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Autore: Roberto Turati    29/03/2020    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Avendo perso Odranreb e non vedendo alternative all’idea che aveva in mente fin dall’inizio, ma che aveva sempre scartato per paura di perdere dei cari, Drof decise di ricorrere all’ultima opzione: chiedere aiuto ai suoi amici. Non amici nel senso di colleghi cacciatori con cui aveva della confidenza, come quelli che Gnul aveva ucciso alla spiaggia la prima volta che si erano scontrati; i suoi veri, migliori amici, con cui aveva passato tutta la vita. Da quando si era sposato con Yram, era diventato rarissimo che passasse del tempo con loro. Un anno prima, quando l’avevano aiutato contro un mostro acido giunto da un posto detto “l’Aberrazione”, erano dieci anni che non li vedeva. Ora era il momento di rivogersi di nuovo al suo gruppo: sapeva bene che l’avrebbero aiutato sempre e comunque, il legame tra loro era forte.

“Se quel mostro porterà via anche solo uno di loro, possano gli dèi maledirmi a vita!” giurò a se stesso.

Ora stava cavalcando Onracoel lungo la pianura brulla a Sud-Ovest dell’isola, attraverso distese di olio nero e ribollente che caratterizzavano la regione. Aveva chiesto di loro in vari villaggi e, alla fine, i Teschi Ridenti gli avevano indicato che erano partiti per una caccia contro un giganotosauro. Quindi, tenendo Onracoel in testa al contingente come apripista, si sforzava di raggiungerli senza che nessuna delle creature cadesse nelle pozze di bitume. Non si girava molto spesso a guardare Anitteb, ma sentiva i suoi versi infastiditi: lei era troppo mastodontica per evitare di immergere almeno le zampe nel bitume, quindi doveva fare più fatica degli altri per sfilare le zampe da quella sostanza vischiosa e fare il passo successivo.

«Abbiate pazienza, dopo ci sarà più spazio» disse Drof.

Andando avanti, aggirarono lentamente tutto il versante occidentale del monte Opmilo, fino a raggiungere la carcassa marcia di un brontosauro con cui le meganeure e altri insetti stavano banchettando. Da lì, Drof vide un’alta colonna di fumo che saliva tra gli alberi secchi e sentì delle grida, oltre a dei ruggiti. Fece fermare un attimo il contingente per osservare la voluta.

«Devono essere loro. Secondo te che si sono inventati stavolta?» chiese a Onracoel.

Il carnotauro sbuffò e si rigirò il morso della sella in bocca.

«Non ci resta che scoprirlo» disse Drof.

Fece ripartire il contingente e attraversò quell’ultima macchia alberata. Quando furono dall’altra parte, giunsero sul bordo di una conca circolare, piena di pozze di bitume, e il padre di Acceber rimase a bocca aperta: laggiù si stava scatenando l’Inferno. Sull’altro lato, tutte le piante stavano andando a fuoco. In fondo alla conca, c’era un contingente di creature domate che correvano in tutte le direzioni in preda al panico o provavano a tenere testa… ad un giganotosauro che bruciava vivo. Rimase congelato sul posto per alcuni istanti e anche le sue bestie sobbalzarono impaurite, alla vista di quella gigantesca torcia vivente. Il teropode, completamente preso dalla collera, emetteva ruggiti assordanti per il dolore delle fiamme e decimava le creature avversarie ad ogni suo movimento: morsi, colpi di coda, testate… ogni volta, ne schiacciava almeno una o la faceva volare nel bitume, dove le vittime rimanevano tutte intrappolate. Nemmeno due tirannosauri insieme riuscivano a sfiancarlo. Guardando bene tutto quel finimondo, Drof li vide: sei Arkiani che, con le unghie e con i denti, cercavano di fare la loro parte per aiutare i loro animali. A quel punto, si riscosse e decise di intervenire. C’era solo un modo in cui avrebbe potuto sopraffare quella macchina di morte in fiamme ed era molto rischioso, quindi doveva stare certo di farlo in fretta. Scese da Onracoel e si avvicinò ad Anitteb, innervosita alla vista di un suo simile infuriato.

