.
Tutti ben o male sapeva cosa avrebbe detto, si immaginavano quella voce bassa, quasi sussurrata ammettere di non saper cosa fare, e invece l’allora piccolo agente Lightwood li aveva sorpresi tutti.

«Potrei chiederle di far allontanare, solo per un momento, tutti dalla scena? Se non è di troppo fastidio per la scientifica ed il coroner.»

Aveva domandato con fare timido, imbarazzato da quella sua stessa richiesta che poteva sembrar così supponente.
Gli occhi a palla di Berry Petter, di tutti i presenti, sarebbero dovuti esser immortalati all’epoca.
Alla fine Lightwood aveva letto bene la scena, aveva fatto i collegamenti giusti, seppur non tutti precisi e diretti, seppur non sempre completi, ed era riuscito a dare, a grandi linee, una visione generale di un evento che la maggior parte di loro già conosceva. Non era stato perfetto, questo no, c’era stato un periodo in cui l’impassibile Detective Lightwood aveva dato le sue risposte e le sue spiegazioni con aria remissiva, temendo di dire la stupidaggine più grande del mondo, di esser deriso, di gettar fango sul nome della sua famiglia, sull’operato di suo padre.
Puntando gli occhi chiari su Alexander, Carson sorrise quasi nostalgico, come crescevano in fretta i ragazzi, persino le reclute prima o poi diventavano tenenti.
Avanzò verso il detective e gli poggiò una mano sulla spalla.
«Prenditi tutto il tempo che ti serve, Lightwood.»
Lo sguardo limpido del giovane valse quanto le sue parole educate e sincere. «Grazie Dottore.»

Quando tutti si furono mossi, lontani dalla luce accecante di quell’aureola di faretti, Alec stesso fece un passo indietro ed osservò di nuovo la scena, imponendosi di riguardarla senza pregiudizio alcuno: cosa vedeva?
Nell’ampio salone i tavoli più o meno grandi erano stati spostati per far spazio, nella zona centrale, ad una lunga tavolata bianca, immacolata. Ogni singolo oggetto posto sopra quella tovaglia candida era luminoso e chiaro, non vi erano colori scuri, non vi erano colori forti, solo il bianco, l’oro, l’argenteo del metallo ed i luminosi riflessi di vetri e cristalli.
Le sedie erano scompostamente allontanate dal tavolo, era logico presupporre che nel momento in cui il famoso cuoco era crollato a terra agonizzante molti dei commensali, se non tutti, si fossero alzati per soccorrerlo. Un paio di sedie erano girate completamente, forse qualcuno si era riseduto sentendosi male, forse qualcuno aveva avuto un mancamento ed era stato riaccompagnato al proprio posto, un bicchiere al centro della tavolata, era stato abbandonato vicino al bordo, quindi sì: sicuramente qualcuno aveva accusato la vista del cadavere e del sangue e si era dovuto risedere. Doveva chiedere a Jonathan chi fosse.

«Qualcuno vada dall’agente Morgenstern e gli chieda di scoprire l’esatta posizione di tutti i commensali a tavola e chi si è sentito male oltre la vittima. Parlo di mancamenti, giramenti di testa, nausee, le classiche conseguenze da shock, grazie.» Disse con voce sicura e non troppo alta. Vide una divisa blu muoversi veloce ed apprezzò la rapidità nell’eseguire quell’ordine. Si stava lentamente abituando alla reattività che avevano ora tutti gli altri nei suoi confronti, dopotutto ad ognuno di loro, così come a lui a suo tempo, era stato insegnato a non far attendere mai troppo un Tenente.
Tornò a guardare la tavola.
Tutti gli altri bicchieri erano ai loro posti, le posate ancora nel piatto o poggiate di fianco. Non c’erano macchie di alcun tipo, le zuppe avevano tutte lo stesso colore. Si avvicinò a piano e, chinandosi leggermente su tutti i piatti, annusò il contenuto, lasciandosi per ultimo quello della vittima, posto a capotavola. Nulla, avevano tutti il medesimo odore e certo Alec non sarebbe stato così stupido da assaggiarle. Lanciò quindi uno sguardo al vino, due bottiglie erano state aperte e poste nelle rispettive metà del tavolo, ciò stava a significare che per quanto fosse stato un pranzo importante, con persone facoltose in un ristorante decisamente costoso e lussuoso, doveva esserci una certa conoscenza pregressa tra i commensali, qualcosa che permetteva loro di versarsi il vino a vicenda e di non necessitare di un cameriere pronto a farlo per loro.
Chiese anche quello ad un altro agente, di andare da Magnus e da Simon e chiedere rispettivamente al primo di informarsi sul menù, la composizione delle portate, l’ordine d’uscita, e al secondo di scoprire se ci fosse del personale presente durante il pranzo, fermo a vigilare che tutto andasse bene e a servire gli ospiti in caso di bisogno. Erano rimasti soli? C’era un occhio esterno che, con una visuale privilegiata, aveva notato nulla di sospetto o quanto meno strano?
La giovane recluta che prese il suo ordine gli assicurò che sarebbe tornata a breve con tutte le informazioni e gli chiese addirittura se non le volesse scritte.
Alec le sorrise, quel suo stentato tirar di labbra storto e insicuro, e la ringraziò. Apparentemente il tentativo riuscì bene.
Cos’altro avevano condiviso tutti? Il vino sicuramente, forse un aperitivo o un antipasto che era già
stato portato via, bisognava bloccare la cucina, sperando che i primi patti tornati dalla sala non fossero già stati lavati.
Quando ebbe la conferma che una delle prime cose fatte appena giunti sul luogo del delitto fosse stato proprio quella di fermare qualunque attività del personale, Alec tornò subito con lo sguardo alla tavola imbandita.
La zuppa posta a capotavola, dove sedeva giustamente Cobe, era all’incirca allo stesso livello delle altre, se la sostanza che aveva provocato l’emorragia si trovava dentro quel piatto la vittima non si era accorta di nulla prima che i sintomi cominciassero a presentarsi.
Vicino al piatto il cucchiaio lucido spiccava leggermente sporco, il tovagliolo accartocciato doveva esser scivolato giù dal tavolo ed ora si trovava mollemente abbandonato sul pavimento.
Alexander si affiancò alla sedia e misurò a piccoli passi la distanza tra quella ed il cadavere, attento ad evitare le ben tre, quattro, sette, otto, dieci- quindici? Quindici serie di impronte?
Era giusto pensare che almeno due fossero dei paramedici che erano intervenuti per primi, c’erano poi almeno tre paia di scarpe femminili, due maschili, l’impronta dalla forma allungata ed il tacco squadrato, scarpe eleganti senza ombra di dubbio, altri potevano sembrare mocassini? Impronte parziali di stivali, anfibi probabilmente, ed in fine scarpe antinfortunistica, da ginnastica e sandali, sicuramente di qualche membro della cucina accorso ai primi segni d’allarme. Molte persone a cui requisire le scarpe quindi, e visto che erano presumibilmente di un certo livello sociale il povero disgraziato a cui sarebbe toccato quel compito ingrato, Jonathan visto che già aveva interagito con i presenti, avrebbe dovuto far appello a tutta la sua pazienza. Alle brutte si sarebbe presentato lui stesso per convincerli.
Con un respiro più pesante degli altri tornò ad osservare la vittima.
La posizione non era ovviamente cambiata, l’uomo era ancora riverso supino, girato dai suoi soccorritori nel vano tentativo di salvarlo, con le vesti bianche imbrattate di sangue, il volto cinereo, le labbra bluastre colorate di rosso e le pupille dilatate.
Alexander si fece un po’ più vicino, aggrottando le sopracciglia quando si rese conto di un particolare che aveva dato per scontato fino a quel momento: Cobe indossava la casacca da chef, immacolata se non per il sangue, e se lanciava uno sguardo verso le porte spalancate della cucina poteva vedere perfettamente un grembiule appeso ad un gancio lì vicino.
Piegandosi sulle ginocchia e poggiando il braccio sul destro il detective riuscì finalmente ad avere una visione più ampia del tutto.
La vittima, come chef e proprietario del ristorante, doveva esser stato presente sia in cucina che a tavola, questo significava che, potenzialmente, le possibilità per avvelenarlo si erano appena duplicate. Qualcuno poteva avergli chiesto di assaggiare una preparazione che ancora non era arrivata in sala, o magari di provare un vino appena aperto, per quanto ne sapevano poteva anche aver chiesto un semplice bicchiere d’acqua, una pastiglia per il mal di testa. Poteva essersi ferito con un arma avvelenataimprobabile visto che non aveva ferite evidenti e fresche visibili – poteva essersi punto con un qualche ago, ma Alec dubitava fortemente che nel menù ci fosse quel famosissimo e leale pesce palla che piaceva tanto alle serie poliziesche.
Inclinando la testa per osservare il viso della vittima da un’altra prospettiva Alec controllò che non vi fossero segni di bruciatura o irritazione alle narici: poteva aver inalato qualcosa? Storse il naso ai suoi stessi pensieri, se così fosse stato tutto il personale di cucina sarebbe stato contaminato e per fortuna non gli era proprio parso di vender nessun altro accasciato a terra tossendo sangue.
Sospirò, non era un’eventualità da sottovalutare però, avrebbe comunque chiesto a tutti i cuochi e gli aiutanti di sottoporsi a visita medica e analisi specifiche. Se poi si fosse scoperto che la vittima aveva assunto la sostanza letale in altro modo, beh, tanto meglio, ma di certo non avrebbe corso il rischio di una seconda, terza o anche quarta vittima.
Con quella luce così forte però Alec poté notare con facilità la leggera ricrescita della barba dell’uomo, null’altro che un alone appena accennato ma, più che uniforme, avrebbe detto decisamente a macchie. Non era strana come cosa, Alexander avrebbe potuto citare il nome di almeno cinque persone che non avevano la sua stessa fortuna di sfoggiare, se volevano, una barba fitta e piena su guance e collo, gli bastava pensare a Simon, ora chissà dove in quel locale, che non riusciva a farsi crescere in modo decente neanche i baffi, o Jonathan anche, che con quella peluria così chiara e fine riusciva solo a contornare la mascella, o anche Jace, però… perché gli pareva così strano allora?
Si alzò in piedi e fece vagare lo sguardo per la sala, accecato ancora dalla potenza dei faretti che non erano stati minimamente abbassati. L’ambiente era elegante, il pranzo formale ma non troppo, di certo un incontro lavorativo ma tra persone che, ben o male, dovevano conoscersi.
Riportò gli occhi blu sulla vittima.
Se era un evento di lavoro, se tutti erano vestiti per bene, d’alta classe, alla moda, se Cobe faceva avanti indietro dalla cucina, per preparare personalmente tutte le portate, se si premurava di esser pulito e lindo, dando l’immagine del cuoco perfetto… perché non si era fatto la barba quella mattina? Perché sua moglie non glielo aveva fatto notare? C’erano stati degli imprevisti forse, qualche ritardo? Persino lui l’avrebbe fatto. Alexander si sforzava ogni singolo giorno di radersi alla perfezione per mantenere un certo aspetto rispettabile e formale, qualcosa che anche un cuoco della levatura di Hugh Cobe avrebbe dovuto fare, e le uniche occasioni in cui non si radeva erano quelle in famiglia – neanche troppo visto che sua madre e sua nonna ci tenevano tanto – le uscite con i ragazzi, quando non aveva voglia, quando non doveva far bella figura, quando-

Non mi interessa ciò che sto per fare, quando non mi va di presentarmi in un dato luogo e quindi non mi va neanche di sforzarmi di far bella figura.

Aggrottando le sopracciglia scure Alec si schermò dalla luce con la mano ed una domanda si fece largo in lui: che la vittima non avesse piacere di fare quel pranzo?
Sapeva per certo che l’uomo non voleva aprire altri locali, quindi non doveva impressionare possibili finanziatori. Sapeva che aveva un unico ristorante, quello, che era il suo gioiello e trattava come un essere vivente. Di catering non ne faceva praticamente nulla, aveva fatto giusto qualcosa per un senatore e solo ed unicamente perché era un vecchio amico che gli era stato fedele fin dagli esordi. Persino all’insediamento del Sindaco aveva rinunciato. Era un cuoco vecchio stampo, un uomo che aveva avuto fortuna e gran da fare in giovane età, in Europa, e che una volta in America aveva semplicemente deciso di dedicarsi al suo ristorante e nulla di più.
Quindi le possibilità al momento erano due: o quello era un pranzo fra amici e Cobe aveva deciso di preparare personalmente tutte le portate per puro piacere e affetto verso i commensali. O, proprio come faceva lui durante le feste, non aveva alcuna voglia di stare a quel tavolo e aveva usato la scusa della cucina per potervisi allontanare il più possibile.
Che fosse una persona schiva, che non amava chiacchierare e che odiava i convenevoli era cosa risaputa, o almeno questo era quello che Alec era riuscito a capire tra il gossip insensato di Jonathan e Magnus e quelle informazioni di base che gli erano state comunicate prima in centrale e poi una volta arrivati sul posto; quindi la seconda opzione era possibile. Ma tutte queste non erano altro che supposizioni, se non avesse parlato con i testimoni non avrebbe cavato un ragno dal buco.
E per quale diavolo di motivo quei dannati faretti erano ancora così forti?
Il detective lanciò uno sguardo penetrante alle luci sul soffitto, che se fossero state in grado di comprendere ed agire probabilmente si sarebbero spente all’instante per la vergogna o la paura, e lasciò per un attimo che quel fascio luminoso lo accecasse. Quando abbassò gli occhi cercando un agente il suo mondo divenne tutto macchie e contrasti, dove solo i colori chiari erano visibili e gli scuri non erano altro che una macchia bluastra.
Continuando di quel passo si sarebbe sciolto tutto il ghiaccio nei porta bottiglie ed avrebbe inzuppato la tovaglia.
Quelle luci, i riflessi del sole che rimbalzavano su ogni superficie lucida, star in quella posizione, lì dove tutto convergeva, gli stava facendo avvertire un calore fastidioso.
Si volse dando le spalle alla vittima, pronto a chiedere ad un uomo in divisa di recuperargli Lewis e di far spegnere le luci, quando ciò che vide lo lasciò interdetto: il dottor Carter si stava tamponando la fronte con un fazzoletto, l’agente vicino a lui si era tolto il cappello e sbottonato i giubbotto d’ordinanza.

Fa davvero così caldo sotto questi faretti.

La realizzazione lo colpì come uno schiaffo in pieno viso.

Fa troppo caldo. È fatto apposta?

«Spegnete immediatamente quelle luci e tirate le tende, ora.» la sua voce risuonò forte e perentoria, così potente in quel brusio basso ed incredulo che accompagnava ogni scena del crimine, che qualcuno saltò su sorpreso.
Un tecnico della scientifica si mosse velocemente, annuendo e asserendo si aver visto il pannello di controllo, superando i suoi colleghi rimasti imbambolati e sfrecciando davanti a Magnus che aveva appena fatto capolino dalla cucina.
L’uomo lo guardò curioso e poi si rivolse al detective.

«Che c’è che non va?» domandò sicuro che Alexander avesse i suoi buoni motivi per chiedere una cosa del genere.
«Le luci sono troppo forti, sembra che siano state impostate in questo modo di proposito.»
«Di sicuro è così, per illuminare al meglio la tavolata, non vedi che servizio splendente che c’è sopra?» disse avanzando nella sala e facendo cenno a qualcuno, nei locali del personale, di aspettare.
Alec annuì. «E tu mangeresti ad un tavolo del genere, con delle luci così forti puntate sulla testa, quando tutto attorno a te riflette con questa intensità il minimo raggio?»
Magnus ci pensò su, entrando sotto il cono di luce e alzando un sopracciglio. «Diamine, non mi ero reso conto che fossero così forti, sembrano i fari di un palcoscenico.» constatò sorpreso.
«Stai pensando ciò che credo tu stia pensando?»
Il dottor Carson si avvicinò ai due, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Alec che annuì lesto.
«So che potrebbe sembrare paranoico, ma visto che non abbiamo trovato nessun’arma del delitto e si presuppone che la vittima sia morta d’emorragia per colpa di un farmaco ingerito in qualche modo-»
«Presupponi che la sostanza si trovi su questo tavolo e che come molti composti del genere una prolungata esposizione al calore possa scioglierla e farla evaporare e allora anche se la rintracciassimo nel sangue della vittima non potremmo che presupporre il luogo, l’oggetto in cui si trovasse prima dell’assunzione.» Carson gli sorrise. «Previdente come sempre detective, posso portare via il cadavere ora? Le serve per altri rilievi?»
Alec scosse la testa. «Se la scientifica ha finito potete portare la vittima in obitorio. Grazie dottore.»
L’uomo gli fece un cenno del capo e sorrise di nuovo. «Non c’è di che.» poi si rivolse a Magnus. «Ascolta con attenzione ciò che sentirai dire da questo giovane, nei casi così intricati è quasi più bravo che in quelli da manuale.» e detto ciò fece cenno ai suoi assistenti di preparare la barella e si concentrò sul suo lavoro.
Magnus lo osservò divertito e poi alzò lo sguardo su Alec. «I casi intricati, eh? Sappiamo già per certo che questo lo è? Non potrebbero avergli somministrato qualche droga prima del pasto, lontano dalla cucina? O che ne so, magari si drogava e gli hanno messo qualcosa nella sua siringa mattutina?»
Il moro scosse piano il capo. «Non credo sia così semplice, ma potrebbe essere solo una mia impressione.»
«Mh, le tue non sono mai solo impressioni. C’è qualcosa che ti ha colpito ma non hai ancora tutte le informazioni giuste per dire se è una cosa seria o meno. Ti conosco fiorellino.» concluse ammiccando divertito.
L’occhiataccia che gli arrivò di rimando gli fece storcere il naso e mugugnare avvilito.
«Oh, dai! M’è scappato!» provò a giustificarsi.
«Fattelo scappare di nuovo e la minaccia del sedile posteriore della volante diverrà realtà.» lo avvertì serio.
Magnus però si illuminò come un albero di Natale. «Quindi prima era solo una minaccia! Non parlavi seriamente!» saltellò deliziato dalla scoperta.
L’altro non si voltò neanche a guardarlo. «Tutte le mie minacce sono serie, Bane. Tu dovresti saperlo meglio di molti altri.» e con quelle parole si incamminò verso la cucina, passando vicino ad uno dei lunghi mobili su cui erano posti grandi e prominenti vasi stracolmi di fiori.
L’asiatico fissò la sua schiena imbambolato, ragionando sulle sue parole finché non ne venne a capo nel suo personale e personalissimo modo.
«EHI! Dov’è finita la regola numero due! Perché vale solo per me? Alexander? Alec?! EHI! Non mi ignorare! Sto parlando con te, Lightwood!»


Nella cucina la situazione era tranquilla ma prevedibilmente tesa.
L’intero staff se ne stava a testa bassa, poggiati contro i banconi, al muro, seduti su uno sgabello senza dir una sola parola. Regnava il silenzio più totale ed Alec si domandò se tutto quel riserbo fosse dovuto al rispetto che avevano per il loro defunto capo o per altri motivi. In ogni caso l’avrebbe scoperto a breve.
Scandagliò i presenti con attenzione, dividendo personale di sala e quello di cucina, per poi fermarsi su un giovanotto che doveva avere all’incirca la sua età. Se ne stava in piedi davanti ai fornelli, dando le spalle a questi, su cui erano posate pentole accuratamente coperte dai rispettivi coperchi. A differenza degli altri non cercava appoggio su nessuna superficie, non aveva l’aria di qualcuno che aveva appena visto morire un uomo, che aveva appena visto un cadavere. Il suo sguardo era perso sul pavimento ma non teneva la testa bassa, anzi, rimaneva quasi ostinatamente dritto e sull’attenti, come se si aspettasse da un momento all’altro di ricevere qualche ordine.
Non ci volle un genio per capire che quello doveva essere Andrew Forscue, l’aiuto cuoco, il braccio destro di Cobe, il suo allievo più capace.
Alexander si presentò con il suo solito tono basso e monocorde, rassicurante nella sua educazione e nella sua calma. Gli occhi dello chef s’alzarono subito verso di lui e con un cenno del capo gli diede ad intendere di aver capito che il detective volesse parlare per prima cosa con lui.