«Qui mi servi tu – le disse Drof – Spero che Odranreb ti abbia insegnato bene a stare calma…»

Con fare indeciso, Anitteb abbassò la testa per permettergli di montare in sella e lui prese posizione sul suo dorso. Per fortuna, sembrò diventare più sicura quando si ritrovò con qualcuno a guidarla. Drof aveva un’idea, però sapeva di dover attendere una buona occasione per attaccare, altrimenti il giganotosauro in fiamme avrebbe reagito, il combattimento si sarebbe prolungato troppo e anche Anitteb sarebbe impazzita. Osservò bene il combattimento, ma il giganotosauro aveva sempre la guardia alzata… finché, ad un certo punto, uno dei cacciatori gli tirò una freccia dritto in un occhio, con precisione millimetrica. Il teropode urlò e incespicò per alcuni momenti, poi si fermò a cercare il colpevole con lo sguardo. Era la sua occasione. Spronò Anitteb e lei partì alla carica a mandibola spalancata. Il giganotosauro, posto di traverso rispetto a lei, se ne accorse solo all’ultimo; Anitteb lo azzannò al collo e cominciò a spingerlo in avanti, verso una delle pozze più grandi. Alla fine, quando fu sul bordo, lo lasciò andare e, prima che avesse modo di respingerla, gli tirò una spallata che lo fece cadere nel bitume.

«Ma cosa…» sobbalzò uno dei suoi amici, che non l’aveva ancora riconosciuto.

Il bitume spense le fiamme, ma il giganotosauro si infuriò ancora di più. Ma, quando cercò di alzarsi, non ci riuscì: ormai era intrappolato in quella pozza appiccicosa, che lo teneva fermo come se fosse velcro. Per quanto scalciasse e spingesse con le zampe, ricadeva sempre sul fianco. Alla fine, easurì le forze. Anitteb, allora, gli si avvicinò ancora, afferrò la sua testa e, con un colpo secco, glielo torse fino a spezzargli il collo. Drof tirò un sospiro di sollievo e scese a terra, quindi salutò i suoi amici con un sorriso quando iniziarono a radunarsi di fronte a lui.

«Ciao, sono tornato! Scusate se non vi ho avvertiti, ma sapete…»

Loro lo fissarono increduli per qualche secondo, poi cominciarono ad esultare con gioia:

«Drof! Per gli spiriti, bello vederti!»

Uno ad uno, batté la mano e abbracciò rapidamente tutti loro: il muto Elehcim, ancora più imponente e muscoloso di Sotark, che aveva perso la lingua e la parola a causa di un velociraptor, poi l’allegro ed espansivo Odraccir, l’esile e timido cecchino Odraode, lo stratega pignolo Oilnats, lo scultore in sovrappeso Ynneb e, infine, l’agile e formosa domatrice Aisapsa, una delle donne più belle dell’isola, con cui tutti loro avevano dormito almeno una volta. Rivederli tutti insieme, per Drof, era sempre come tornare a casa dopo un viaggio durato anni.

«Ehi, sbaglio o sei più magro dell’anno scorso? Allora è vero: la vita da genitore è peggio che avere cinquanta ementerie sulla schiena!» scherzò Odraccir, battendogli un pugno sulla spalla.

«Non è divertente» replicò Drof, fingendosi offeso.

«Tsk tsk tsk… disorganizzato e buttato lì come al solito, vero? Ci sono molti modi più decenti per buttare a terra un giganotosauro!» polemizzò Oilnats.

Quella volta aveva un velo di ironia, ma in qualsiasi altra occasione quel puntiglioso l’avrebbe detto sul serio. Drof levò gli occhi al cielo e guardò Elehcim:

«Ti trovo bene! Ti sei fatto nuove cicatrici, a combattere sempre le bestie senza cavalcature?» gli chiese.

Il muto sorrise con fierezza e scosse la testa, rispondendo coi gesti che gli sfregi che gli solcavano la fronte e la bocca bastavano. Poi gli si avvicinò Aisapsa; vederla da vicino gli fece venire tanti ricordi: aveva perso il conto di quante volte gli erano venute le farfalle nella pancia per lei, da giovane. Poi, però, aveva incontrato Yram e si era lasciato qualsiasi attrazione per lei alle spalle. Aisapsa aveva sempre avuto un debole per lui, ma riconoscendo di non essere adatta alle relazioni serie aveva lasciato correre.

«Che sorpresa, Drof! Se solo avessi saputo che stavi venendo a trovarci, mi sarei fatta bella per l’occasione…» ammiccò.

«Tranquilla, non ti serve» le rispose lui, mentre si scambiavano un rapido abbraccio.

Odraode e Ynneb erano più lontani e arrivarono solo in quel momento, sudati e trafelati.

«Ehi, Drof! Non me l’aspettavo!» esclamò il cecchino.

«Neanch’io pensavo che sarei passato a trovarvi. Va tutto bene?»

Si strinsero la mano, ma non troppo forte, perché lui era molto gracile.

«Eh, non mi lamento» rispose Odraode.

«Ci lamentiamo noi! Drof, hai idea di quanto sia peggiorata questa mezza cartuccia? Stare con un vegetariano è una rottura tremenda!» si intromise Odraccir.

«Non è colpa mia se sono allergico alla carne…» mugugnò l’altro.

Drof si fece dare una pacca sulla spalla a Ynneb che, visto che era grasso e goffo e combatteva male, era sempre relegato a costruttore di trappole, data la sua passione per le costruzioni e l’arte scultorea.

«Meno male che l’hai fatta pagare a quel grosso bastardo, Drof! È camminato nella mia trappola incendiaria all’olio bollente, ma poi ha pensato bene di puntare proprio me… ho corso così tanto che ho perso qualche chilo!» sbuffò, asciugandosi il sudore sulla fronte.

«Sempre meglio che una dieta, per te» ridacchiò Drof.

«Eh…»

«Allora, qual buon vento ti riporta da noi, amico? Ti conosciamo: non vieni mai solo per cortesia. A proposito, come sta Acceber? Ha superato la Prova? Come passa, il tempo…» disse Aisapsa.

Drof tornò serio e, sentendo di nuovo il peso della situazione sulle spalle, sospirò:

«Sono qui proprio per lei. Sì, Acceber ora ha un tilacoleo, è una ragazza stupenda e non potrei essere più fiero di lei. Ma è in pericolo, così come può esserlo chiunque tra noi»

«Oh…» tutti rimasero di sasso.

Drof, allora, appoggiò la schiena ad una zampa di Anitteb e spiegò tutto, mentre i suoi amici ascoltavano assorti e increduli.

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«Allora quella notizia non era falsa: Gnul-Iat è davvero sopravvissuto al fiume! Che roba…» esclamò Ynneb, alla fine della storia.

Loro sei, quando avevano sentito la voce per la prima volta, non ci avevano creduto: erano sempre in giro per svolgere vari lavori e l’avevano scoperta al di fuori dei villaggi, dove le notizie erano spesso esagerate oppure distorte per sembrare più sconvolgenti, quindi non avevano dato tanto peso alla questione. Ma ora che avevano scoperto che era stato proprio Drof a rivelare l’identità del Ladro di Impianti a tutta ARK, non avevano più da ridire.

«Non riesco a credere che sia diventato così pazzo… ed è già stato un colpo quando abbiamo visto cos’ha fatto ad Acceber!» disse Aisapsa.

«Il mio vecchio aveva proprio ragione: lascia indisturbato un pazzo, e la pazzia gli fermenterà come l’uva!» ridacchiò Odraccir.

Elehcim gli tirò una manata in testa.

«Ah! Che vuoi, bestione?»