«Andrew Forscue,» disse a mezza bocca, «se vuole c’è una saletta per le pause, da quella parte.» continuò indicando una delle porte alle spalle del detective.
Alexander annuì. «Se vuole mostrarmi la strada.» rispose gentile.
Forse il cuoco non aveva la stessa faccia scioccata di chi, tra i suoi colleghi, aveva visto il cadavere, ma era certo che la morte dell’uomo fosse stata un bel colpo per lui.
La sala in cui si fermarono non era altro che un salottino con un angolo bar e divani ad “L”, qualcosa di assolutamente sobrio ma che lasciava comunque intendere un certo comfort, soprattutto per esser un luogo dedicato completamente al personale. C’era una finestra che dava verso il vicolo che divideva il palazzo da quello adiacente, qualcuno avrebbe potuto dire che non fosse la vista migliore, ma in un caso di omicidio la possibilità che qualcuno in pausa avesse visto un possibile sospetto sgattaiolare dietro al locale era quanto mai utile e realistica. Sulla parete di destra c’era una seconda porta dall’aria resistente, con una lunga maniglia verticale.

«Lì ci sono lo spogliatoio ed i bagni. Lo spogliatoio è in comune, poi ci sono due porte che danno sul bagno delle donne a sinistra e degli uomini a destra. Dento ci sono anche le docce.» spiegò Forscue notando lo sguardo di Alec. Il detective gli fece un cenno di ringraziamento con il capo: quell’uomo era un buon osservatore, o come minimo era abituato a prestare attenzione ai movimenti e ai comportamenti degli altri, dei suoi superiori avrebbe scommesso: era sicuramente un punto a suo vantaggio.
Forscue si lasciò cadere di peso all’angolo del divano, una scelta che per quanto inconscia fece nascere quasi un moto di dispiacere in Alexander. Era abbastanza ovvio che malgrado l’apparenza stoica il cuoco si sentisse ferito, se non spaventato, dall’intera situazione. A colpo sicuro Alec avrebbe detto che non era il tipo di sottoposto che odia il proprio capo, tutt’altro.
«Se per lei va bene salterei i convenevoli.» iniziò con tono fermo.
Forscue alzò gli occhi verso di lui, limpidi, di un bel nocciola freddo, occhi che di solito dovevano esser vivaci e svegli ma che in quel momento gli parvero confusi e vacui.
«Sì. Sì, gliene sarei grato. Senza offesa, detective, ma ho sempre odiato gli estranei che fanno le condoglianze, mi sembra terribilmente ipocrita come cosa.»
Alec lo fissò senza mutare espressione, ma dentro di sé poteva quasi sentire un sopracciglio inesistente alzarsi interessato: le condoglianze di un estraneo… Forscue si aspettava che qualcuno, chiunque conoscesse un minimo lui o il suo capo, andasse a porgergli i propri ossequi per la perdita subita. Era forse ovvio e scontato che molti l’avrebbero fatto, come succedeva quando si perdeva un collega, e forse per lui che era un poliziotto sembrava ancora più ovvio. Lavorando a stretto contatto con una persona, condividendo tempo, pensieri, preoccupazioni, mettendo la propria vita nelle mani dell’altro si creava un legame stretto…Alec ebbe il vago sospetto che per quel giovane la morte di Hugh Cobe fosse stata un duro colpo esattamente come lo sarebbe stato per ogni agente che perdeva il proprio compagno.
Anzi, no.

Come ogni agente che perde il proprio mentore.

Quello era un punto da tenere a mente.

«Certamente. Cominciamo dal principio: mi parli del pranzo di oggi, di cosa si trattava, quando e come è stato organizzato, se sa qualcosa dei commensali e poi anche del menù.»
Forscue annuì piano. «A Cobe non piacevano troppo gli eventi privati, credo che sia importante che lei lo sappia.» disse subito con inaspettata severità. «Cobe non era uno di quei chef stellati che una volta arrivato in cima alla vetta crede che solo la gente che viaggia in limousine e veste d’oro da capo a piedi sia degna di mangiare qualcosa toccato da lui, no, gli piaceva cucinare e gli piaceva farlo di continuo. So cosa gli racconteranno gli altri, chi è qui da meno tempo, o sua moglie e i suoi amici.» s’interruppe un attimo, come per assicurarsi che il detective seguisse bene il suo discorso. «Gli diranno che era sempre nervoso, che s’arrabbiava per niente, che cucinare per lui era stressante quando iniziavano ad arrivare tanti ordini e che quindi era meglio per lui far pranzi del genere ma non è vero, okay? Cobe era solo un uomo molto- non mi viene il termine giusto…»
«Passionale? Era una di quelle persone che si infervora per qualcosa a cui tiene? Magari che si lamenta in continuazione di chi gli sta attorno e di ciò che fa ma che non lascerebbe le redini a nessuno, neanche in punto di morte?» provò lui.
L’immagine di sua madre che non faceva altro che metter in riga i suoi stagisti, che minacciava tutti di sbatterli fuori dalla sala o dall’ufficio, che ringhiava quanto quel lavoro la stesse facendo diventare matta, apparve subito nella sua mente. Seguita poi dalla faccia soddisfatta che faceva ogni volta che vinceva un caso o si scopriva che, come ovvio, avesse avuto ragione lei fin dal principio.
Forscue gli lanciò uno guardo quasi grato ed Alec capì immediatamente di essersi guadagnato un po’ della sua fiducia.
«Proprio così. Si lamentava dei ragazzi, diceva che non erano abbastanza veloci e precisi, diceva a me che gli stavo sempre in mezzo ai piedi e che neanche se avessimo avuto una cucina grande quanto tutto il ristorante sarebbe riuscito a fare un passo senza avermi alle costole. Però se qualche cliente faceva commenti negativi e senza fondamenti ai piatti preparati da uno chiunque di noi s’arrabbiava da morire e ci difendeva a spada tratta e quando stava provando un piatto nuovo o una delle preparazione che mi erano più ostiche mi chiamava e mi diceva che doveva starlo a guardare e che dovevo rimanergli appiccicato finché non avessi imparato come fare. Cobe era solo un gran brontolone, sembrava la caricatura di un fumetto alle volte.» concluse con un mezzo sorriso affettuoso.
Alexander non faticava ad immaginare che le cose fossero effettivamente così. A quanto pareva Hugh Cobe era stato un mix perfetto di sua madre e suo padre e se la cosa da una parte gli metteva una certa ansia, dall’altra lo aiutava moltissimo: conoscere la vittima, la sua psicologia, i suoi comportamenti, era una delle cose più importanti.
«Amava il suo lavoro, era puntiglioso, voleva che le cose fossero fatte per bene e malgrado potesse esser burbero teneva a ciò che faceva e anche al suo staff, dico bene?»
«A modo suo. Cioè, sì, teneva a noi, al ristorante, ai piatti, al cibo. La sua filosofia era “minima manipolazione”, ogni ingrediente ha una sua identità e per apprezzarlo al meglio è importante sentirlo da solo. Non era uno da grandi dichiarazioni o dimostrazioni d’affetto, ma te lo faceva capire con tante piccole accortezze. Per esempio, era lui quello che ti medicava se ti ferivi, persino il personale di sala, una volta Eddy, uno dei camerieri, è scivolato sul vino caduto ad un cliente e si è fatto male al gomito per parare la caduta e non far rompere l’altra bottiglia che aveva in mano, ed è stato Cobe a trascinarlo qui e fare quanto poteva per aiutarlo. Lui- come glielo spiego? Ci sceglieva uno per uno, nessuna delle persone che troverà a lavorare qui, compreso chi oggi non era di turno, è stato scelto dalla moglie o dal capo sala, tutti da Cobe.»
Con un movimento fluido Alec si appuntò qualcosa sul taccuino e puntò lo sguardo dritto in quello di Andrew Forscue. «Perché ho l’impressione che lei stia cercando di mostrarmi tutti i lati positivi del signor Cobe e di giustificare quelli negativi?» domandò con tranquillità, come se stesse chiedendo qualcosa di banale.
Il giovane prese un respiro profondo, lo trattenne per un po’ e poi espirò rumorosamente.
«Il pranzo di oggi…Cobe non lo voleva fare.» iniziò tentennante. «È stata la moglie ad insistere tanto, vede- quelli nell’ufficio di Cobe sono degli investitori, lo ha sfinito con tutte quelle stupide storie che gli servivano finanziatori, che dovevano mostrarsi di più al pubblico, che dovevano crescere, cose del genere.»
«Il ristorante era in cattive acque?» chiese mascherando la sua sorpresa.
La reazione dell’altro fu però così esplosiva e genuina che Alec non riuscì a rimanere del tutto imperturbabile.
«NO! È questo il punto! No, non siamo in cattive acque, non abbiamo bisogno di denaro, non ci sono conti in sospeso, bollette arretrate, tasse da pagare. I fornitori vengono pagati puntualmente tutte le settimane ognuno il proprio giorno. Ogni mese tutti noi riceviamo il nostro stipendio e se abbiamo bisogno di fare straordinari ci basta andare da Cobe e dirglielo e lui ci assegna un paio di mansioni extra, ci fa fare qualche ora in più sul turno e poi ci arrivano i soldi in busta paga. È tutto regolare, le merci sono sempre le stesse, della stessa ottima qualità e glielo posso assicurare perché come aiuto cuoco è mio compito ricevere i fornitori e controllare che sia tutto in ordine. Non c’era motivo di fare questa cosa.» disse infervorato.
Nella sua voce Alec poteva sentire rabbia, sconcerto, sicurezza ed insicurezza in egual misura. E rispetto, rispetto e fedeltà, qualcosa che non andava mai sottovalutato.
E poi quelle ultime parole: “non c’era motivo di fare questa cosa”, dava perfettamente la misura di quanto Forscue avesse in conto il pranzo di quel giorno, di quanto lo reputasse importante.

Di quanto fosse d’accordo con la persona che l’ha organizzato.

La moglie.

«Quindi è stata una decisione della signora Cobe, giusto?» riportò il discorso sul binario principale.
L’altro annuì. «Sì. Si è presentata un giorno qui in cucina, di solito non ci entra mai perché Cobe non vuole gente a curiosare tra i fornelli, dice che non è “pulita” come lo siamo noi altri. Non sua moglie in particolare, ma tutti dico.» farfugliò impicciandosi con le parole. Si massaggiò la fronte e poi sospirò. «Ha detto di avere una notizia fantastica, davvero incredibile, che era ora di spiccare il volo, di guardare avanti, sognare in grande. Ha subito visto la faccia scura di Cobe, perché lui aveva già capito dove stava andando a parare, ne avevano già discusso in passato, e così si è affrettata a correggere il tiro dicendo che aveva degli amici importanti che sarebbero venuti in città e che voleva organizzare una cena di lavoro per fargli vedere come lavoriamo, fargli conoscere l’ambiente e tutte quelle cazzate lì.»
«Questo quando è successo? L’organizzazione dell’evento intendo.»
Il giovane ci pensò su per un po’, l’espressione crucciata di chi cerca di ricordare le cose con precisione. «Come minimo due settimane fa, forse qualcosa di più.»
«Il signor Cobe ha accettato quindi.» notò con voce piatta.
Forscue annuì. «Ci si è messo di mezzo anche quell’altro deficiente, il suo amico, Kevin J.»
Alec annotò il nome. «“J” come?»
«Solo J.» rispose stringendosi nelle spalle. «Se ricordo bene la storia, suo nonno era orfano, l’hanno lasciato in un convento durante la guerra con qualcosa tipo una lettera con su il suo nome e quella J puntata. Quindi è rimasto J.»
Il detective annuì e continuò con le domande di rito e con quelle più specifiche.
Non gli era sfuggito come il cuoco avesse parlato della moglie della vittima e del suo amico: non aveva mai nominato il nome della donna e aveva mal apostrofato l’uomo. Se aveva capito qualcosa di Andrew Forscue era che non aveva peli sulla lingua e che quella faccenda gli aveva acceso una rabbia di fondo che forse non si era ancora sopita. All’aiuto cuoco di Hugh Cobe non piacevano né la consorte di questo né il suo amico, perché?
Con le orecchie ben aperte e recettive ad ogni errore, ogni ripetizione e ogni tentennamento, Alexander cominciò ad impilare i primi mattoni che avrebbero costruito le basi di quel caso.
Il pranzo era stato organizzato dalla moglie, Felicia Cobe, supportato con grande trasporto dal signor J ed aveva avuto come ospiti degli investitori direttamente da Seattle e Las Vegas. Le portate erano state decise con largo anticipo, perché la signora Cobe desiderava che i loro commensali assaggiassero determinati piatti, i più complessi e difficili da realizzare, quelli che di solito Cobe stesso snobbava perché reputava le preparazioni troppo intricate solo uno spreco di tempo. Dal racconto che gli fornì Forscue nessuno in cucina sembrava troppo felice di quella situazione non tanto per la cosa in sé quanto per il nervosismo che aveva creato nel loro capo. Così come il personale di sala, che si era visto ripetere in continuazione quanto fosse importante che tutto fosse perfettamente al proprio posto.
Dalla tovaglia alle stoviglie, dalle tende alle sedie, dalle luci ai fiori. A detta dell’aiuto cuoco, tutti, che più chi meno, avevano i nervi a fior di pelle e non vedevano l’ora che quella giornata infernale finisse.
Certo, non così.

Mentre ascoltava tutto lo staff della cucina Alec si convinse sempre di più della sua idea principale: gli altri cuochi e gli assistenti avrebbero potuto replicare alla perfezione le portate richiese da Felicia Cobe ma il marito aveva insistito affinché fosse lui stesso a prepararle non perché volesse impressionare gli ospiti ma per aver una scusa per andarsene da quel tavolo.



Martin Stevenson, un uomo sulla cinquantina, dagli occhi calanti ed il volto stanco fu l’unico a dirglielo esplicitamente.
Lui e Cobe erano colleghi da una vita, avevano fatto le scuole preparatorie assieme, si erano divisi per poi rincontrarsi a Londra quando avevano ventisette anni.
A differenza di Cobe però Stevenson non aveva né la voglia né la caparbietà per arrivare nei grandi ristoranti, era una persona molto più tranquilla, che amava cucinare e voleva farlo con altrettanta tranquillità, senza dover sopportare il peso schiacciante dell’alta critica.

«Ai tempi dell’accademia non eravamo proprio amici, però andavamo d’accordo. Credo che lei possa ben capire cosa intendo, quei classici compagni con cui fai due chiacchiere in allegria, ci fai qualche progetto, chiedi i compiti e ti fermi volentieri a parlarci se li rincontri dopo anni per strada.» raccontò con voce calma ed un poco triste.
Alec annuì. «Ed è quello che è successo? Vi siete incontrati per le strade di Londra e avete deciso di lavorare assieme?»
L’uomo scosse la testa e si passò una mano tra i capelli corti ed ispidi, una volta dovevano esser stati di un bel marrone vivo ma ora sembravano sbiaditi come una stampa lasciata per troppo tempo al sole.
«Ci siamo incontrati per caso ad un pub, che non è proprio una strada,» sorrise mesto. «abbiamo chiacchierato del più e del meno, ci siamo raccontati le nostre avventure in quei sei anni che non c’eravamo visti. Lui era tirapiedi, come lo chiamavamo noi, in un ristorante molto quotato. Nessuna stella ma ottima posizione vicino al parlamento e clienti di spicco. Stava imparando il mestiere dal vivo, sul campo e ricordo ancora quella faccia da schiaffi che aveva quando mi disse che un giorno il suo capo avrebbe pregato in ginocchio per aver un posto nel suo di ristorante e lui gli avrebbe risposto che “non era qualificato”. Il tipo glielo diceva sempre quando Hugh si proponeva di far lui qualche piatto.» scosse la testa e sospirò. «Io lavoravo in un ristorante molto più tranquillo, di quelli in cui ci puoi trovare qualunque tipo di clienti. C’era sempre molto lavoro, il cibo era buono e semplice, ci venivano le famiglie, i gruppi di amici, le squadre di calcio dei vari club. Non me la passavo per niente male al tempo e così ci salutammo con la promessa di farci un’altra birra ogni tanto. Siamo rimasti in contatto così per qualche anno, succedeva che ogni due, tre mesi, ci incontrassimo per raccontarci come andavano le cose e lamentarci di lavoro, donne e affitto.
Io rimanevo sempre affezionato al mio bel ristorantino di quartiere, sono un tipo abitudinario e anche un po’ pigro, Hugh mi ci ha preso in giro fino alla morte.» e si bloccò.
Alexander non disse niente, rimase in silenzio per tutto il tempo che servì all’uomo per riprendersi da quel modo di dire che ora calzava fin troppo bene. Quando Stevenson si riscosse prese un’aria più risoluta.
«Cobe invece era andato avanti in quegli anni, si era fatto un nome, era stato preso in ristoranti più quotati, i primi con qualche stella. Era apparso su riviste del settore, aveva buone critiche ed il suo massimo picco arrivò quando fu preso nello staff ufficiale della casa reale.
Avevamo trentatré anni quando decise che ne aveva abbastanza di star alle dipendenze degli altri e che voleva gestirsi da solo. Un giorno si presentò alla porta del mio appartamentino, ero vicino al Tamigi, credo di non aver abitato mai in un luogo più umido di quelle quattro mura, ma Hugh mi si attaccò al campanello e quando andai a vedere chi fosse che mi disturbava nel mio unico giorno libero mi ritrovai il suo faccione crucciato davanti al naso che mi diceva che voleva tornare in America e aprire il suo ristorante e che mi si sarebbe portato dieto.» rise divertito al ricordo. «Mi disse proprio così “Torno in America Martin, voglio lavorare in un posto tutto mio. Mi servirà una buona squadra per iniziare, qualcuno che conosco e so come lavori, quindi mi ti porto dietro, se non hai nulla in contrario.”»
«La vostra era una bella amicizia.» constatò con gentilezza il detective.
L’altro annuì. «Siamo diventati davvero amici poi, sì. Tornati qui non aveva più contatti e sebbene le sue referenze fossero ottime Hugh non aveva intenzione di tornare a lavorare sotto qualcuno, voleva le redini in mano.
Fu difficile aprire il locale, non perché vi fossero problemi, ma perché per quanto fossimo preparati a tutto quanto avevamo sempre entrambi lavorato il posti già ben avviati e trovare fornitori, macchine, location e staff fu una bella rogna, ma alla fine ci riuscimmo e Hugh decise di chiamarlo “One” non per vanto o chissà quale stupida idea di superiorità. Il nome dovrebbe essere molto esplicativo.» disse guardando il tenente come se la risposta fosse ovvia.
E per Alec, dopo tutto quello che aveva sentito, lo era.
«Perché era l’unico che avrebbe mai avuto, solo uno.»
Stevenson annuì soddisfatto da quella risposta. «Quando dovevamo ancora mettere tutte le carte a posto è tornato qui a New York un vecchio amico di Hugh, Kevin J. Erano stati vicini di casa, si conoscevano dall’infanzia e anche se si erano allontanati fisicamente più di una volta non avevano mai perso i contatti. Kevin ha studiato economia e commercio, non poteva scegliere una materia più azzeccata visto quello che ci serviva, così ci ha aiutato con le ultime carte, controllando che tutti i conti fossero in regola e mettendo su carta una specie di programma guida per le entrate e le spese.»
«Presumo che il signor J sia diventato socio del ristorante come voi.» disse attento alla risposta, che in effetti non si aspettava.
Il cuoco scosse la testa. «No, Hugh non glielo propose e lui non lo chiese. Non lo ingaggiammo per fare il lavoro, semplicemente tornò qui e, mentre aspettava che gli venisse ufficializzato il contratto con l’azienda per cui lavorava al tempo, gironzolava da queste parti più per noia che per altro. Così, visto che non aveva nulla da fare, chiese come potesse dare una mano e finì in mezzo alle scartoffie.»
«Quindi chi sono i soci del ristorante?»
«Hugh era il proprietario, possedeva il 75% di tutta la baracca. Quando si sposò passò a Felicia il 20% rimanente.»
Alexander lo guardò con curiosità. «Mi perdoni, credevo che anche lei fosse un azionario.»
Martin scoppiò a ridere divertito e scosse la testa. «Beh, i ristoranti non funzionano come le aziende, non ci sono della azioni su cui investire nel modo “canonico” ed io non ho mai avuto la testa per queste cose. Ma sono stato coinvolto in quest’impresa prima ancora che diventasse concreta e sebbene abbia sempre detto a Hugh che non volevo nulla se non un posto di lavoro in un ambiente tranquillo, dove poter cucinare cose genuine e non quella roba intricata e impossibile che va tanto di moda nei ristoranti di lusso, alla fine, quando abbiamo firmato le carte e il mio contratto, ho scoperto che il 5% era mio. Hugh mi disse di vederla come una ricompensa, una piccola rendita per quando sarei andato in pensione.
Era una persona un po’ particolare, con quel suo carattere burbero e quel dannato broncio da moccioso, ce lo prendevo sempre in giro, però- era una brava persona. Testardo, fedele fino alla fine. Era uno che abbaiava tanto ma quando decideva di mordere era solo per ciò che valeva davvero.»
Quelle parole attirarono l’attenzione del detective, Alec si fece più dritto sulla poltrona e scrutò il cuoco dritto in viso. «Cosa intende?» chiese con voce ferma.
Stevenson sospirò. «Non era uno che veniva alle mani, non faceva cattiverie gratuite e se facevi un errore era capace di darti mille possibilità se credeva ne valesse la pena. Ma non passava su tutto. Quello che intendo dire era che se c’erano problemi legali Hugh non si faceva scrupoli a metterti davanti alla realtà dei fatti e affrontarla nel modo più chiaro e giusto possibile.»
«Era una persona giusta?» domandò senza riuscire a trovare il termine più corretto.
L’altro annuì. «Era fedele. Si ricordi questo, per favore, Hugh Cobe era un uomo giusto e fedele, che teneva alle cose e alle persone anche se non lo dava a vedere, che era pronto ad aiutarti malgrado lo facesse lamentandosi e insultandoti per la tua stupidità. Ma se tradivi la sua fiducia, se non gli davi la stessa fedeltà che lui dava a te…» lasciò la frase in sospeso ma Alexander aveva capito alla perfezione.