«È per la battuta di merda» spiegò Oilnats.

«Colpa mia, scusate»

«Ho provato a fermarlo quattro volte, ormai. Ho sempre fallito. Solo il pensiero che ogni volta che mi scappa, morirà altra gente, come negli ultimi otto anni…» mormorò Drof, umiliato.

«Non ti devi sentire in colpa, Drof! Almeno ci provi più che puoi! Io sarei morto al primo incontro…» provò a confortarlo Odraode.

Odraccir gli tirò una pacca che gli fece scricchiolare le spalle:

«Sei uno scheletro con la pelle, sapresti farti ammazzare da una titanomirma! Pensi davvero di fare testo?»

«Ma dai, poverino! E se fosse proprio lui a piantargli una freccia in testa?» sorrise Aisapsa.

Drof attirò di nuovo la loro attenzione e andò al punto:

«Dunque, penso che abbiate capito tutti perché sono venuto a cercarvi. Ho chiesto aiuto a mio cugino e questo gli è costato la vita. Non vorrei che la costi anche a voi, ma… mi aiuterete a fermare Gnul-Iat?» domandò.

I suoi amici si guardarono, poi gli sorrisero:

«Non devi nemmeno chiedercelo! Noi ci siamo sempre aiutati a vicenda, non ti lasceremo ad affrontarlo da solo» gli rispose Aisapsa, a nome di tutti.

«Questa volta farò tutto il possibile per tornare utile! Potrei fare anche qualcosa in più che fare il cecchino…» disse Odraode.

«Frena, frena! Dipende da che piano organizzeremo… be’, che organizzerò» lo interruppe Oilnats.

Tuttavia, Odraccir alzò la mano:

«Ehm… a costo di passare per bastardo, devo metterci un “ma”»

«Cioè? Tu non te la senti? Non vi giudico, se avete paura» disse Drof.

«No! Io ci sto! Ma vedi, dopo il giganotosauro, che era la taglia di quello sfigato di Odraode, avevamo la mia…»

Elehcim alzò gli occhi al cielo e si sbatté il palmo in faccia. Aisapsa sbuffò e si pasò davanti a Odraccir:

«Ti pare il caso? Drof ha appena detto di avere il groppo alla gola perché suo figlio è in giro ad ammazzare e tu metti la tua taglia del giorno davanti a questo?»

«Sapete come sono: se vi aiuto col pensiero di una taglia in sospeso, non potrò dare il massimo!» si giustificò Odraccir.

«Ah, e va bene… ma la prossima nottata me la spasserò con Elehcim!» ammiccò lei.

«Ehi! Toccava a me, non è giusto!»

«Già: ti toccava»

Drof scosse la testa e sospirò:

«Me ne farò una ragione. Vengo anch’io, di che si tratta?»

«Oh, grazie, Drof! Non ti preoccupare, è una cosa veloce, possiamo andare anche subito…»

«Oh, meno male! Sono stanco di questo posto lurido…» disse Oilnats, che aveva una fobia maniacale dello sporco.

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UN PAIO D’ORE DOPO…

«Ecco, siamo arrivati» annunciò Odraccir.

Dopo aver lasciato tutti i contingenti nella base di caccia costruita da loro diversi anni prima, avevano preso un volatile ciascuno che ed erano andati alla giungla delle Rocce Nere, vicino all’altopiano dell’isola volante. Atterrarono dove indicato da Odraccir, cioè in una piccola radura in mezzo alla foresta tropicale in cui si trovava quel poco che restava del carretto di un mercante di carne essiccata: era rovesciato su un fianco e il carico era tutto sparpagliato per terra. Ma, soprattutto, era mangiucchiato.

«Potete già capire da quello cosa dobbiamo fare, ma comunque ecco la taglia» disse Odraccir.

Prese un foglio piegato dalla sua sacca e lo fece vedere agli altri, radunati in cerchio attorno a lui per leggere:

Stavo trasportando dei pezzi di carne nella giungla, poi all’improvviso qualcosa mi ha attaccato di notte. Non ho visto bene cosa fosse, la torcia è caduta dal carretto e si è spenta. Sono saltato subito sul mio parasauro e sono fuggito. Non ho intenzione di tornare a recuperare il carro finché qualcuno non ucciderà la bestia che vive da quelle parti!
Onafets Idlab delle Rocce Nere

(300 ciottoli)

«Uhm…Magari dei velociraptor?» ipotizzò Odraode.

«Sicuramente ha lasciato delle tracce. Diamo un’occhiata…» suggerì Drof.

Dunque, i sette cacciatori cominciarono ad ispezionare la radura. All’inizio, guardarono i resti del carretto per vedere se c’erano segni di zanne o artigli, ma non trovarono niente di particolare. Poi, poco lontano dai pochi pezzi di carne che non erano stati mangiati, Drof trovò le impronte di un teropode e chiamò gli altri:

«Riconoscete la forma?» chiese.

«Sì: un megalosauro» rimuginò Oilnats.

«Oh, bene!» esultò Aisapsa.

«Eh?»

«Era da un po’ che avevo in mente di domarne uno nuovo, da quando ho perso Tòdev. Se ti va, posso pensarci io, Odraccir» spiegò.

«Lo sai, a me va bene qualuque cosa tu voglia, bella!» ammiccò lui.

«Bene, allora andiamo alla sua tana» affermò Drof.

Ognuno prese una boccetta di olezzo del cacciatore e se lo versarono addosso per nascondere l’odore. Le tracce risalivano sicuramente alla notte prima, quindi non erano complicate da seguire: nella giungla, il fogliame schiacciato e i legni calpestati, ad occhi esperti come i loro, apparivano più evidenti di una macchia di inchiostro su un foglio. Tenevano le armi sfoderate perché non si sapeva mai, ma non erano preoccupati per il megalosauro: era giorno, quindi stava sicuramente dormendo nella tana. Da quel che risultava ad Odraccir, non c’erano caverne in quella zona, per cui doveva essersi stabilito in qualche posto riparato nel sottobosco. Alla fine, dopo circa un’ora di ricerca, videro in lontananza quello che stavano cercando: giunsero ai margini di un fiume; lungo la riva, scavata in una collinetta d’argilla, c’era l’ingresso di una galleria e le impronte entravano lì dentro. Ce n’erano anche di più vecchie che ne uscivano in svariate direzioni.

«Eccoci» sussurrò Oilnats.

Non poteva essere stato il megalosauro a scavare la galleria: sicuramente era un deposito privato di una Roccia Nera rimasto inutilizzato da tempo, di cui il dinosauro si era approfittato.

«Allora ci nascondiamo, aspettiamo la notte e aiutiamo Aisapsa con le esche, giusto?» chiese Odraode.

Elehcim annuì.

«Grazie, maestro dell’ovvietà» disse Odraccir, imbarazzandolo.

«Be’, ci servirà la carne per fare le esche. Chi di voi vuole andare a caccia con me?» chiese Aisapsa.

«Io» risposero Drof, Odraccir e Elehcim, che alzò la mano per offrirsi.

«Va bene, noialtri restiamo qui a tenere d’occhio la tana» disse Oilnats.

Quindi, i due gruppi si separarono.

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Qualche ora dopo, quando mancava poco al tramonto, tornarono con dei compsognati morti. Drof chiese ad Aisapsa se voleva che la aiutassero, ma lei disse che potevano pure andare e iniziare a decidere cosa fare contro Gnul-Iat, lei li avrebbe raggiunti più tardi.

«Bene, e la mia taglia è a posto. Siamo tutti tuoi, Drof!» disse Odraccir, mentre tornavano dai volatili.

«Io potrei già suggerirti uno o due piani che di solito uso per le cacce grosse, ma mi servono i dettagli» aggiunse Oilnats.

«D’accordo, ne discuteremo bene alla vostra base. Intanto, vi spiego meglio che tipo di contingente e modo di combattere ha il nostro nemico…» rispose Drof.