Quando finì di interrogare tutti i cuochi, gli aiuto cuochi ed i camerieri Alec aveva ben chiaro chi fosse la vittima e anche quale fosse il probabile motivo per cui era stato ucciso.
Mentre si dirigeva verso la sua macchina, tallonato da Simon che gli domandava perché non volesse interrogare i commensali lì sul posto e cosa doveva dir loro di fare, nella sua mente c’era solo una domanda:
Chi aveva tradito Hugh Cobe a tal punto da portarlo a prendere provvedimenti così seri da doverlo uccidere?

Una vocina nella sua testa, così simile a quella del personaggio di una vecchia serie tv che guardava da bambino, gli disse con certezza: "è sempre il maggiordomo!"
E se non c’era il maggiordomo, poteva essere solo la moglie.








 


Passato.

La bambina si sistemò meglio il maglioncino bianco e guardò con apprensione la sua amichetta.
Céline era ferma immobile a guardare il cancello della scuola e lei poteva capirla: era la prima volta che tornava a scuola da quando la sua mamma era morta e forse le faceva davvero brutto sapere che quando sarebbe tornata a casa lei non ci sarebbe più stata. Ma lei non l’avrebbe lasciata lì da sola, erano amiche, erano migliori amiche per sempre, e così come aveva implorato la sua di mamma di portarla al funerale della signora Montclaire ed aveva tenuto la mano di Céline per tutta la funzione, così avrebbe fatto in quel momento.
Si avvicinò alla sua amichetta e le prese la mano con delicatezza, attenta a non farlo con troppa foga perché Céline si spaventava sempre quando qualcuno faceva movimenti troppo veloci vicino a lei, aveva dovuto imparare anche ad abbracciarla piano perché se le correva incontro e la stringeva forte lei si rannicchiava su sé stessa e si copriva il viso con le braccia.
Non sapeva perché facesse così ma la cosa le faceva venir sempre una profonda tristezza, la stessa che poteva leggere negli occhi della sua mamma quando era lei a scorgere la bambina saltare sul posto o tremare. Di solito, a quel punto, dopo la tristezza gli occhi della mamma diventavano seri, faceva la stessa faccia che faceva ogni volta che la nonna la sgridava e le ripeteva che doveva starsene al suo posto. Era “l’espressione dura”, così la chiamava papà, ma la piccola non aveva ancora capito cosa intendesse con quella parola.
Non l’avrebbe capito ancora per un bel po’ d’anni.
Stringendo piano quella mano piccola come la sua la bambina sorrise all’altra.

«La maestra ha detto che se non ti senti bene, se sei triste o ti viene da piangere, non ti devi trattenere. Ha detto che devi andare da lei a dirglielo e allora ti accompagna fuori dalla classe e state un po’ lì finché non ti calmi. Ha detto anche che se vuoi posso uscire con te ci porta dalla Signora Miller e stiamo con lei un po’. La Signora Miller ci farebbe anche il tè, come fa a tutti i bambini che hanno il mal di pancia.» le sorrise incoraggiante e Céline le lanciò uno sguardo timido da sotto le ciglia bionde, annuendo piano.
«Vieni davvero con me?» domandò con la vocetta acuta ma bassa.
La bambina annuì convinta, sforzandosi di sorridere ancora di più. «Certo! Ovunque vai, per sempre. Siamo migliori amiche per la vita, no?»
Céline accennò un timido sorriso, poi uno un po’ più convinto. «Sì. Insieme per sempre.»











 
Presente.


Durante tutto il tragitto di ritorno sino all’arrivo in ufficio non si era fatto altro che parlare del caso.
La maggior parte delle domande poste dal detective trovarono velocemente risposta grazie agli interrogatori preliminari degli altri: esattamente come Alec, anche Magnus aveva avuto l’impressione che tutto il personale fosse nervoso per quel pranzo. L’unico vero cuoco in cucina era Cobe, era lui che anche per quest’occasione si sarebbe dovuto occupare di cucinare effettivamente i piatti, ma c’erano sempre stati Forscue e Stevenson a preparare gli ingredienti e le preparazioni antecedenti a quella complessiva. A quanto pareva il menù richiesto dalla signora Cobe includeva moltissimi alimenti che necessitavano di un trattamento specifico prima di poter esser aggiunti al piatto principale ed erano stati incaricati i due aiuto cuochi di occuparsi di queste, mentre di tutte le cose più semplici come il taglio delle verdure e simili si erano occupati due aiutanti, tali Smith e Kolivan. Loris Gomez e Samantha West erano invece gli addetti alla preparazione dei dolci, a cui avrebbe sovrinteso poi Stevenson, che a quanto pareva aveva una certa inclinazione per la pasticceria.
In sala la situazione era stata calma e senza nessun intoppo: dopo l’arrivo dei commensali era stato servito l’aperitivo, che Cobe non aveva bevuto perché rimasto in cucina. Si erano tutti accomodati a tavola e solo allora lo chef si era presentato. L’antipasto era andato alla perfezione, un qualcosa composto da qualche mouse e delle cruditè, a detta dei camerieri Cobe aveva parlato poco e niente se non per spiegare com’era stato fatto il patto e per informare tutti i presenti che era stato scelto da sua moglie, lui avrebbe preferito qualcosa di molto più semplice.
Quella battuta era stata interpretata come nulla di più che un gioco, ma il maître, aveva asserito con estrema sicurezza che non lo fosse, che quello era solo il modo spiccio e secco di parlare ed il fatto che i commensali l’avessero presa sul ridere era stata una fortuna.
Aveva quindi lasciato la maggior parte della conversazione a sua moglie, come faceva sempre del resto, e non appena tutti avevano terminato il loro piatto si era alzato immediatamente per preparare la zuppa.

«Non era il piatto principale.» disse Magnus con certezza. «Una zuppa raramente lo è, serviva solo per aprire ancora di più lo stomaco ai presenti. Di solito è una tecnica che si usa nei grandi ristoranti e per quanto l’One rientri tra i migliori in città non è proprio nel suo stile. Nessuno me lo ha detto esplicitamente, non so a te Alexander, ma credo che anche questa imposizione sia stata di sua moglie. A quanto pare non ha semplicemente scelto i piatti ma anche lo stile del pranzo.»
Alec aveva annuito senza staccare lo sguardo dalla strada, di fianco a lui Jonathan controllava silenzioso le deposizioni dei commensali.
«Ci sono due critici e qualche investitore, gli altri non sono stati troppo chiari sulla loro posizione, hanno solo detto di essere amici di Felicia Cobe e che li aveva invitati per questo pranzo di presentazione.» aggiunse a mezza bocca.
Il tenente, anche senza guardarlo in volto, intuì l’espressione crucciata del collega.
«Cosa non ti convince?»
«Parecchie cose, ad essere onesti.» iniziò alzando la testa per guardarlo. «Lui non voleva fare il pranzo, lo ha costretto la moglie, ma la maggior parte delle decisioni nel ristorante le prendeva sempre e comunque Cobe, cos’è cambiato questa volta? Perché lo ha convinto?»
«Possiede il 20% del locale, magari ha giocato su quello.» propose Simon sporgendosi verso i sedili anteriori.
Magnus scosse la testa. «È una possibilità ma non era minimamente nello stile di Cobe cedere in questo modo su qualcosa che non apprezzava. Penso che sia servito come minimo anche l’intervento di una terza persona e visto che tutto il personale era fedele al loro capo…»
«Il misterioso signor J?» propose Lewis.
Jonathan annuì. «È l’unica possibilità.» disse solo fissando il profilo serio di Alec.
Lui non si mosse di una virgola, ma il biondo capì perfettamente che il detective la spensasse come lui.
Sogghignò. «Quindi anche tu pensi male.» mormorò piano mentre alle loro spalle Magnus e Simon discutevano di possibili alimenti avvelenati e di quali avrebbero potuto camuffare, se non coprire, il sapore di un possibile veleno.
«Le luci? Alle fine abbiamo capito chi le aveva accese?» chiese Morgenstern poggiando la tesa contro il sedile.
«Non proprio. Uno dei camerieri giura di averle impostate ad una luminosità molto più bassa, gli ospiti cosa dicono?»
«Che non si sono accorti di nulla, troppo scossi per dire qualcosa di utile.» grugnì l’altro.
«Quindi l’ipotesi che la sostanza che lo ha ucciso fosse presente sul tavolo e potesse evaporare o sciogliersi è ancora valida?» domandò Magnus tornado a prestar attenzione ai due.
Alec annuì. «Nulla è da scartare finché non si prova il contrario.»



Seduto sul divano di casa sua Alec fissò i documenti sparsi sul tavolino basso e sul cuscino al suo fianco. Non avrebbe dovuto portarsi il lavoro a casa, lo sapeva fin troppo bene. Dai suoi genitori ai suoi fratelli, dagli amici ai superiori, fino ad arrivare al suo psichiatra, tutti gli ripetevano in continuazione che doveva staccare la spina, che gli serviva un momento della giornata in cui non fosse circondato da morte, dubbi e assassini.
Passandosi la mano sul volto stanco rimise in ordine i pensieri.
Cobe era morto per emorragia interna, il coroner gli aveva confermato quella sera stessa che ad uccidere l’uomo era stata una massiccia dose di anticoagulante. Banale pur nella sua estrema efficacia. Come l’avesse assunto sarebbe toccato a lui scoprirlo.
L’indomani sarebbero arrivate le cartelle mediche, i dati finanziari e avrebbero dato il via agli interrogatori, non voleva neanche immaginari quanto avrebbero rotto le scatole tutti gli invitati per riavere indietro le loro scarpe. Avere una sorella come Izzy – e due rompipalle modaioli come Jonathan e Magnus – l’aveva temprato quel tanto che bastava per saper riconoscere alcune delle marche più costose del mercato: di certo un suo stipendio non gli avrebbe mai permesso di comprare le scarpe di nessuna delle persone presenti.
Le analisi del sangue dei dipendenti non mostravano nessuno segno d’avvelenamento e probabilmente i laboratori dell’ospedale gli avrebbero spedito le analisi dei commensali in mattinata.
Sospirò ancora stropicciandosi per l’ennesima volta il viso. Doveva ancora chiamare Seth, sentire Jace che quel giorno doveva andare a parlare con il proprietario dell’appartamento che lui e Clary volevano comprare e magari fare anche uno squillo ai suoi per sapere come stavano. E per farsi dire quanto già sospettassero di tizio o di caio e quanto si sbagliassero i media.
Aveva già detto di odiare i casi ad alto profilo?
Lasciandosi cadere contro lo schienale del vecchio divano il detective chiuse gli occhi e respirò a fondo.
Quel caso non gli piaceva per molti aspetti e non solo perché riguardava un personaggio mediamente famoso. Hugh Cobe era uno chef rinomato ma non si era mai esposto troppo al pubblico, quindi, per fortuna, molti dei problemi che si avevano di solito con le “star” con lui si potevano evitare, ma questo non significava che dovesse abbassare la guardia. Il problema principale però stava in tutt’altro: per la prima volta da tantissimo tempo stare su una scena del crimine gli aveva lasciato addosso un senso d’inquietudine che non riusciva a giustificare. Non era paura, non era ansia, o la pressione di una corsa contro il tempo, quello che lo infastidiva, che gli faceva rizzare i peli sulla nuca, era la mancanza di qualcosa, o forse la presenza di troppe cose. Non riusciva a dirlo.
Tutto era perfetto, tutto era immacolato. In quell’ambiente, nel luogo sacro di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita alla cucina, non vi era un singolo elemento che comunicasse calore. Era tutto così freddo, bianco, luminoso. Non c’erano piante vive, solo fiori grandi ed appariscenti che ingombravano i mobili. Ed era vero, per come glielo avevano raccontato, Cobe era quel genere di uomo che non amava i fronzoli e le decorazioni obsolete, eppure i piatti cerchiati d’oro, i lampadari a specchio, i cristalli e persino la ghiera di luci sulla tavola centrale erano di per sé troppo decorative. I fiori poi… si sarebbe immaginato qualche pianta aromatica, qualche piccolo cespuglio…
Grugnì e aprì gli occhi fissandoli al soffitto. Si stava attaccando a delle cretinate ed aveva la vaga sensazione che fosse tutta colpa di quei due deficienti che discutevano di design, e pensare che si odiavano pure, non voleva immaginare i danni che avrebbero fatto se fossero stati amici.
Represse un brivido di terrore e tornò a chiudere gli occhi, immaginando la scena come l’aveva vista quella mattina.
L’ambiente luminoso non necessitava di luci aggiuntive. Le luci sul tavolo erano state impostate ad una luminosità più bassa ma poi erano state alzate. I paramedici giuravano che quando erano arrivati sul posto erano già così forti, ma finché non fossero arrivate le analisi dal laboratorio non avrebbe potuto dire se quel particolare fosse obsoleto o se fosse stato fine a qualcosa. Probabilmente il suo cervello ci sarebbe rimasto incastrano finché non avesse trovato la soluzione più logica.
Ricordò anche la sua sorpresa nel trovare quei faretti punteggiati di rosso: quanto doveva esser stata forte l’esplosione emorragica per arrivare a quell’altezza? Se fosse stata recisa un vena l’avrebbe capito, ma così non aveva senso.
Ad essere onesti, nulla pareva averlo.
Si rimise seduto per bene e prese le foto della scena del crimine e degli indizi, tra i quali c’erano anche le foto dei commensali e del personale di sala che si era sporcato di sangue.
Fu un dettaglio da poco che attirò di colpo la sua attenzione: in una foto era ritratta una donna castana, di cui non vedeva completamente il volto, che indossava una collana argentata abbinata a degli orecchini azzurri, probabilmente zaffiri visto il livello degli ospiti. Indossava un vestito color crema che le fasciava con gentilezza il fisico morbido, la parte bassa completamente zuppa di sangue, probabilmente assorbito dal tessuto quando si era inginocchiata vicino alla vittima.
L’altra foto ritraeva invece un uomo sulla cinquantina, di bell’aspetto, dal fisico asciutto ed il volto mascolino per quanto tirato in quel momento. Anche il suo completo era macchiato di sangue, lo erano le ginocchia e gli stinchi, i polsini della camicia e quelli della giacca.
Ciò che legava quelle due persone però non erano le tracce rosse di cui erano imbrattati, non erano i volti tirati, né il fatto che avessero presenziato entrambi al pranzo con delitto e che avessero cercato di prestar soccorso alla vittima. Ciò che li legava era il color crema dei loro vestiti, i gioielli azzurri di lei intonati alla cravatta di seta lucida di lui. Perfettamente abbinati.
Ciò che li legava li avrebbe fatti schizzare in cima alla classifica dei sospettati se già non ci fossero stati.
Alexander lasciò cadere le foto sulle altre, prese il cellulare e cliccò il primo numero che gli capitò in coda tra quelli che si era ripromesso di chiamare.
Mentre il suono della linea gli squillava nell’orecchio, Alec si domandò perché Felicia Cobe e Kevin J si fossero presentati a quel pranzo con vestiti abbinati.
La vocina nella sua testa riprese a cantilenare:


“È sempre il maggiordomo!”
“E se il maggiordomo non c’è?”
“Allora è il coniuge!”










La stanza degli interrogatori era sempre la stessa. Alec ci aveva passato tanto di quel tempo, presiedendola da fuori, osservandola da dietro un vetro, accostato alla parete e poi sempre più vicino al tavolo sino a sedersi dando le spalle allo specchio, che avrebbe quasi potuto dire che fosse l’ambiente più famigliare dell’intero Dipartimento per lui.
In quella stanzetta di appena quattro metri quadri per tre, con una sola finestra posta all’angolo superiore destro ed una telecamera puntata al centro dall’angolo opposto, si erano seduti centinaia di migliaia di personaggi. E la sua stima non era per nulla gonfiata.
Era lì che Alec aveva scortato per la prima volta un indagato, quando la divisa da matricola ancora gli sembrava rigida indosso, ed era sempre lì che aveva interrogato da solo il suo primo sospetto.
Aveva imparato nel corso degli anni che la sala interrogatori poteva divenir più o meno intimidatoria dal modo in cui un sospettato vi veniva portato, dal modo di porsi dell’agente o del detective che avrebbe dovuto porgergli delle domande e dal tono stesso di quelle domande.
Lì dentro aveva conversato con i famigliari delle vittime, con le vittime stesse che erano state così fortunate da salvarsi e che dovevano lasciare la loro deposizione in modo formale, registrate e documentate come legge voleva.
Una delle cose più importanti poi era come veniva trattato l’indagato stesso, di questo, Alec ne aveva fatto un verso pallino. Per quanto una persona possa aver la coscienza sporca se quando si sarebbe seduta su quella sedia il detective incaricato l’avesse trattata con gentilezza e tranquillità, senza dar l’impressione di sospettar in alcun modo di lei, allora era più che probabile che si sarebbe fatta scappare anche dettagli che in altre situazione avrebbe preferito non menzionare.
Era un po’ una regola d’oro quella e così, quando si erano ritrovati davanti alla famigerata porta, Alec aveva gentilmente chiesto ai suoi colleghi di assistere dall’altra stanza.
Jonathan aveva alzato un sopracciglio pallido e l’aveva squadrato dalla testa ai piedi.

«Vuoi entrare da solo? Ho già parlato con tutti loro, mi conoscono, saranno di certo più rilassati con un volto amico.» gli fece giustamente notare.
Alec annuì semplicemente, senza replicare, allungando una mano verso Simon per farsi consegnare le cartelle. Il suo cellulare vibrò attirando per un attimo la sua attenzione. Controllò velocemente il messaggio arrivato e si rinfilò il telefono in tasca mantenendo quell’espressione neutra che aveva da quando era arrivato in ufficio quella mattina.
Magnus lanciò uno sguardo a Jonathan e si sporse leggermente in avanti, le mani sui fianchi a sollevare la giacca e metter in mostra la sua bella camicia di sartoria.
«Quindi Morgenstern entra con te?» chiese.
«No. Entrerò da solo, voi assisterete dalla sala registrazione. Simon, se Jonathan non l’ha già fatto, fatti consegnare tutti i nominativi e controlla la loro situazione finanziaria, i loro lavori, l’immagine pubblica. Cerca qualunque riferimento alla vittima, al suo ristorante o a famiglia ed amici.»
Si voltò ed entrò nella stanza senza voltarsi.
Simon fissò la porta battendo le palpebre senza capire.

«Scusate… è successo qualcosa e me lo sono perso?» domandò quindi perplesso.
Morgenstern fissò la porta chiusa senza batter ciglio. «Che cazzo ne so io?»
«Potrebbe aver capito qualcosa che a noi è sfuggito? Di già?» disse Magnus con tono lagnoso.
Jonathan scosse la testa. «Non sarebbe così difficile, ricorda che lui ha interrogato il personale-»
«L’ho fatto anche io se è per questo, ma a parte gente scioccata e traumatizzata dal proprio capo che vomitava sangue e dal primo cadavere della loro vita, qualche piccola insoddisfazione per il carattere burbero del cuoco e qualche piccolezza-» venne brutalmente interrotto dal biondo, esattamente come aveva appena fatto con lui.
«E di nuovo Bane, è abbastanza normale, quella che hai fatto tu è un primo interrogatorio a caldo, ma è ovvio che lo shock non ti faccia collegare bene le cose. Probabilmente gli interrogatori singoli che ha sostenuto Lightwood ieri sono stati molto più efficaci perché era la seconda volta che ripetevano la storia e soprattutto, erano soli.» sbuffò con una smorfia ovvia. «Quello che non capisco è perché non vuole che stia lì dentro con lui, ci ha già riferito quello che gli avevano detto.»
«Forse non ti reputa all’altezza?» insinuò maligno il consulente.
Stranamente però Jonathan non raccolse la frecciata, anzi, scosse ancora la testa ma con fare serio.
«No, mi ha lasciato fare ben di peggio, per questo mi pare strano.»
Fu il turno di Simon di guardare storto il collega e chiedergli con cautela. «Cosa intendi con “ben di peggio”?»
Per un attimo Jonathan si immobilizzò, o forse fu per minuti interi, in quel momento il poliziotto poté sentire i secondi scorrere lentamente come la sabbia di una clessidra ostruita.
Giusto, doveva ancora raccontare anche a loro tutta la storia del biglietto e della rosa, magnifico. Alexander era entrato in casa sua, l’aveva in qualche modo convinto a riaprire le porte di quella vita in cui si era chiuso da solo, ma questo non significava che tutti i suoi problemi, i suoi errori, i passi falsi ed i fantasmi che abitavano con lui fossero spariti. Solo perché lui gli aveva dato fiducia e aveva guardato oltre tutto lo schifo di cui si era circondato non era detto che anche gli altri l’avessero fatto. O l’avrebbero fatto.
Si schiarì la voce e si volse anche lui, dirigendosi però verso la porta della sala adiacente.
«Ve lo racconto dopo con calma.» poi si fermò, indeciso sulle parole da usare. Sospirò. «Vedete di non scappare subito, ci metto due minuti tanto.»
«È grave?» domandò serio Simon, sporgendosi inconsciamente verso di lui.
Jonathan non seppe né dissentire né annuire. «È complicato.» decise di dire in fine.
Magnus lo guardò in cerca di qualche indizio, la cosa gli puzzava di bruciato e lui era davvero bravo a fiutare guai, specie se erano grandi e pesanti come nuvoloni pieni di pioggia, e lo sguardo cupo di Morgenstern prometteva temporali per tutto il fine settimana.
«Va bene, dopo meeting in saletta e confessioni a cuore aperto mentre ci mettiamo lo smalto e mangiamo i cetrioli che dovremmo tenere sulle occhiaie. Ora però andiamo a vedere cosa ha partorito la mente stakanovista del nostro tenente in una notte sola invece di dormire.»




Seduta davanti a lui, in modo composto ma palesemente stanco, stava Felicia Cobe.
Come ci si poteva aspettare dalla moglie di uno chef così famoso e quotato, Felicia appariva come la perfetta donna dell’alta borghesia, con un completo impeccabile, eleganti gioielli, il fisico morbido, la pelle di un bel rosa che nell’insieme aiutava a rendere la sua figura sana. Alec non aveva altro modo di definirla: non era una super sportiva, non era una magra e slanciata modella, ma ci scommetteva quello che aveva che la donna seguisse una sana dieta alimentare, che stesse bene a livello fisico quanto a quello mentale. Teneva un portamento eretto, le mani curate poste con grazia sul tavolino, un anello con una grande pietra ad adornarle la mano sinistra.
Osservò i suoi capelli lucidi e di certo acconciati da qualche parrucchiere più che competente, magari quello che si trovava all’isolato vicino al ristorante, se aveva sentito bene Magnus – ed era un po’ impossibile non sentirlo con quel tono di voce – doveva esser molto quotato dalla gente più “in”.
Il suo trucco era perfetto, gli occhi chiari risaltavano nella corona di ciglia nere e lunghe.
Non portava il rossetto, questo Alec lo notò e lo classificò immediatamente, perché di solito sua sorella lo metteva sempre, anche quando andava a qualche cena importante ed ora lui si domandava se le fosse sfuggito o se non lo mettesse mai. Era così importante? Probabilmente sì, la signora Cobe doveva esser sempre perfetta, o almeno questa era l’idea che si era fatto di lei tramite le parole degli altri, una donna sempre efficiente, impeccabile per gli standard dei clienti che si susseguivano nel loro locale.

In quello di suo marito, che ora le appartiene.

Era inevitabile pensare una cosa del genere, la donna in quel preciso momento possedeva tutti gli averi di suo marito, a meno che non ci fosse un testamento che dicesse il contrario ed Alec ne dubitava al momento. Non aveva elementi a sufficienza per dire se la vittima fosse o meno una persona così previdente da lasciar scritte le proprie volontà già alla sua età. Con tutta probabilità le successione legale avrebbe consacrato Felicia Cobe come la nuova signora dell’One.

«Buon giorno Signora Cobe, sono il Tenente Lightwood, mi occuperò del caso di suo marito.» disse con voce pacata e monocorde, priva di qualunque sentimento.
Si accomodò sulla sedia davanti a quella della donna e con tranquillità sistemò le cartelle sul tavolo, senza aprirle.
Felicia Cobe lo guardò per un attimo interdetta, forse, come molti altri prima di lei, sorpresa nel trovarsi davanti un uomo giovane a cui associare una carica che in molti non raggiungevano in un’intera carriera. In ogni caso non durò a lungo, Alec ragionò che devesse essere abbastanza abituata a trattare con ragazzetti che, grazie ai propri soldi o al nome della sua famiglia, reggevano nelle proprie mani le redini di grandi imperi, certo qualcosa di più importante del semplice titolo di tenente.
La vide annuire leggermente e sorridere in modo tirato.
«Non so cosa potrei dirle più di ciò che ho già detto al suo collega. Sono piuttosto impegnata e se me lo concede vorrei solo tornarmene a casa.» rispose comunque con decisione.
Alexander non si fece minimamente toccare da quel tono. La signora doveva saper come farsi rispettare, come imporsi, il semplice fatto che avesse sposato un uomo difficile come Cobe ne era la prova, ma lui era abituato a ben di peggio ed il semplice fatto che la donna fosse in una posizione “di rilievo” non l’avrebbe esentata dall’esser interrogata. Anche se le era appena morto il marito.
Poteva sembrare una cosa crudele, cinica e assolutamente di cattivo gusto, eppure Alec sapeva quanto le prime ore fossero importanti in un caso, sapeva quante mogli e quanti mariti si disperavano, piangevano, svenivano anche per la morte del proprio coniuge quando poi erano stati loro stessi ad ucciderlo. E purtroppo per la signora Cobe, di tutti i racconti che aveva sentito ce ne erano stati davvero pochi che non le avessero mosso almeno una critica.
Per educazione annuì comunque.
«Posso capirla.» disse secco e la vide rilassare le spalle. «Sarò il più conciso possibile.» continuò dopo una breve pausa. La donna si irrigidì.
«Non le pare eccessivo? Mio marito è appena morto e voi mi trascinate qui per interrogarmi di nuovo, come se potessi dirvi qualcosa di diverso!» sibilò con acredine.
Ancora una volta, Alec non si fece sfiorare dal tono della sua testimone.
«Esattamente signora. Ha già riportato la sua deposizione a caldo, ora, avendo già superato la notte, le sarà più semplice e naturale ricordare altri dettagli.» aprì la prima cartella davanti a sé e la scrutò fugacemente. «Mi parli del pranzo.» continuò con la sua voce più neutra.




«Che diamine sta facendo?» domandò Magnus sporgendosi in avanti.
«Quindi non è solo un’impressione mia, è davvero più freddo del solito.» mormorò Simon lì di fianco.
A braccia incrociate, con il fianco poggiato sul bordo del tavolo, Jonathan fissava la schiena dritta e le spalle ampie di Alec. Non sembrava in nessun modo innervosito o anche solo dispiaciuto per ciò che stava vivendo quella donna, per un folle momento gli parve di esser tornato indietro nel tempo, rivide la recluta Lightwood, ferma ed immobile davanti a qualunque foto, qualunque cadavere, qualunque crimine. Implacabile e imparziale. Bane aveva ragione: che diamine stava facendo? Voleva fare il poliziotto forte e freddo, voleva dimostrarsi degno del suo ruolo davanti a qualcuno d’importante? No, non era da lui. La soluzione allora era una sola.
«Deve aver scoperto qualcosa che non ci ha ancora detto. Credo che la stia mettendo alla prova.» sentenziò.
«E cosa avrebbe scoperto?»




«Suo marito non era entusiasta di questo pranzo?» chiese senza guardarla in faccia, segnando velocemente una correzione sulla bozza delle testimonianze.
Felicia Cobe si lasciò sfuggire un verso sprezzante. «Certo che no! Era d’accordo, aveva persino deciso di preparare lui stesso ogni portata.» replicò quasi fosse un affronto.
Alexander annuì. «Mi è stato detto il contrario. È possibile che suo marito ne fosse infastidito e che le abbia nascosto la cosa per non darle dispiacere?»
«Assolutamente no! Le ho detto che era d’accordo con me.» insistette lei.
Alec annuì ancora. «Capisco. I commensali sono tutti vostri conoscenti?»
«Sì.» disse lei poggiando i gomiti sul tavolo e massaggiandosi le tempie.
«Quali sono i suoi e quali quelli invitati da suo marito?»
A quella domanda però la donna si bloccò. Lo guardò per un tempo indefinito, assottigliò gli occhi e gli domandò quasi con rabbia. «Cosa vuole da me?»
Gli occhi azzurri di Alexander con quella luce artificiale sembravano altrettanto finti, delle lenti di vetro inscalfibili e fredde. Fissò la signora Cobe senza il minimo risentimento, senza batter ciglia, senza nessun’espressione.
«La verità. Suo marito è stato ucciso e lei nega anche una cosa insignificante come un disaccordo su di un evento organizzato nel suo locale.» non disse altro, non aggiunse che se gli mentiva su una cosa così banale avrebbe di sicuro potuto mentirgli su altri fronti, ma così come l’avvertirono i ragazzi dietro lo specchio l’avvertì anche la donna.
Un brivido le passò sulle braccia e la maschera di compostezza s’abbassò per mostrare la rabbia crescente che andava accumulandosi in lei.
«Sì! È vero! Contento? Hugh non voleva fare questo dannato pranzo! Lui ha sempre odiato stare in mezzo alla gente, preferiva starsene chiuso in cucina a far i suoi piatti, non ad interagire con i suoi commensali, con la gente che permetteva al ristorante di andare avanti.» strepitò esasperata. «Gli ho detto decine, centinaia di volte, di aprire un nuovo ristorante, che potevamo aprirne uno in ogni città dello Stato e vivere di rendita per il resto dei nostri giorni, e lui cosa mi rispondeva? Che non gli andava, che aveva il suo ristorante e che non aveva senso averne dodici se poi potevi cucinare solo in uno! Mi riceva “Sarebbe come avere dieci cucine in casa, cosa ci fai?”. Non aveva un minimo d’ambizione! Poteva aver il mondo ai suoi piedi, cenare con i personaggi più di spicco della società, vestire i completi più eleganti e invece preferiva starsene stretto in quella sua divisa, chiuso in cucina ad urlare contro i suoi cuochi!»
Alexander la lasciò gridare senza interromperla. Sapeva fin troppo bene che uno degli stadi di una perdita affettiva era la rabbia e benché suonasse cattivo da parte sua, in quel momento gli faceva molto più comodo una vedova furiosa che una in lacrime. La rabbia scioglieva la lingua più del vino.
«Avete discusso molto durante la settimana?»
Lei sbuffò. «Oh no, Hugh non è tipo da fare scenate lui- borbottava, sbuffava, se gli chiedevo se aveva deciso di preparare il menù che gli avevo richiesto diceva che lo sapeva lui e a me non doveva interessare.»
«Sembrava diverso dal solito questa mattina?»
La donna scosse la testa. «Era da un po’ di tempo che si comportava diversamente ma- non era per il pranzo, lo faceva da un po’ di mesi, era- era solo più nervoso del solito. Rispondeva a monosillabi, non che fosse una novità, ma persino con Kevin non parlava più come prima. Sembrava che le uniche persone con cui avesse piacere di parlare fossero i ragazzi della cucina e della sala.» ammise a mezza bocca.
Alexander segnò anche quello sul foglio davanti a lui.
«Mi racconti come sono andati gli eventi.»
«Non sono cambiati rispetto a quello che ho raccontato al suo collega.» lo rimbeccò lei acida.
«Al mio collega ha anche detto che suo marito attendeva con ansia questo pranzo e che era molto felice di poter cucinare per i suoi commensali.» le fece notare pacatamente.




«Dite che si alza e lo picchia?»
«Sai perfettamente che neanche Jade può picchiare Alec, figurarsi se ci riuscirebbe lei.» disse Magnus alzando un sopracciglio scettico. Si volse poi verso Jonathan. «Tu l’avevi capito subito che il marito era contro il pranzo?»
Il biondo annuì. «Non ne avevo la certezza, ovviamente, ma come vi ho detto sono stato diverse volte al suo ristorante e l’immagine di un Hugh Cobe che non vede l’ora di preparare cibo per una ristretta cerchia di signorotti che lo sommergeranno di domande e soprattutto con cui mangerà lui stesso mi pareva piuttosto insolita. Non ne avevo le prove all’inizio, ma come ci ha detto Lightwood il personae lo credeva e aveva ragione da vendere.»
«Quindi si torna al delitto più vecchio del mondo.» sospirò Simon.
«Potere?» domandò Magnus.
«Vendetta?» provò Jonathan.
«Amore!» rincarò la dose il primo.
«Soldi.» replicò il secondo.
Simon li guardò male e poi si voltò di nuovo verso il vetro.
«Vi odio, rivoglio Alec.»




«Gli ospiti sono arrivati in orario, Hugh non si è neanche degnato di uscire dalla cucina per salutarli, ha mandato Hamilton, il maître, a dire che non poteva abbandonare i fornelli perché era in un momento delicato di una preparazione. Ovviamente gli altri gli hanno creduto, solo io e Kev abbiamo capito cosa c’era sotto, ma l’importante è che se la siano bevuta loro.
Abbiamo servito l’aperitivo e io ho parlato un po’ della gestione del locale, dei clienti più facoltosi, tutte cose che la gente ama sentir raccontare.
Hugh è arrivato in sala solo per dirci di sederci, aveva ancora la divisa e Johanna, una delle invitate, la signora Jefferson, ha avuto la brillante idea di fargli i complimenti per quanto fosse immacolata e tutti gli altri l’hanno pregato di non andare a cambiarsi, che quella era la vera divisa di un grande chef e che era emozionante. Tutte assurdità, ma Hugh ha preso la palla al balzo ed è rimasto con quella addosso. È stato servito l’antipasto, ed è andato tutto bene. Poi lui si è alzato ed è andato in cucina con la scusa della zuppa. È tornato assieme ai camerieri, si è seduto, ha spiegato com’era fatto il piatto e poi abbiamo mangiato. Esattamente come ho detto al suo collega.» ripeté per l’ennesima volta.
E per l’ennesima volta Alec la guardò impassibile. «Al mio collega non ha detto che suo marito ha salutato gli ospiti solo dopo l’aperitivo.»
La donna fumò di rabbia. «Si comporta così con tutte le vittime?» ringhiò.
Sul volto del detective nulla si mosse, neanche le labbra s’allargarono più del dovuto.
«Perché si reputa una vittima, signora Cobe?» domandò piatto.
«Non so se si è reso conto che mio marito è appena morto!»
«Certo che sì. Infatti, la vittima ora è dal coroner. Lei è una testimone, signora, non la vittima. E per rispondere alla sua domanda: no, non potrei farlo, le mie vittime non rispondono alle mie domande, sono morte.»
Quell’ultima frase ebbe il potere di gelare la donna. Alec la osservò tirarsi indietro sulla sedia e poggiare le spalle allo schienale. Abbassò il capo e scosse la testa.
«Mi sto comportando come se mi stesse accusando di qualcosa, vero?» chiese poi con un filo di voce.
Il detective scosse la testa. «No signora, si sta comportando come qualcuno che vuole nascondere qualcosa.»
Gli occhi scuri di Felicia Cobe si posarono tentennanti su di lui. «Cosa glielo fa pensare.»
Un leggero fremito di labbra fu la cosa più simile ad un sorriso che il giovane avesse mai fatto fino a quel momento.
«La prego di non prenderla come un’offesa, ma nella mia carriera ho incontrato vedove distrutte dal dolore, altre addolorate ma resistenti, stoiche. Altre ancora disinteressate, felici.»
«E io in che categoria rientro?»
«Tra quelle dispiaciute.» disse semplicemente. «Da quanto tempo ha una storia con un altro uomo?»




«Wo-wo-wo. Fermi tutti. Questa dov’è uscita fuori?» Magnus si tirò dritto con la schiena e poi grugnì infastidito. «Perché non ci dice le cose?»
«Non lo so, pettegolezzi?»
«Li ho interrogati anche io i cuochi, nessuno mi ha detto che pensava che la moglie del capo lo tradisse!»




La signora Cobe batté le palpebre. «Come…?»
«Non porta la fede. Indossa l’anello di fidanzamento perché sfarzoso, un pezzo molto elegante credo, ma non la fede, una semplice fascetta d’oro senza nessun valore estetico.» spiegò con calma.
La donna strinse la mano al petto e abbassò lo sguardo verso di essa.
«Non me ne ero neanche accorta.» mormorò.
«Perché non la reputa più una cosa essenziale.» disse con semplicità Alec. «Posso presumere che il suo amante sia il signor Kevin J?»
Ancora una volta l’altra lo guardò sorpresa. «Chi glielo ha detto? Chi le ha detto tutte queste cose? Lo ha saputo da qualcuno dello staff?» incalzò improvvisamente rianimata.
Alec scosse la testa. «L’aiuto cuoco, Fortcue, mi è sembrato estremamente fedele a suo marito ma poco a lei. Quando si ha una così alta idea del proprio superiore, del proprio mentore, si tende ad aver rispetto e attenzione anche di chi è importante per lui. Probabilmente il signor Fortcue ha intuito un cambio d’atteggiamento nei suoi confronti, o nei modi di fare di suo marito, è stato puro istinto, non penso che sappia. Il signor J invece mi è stato nominato spesso in associazione a lei e difficilmente a suo marito, eppure erano loro ad esser amici. Non porta la fede e ieri lei ed il signor J eravate vestiti abbinati.»
Per la seconda volta nel corso dell’interrogatorio, Felicia Cobe, sconcertata da quell’elenco di piccolezze che ora sembravano così enormi, gli pose la stessa domanda.
«Cosa vuole da me?»
Ed Alec gli diede la stessa risposta.
«La verità, signora.»
La donna chiuse per un attimo gli occhi e poi li riaprì sospirando.
«Volevo molto bene a mio marito, l’ho amato per moltissimo tempo.» Iniziò guardandolo negli occhi, cercando di fargli capire che stesse dicendo il vero.
Alec annuì ma non disse nulla.
«Ma Hugh era un uomo difficile, molto riservato, sempre silenzioso, immerso nel lavoro. Borbottava più che parlare, aveva sempre qualcosa che non gli andava bene e ho sempre avuto l’impressione che tenesse più al suo ristorante che a me.»
«Non mi deve nessuna giustificazione, signora.» le fece notare Alexander con pacatezza.
Lei strinse le mani l’una all’altra. «Io- Kevin era un grande amico di Hugh, erano stati vicini di casa da piccoli e…lui c’era sempre…»
«Quando è cominciata la vostra relazione?» domandò allora.
Felicia Cobe lo fissò con sguardo quasi implorante, ma Alexander non abbassò il suo, non le diede la minima via di fuga.
Sconfitta, la donna s’arrese. «Abbiamo avuto diversi flirt nel corso degli anni, nulla di serio sino a- ad un paio d’anni fa. Io e Hugh avevamo discusso, o meglio, io litigavo e lui stava zitto, come sempre.»
«Di cosa avete discusso?»
Un verso sarcastico sfuggì dalle labbra della Cobe. «Del ristorante, ovviamente. Erano già anni che cercavo di convincerlo ad aprirne un altro, ma lui era testardo come un mulo e non voleva saperne. Non si rendeva conto dei profitti che avremmo potuto ricavarne, la sua fama gli avrebbe permesso di aprir locali in tutti gli States ma lui non voleva e- così gli disse che ne avrei aperto uno tutto mio e sa lui cosa mi disse? “Se credi di esserne capace Felicia, fai pure”. Tutto qui! Solo questo!»
«Era presente anche il signor J? O lo ha chiamato lei?»
«Perché dà per certo che non sia stato Hugh a chiamarlo?» gli domandò alzando un sopracciglio.
«Perché da ciò che mi è stato dato ad intendere suo marito non era un uomo che chiedeva aiuto.»
Un ennesimo sospiro sconfortato sfuggì dalle labbra tirate di lei. «Fu Kev ha chiamare Hugh, per puro caso. Lui gli disse che avevamo discusso, non so cosa gli raccontò di preciso, quando Kevin mi raggiunse io gli riraccontai ogni cosa e- e lui mi consolò, fu dolce e gentile come Kevin era sempre stato, com’è sempre stato. Da lì, ho capito che provavo qualcosa per lui ma inizialmente cercammo di restare più lontano possibile l’uno dall’altra ma non servì a nulla. Ci siamo innamorati.»
«Crede che suo marito sospettasse qualcosa?»
Felicia Cobe lo guardò per un istante prima di scoppiare a ridere con un fare quasi isterico.
«Hugh non si accorgeva mai di nulla che non fosse inerente alla cucina. Ho cambiato decine di volte il design della sala e non se n’è mai reso conto, non ha mai detto né che gli andava bene né che lo odiava, sembrava che non esistesse neanche la sala per lui, il suo lavoro finiva non appena il piatto superava le porte. No, assolutamente, Hugh non sospettava nulla.»




«Così la mogliettina affranta metteva le corna alla vittima con il suo migliore amico. Diamine Sonny, ti ci sei davvero avvicinato quando hai detto che era il delitto più antico del mondo!»
«E non c’entra neanche la prostituzione.» annuì Jonathan sogghignando.
Simon però neanche li ascoltò, continuò a fissare la schiena di Alec cercando di capire cos’altro sapesse che non aveva ancora detto a nessuno di loro. Perché ormai ne aveva la certezza, Alexander sapeva qualcosa che non aveva ancora chiesto alla donna e che probabilmente credeva lei gli stesse nascondendo volontariamente.
«State attenti, credo che ci manchi ancora un pezzo.» disse infatti agli altri due che lo guardarono incuriositi.
«Non ti convince la storia del loro grande amore? In effetti non capisco perché se non vedeva nulla di positivo in lui lo abbi sposato.» concordò Magnus pensieroso.
«Soldi? Potere? Fama?» elencò spiccio Morgenstern come se fosse ovvio.
Magnus annuì. «Sì, c’avevo pensato anche io, ma questo significherebbe che Kevin J non è stato il primo dei suoi amanti, si aggiungono un numero indefinito di potenziali colpevoli, se qualche vecchia fiamma vedeva Cobe come d’intralcio nella sua relazione con la moglie e in ogni caso perché non ha chiesto il divorzio? Possiede il 20% del locale, anche solo rivendendo la sua parte a terzi avrebbe fatto una fortuna.»
«Forse hanno un accordo prematrimoniale.» suggerì Jonathan attento.
Simon scosse la testa. «Stiamo ancora aspettando i documenti dai legali della vittima, ma quando i due si sposarono l’One non era ancora un ristorante di fama, avrebbe anche potuto fallire dall’oggi al domani per un qualunque motivo, non avrebbe avuto senso fare un accordo prematrimoniale sul… beh, sul nulla.»
«Di nuovo, Sonny ha ragione.»
«Non si può mai sapere cosa passi per la mente della gente, per ora possiamo solo fare supposizioni.»




«Ha detto che nell’ultimo periodo però si comportava diversamente.» riprese Alexander cercando le deposizioni dello staff: tutte quante erano concordi nel dire che lo chef fosse piuttosto nervoso per quel pranzo, ma solo alcune specificavano che il cambiamento sembrava essersi avviato già da prima.
Felicia Cobe annuì. «Quasi dall’anno scorso. L’anno prima ancora ebbe una violenta polmonite che lo costrinse a letto per mesi, al tempo lasciò la cucina in mano a Martin Stevenson, un suo vecchio amico dell’accademia che ha rincontrato a Londra e con cui ha aperto il locale in pratica.»
«So che possiede il 5% del locale.»
La donna sbuffò, palesemente infastidita. «Quando a suo tempo gli chiesi perché non potevamo dividere la proprietà dell’One a metà mi disse che una piccola parte era già nelle mani di un suo amico. Inizialmente credetti si riferisse a Kev ma poi scoprì che era quello sfaticato di Martin.»
«Non sembra piacerle molto.» notò monocorde.
«Oh, non è lui che non piace a me, sono io che non piaccio a lui. Ho la sensazione che non abbia mai apprezzato il mio interesse per il locale così come quello per Hugh. Quando il nostro rapporto cominciò a diventare più serio venne a dirmi di pensar bene a quello che volevo nella vita, che Hugh non era un uomo facile, che la vita non era sempre rose e fiori e che dovevo esser certa della storia in cui stavo andando a cacciarmi.»
Questa Alec si concesse d’alzare un sopracciglio. «Le disse che faceva male a sposare Cobe?»
«No, no non mi ha mai detto una cosa del genere. Mi fece una stupida metafora sul cibo, dicendo che anche il ristorante in cui hai desiderato andare per tutta la vita prima o poi potrebbe portarti un piatto salato o potrebbe non ripagare le tue aspettative.»
«Ma lei la vide come una minaccia?»
«Neanche, mi sembrò molto più una provocazione.»
Il detective annuì. «Quindi suo marito stette male, lasciò il ristorante in mano al signor Stevenson e quando poi vi tornò era cambiato?» provò ad indovinare.
Anche la donna annuì. «In un certo senso sì. Era ancora più schivo, più chiuso del solito. Poi per un periodo tornò tutto a posto e dopo ancora si riallontanò sia da me che da Kevin.»
«Ma continua ad affermare che suo marito non sapesse nulla della vostra relazione.» concluse poco convinto. «Aveva avuto problemi con il ristorante? Legali, finanziari, con il personale?»
Scosse il capo. «No, nessun problema del genere, era tutto a posto. E forse… forse se non l’avessi obbligato a fare quel pranzo sarebbe ancora vivo.» mormorò in fine.
Alexander la fissò e chiuse i fascicoli. «Ho imparato, nel corso degli anni, che una morte, di qualunque tipo sia, anche se viene scampata una volta non ritarderà per sempre. Non poteva saperlo, se doveva andare così suo marito sarebbe potuto morire in molti modi diversi.»
«Quindi lei non crede che io sia colpevole?» gli domandò sorpresa.
Ma il volto del tenente era una maschera di cera e Felicia Cobe seppe già cosa le avrebbe risposto prima ancora che quello aprisse bocca.
«Quello che credo io è irrilevante, nessuno è colpevole fino a prova contraria, questa è la legge. Ciò non toglie che, allo stato attuale delle cose, lei ed il signor Kevin J siate in cima alla lista degli indiziati.»




Quando su quella sedia si sedette Kevin J Alexander aveva dovuto affrontare una nuova diatriba sul fatto che non volesse nessuno in sala interrogatori con lui.


«Andiamo Alexander! Capisco che tu non voglia questa piaga di Morgenstern-»
«Vaffanculo, Bane.»
«Posso capire che tu non voglia me – anche se no, non lo capisco – perché con la mia folgorante bellezza ed il mio charme potrei intimorire o affascinare gli indiziati.»
«Questa sì, che è una signora puttanata.»
«Ma almeno il piccolo Steven, portalo con te, come imparerà il mestiere se no?»
La sviolinata di Magnus fu seguita dall’ennesimo insulto di Jonathan e dall’annuire concitato di Simon che cercava di fargli gli occhi dolci.
Ma lui era cresciuto con Jace, Izzy e Max e dire che fosse temprato dal fuoco di mille battagli era un eufemismo.
Ovviamente non riuscirono minimamente a convincerlo.
«Pessime argomentazioni e pessima esposizione. Ringrazia di non essere un avvocato, Mags, mia madre ti avrebbe distrutto senza neanche doversi alzare dal banco.»




L’uomo davanti a lui sembrava tranquillo nel complesso. Era palese che fosse rimasto in qualche modo toccato dalla morte violenta del suo amico, ma proprio com’era successo per la vedova, Alec ebbe la netta sensazione che più che triste, disperato o addolorato, fosse solo dispiaciuto.
Forse un tempo c’era stato un sincero sentimento d’amicizia tra di loro ma ora come ora non vi era nulla che potesse ancora chiamarsi a quel modo. E se l’aveva capito Alec con un solo colpo d’occhio, dubitava che tutto lo staff e magari anche gli invitati non avessero anche solo intuito il cambiamento di sentimenti che univa quelle tre persone.

Due allo stato attuale delle cose.

«Buon giorno Signor J, sono il Tenente Lightwood.» ripeté quelle parole in modo meccanico, così come aveva già fatto per la signora Cobe.
Sapeva per certo che i due non si erano sentiti, erano riusciti ad incastrare gli interrogatori in modo tale che non appena Felicia Cobe era uscita da quella sala e si era diretta per il corridoio di destra, da quello di sinistra era immediatamente spuntato Kevin J, scortato da un agente.
L’uomo gli fece un cenno del capo. «Kevin J, solo “J”, so che è strano ma è una lunga storia.» sorrise affabile. «Ma le giuro che non sono un Man in Black.> scherzò ancora.
Poi si dovette rendere conto che quello vestito come il personaggio di un film era il detective Lightwood ed il sorriso sul suo volto si spense un po’, divenendo più incerto.
«Scusi, parlo un po’ a sproposito quando sono preoccupato.» si giustificò subito.
Alexander non gli fece notare quanto quella frase fosse compromettente, al contrario, esattamente come non aveva fatto con Felicia Cobe, si sforzò di farsi vedere comprensivo.
«Non si preoccupi, sono abituato a parlare con testimoni scioccati da ciò che hanno visto. Un delitto si ripercuote in modi differenti su ogni persona.»
Kevin J annuì sollevato. «Ammetto che è stato un duro colpo. Hugh… lui, insomma, com’è morto? Non ci hanno ancora fatto sapere nulla.»
Ci hanno”, ovviamente riferito a lui e alla signora Cobe.

Che a quanto pare giocano appaiati questa partita.

«Emorragia interna. Gli è stata somministrata una massiccia dose di anticoagulanti. Ma non deve temere nulla, tutti voi commensali siete già stati sottoposti ad analisi, i cui risultati dovrebbero arrivarmi a breve, ed in ogni caso in questo edificio ci sono molti validissimi medici.» lo disse con gentilezza, come se lo stesse consolando, ma il solo riferimento ad un possibile avvelenamento anche agli altri ospiti fece irrigidire ugualmente l’uomo.
«L-lei dice?»
Alexander aggrottò le sopracciglia. «Per la validità dei medici? Assolutamente, ognuno dei nostri coroner è laureato con ottimi voti alla facoltà di medicina.»




«Se sta facendo una recita, dio santissimo, lo sta facendo davvero in modo fantastico. Quel tipo tra un po’ ci sviene lì sul tavolo. Che ha intenzione di fare il nostro capitano?» domandò Magnus divertito.
«È tenente, il “capitano” è il prossimo grado che può prendere.» sbuffò Morgenstern. «E penso che stia cercando di far abbassare la guardia a Mr “è-una-storia-lunga” facendo il buono e caro.»
«Poteva farlo anche con la moglie…» borbottò Simon.
Ma il biondo scosse la testa, seguito subito da Magnus. «Quella donna è abituata a trovarsi in posizione di comando, se Alexander si fosse mostrato troppo sottomesso se lo sarebbe mangiato, non gli avrebbe detto niente e alla prima domanda scomoda si sarebbe indignata per l’insubordinazione.»
Jonathan alzò un sopracciglio. «Ma dai, allora anche tu pensi ogni tanto?»
«Solo nei giorni infrasettimanali dispari.» sorrise plastico l’altro.




«Potremmo essere tutti avvelenati?» domandò ancora l’uomo.
Alec si strinse nelle spalle. «Ne dubito, ma sarebbe stato comunque molto più efficiente ed intelligente uccidere tutti, avrebbe reso più difficile l’identificazione della vera vittima designata, del colpevole e del movente.»
Kevin J annuì non toppo convinto. «Se ne è certo…»
«Assolutamente. Possiamo passare alle domande? Potrebbe dirmi in che rapporti era con la vittima?»
L’altro si mosse un poco sulla sedia per accomodarsi meglio, intrecciò le dita e prese un respiro profondo.
«Io e Hugh eravamo vicini di casa quando eravamo piccoli, siamo stati a scuola assieme finché lui non ha scelto l’accademia culinaria e poi è partito per l’Europa. Siamo sempre rimasti in contatto ma non ci vedevamo da molto tempo quando sono tornato anch’io qui in città e l’ho aiutato a tiare su l’One.» spiegò con calma ed uno strano tono accomodante, quasi cercasse di raccontare al meglio una storia.
Alexander però non ne rimase troppo impressionato: aveva aiutato Cobe a tirare su l’One? Dov’era finito il “stava aspettando di poter cominciare a lavorare e nel mentre si annoiava bazzicando per il cantiere”? Era davvero interessante vedere come le storie mutassero a seconda della persona che le raccontava, ma anche a questo Alec era ormai avvezzo.
«Non avevo capito che lei fosse un azionario. Quindi saprà di certo dirmi se c’erano problemi finanziari, con dei fornitori, qualche bega legare che potrebbe aver scatenato attriti e possibili ritorsioni da terzi.»
Come se avesse appena scoccato una freccia dritto al centro del bersaglio, Kevin J si lasciò sfuggire una contrazione quasi nervosa del volto.
Alexander sogghignò internamente.
Diamine, stava passando troppo tempo con Magnus e Jonathan.

«No, io non sono un azionista, come dice lei. Ma i ristoranti non sono come le aziende commerciali, non si è proprio “azionisti” si è co-proprietari.»
«Quindi lei è un co-proprietario?»
Di nuovo la leggera contrazione della mascella. «No.»
Alec aggrottò le sopracciglia. «Mi perdoni, non mi ha appena detto che ha aiutato la vittima a tirar su il suo locale? Non è logico pensare che l’abbia ripagata in qualche modo?»
Il signor J strinse le mani tra di loro ed espirò fortemente. «No, Hugh non mi ha mai ripagato in nessun modo. Al tempo aspettavo che il mio contratto iniziasse così mi sono offerto d’aiutare come potevo. Non volevo soldi in cambio.»
Il detective annuì. «Provava risentimento per questo nei confronti della vittima?»
A quella domanda l’uomo non rispose immediatamente, rimanendo in parte stupito da un quesito così specifico e palesemente accusativo e dal fatto che il poliziotto l’avesse portato lì senza neanche farglielo sospettare.
Non era un ragazzino come tanti che ha ricevuto una gratifica per un qualche motivo assurdo, sapeva il fatto suo.
«Non parlerei proprio di risentimento. Hugh mi ringraziò e a me al tempo bastò così.»
«Ma ad un certo punto non le è più bastato?»
L’altro scosse la testa. «Di nuovo, non proprio. Ho avuto qualche problema finanziario in passato, Hugh mi ha aiutato un paio di volte, nulla di troppo esorbitante ovviamente ma lavoro in borsa, sa come sono gli andamenti esteri e quelli statali, vero?» Alec annuì spingendolo a continuare. «Gli ho sempre restituito tutto, sempre, ma negli ultimi tempi era diventato più difficile-»
«Farsi prestare i soldi o ridarli?» chiese a tradimento.
J si fermò. Lo osservò a lungo. «Entrambi.» ammise a bassa voce, poi si lasciò sfuggire un suono decisamente sarcastico. «Non che lui lo sapesse ovviamente. Mi diceva sempre di no, che doveva pensare al suo locale e non poteva aiutarmi sempre.»
«Quindi era la signora Cobe a prestarglieli. Il marito si rendeva conto delle mancanze? È per questo che litigavano?»
Alec annunciò il suo scacco al re da lontano ed il volto sorpreso di Kevin J gli fece intuire che anche l’uomo l’avesse sentito.
«Glielo ha detto Felicia?» domandò a sua volta senza cercare più di girare attorno all’argomento.
Il detective si strinse nelle spalle per poi rielencare le stesse cose dette alla donna.
«Lei non porta più la fede, strano per una vedova addolorata che la signora Cobe non sembra affatto essere.»
«Solo questo? L’ha capito da questo?»
«Vi riferite a voi stessi come una coppia, come un duo. Questo è piuttosto indicativo. E, se permette, se volete tenere nascosta la vostra relazione dovreste evitare di vestirvi abbinati.»
Con uno sbuffo divertito l’uomo si lasciò cadere contro lo schienale della sedia ed abbandonò le braccia lungo i fianchi.
«Avevamo comprato quei vestiti assieme, non mi ero neanche accorto che fossero abbinati, ma ora che me lo fa notare…»
«Inconscio, estremamente potente e spesso compromettente.» disse solo lui con voce piatta. «La vostra storia andava avanti da due anni e la signora Cobe le prestava il denaro necessario per sopperire ai suoi cattivi investimenti. E lo faceva con i soldi del marito temo.»
A quella frase l’altro sembrò rianimarsi un po’. «Era anche denaro di Felicia.» la difese subito.
Alexander alzò un sopracciglio. «Mi permetta, signor J, ma da quanto ne so la vedova Cobe non ha mai lavorato davvero nel locale. Era la vittima a pensare a tutto, sbaglio? Quindi quei soldi erano di Felicia Cobe tanto quanto lo sono i soldi di un miliardario della propria moglie.»
Era stata un’osservazione davvero crudele da parte sua, ne era consapevole, ma ancora una volta aveva la netta sensazione che gli stessero nascondendo qualcosa ed il modo migliore per capirlo, a quanto pareva, era rendere chiaro all’altro che lui sapeva e che non si sarebbe fatto fregare dalle loro belle parole.
E Kevin J non doveva essere proprio uno stupido perché si rese conto che il giovane uomo davanti a lui non avrebbe accettato le sue scuse. O meglio, le avrebbe ascoltate ma ne avrebbe tratto le giuste conclusioni, avrebbe letto tra le righe. Ed ora come ora, tra le righe, c’era scritto che lui e Felicia erano amanti, che avevano entrambi qualcosa contro Hugh, che la donna usava i soldi del ristorante per pagare i suoi affari falliti e che faceva tutto sotto banco perché il marito – la vittima come ripeteva in continuazione il tenente, che mai aveva chiamato Hugh Cobe con il suo nome – non approvava.

«Hugh non sapeva di noi.» disse come risposta a tutti i suoi ragionamenti.
Il volto impassibile del detective parlava per lui. «La vittima e sua moglie discutono circa un anno fa, lei chiama il suo amico proprio dopo la lite e invece di andare a parlare con lui si fa dire dove si trova sua moglie e va a consolare lei. Inizia la vostra storia ed il caro amico che le ha sempre prestato denaro ogni qualvolta ne avesse bisogno, perché da quanto ho capito la vittima non era una persona veniale, improvvisamente si rifiuta di farlo. Lei comunque sopravvive ad ogni fallimento grazie alla sua amante ma ufficialmente per altri motivi. La signora Cobe diventa sempre più insistente con l’idea di aprire altri ristoranti, tanto da voler organizzare un pranzo di “prova” presumo. La vittima si allontana sempre di più da sua moglie, non vuole neanche accordarle quel pranzo privato, ma lei lo convince del contrario. Nonostante questo la vittima è nervosa per settimane, non si presenta neanche ad accogliere i commensali e cerca di scappare in cucina non appena ne ha la possibilità, lasciando lei e la signora Cobe a fare i padroni di casa.» si fermò e scrutò con sguardo freddo ed acuto il bel viso dell’uomo davanti a sé, ora una maschera cinerea.
«Mi perdoni di nuovo, signor J, ma vorrebbe davvero farmi credere che la vittima fosse così ottuso da non rendersi conto di tutto questo? Un cuoco di alto livello, uno chef del suo calibro che riesce a trarre il meglio da ogni luogo in cui ha lavorato, da ogni persona che ha al suo fianco, che è famoso per esser capace di esaltare al massimo i singoli alimenti, senza trucchi o inganno?
Aveva una considerazione così bassa di quell’uomo?
Se permette, mi azzarderei a dire che chi non ha capito nulla, chi non ha visto e non sapeva, eravate lei e Felicia Cobe.»
Nella sala interrogatori scese il silenzio più assoluto. Dietro lo spesso vetro a specchio i tre colleghi del detective si ritrovarono a sorridere divertiti da quella scena.

Scacco al re.





Non appena ebbero finito con gli interrogatori della giornata tutti e quattro si ritrovarono davanti alle loro scrivanie.
Alexander e Simon spostarono una lavagna fino al muro a loro più vicino e Magnus insistette per essere lui ad attaccare foto e scrivere informazioni.

«Hai una grafia orribile, piena di fronzoli inutili, non si capirà nulla.» si lamentò Jonathan, giusto per fare qualcosa.
Magnus, in modo molto maturo, gli fece il dito medio.
«Buoni voi due.» tuonò la voce profonda di Alec. «Dobbiamo metterci a lavorare, non voglio sentirvi litigare come mocciosi.»
«Ha cominciato lui.»
«Come non detto.» grugnì a mezza bocca.
Simon si passò le mani sui jeans e sorrise ai suoi colleghi. «Chi lo vuole un caffè? Credo che ci vorrà un bel po’ per sbrogliare questa matassa, vero?» propose.
Magnus annuì. «Grazie Sigfrido, con la mia macchinetta, per favore.»
Jonathan alzò solo una mano, mentre Alec annuiva ringraziandolo mestamente. «E credo anche che il capo qui debba metterci a parte di un po’ di ragionamenti suoi, vero?» chiese inclinando la testa verso il moro.
Il detective si sedette alla sua postazione, alla sua destra Magnus era ancora intento ad attaccar foto di possibili indiziati. Sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Togli gli invitati, Mags. Non serve averli lì, occupano solo spazio.»
L’uomo si volse a guardarlo curioso. «Già li elimini a priori?»
L’altro gli fece cenno di sì. «Per ora la pista migliore è quella della moglie e dell’amico, seguiremo questa e se non ci porta a nulla riprenderemo in mano anche gli altri invitati, ma dubito fortemente che c’entrino qualcosa.»
«Istinto o speranza?» domandò Morgenstern dondolandosi sulla sedia vicino alla scrivania di Alec.
«Una buona parte di entrambi. Tra di loro non c’è il mandante dell’omicidio e neanche l’esecutore, non ne avrebbero avuto la possibilità. Sono tutti amici di Felicia Cobe, la maggior parte di loro sono arrivati in città solo per questo pranzo.»
«Che fortuna.» sbuffò ironico Magnus.
«E non hanno moventi, sì, lo penso anch’io.» concordò.
Simon tornò con le quattro tazze stretta in una presa precaria, poggiandole con delicatezza sul primo piano disponibile e distribuendole ai legittimi proprietari.
«Perciò il movente è “soldi e amore”? Dici che Cobe lo sapeva?»
Alexander bevve un sorso del suo caffè e lasciò andare un sospiro più pesante.
«Tutti coloro che ho interrogato non hanno quasi mai parlato di Felicia Cobe, chi lo ha fatto è stato solo per citare il fatto che avesse obbligato il marito a fare quel pranzo. Forscue e Stevenson, anche se il secondo è stato molto più sottile, mi hanno dato ad intendere che non avessero una grande stima della donna, avete sentito anche voi cos’ha detto le signora Cobe stessa e quello che ha invece detto il signor J.»
«Erano i classici amanti che inizialmente sono pentiti e dispiaciuti di tradire l’amico barra marito ma che poi si attaccano ad ogni comportamento “sbagliato” di quello per odiarlo.» convenne Magnus stringendo la tazza viola tra le mani, riscaldandosele un po’. «Sì, hanno dei comportamenti troppo espliciti, non penso proprio che quel poveraccio non l’abbia notato e per di più, se non l’avesse fatto da solo, sarebbe bastato vedere come l’intero staff si comportava con i due. Scommetto che Forscue li guardava male ogni volta che entravano nel locale, mi sembra un fedele cane da guardia.»
«Senza dubbio gli era fedele, ma non sottovalutare anche Stevenson. Erano amici, Cobe gli chiese di ritornare in America e lasciare un lavoro che amava e in cui si trovava a proprio agio, gli ha chiesto di lasciare una sicurezza per un’incertezza. Doveva aver grande considerazione di lui e penso che Stevenson lo ripagasse con fedeltà e sincerità.» continuò Alexander.
Jonathan passò lo sguardo dall’uno all’altro. Fedeltà e sincerità. Che parole spaventose.
Si riscosse. «Quindi pensate che se anche Cobe fosse stato davvero così ottuso c’avrebbe pensato il vecchio amico ad aprirgli gli occhi.» concluse. «Bene, fila come ipotesi. Potremo rinterrogarlo e chiedergli conferma, specie ora che sappiamo della tresca.»
«C’è già nel programma, domani verranno a dare la loro deposizione ufficiale i membri dello staff, mando una notifica ai due informandoli che li rinterrogheremo entrambi?»
«No, non ce n’è bisogno.»
Magnus batté le mani. «Ottimo, allora ci dici cosa sai di più di noi?»
Alexander prese un respiro profondo ed annuì. «Sono arrivati i fascicoli medici di Cobe, anche quelli finanziari.»
«E dentro c’erano informazioni che ti hanno fatto accendere una lampadina, giusto? Svelaci l’arcano, o sommo signore dei casi intricati!» proclamò con fare melodrammatico alzando la sua tazza in aria come fosse un oggetto di scena.
Il detective lo ignorò. «Ho ragione di sospettare che Cobe fosse a conoscenza della relazione tra moglie e amico da almeno subito dopo la sua malattia. La polmonite che ebbe due anni fa lo costrinse a visite mediche intensive nella ricerca di un qualunque problema che impedisse la veloce riabilitazione. Pare che avesse delle matasse sospette nei polmoni, non appena scenderemo in laboratorio chiederò al Dottor Carson di spiegarci meglio la patologia, ma all’atto pratico gli rimaneva poco da vivere.»
Gli altri tre lo guardarono stupiti e Jonathan annuì. «Non ha detto nulla a nessuno. Non si è fidato neanche di sua moglie perché già sapeva che lo tradiva.»
«No alla prima e sì alla seconda. Un mio amico lavora in un ristorante, il proprietario era a sua volta amico di Cobe e pare che nell’ambiente tutti sospettassero che lo chef non fosse più al massimo della sua forma, malgrado lui negasse sempre come suo solito ed i suoi dipendenti asserissero lo stesso.»
Simon sorrise. «Hai sentito Seth?»
Magnus invece drizzò le orecchie, non era la prima volta che il discorso “Seth” usciva fuori per caso ed ogni volta gli sembrava di scorgere un pezzetto in più del passato di Alec.
Persino Jonathan alzò un sopracciglio e abbozzò un sorriso divertito.
«Seth? Seth Cohen? Quello che veniva a liceo con noi?»
«No James, quello è il personaggio di O.C.» replicò l’asiatico con stizza.
«Sta zitto, Bane. Lo chiamavamo tutti così perché è castano, riccio e nerd. E perché era amico di quello tenebroso che tutti sapevano saper menare le mani.» ghignò ammiccando verso Alec.
Il diretto interessato lo fissò con espressione neutra. «Sì, parlo di lui. Lavora al Kennedy.»
Jon fischiò. «Beh, era bravo ai fornelli il nerd, quando ci fu il festival scolastico la tua classe vinse non so quanti premi.» ricordò quasi con nostalgia.
Alec annuì. «Maggior afflusso di visitatori, maggior “ritorno” di visitatori. Minimo spreco del materiale acquisito, il premio per il menù più vario, quello per i migliori piatti caldi e freddi e miglior dessert. Credo anche il premio per lo stand più efficiente.»
«Vinceste anche quello per le divise migliori, avete battuto le cheerleader, tua sorella era nera.»
«E Jace riuscì comunque a dire che era merito suo perché aveva fatto da modello a Pip.»
I due giovani si scambiarono uno sguardo d’intesa che proveniva da un passato in cui d’intesa, tra di loro, non ce n’era praticamente stata. Per un attimo Simon e Magnus si sentirono tagliati fuori da un mondo e da una realtà che non avrebbero mai compreso, un luogo in cui Jonathan era il borioso ragazzino viziato che cecava ancora di imparare come comportarsi tra la gente in della Grande Mela e Alexander era il cupo Slender man che incuteva paura e si mimetizzava tra le ombre. Un passato che ora pareva lontano anni luce.
Poi Alec si riscosse. «Se alcuni chef sospettavano qualcosa non dubito che anche altri lo facessero, così come non dubito che lo staff lo sapesse. O per lo meno sospettasse.»
«E quei due?» chiese Simon.
«Probabilmente hanno chiesto spiegazioni e si sono sentiti rispondere che non aveva nulla. Cobe era un uomo adulto e responsabile, aveva il diritto di chiedere al medico curante di non divulgare alcuna informazione e lui aveva l’obbligo di farlo. In ogni caso, visto quanto sono convinti che la vittima fosse così ottusa da non rendersi conto che il suo migliore amico e sua moglie lo tradivano, dubito che avrebbero potuto intuire qualcosa.»
«Quindi era malato, ha scoperto che la moglie e l’amico lo tradivano e non ha detto nulla a nessuno.»
«Ma qualcuno lo doveva pur sapere. Se mancava dal lavoro per qualche visita medica… doveva esserci qualcuno che gli copriva le spalle.» fece notare Lewis sedendosi alla sua scrivani. Alzò lo sguardo sul tenente. «Stevenson? Mi pare il più adatto.»
Alec annuì. «Sicuramente. Dubito che l’abbia detto a Forscue, penso sarebbe diventato molto apprensivo, Cobe era pur sempre il suo mentore, il suo metro di paragone a tutto.»
«Cieca fedeltà, di nuovo.» mormorò Magnus.
A sentire quella parola ripetuta per la seconda volta Jonathan si mosse inquieto sulla sedia. Di fianco a lui Alexander gli lanciò una lunga occhiata penetrante e poi annuì.
«Vogliamo affrontare qualche discorso prima di dedicarci completamente al caso?» domandò quasi con casualità.
Magnus e Simon si voltarono a guardarlo curiosi, poi il più giovane spostò lo sguardo sull’agente della Crimine Organizzato.
«Dovevi dirci qualcosa tu, vero? Ci avevi detto di non scappare subito dopo gli interrogatori.»
Morgenstern fece una smorfia insofferente, ma la presenza silenziosa e solida di Alec al suo fianco gli diede quasi forza: sembrava quasi che gli stesse dicendo d’aver approvato la sua iniziativa, il fatto che ne avesse già parlato con i ragazzi senza che fosse dovuto intervenire lui sin dal principio.
Perché poi Jonathan avesse bisogno dell’approvazione di quello stronzo rompi coglioni di Lightwood, lo stesso che gli aveva rotto il naso, con cui era finito in punizione troppe volte, con cui s’allenava con un po’ troppo impeto in accademia e che, da sempre, non aveva potuto soffrire esattamente come Alec non poteva soffrire lui, gli era completamente oscuro.
E preferì ignorare la voce dello strizza cervelli che gli domandava sé, avendo cercato l’approvazione di suo padre per tutta la vita, ora che l’uomo era morto la sua attenzione, la persona di cui doveva guadagnarsi quella dannata approvazione, non fosse proprio colui che l’aveva salvato.
Guardò Lightwood senza vederlo davvero, pregando chiunque fosse ancora disposto ad ascoltarlo che quel dannato medico si sbagliasse.
Probabilmente, invece, aveva pienamente ragione.

Fanculo!

«Forse è meglio cercare un luogo più tranquillo.» si limitò a dire.




In qualunque modo la si raccontasse, in qualunque situazione, partendo dal principio o dalla fine, ricordando come tutto era nato al tempo o come era stato rivangato da una stupida scatola delle prove, la situazione non cambiava. Era già la terza volta in un periodo troppo breve che Jonathan si ritrovava a pensare a questa cosa.
Comunque la si veda, nulla cambia.
Nulla.
Era stato assegnato ad un caso. Era stato elogiato per la sua efficienza e premiato con un posto d’onore al servizio di uno dei responsabili del caso. Aveva eseguito tutti gli ordini alla lettera, era arrivato sulla scena del crimine. Aveva visto corpi di colleghi a terra. Aveva visto morire quelli che erano arrivati con lui. Aveva comunque, di nuovo, eseguito gli ordini e alla fine, malgrado fosse nel posto giusto al momento giusto, aveva fallito.
Si era salvato solo ed unicamente per un qualche debito che una ragazza sconosciuta aveva nei suoi confronti, o forse in quelli di suo padre, non ne aveva la più pallida idea.
Tutto ciò che gli era rimasto di quel caso erano dei documenti, una cicatrice ormai scomparsa e l’immagine di una rosa stampata a fuoco nella memoria.
La stessa, identica rosa che aveva rivisto su quel foglietto.

Simon lo fissò senza dir nulla, allibito. Probabilmente ricordava quel periodo, ricordava quel caso specifico e ricordava anche la corsa che si era fatto Luke all’ospedale.
Probabilmente, ma questo Simon non lo disse, ricordò anche Valentine superare Luke di gran carriera nel corridoio dell’ospedale e quasi slittare sul linoleum lucido, rischiando di lisciare la porta e sbattere dritto contro il muro.
Perché c’era stato un momento in cui Valentine Morgenstern aveva tenuto ai suoi figli – a Jonathan in particolare – più che ad ogni altra cosa al mondo, prima che venisse vinto dalle sue stesse manie, dai suoi stessi demoni. Forse aveva continuato ad amare suo figlio fino alla fine e forse, forse, forse, forse, Jon si era sbagliato, tutti loro si erano sbagliati e Valentine non gli avrebbe mai sparato.
Lewis continuò a guardarlo e se Magnus ed Alec notarono il suo tentennamento, se notarono il modo in cui l’ex tecnico allungò la mano cercando quella del biondo per dargli e farsi dare un muto conforto, nessuno di loro lo disse.

«Direi che sei stato piuttosto fortunato.» mormorò piano Magnus. «Chiederò in giro se qualcuno sa qualcosa a proposito di una ragazza bionda con un tatuaggio con la rosa, di certo nel mio ambiente sapranno darci più informazioni. La troveremo, stanne certo.» asserì serio.
Poi un brivido gli fece venir la pelle d’oca.
Voltandosi verso Alec si ritrovò quegli occhi accecanti puntati contro ed una bolla di calore e d’orgoglio gli scoppiò nel petto. Alexander lo guardava come probabilmente in pochi l’avevano guardato nel corso della sua vita. Era serio, composto ma in un qualche modo sembrava brillare di sicurezza, di forza, di fiducia.

D’affetto.

Magnus non sopportava Jonathan e la cosa era reciproca, ma un’altra cosa che non sopportava erano le stragi senza senso e quasi una decina di poliziotti uccisi solo perché avevano risposto ad una segnalazione di colpi da arma da fuoco rientrava decisamente tra le stragi immotivate. Certo, aveva assistito lui stesso a scene del genere, a scontri tra le bande quando suo padre era ancora in città e dettava il bello ed il cattivo tempo, ma per quanto al tempo odiasse i poliziotti come forse null’altro al mondo, vederli trucidati senza pietà e senza motivo lo disgustava.
Magnus accettava la morte di un individuo solo se strettamente necessaria, se aveva tradito, se aveva a sua volta ucciso, ma doveva sempre esserci un motivo dietro. C’erano centinaia di modi diversi per far soffrire una persona, mandarla al creatore era troppo semplice.
Negli occhi di Alexander vide quanto quelle semplici parole, quel limitarsi ad ascoltare e proporre una soluzione, fosse valso più di qualunque dichiarazione scritta, più dell’indignazione.
Mags odiava Jonathan ma l’avrebbe aiutato a far giustizia per i suoi colleghi – per i suoi amici così come Alec aveva aiutato lui. In tutti i modi.
Dentro di sé l’orgoglio ruggì forte e potente: Alec era fiero di lui.

«Grazie.»


La voce di Jonathan era bassa ma arrivò perfettamente alle orecchie di tutti.
Aveva stretto la mano di Simon di quell’attimo di conforto reciproco e poi aveva incrociato del braccia al petto, libero di un peso enorme ma comunque non ancora a proprio agio a discutere del caso.
«Non ti è mai capitato di sentir parlare di un personaggio simile?» domandò allora Simon.
Magnus si scambiò un’occhiata con il tenente, doveva parlare? Doveva dir loro tutto quello di cui avevano parlato? Accennare anche solo al fatto che la rete che stavano cercando, il Clan, era composta per la maggior parte da suoi amici e che con tutti probabilità, malgrado non conoscesse di persona quella donna, sarebbe stato perfettamente in grado di dirgli a quale sottoclasse appartenesse?
In quel momento si ritrovò nella scomoda posizione d’esser fedele ad un sistema che conosceva dalla sua nascita e l’esser fedele a quella stessa persona che gli aveva appena dimostrato il suo orgoglio e la sua approvazione.
Prese un respiro profondo, tra di loro, tra i bambini, non c’era più nessuno dei suoi amici, ma era pur vero che quella gente componeva una parte del Clan.

Ma è anche vero che il Clan è organizzato in modo e maniera che alla caduta di un capo clan non cadano anche tutti gli altri.

E Magnus sapeva per certo che se il capo dei bambini avesse parlato ci sarebbero stato come minimo altri quattro vampiri pronti a staccargli la testa.
Uno di loro l’avrebbe fatto anche nel modo più chirurgico e preciso possibile.
Deglutì e poi annuì, una passo per un passo, una mano per una mano, questo almeno glielo doveva.
«Non proprio di lei nello specifico, ma so che c’è una rete di criminalità organizzata che prende il nome di Night’s Children,» Jonathan sussultò, «in cui un tipo del genere potrebbe rientrare perfettamente. Sono tuttofare, vengono ingaggiati su commissione e fanno qualunque cosa venga loro richiesta. Vedeteli come un esercito: c’è un luogotenente con la sua squadra, ognuno prende degli ordini e chi riesce a portare a termine il maggior numero di vittorie vince notorietà e potere.»
Morgenstern lo fissò allibito. «Erano loro…» mormorò.
«Cosa?»
«Erano loro, cercavamo loro quando- quando ci fu la sparatoria e io vidi la ragazza con il tatuaggio della rosa. I criminali che cercavamo erano una rete organizzata che si teneva in contatto tramite uno stupido sito web con temi gotici e-»
«Vampiri?» domandò a bruciapelo Magnus, senza riuscire a controllarsi, come se già sapesse la risposta.
Il silenzio che ne seguì servì ai presenti per assorbire al meglio tutte le informazioni apprese in così poco tempo.
Alexander fu il primo a riscuotersi. Si passò le mani sui pantaloni e si alzò, voltandosi verso Jonathan.
«Ora abbiamo una pista. Sappiamo che probabilmente la ragazza che hai visto era un membro dei Night’s Children, che potrebbe essere ancora viva o meno.»
«Ma se Jonathan ha trovato quel biglietto…» disse piano Simon.
Alec scosse la testa. «Non possiamo saperlo per certo, in gruppi come quelli non è raro che tutti i membri portino un tatuaggio, un marchio identificativo. È possibile che la ragazza con la rosa fosse sotto il comando di un capo che usava proprio quel simbolo per distinguersi dai suoi “colleghi”.» lanciò uno sguardo a Magnus che annuì.
«Alle volte, quando il luogotenente passa a miglior vita, sale un nuovo leader ma mantiene il simbolo del vecchio capo. Altri lo cambiano per affermare la loro superiorità, ma spesso è più un passaggio di testimone. Lei probabilmente aveva il marchio della sua banda, magari anche gli altri l’avevano.»
«Rimane il fatto: abbiamo delle certezze, i Night’s Children ancora esistono, sono ancora attivi. Potter e il suo amico dovevano essere dei tirapiedi di questa rosa e c’è la possibilità che gli agenti e le vittime morte per mano loro possano finalmente aver giustizia.» fissò gli occhi blu in quelli verde cupo di Morgenstern, lo sguardo serio, «Risolveremo anche questo caso. Ora sai che è tutto vero, che avevi ragione tu. Potrai portare a termine la tua prima indagine con la Crimine Organizzato.»
Il lampo fiammeggiante che s’accese nelle iridi di Jonathan valse più di mille parole.

Finalmente avrebbe potuto affrontare i suoi demoni.
E sconfiggerli definitivamente.




Giù in laboratorio non ebbero la stessa fortuna che avevano appena avuto. Chad non riuscì a confermare nessuna delle loro ipotesi, non gli svelò segreti nascosti in grado di far crollare l’assassino e neanche di permetter loro di trovarlo. A conti fatti li distrusse su tutti i fronti.

«Niente.» ripeté ancora. «Mi spiace Alec, dico davvero, Carson me ne ha parlato quando sono andato a prendere i campioni dell’autopsia, sia la storia delle luci che quella dei cibi, ma non c’è assolutamente nulla in nessuna pietanza, in nessun alimento e in nessuna bevanda. Ho persino analizzato il tovagliolo della tua vittima e le posate. Niente, il nulla assoluto se non quello che ci si aspetterebbe.» sospirò sconsolato.
Alexander annuì, ignorando le imprecazioni di Jonathan in sottofondo e le lamentele di Magnus su come fosse possibile che un perfetto caso da avvelenamento non lo fosse davvero.
Simon invece se ne stava in piedi vicino al tenente, la faccia accartocciata in un’espressione sconfortata.
«Proprio niente-niente? Davvero? Diamine Chad! Ci hai smontato tutto!»
Il dottore si strinse nelle spalle. «Però avevate ragione sull’anticoagulante.» provò a consolarlo.
«Certo, peccato che non abbiamo la più pallida idea di come cazzo l’abbia preso.» ringhiò Morgenstern.
«O di chi glielo abbia dato quando.» continuò Magnus.
Era incredibile quanto quei due fossero sulla stessa lunghezza d’onda quando c’era da lamentarsi.
Alec continuò ad ignorarli. «Il dottor Carson ti ha dato anche tessuti da analizzare?»
Chad annuì. «Cisti. Non chiedermi per quale malattia, non ho chiesto e neanche mi interessa saperlo ad essere onesti, ma sono grosse cisti, in una c’ho trovato tracce di dente, quelle bastarde sanno essere ancora più inquietanti di quanto già non sembrino.»
«Quindi niente tumori, niente cancro. Aveva delle cisti ai polmoni.» ripeté lentamente il moro.
L’altro annuì. «So che in genere questo genere di cose si risolve con un intervento, asportandole, ma Carson sembrava piuttosto infastidito dalla fatica che aveva dovuto fare per toglierne un paio, presumo che anche un chirurgo l’avrebbe trovato difficile. E lui avrebbe anche dovuto farlo con un paziente vivo.» abbozzò un sorriso passandogli un fascicolo. «Ci sono tutti gli oggetti esaminati e tutti i risultati. Daisy ha avuto una mezza crisi isterica e li ha elencati in ordine alfabetico.» aggiunse veloce prima che Alec potesse chiederlo.
Il detective gli regalò un piccolo sorriso storto e iniziò a scorrere la lista, una pergamena infinita di alimenti, spezie, composti chimici, fiori commestibili e fiori da esposizione, prodotti per la pulizia, per l’ambiente, divise, coltelli. Alexander batté le palpebre e sospirò.
«Grazie lo stesso Chad, siete stati anche incredibilmente veloci per tutta questa mole di roba.»
«Ricordati Cam che sta mettendo i denti ed una donna incinta di due gemelli che non riesce a dormire e pensa bene di rimanere in laboratorio fino a notte fonda.»
«Spero che tu sia riuscito a convincerla a tornare a casa.»
«Ho dovuto chiamare sua madre, ti rendi conto? E stavo per chiamare anche la mia, tanta era la disperazione.» raccontò esausto.
Magnus, che non aveva smesso un attimo di lamentarsi, aguzzò l’udito e si fece più vicino.
«Ed il marito?» domandò curioso.
Chad e Alec si lanciarono uno sguardo comprensivo. «Conoscendo Daisy gli avrà urlato contro così tanto che si sarà andato a nascondere in un angolo rivedendo tutte le decisioni della sua vita.» disse sicuro il moro.
Chad scosse la testa. «Poveruomo, penso che dopo i gemelli avrà crisi di panico violentissime ogni volta che vedrà una donna incinta.»
Alexander sorrise. «Chiederò asilo politico a lui quando sarà mia sorella ad essere incinta, o la compagna di mio fratello.»
Con un brivido identico Jonathan e Simon si voltarono verso il detective, il primo con espressione disgustata e il secondo terrorizzata.
«Dio no!»
«Non mi ci far pensare, non ci voglio pensare. Oddio, pensi che lo faranno davvero?» chiese Simon voltandosi verso il biondo.
«Pensa a cosa gli ha detto mia nonna questo Natale.» replicò Alexander salutando il collega e avviandosi verso l’uscita dei laboratori.
Magnus gli trottò vicino allegro. «Intendi la previsione dei gemelli?» domandò ghignando.
«Quali gemelli?! Di che cazzo state parlando? Ehi! Quali gemelli!»
La voce di Jonathan fu smorzata dalle porte scorrevoli che si chiudevano.
Il ghigno di Magnus non accennò a scomparire.







Tornare a casa quella sera fu come spegnere la radio dopo ore passate ad ascoltarla.
Nel silenzio della macchina, nel brusio della metro, nel rumore di fondo della strada, non vi erano voci che parlavano le une sulle altre, che cercavano informazione invece di darne, che omettevano cose importanti o imbarazzanti. Nessuna coppia d’amanti imbrattati di sangue che cercano di aiutare colui che li tiene divisi, nessun fedele seguace che guarda i luoghi a lui più cari spaesato dall’assenza del maestro, nessun amico che, tristemente, cerca di far capire a terzi ciò che non sa per certo ma ha intuito da tempo.
La fortuna di aver trovato subito una buona pista per quel caso stava sfumando nella difficoltà di trovare il modo, il tempo, l’arma.
L’indomani sarebbero ritornati tutti in ufficio, tutti al quarto piano del Dipartimento di Polizia, tutti a far il loro lavoro, a studiare, a chiedere, a scoprire. Ma per il momento la giornata era finita e potevano concedersi di vivere almeno un poco.



Simon s’arrampicò per le poche rampe che dividevano casa sua dall’entrata del palazzo, deciso a soffrire la fatica di quei gradini solo per poter continuare a chattare in santa pace, come non sarebbe riuscito a fare in ascensore dove non prendeva la linea.
Sorrise come un imbecille allo schermo dove, in alto a sinistra, brillava l’icona di una ragazza bionda con un cerchietto con le orecchie da gatto. Maureen gli aveva mandato un messaggio per sapere come stava, se il caso procedeva bene, se stava lavorando tanto. Era sciocco forse ma avere qualcuno che si interessava a lui in modo così genuino e disinteressato gli scaldava il cuore, lo faceva sentire apprezzato.
Erano davvero mesi che non usciva più con una ragazza, che non si interessava più a qualcuna. Da quando Alec lo aveva tirato fuori dal suo laboratorio per portarlo a casa di Magnus e dare il via a quella folle alleanza che si era poi trasformata in qualcosa di molto più importante, di molto più significativo.
Gli piaceva, gli venne improvvisamente in mente, l’idea di poter raccontare ai ragazzi di Maureen durante la pausa, mentre facevano qualche noioso appostamento o attendevano una chiamata. Gli piaceva l’idea di chiedere a Magnus consigli che sicuramente non sarebbe mai riuscito a mettere in pratica, farsi dire quale regalo fosse meglio. S’immaginava Alec arrivare in suo soccorso non appena le troppe idee dell’altro l’avrebbero sommerso e dirgli di essere semplicemente sé stesso, di rilassarsi e godersi la giornata. Dio santissimo, gli piaceva persino l’idea di raccontare tutto a Clary e Jocelyn con Luke e Jon che facevano battutacce dalle altre stanze!
Sospirò felice. Sì, era un po’ prematuro da dire forse, ma non vedeva l’ora di far conoscere a Maureen gli altri. Magari avrebbe potuto iniziare con qualcosa di soft, di casuale… come una rimpatriata con i ragazzi della band o con Clary, Izzy e Jace in nome dei bei vecchi tempi!
Sorrise ancor di più e, facendo forza sul corrimano, piroettò sul pianerottolo leggero come una piuma.
La giornata era stata massacrante e piena di sorprese, non tutte belle, ma ora che era a casa, con il suo cellulare in mano e l’ipotesi di rimanere tutta la notte a parlare con una ragazza carina come se fosse ancora un adolescente gli gonfiava il cuore e gli faceva dimenticare tutto l’orrore che aveva visto.
L’amore rendeva davvero stupidi.








Il vecchio appartamento non era altro che la mansarda del palazzo in cui viveva sua madre. Jonathan aveva vissuto in quell’edificio a Brooklyn per anni, ma non c’era niente da fare: l’attico a Manhattan era il suo vero habitat naturale.
Con un sorriso beffarlo Jonathan sbuffò, a quanto pare era proprio figlio di suo padre.
Per un motivo a lui sconosciuto, quella volta, il pensiero non lo infastidì. Non lo innervosì e non lo rese triste.
Forse qualcosa era davvero cambiato.
Con un altro sbuffo, questo palesemente annoiato, il giovane si sdraiò meglio sul piccolo divano basso di sua sorella, osservandola saltellare a destra e sinistra nel vano tentativo di dar un bell’aspetto alla tavola e alla cena. Non appena aveva saputo che il caso a cui stava lavorando - « Il tuo primo vero caso con Alec! Questo è davvero un nuovo lavoro, non quell’altra roba!» - coinvolgeva un grande cuoco, aveva deciso di rendere ogni cosa più raffinata e bella possibile.
Una cazzata se chiedevano a lui, ma erano dettagli.

«Quindi, posso finalmente sapere per quale motivo sto rischiando l’intossicazione alimentare?» domandò placido.
Clary si voltò a fulminarlo. «Non rischi nulla, non sono Izzy. E poi vorrei solo dar un aspetto migliore a ciò che preparo, si mangia anche con gli occhi, no?» sorrise.
Jonathan si strinse nelle spalle. «Così dicono.»
«Oh, andiamo! Dammi un mino di fiducia! Chissà che bei piatti avrai visto oggi, non ti è venuta voglia di mangiare sempre così?» lo sfidò a contraddirla.
Ma il fratello la fissò disinteressato, arcuando un sopracciglio fine e bianco. «C’era un cadavere Clary, non sono andato lì per piacere. E se proprio ti interessa c’era solo una zuppa a tavola, una semplicissima e sbiadita zuppa color crema. Stop.»
Smontata dalle sue parole la ragazza lo raggiunse di gran carriera sedendoglisi vicino. O forse sarebbe meglio dire “buttandosi di peso sul divanetto”.
Jonathan sobbalzò e la guardò male. «Se si sfonda non te lo ricompro e impedirò anche a Luke di farlo.» la minacciò.
Clary lo ignorò scacciando quell’ipotesi con un gesto della mano. «Allora? Com’è stato? Come si lavora sul campo con Alexander Gideon Lightwood?»
«Dio, me lo scordo sempre che ha il nome di un cavaliere cristiano della prima crociata.» gongolò divertito.
L’altra gli diede un pugno sulla spalla. «Io trovo che sia molto più simile ad un titolo nobiliare. E comunque non hai risposto alla mia domanda.»
«Cosa vuoi che ti dica? Va bene, non fa cazzate, non si spreca in giri di parole, non si crede dio sceso in terra. Quando divide i compiti è veloce e sintetico, riesce a tenere Bane al guinzaglio e a recuperare Lewis quando ne fa una delle sue.»
«E pare anche che sia riuscito a conquistare la tua fiducia.» gli fece notare dolcemente, accoccolandosi contro di lui.
Jonathan strinse la sorella in un abbraccio e le posò un delicato bacio in testa.
«Più che altro, credo che sia il contrario.»

La fiducia delle persone si guadagnava un passo alla volta, lentamente e con perizia, ma in quel momento non sembrava più un’impresa così insormontabile perché sapeva che a casa sua, quella vera che nonostante tutto non avrebbe mai rinnegato – proprio come il suo nome – c’era un bicchiere ad attenderlo e Jonathan aveva deciso di vederlo mezzo pieno.







Le chiavi giravano veloci attorno all’anello lucido, seguite da quei due-tre portachiavi che amava cambiare in continuazione a seconda delle ultime mode, per essere sempre abbinato in tutto e per tutto.
Canticchiava il ritornello di una canzone appena ascoltata in radio, forse era Leto? Diamine, l’aveva appena ascoltata, gli rimbombava in testa, ma non aveva la più pallida idea di chi fosse a cantarla.
Sbuffando arricciò il naso e salì i pochi gradini del portone seguendo il ritmo che sentiva nelle orecchie.
Magnus si mosse a tempo di musica mentre infilava la mano della grande tracolla di pelle che aveva acquistato solo pochi giorni prima, rimpiangendo quasi di non aver seguito il consiglio di Simon e aver attaccato le chiavi di casa a quelle della macchina. Aveva replicato che così, in caso gli avessero rubato un mazzo avrebbe perso anche tutto il resto, ignorando completamente il fatto che nessuno sano di mente sarebbe andato a rubare proprio a lui, anche se qualcuno aveva provato a far bene di peggio, e che in ogni caso entro poche ore avrebbe riavuto tutto. E poi non voleva dar ragione a Simon.
Doveva vendicarsi ancora della suoneria cambiata, il nerd si sarebbe pentito d’essersi messo contro di lui.
Lasciando ricadere la testa all’indietro rilasciò un suono frustrato, non ci vedeva nulla, forse si sarebbe convenuto accendere la torcia. Nel mentre poteva anche chiamare Malcom, quell’uomo era un maledetto jukebox vivente, era peggio di Shazam e Magnus non credeva molto alla storia che andava raccontando, di quanto fosse divenuto bravo a ricordare e distinguere le canzoni perché sentiva quelle nei locali dove lavorava sua madre e riconosceva le sue canzoni, assolutamente no, era solo un dannato ossessivo compulsivo musicale, ecco.
La cosa era al contempo divertente e triste, soprattutto perché gli ricordava che un tempo Mal era stato un bambino spaventato e solo, costretto a seguire la madre nei posti in cui lavorava perché non potevano permettersi l’affitto, figurarsi una babysitter.
Scosse la testa e con questa i pensieri negativi che stavano iniziando ad accumularsi. Se pensava a Malcom da piccolo pensava alla madre e se pensava alla zia poi pensava alla propria di madre e di conseguenza a suo padre e al suo regno. Dal regno al Clan, dal Clan a Camille, a quella notte di pochi giorni prima, alla scoperta agghiacciante di cos’era successo anni fa. Camille, la lotta tra bande, Pierre, Raphael, Raphael da piccolo, giovane, un bambino al servizio di Dracula, vampiri…

Night’s Children.

Quindi erano loro i primi ad esser stati mandati in campo? Suo padre aveva davvero “chiamato” tutti i suoi vecchi alleati per farli ridiscendere sulle strade asfaltate di New York City?
Ma perché, perché ora? Sembrava quasi che glielo avesse fatto apposta: non rompeva le palle per anni e poi, quando lui perde un caro amico, quando ne trova degli altri, quando può finalmente ficcanasare un po’ anche nel mondo tutto luci, nuvole e cori angelici che era “la giustizia”… Asmodeus ricompare e getta un ombra scura e pesante su tutta la sua vita. La morte di Ragnor ed il ritrovamento del suo quaderno, compresa la morte di Morgenstern, erano stati un ottimo incentivo, ma continuava a sembrargli tutto così maledettamente perfetto.
Se qualcuno fosse andato a dirgli che in realtà ogni singolo avvenimento degli ultimi due anni fosse stato progettato da suo padre non avrebbe minimamente stentato a crederci.
Per sua fortuna, e per quella di tutto il mondo, Adam Bane non era in grado di manipolare il futuro. Non fino a quel punto per lo meno.
Rimaneva il fatto che presto o tardi si sarebbe ritrovato davanti i nuovi bambini.
Non aveva avuto il coraggio di dirlo ad Alec e agli altri, non ne aveva neanche la piena certezza dopotutto, ma se c’era una cosa che accumunava tutti i membri dei Night’s Children era proprio la loro età: nessun adulto poteva entrare in quel mondo, solo i più piccoli venivano reclutati, gli adolescenti allo sbaraglio. Se poi eri così forte o fortunato da superare l’adolescenza, d’arrivare ai venti e magari anche ai trenta, allora o eri baciato dalla dea bendata o eri un mostro.
Non credeva che la ragazza con la rosa fosse ancora viva, Morgenstern se la ricordava minuta perché era piccola d’età e Magnus era più che sicuro che non doveva aver fatto una bella fine.
Quella era una delle parti più crudeli dei Figli della Notte, i loro bambini venivano arruolati spesso quando erano ancora troppo piccoli per finire in prigione. Raphael era stato un bambino della Notte, Dracula uno dei tanti mostri che avevano sfruttato mano d’opera di ogni età senza batter ciglio.
Lily e tutti i suoi cugini erano stati bambini della Notte.
Camille e Pierre lo erano stati. Perché quando entravi nel Clan, qualunque fosse la tua famiglia di provenienza, se non superavi una certa età, eri un bambino. Solo un bambino.
In un momento di stanchezza Magnus poggiò la testa contro il portone.
Il tipo che aveva provato a sparargli, quel Potter, doveva esser entrato al servizio di qualcuno del Clan quando era ancora piccolo. Forse era un adolescente e non proprio un bambino nel verso senso del termine, ma cambiava poco: in un momento di immaturità, di instabilità emotiva, fisica, famigliare, qualcuno aveva teso una mano a Potter promettendogli tutto ciò che non aveva mai avuto a patto d’esser fedele ed eseguire gli ordini, di qualunque tipo.
Aspettò che i brividi di disgusto o di rabbia gli scuotessero il corpo ma ben preso Magnus si rese conto che quell’idea, qualora anche si sarebbe scoperta vera, non lo toccava in nessun modo.

Perché ci sono cresciuto in mezzo, perché per me è normale. Se sei piccolo ed entri al servizio del Clan sei non sei più figlio dei tuoi genitori ma non lo sei ancora neanche della Notte. Sei solo uno dei suoi tanti bambini, sei solo uno dei tanti tuttofare che si sporcano le mani quando i membri effettivi dei vari sotto-Clan hanno altro da fare o non vogliono problemi.
Sei un soldato bambino votato alla morte.


E se a suo tempo era stato sicuro per Camille e per Pierre, per Lily e per i Chen, realizzò che Raphael sarebbe potuto esser uno dei tanti bambini caduti e dimenticati per sempre.
Doveva dirlo agli altri, e con ciò intendeva gli altri di entrambe le sue fazioni, i suoi colleghi e la sua famiglia. Doveva dire ad Alec che la ragazzina con la rosa era sicuramente morta, che forse aveva lasciato a sua volta una bambina da qualche parte e che solo lei avrebbe potuto dirgli qualcosa della madre – perché Magnus non si era dimenticato dei racconti dei suoi amici, di quali fossero alle volte gli ordini da eseguire – che se volevano trovare qualcosa su Potter forse dovevano cercare tra i ragazzi scomparsi dieci, quindici anni prima, per capire come fosse entrato nel giro.
Dirgli che quando sarebbero arrivati al centro, al nucleo, alla base dei Night’s Children si sarebbero ritrovati davanti nient’altro che questo: bambini.
Con gli occhi spalancati Magnus fissò il pavimento senza vederlo.
Non sentiva niente, non gli veniva la nausea, non provava pena. Cosa c’era di sbagliato in lui?

È solo la gerarchia, è così che funziona nel Clan. Loro hanno i Night’s Children, il Branco ha i suoi Cuccioli, il Popolo i suoi Bimbi Sperduti. È così che funziona. È il cerchio della vita, della nostra vita, del nostro sottomondo.

Aveva lasciato la mano nella borsa senza più cercarvi dentro. Mosse di poco le dita, null’altro che un riflesso incondizionato, ed avvertì la consistenza liscia e solida delle chiavi. Le tolse dalla tracolla con lentezza, guardandole come se fosse la prima volta che le teneva in mano, così assorto dal fissare i giochi di luci ed ombre sulle rientranze nel metallo da non accorgersi del suono di una portiera che si chiudeva con delicatezza alle sue spalle.
Non sentì neanche i passi leggeri che gli si avvicinarono, o il fruscio degli abiti, il rumore della suola di cuoio che poggiava sui gradini freddi.
Una mano guantata di nero si strinse sulla sua spalla.

Magnus non se ne era quasi accorto.









Serrò la presa e spinse il pesante portone.
Non avevano fatto chissà quale sforzo fisico, non erano scattati come molle da una parte all’altra della città, non avevano inseguito criminali nel traffico di Manhattan o a piedi per interi isolati, ma quella sfilza infinita di interrogatori, con quelle persone così boriose e piene di sé, che pensano di potersi permettere confidenza o toni leggeri solo per i loro conti in banca… Alec l’aveva già detto che odiava i casi con alto profilo mediatico?
Farsi tutti quei scalini gli sembrò quasi rinvigorente, poter finalmente sfogare un po’ di tensione nervosa, di energia compressa per tutto il giorno su di una sedia di plastica, tanto da iniziare a ponderare l’idea di farsi una doccia, prendere la borsa ed andarsene in palestra. Ma forse Church avrebbe apprezzato aver un po’ di compagnia per quella sera e forse, ma solo forse, tirar pugni ad un sacco da boxe o sollevar pesi pensato di schiantarli in testa ai testimoni non era proprio positivo per il suo equilibrio mentale.
O forse lo era eccome, sfogare la rabbia repressa, no?
Dio santissimo, doveva chiamare Lawson e farlo al più presto.
Quando riuscì a chiudersi la porta alla spalle Alexander si trovò immerso nell’oscurità del suo appartamento, in cui la luce filtrava solo dalla trama delle serrande, creando movimenti incostanti dettati dal traffico della città.
Non accese nessun interruttore, camminò ad agio fino al tavolo e vi poggiò i documenti e le cartelle che stringeva sotto il braccio, cercando di non farli rovinare a terra quando si rese conto di averli messi sopra un’altra pila di scartoffie.
Con un leggero sfarfallio ed un tonfo secco, ed una mezza imprecazione a bocca chiusa, i nuovi fogli caddero oltre il bordo del tavolo, andando a fermarsi tra una zampa ed il muro.
Arresosi alla sua sfortuna Alec accese la luce della cucina e si chinò per riprendere i documenti e anche qualche cartaccia che si erano trascinati dietro. Storse il naso quando si ritrovò in mano un paio di buste, di cui una della sua banca che si sbrigò ad aprire.
Tirò un sospiro di sollievo quando lesse il semplice saldo del mese alla volta del suo nuovo stipendio ed abbandonò tutto sul piano per andare a spogliarsi e mettersi comodo.

«Church? Sei in camera? Puoi uscire dalla mia ciabatta, per favore?» domandò al gatto trovandolo come sempre a sonnecchiare sulla pantofola imbottita.
Il gatto aprì un occhio, sbadigliò, si tirò in piedi per stiracchiarsi e si avvicinò ad Alexander per farsi coccolare un po’.
«Tutto bene? Hai fame?»
Il miagolio basso che gli arrivò di rimando lo fece sorridere. «Mi cambio e mangiamo allora.»

Tornato in cucina con il gatto che gli camminava di fianco, Alec riempì la ciotola a Church e cominciò a preparar qualcosa anche per sé, ingannando l’attesa mettendo in ordine le carte.
Il giovane detective aggrottò le sopracciglia quando s’accorse di una seconda busta, sempre bianca e senza fronzoli, proprio come quella della banca, ma con il suo nome scritto a penna sul retro. Con una punta di curiosità andò a recuperare il tagliacarte in salotto, deciso a non rovinare né l’involucro né il contenuto della missiva, e l’aprì con cura.
Rimase a fissare l’interno della lettera senza realmente cosa vi fosse, sembrava quasi…

Una lettera dentro ad una lettera?

Fece per tirarla fuori quando il timer del forno scattò e in contemporanea iniziò a squillare il telefono.
Alec saltò sul posto, lasciando la lettera e correndo a recuperare il cellulare sul divano e a tirar fuori la sua cena prima di doverla rifare da capo.

«Ja?» domandò stringendo l’apparecchio tra la spalla e l’orecchio.
«È fatta! Bro è fatta! Hanno accettato l’offerta che abbiamo fatto la settimana scorsa! Domani firmiamo i documenti e finalmente avremo casa!»
La voce eccitata ed altissima di Jace gli perforò il timpano ma non poté far a meno di sorridere.
«È una notizia fantastica Jace, congratulazioni, ora sei davvero un bambino grande.» gli rispose con più tranquillità.
La risata del fratello fece allargare il suo sorriso.
«Sono sempre stato un bambino grande io! Porto la pistola e pure il fucile, sono molto più bambino grande di te.» replicò per pura provocazione.
Alec alzò gli occhi al cielo.
«Ho già troppi figli perché tu possa superarmi.» gli fece notare.
Jace rise ancora. «Quello che vuoi, comunque casa è mia! O lo sarà a breve.»
«Spero tu ti sia reso conto d’esser passato, nel giro di due frasi, da l “abbiamo casa” a “casa è mia”. È bello vedere come tu ti sia già dimenticato di Clary.» poi fece una pausa e sogghignò. «Ottima scelta per altro, se chiedi a me.»
Probabilmente se Jace avesse riso un’altra volta con quell’intensità il cellulare sarebbe esploso, ma Alec si disse che valeva la pena rischiare per poter sentire suo fratello così felice.
«La nana rossa lo sa? O posso presumere di essere il primo privilegiato?» domandò poi togliendo la carne dalla teglia e passandola nel piatto.
Non poteva vederlo ma giurò di sentirlo ghignare. «Clary è l’amore della mia vita e tutte quelle cose sdolcinate lì, ma sei stato tu il primo a sapere che ero riuscito a prendere questa di casa, quindi mi è sembrato logico e giusto dirti anche per primo dell’altra.»
Alexander si poggiò al tavolo e abbozzò uno di quei suoi famosi sorrisi storti e dolci che solo pochi eletti meritavano. «Grazie, allora.» soffiò con più delicatezza.
«Ma quale grazie e grazie, sono io che dovrei ringraziare te per avermi sopportato con tutto lo stress di prestito, banche, mutui e ristrutturazioni.»
«Sai perfettamente che per qualunque cosa tu, o i ragazzi, abbiate bisogno ci sono sempre.»
«Lo so, Cap.» rise ancora il biondo.
Il maggiore invece scosse la testa, recuperò al volo la bottiglia dell’acqua e si sedette a tavola.
«Allora, vuoi raccontarmi tutto o devo tirarti fuori la storia con le pinze?»
«Che storia vuoi che ci sia? Mi ha chiamato e mi ha detto che la nostra offerta era la migliore.» si fermò. «Io l’avevo detto a Clary che se avesse lasciato fare a me c’avrei messo due secondi, ma lei all’inizio ha per forza voluto coinvolgere Luke. Perché lui sa come si compra una casa, perché sa come si mette a posto, perché può consigliarci se va bene o meno per noi. E cazzo, allora chiamo anche papà e mamma, visto che anche loro hanno comprato una casa, l’hanno sistemata e avendo quattro figli sanno cos’è meglio per loro, no? Non ho niente contro Lucian, sia ben chiaro, ma vorrei fare questo genere di cose con la mia ragazza, non con suo padre. E soprattutto vorrei essere io a scegliere casa mia. Ti ricordi quella nel Queens? Quella con il giardino condominiale enorme? Ecco, sai perché non l’abbiamo presa? In pratica…»
Alexander mise il vivavoce e poggiò il telefono sul tavolo, annuendo alle parole del fratello e mugugnando versi d’assenso per spingerlo a continuare il discorso, per dirsi concorde con le sue idee e manifestare il suo disappunto quando fosse necessario farlo. Lasciò che gli raccontasse tutto di nuovo da capo, come se non l’avesse vissuto con lui o non l’avesse accompagnato a visitare tutte le case da solo prima di andarci per la visita ufficiale con Clary – e Luke – e si godette la sua cena con il sottofondo della voce animata di Jace, che ora si stava ufficialmente godendo gli ultimi giorni nel suo appartamento da scapolo.
Sorrise infilandosi una forchettata generosa in bocca e si sporse per grattare l’orecchio di Church quando questo saltò sul tavolo, cercando di bere l’acqua fresca nel suo bicchiere.
Avrebbe finito di mangiare, cambiato l’acqua nella ciotola del gatto, sentito suo fratello lamentarsi, criticare e poi emozionarsi per ogni cosa e si sarebbe sorbito anche il piano con cui avrebbe detto a Clary che finalmente casa era loro.
L’angolo destro delle sue labbra s’alzò mentre il sinistro s’abbassava. Era una serata di normale amministrazione, una di quelle in cui gli pareva di non aver mai vissuto nessun evento oscuro del suo passato, una di quelle in cui si sentiva un normale ventisettenne come tutti gli altri. Senza se e senza ma.
Non c’era nulla che potesse disturbare il suo piccolo idillio, persino il caso Cobe non gli sembrava più così pesante. L’indomani sarebbe tornato in ufficio, avrebbe interrogato di nuovo il personale assieme ai ragazzi e avrebbero scoperto la verità sulla morte di quell’uomo. Tutti assieme, come una vera squadra. Avrebbero portato a termine quel primo compito e si sarebbero dedicati al Caso Congiunto, aiutati dalle informazioni che Magnus si era deciso a condividere con loro.
Quando sentiva i suoi fratelli, quando li sentiva così felici, andava tutto bene, gli sembrava quasi di essere invincibile.


Sul tavolo, tra le scartoffie ed i documenti, la lettera dentro alla lettera era stata completamente dimenticata per la seconda volta.











La poltrona era morbida e di classe, anche se forse quell’intero ambiente era un po’ troppo lussuoso. Era il classico ufficio di un uomo che aveva soldi a palate e voleva che tutti se lo ricordassero, qualcuno che amava sguazzare nel lusso, nell’opulenza, nell’autocelebrazione.
La giovane seduta davanti alla grande scrivania dal piano di cristallo, elemento decisamente pacchiano per i suoi gusti, era completamente diversa dall’uomo, completamente estranea a quel luogo.
Doveva aver massimo ventott’anni, di certo qualcosa di meno, ma non pareva proprio una ragazzina. Non era tanto il suo aspetto a dar quest’idea di lei quanto il suo portamento, la sua espressione fredda e concentrata, la voce tagliente e disinteressata, come se tutto quanto non la toccasse, come se non ci fosse alcun modo per metterla a disagio. Era una donna abituata al peggio, temprata da eventi, da azioni, che l’uomo poteva facilmente sfigurarsi.

Forse perché era stato lui stesso ad ordinargliene molti.

Vestiva completamente di nero e di pelle. I pantaloni aderenti si nascondevano dentro i New Rock alti e borchiati, dal carrarmato massiccio e la punta di ferro. Alla vita era legata una cinta da cui pendevano delle catene, un marsupio squadrato era ora schiacciato tra il fianco magro della giovane e il bracciolo della poltrona. La maglia nera e larga ne copriva una seconda a rete fitta, al collo un collare di pelle nero da cui, in completo contrasto, pendevano delicati ciondoli a forma di goccia rossa.
Sulla pelle pallida come quella di un morto – di un vampiro – la trasparenza della pietra giocava riflessi inquietanti ed i capelli biondi che teneva poggiati sulle spalle parevano macchiati da schizzi di sangue.
Il viso fine non era particolarmente interessante, forse era proprio questo suo aspetto animo che le aveva permesso di diventare una dei migliori, una degli imprendibili.

Vampiri veri e propri, che escono solo di notte e vivono nel buio, muovendosi tra le ombre e nutrendosi del sangue delle loro vittime. Non fanno differenza, non fanno sconti, è sopravvivenza per loro.

L’uomo sorrise affabile dalla giovane donna, le mani incrociate e poggiate sul tavolo lucido.

«Il pagamento è stato effettuato, la banca mi ha appena comunicato il completamento della transizione.» spiegò con voce calma e controllata, il tipico tono di chi è abituato a parlare in pubblico, a farsi ascoltare, a farsi obbedire.
Lei fece a mala pena un cenno con il capo, non sembrando minimamente impressionata.
«Quando anche la mia banca comunicherà l’esito positivo del pagamento potremo considerare l’affare concluso.» replicò con altrettanta calma.
«L’accordo sarà concluso quando otterrò ciò che voglio, mia cara.»
Ma la ragazza sogghignò, muovendo solo l’indice per far segno di no. «Se era questo ciò che volevi dovevi specificarlo all’inizio del contratto, non alla fine.»
Una leggera vibrazione le fece abbassare la testa sul telefono che teneva in mano, un vecchio modello a conchiglia con il pannello a scorrimento, un qualcosa che non si vedeva più da anni ormai.
Sullo schermo esterno brillò l’icona a pixel sgranati di una busta da lettera.
Il sorriso della bionda sembrò terribilmente simile a quello di una iena.
«Ora, il nostro accordo è concluso. È sempre un piacere fare a fari con te.» gli disse alzandosi in piedi e stiracchiandosi.
Non porse la mano all’uomo e lui non la porse a lei, rispondendo con uno stesso ghigno privo di risentimento.
«Sto diventando vecchio a quanto pare, non riesco più a metter le clausole giuste al posto giusto.» ironizzò. «Presto potrebbero servirmi alcuni dei tuoi bambini della Notte.» le disse poi più serio.
L’altra annuì. «Sai come contattarci e sai quel è il nostro onorario.»
Arrivata sulla porta si girò per fargli un beffardo cenno di saluto.
«Rosa Nera.» disse educatamente, con quel suo solito tono mellifluo.
«Re degli Insetti.»


Quando la porta si chiuse l’uomo perse immediatamente l’espressione rilassata e piegò le labbra in un ringhio da belva.
Odiava quel nome. Odiava quel titolo.
Erano anni ormai che nessuno lo chiamava più così, anni che aveva impiegato a cancellare quell’orribile nomignolo dalla bocca di tutti e mettervi il nome altisonante, famoso e pulito che brillava sul palazzo della sede centrale della sua industria.
Poi di punto in bianco, da un giorno all’altro, senza avviso, aveva ricevuto una chiamata.

“Un regalino per il Re degli Insetti chiuso nel suo formicaio.”


Questo quello che aveva trovato scritto su di un semplice riquadro di carta di riso posto sotto la giara che aveva trovato nel pacco recapitatogli.
Una giara in cui erano stati stipati a forza insetti saprofagi di ogni tipo. Lunghi lombrichi arrotolati su sé stessi, stretti tra millepiedi, schifose blatte piatte e trasparenti e altri esseri disgustosi di cui ignorava il nome.
Li aveva fatti buttare, il più lontano possibile dai suoi uffici, dal suo palazzo.
Se non fosse stato un “regalo” di Asmodeus, e l’uomo sapeva perfettamente che lui era l’unico a cui era permessa fare una cosa del genere, gli avrebbe dato fuoco. Ma liberarsi in quel modo di un oggetto datoti proprio dal Re – un vero Re, un Re con un titolo altisonante e potente, terribile, spaventoso - era una condanna. A cosa non lo si poteva sapere con certezza, ma lo era.
Ora la giara era posta dentro all’armadio di quello stesso ufficio, svuotata e pulita da quello schifo per ospitare un più ordinato e rappresentativo formicaio in teca.
L’uomo si alzò ed andò ad aprire proprio l’armadio, per poter osservare le sue formiche muoversi nella grande giara scintillante. Sul fondo della stessa, proprio sotto a tutto, sapeva esserci ancora il cartoncino di carta incollato.
Fissò il formicaio senza muoversi.
Se anche la Rosa Nera lo aveva chiamato così significava che sapeva della sua chiamata e se lo sapeva lei lo sapeva tutto il Clan.
Se il Clan sapeva allora significava che tutti loro erano stati convocati.
Se erano stati convocati significava che erano i primi a giocare.
Richiudendo le ante dell’armadio si avvicinò alla grande parete di vetro che s’affacciava sulla città.
Aveva lottato per anni per cancellare quel nome disgustoso dalla bocca di tutti, per far sì che lo considerassero un uomo potente e pericoloso come ogni altro. Ma era bastato poco, pochissimo, per far sapere anche ai più giovani quale fosse l’appellativo che il Re gli aveva dato.
In un secondo era tornato ad essere null’altro che il Re degli Insetti.

Se c’era una cosa che Asmodeus gli aveva sempre fatto capire chiaramente, era che per quanto potesse anche avergli dato il titolo di regnante, rimaneva comunque un insetto.

E gli insetti, i veri Re, li potevano schiacciare sotto la suola della propria scarpa in qualunque momento.

























   
 
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