Il nuovo contrattacco all’incubo di Acceber stava cominciando a prendere forma.

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Ogni volta che mi convinco che quest’isola abbia terminato di meravigliarmi, essa mi dimostra che ho enormemente torto. E così, stando alla nuova scoperta di Helena, esistono altri piani di realtà paralleli al nostro, in cui ci sono meraviglie dall’infinita varietà, e ARK è stata collegata ad alcuni di tali mondi con la misteriosa conoscenza dei primi abitanti di questo paradiso sperduto… in parte, mi dispiace averlo imparato per bocca di Helena, invece di scoprirlo di persona. Ad ogni modo, ho il forte sospetto che i Pre-Arkiani non sarebbero mai arrivati ad un tale livello, senza il Tesoro di ARK. A questo punto, ho delle aspettative a dir poco altissime sul più grande segreto custodito da quest’isola straordinaria.

Ma, per il momento, devo concentrarmi sull’eliminazione della coccatrice: devo assolutamente rimediare al torto coi soldati dal 2150. Inizierò ad elaborare una possibile strategia di abbattimento col ragazzo. A proposito di lui, da quando siamo stati da quel panettiere mi sembra alquanto agitato… sono pressoché sicuro che mi stia nascondendo qualcosa e intendo scoprirlo. L’ultima cosa di cui entrambi necessitiamo sono i segreti. E, a giudicare dalla sua ansia celata grossolanamente, deduco che non si tratta di qualcosa di superfluo.


Quella notte, Rockwell scrisse questo appunto davanti al fuoco da campo, seduto su un ceppo. Sulle tracce della coccatrice, si erano diretti alle pozze di zolfo che si frapponevano tra loro e le Sorgenti di Artsa. Sulla strada, lui e Jack avevano cominciato a pensare ad un piano per abbattere la coccatrice uscendone illesi. Jack, dopo qualche riserva, fu d’accordo con l’idea di tendere una trappola. L’alternativa migliore era chiedere aiuto a dei cacciatori arkiani, ma c’erano dei problemi: anzitutto, erano distanti da qualsiasi villaggio e non avevano tempo da perdere, prima che la coccatrice facesse troppi danni, e poi c’era il rischio che non li prendessero sul serio o che non credessero alla loro storia: la notizia della coccatrice era ancora sulla bocca di troppe poche persone per destare l’attenzione dei capivillaggio e, quindi, di tutta l’isola. Dunque, adesso il medico stava abbozzando varie idee sui tipi di trappole da costruire, sul tempo a disposizione, il possibile grado di intelligenza della creatura… ma Jack ascoltava poco o niente delle sue parole: si stava ancora tormentando per aver accettato di collaborare con Ottosir e per la sua omertà con Rockwell. Da una parte, si difendeva col fatto che non aveva avuto scelta, a causa delle minacce; dall’altra, si sentiva in colpa perché stava partecipando ad una cospirazione. Rockwell meritava qualunque cosa avesse in mente Ottosir? Fino a qualche tempo prima, non avrebbe avuto dubbi, arrabbiato com’era. Ma poi Edmund si era scusato e aveva promesso che avrebbe fatto il possibile per farli uscire vivi dalla faccenda, quindi…

«C’è qualcosa che ti turba, giovanotto?»

I suoi pensieri furono interrotti da Rockwell, che aveva deciso di indagare sulla sua ansia. Jack si maledisse: era sempre stato pessimo a nascondere quello che provava… ora cosa poteva dirgli? La verità, si disse. Sì, era giusto così: doveva dirgli di Ottosir. Così, fece un profondo sospiro e si preparò a parlare… ma, prima che rivelasse tutto, notò un dettaglio che lo fece impietrire: sugli alberi al margine del bosco a cui Rockwell stava dando le spalle, c’erano decine di mesopitechi che lo fissavano a denti scoperti. Capì subito che non erano selvatici: erano quelli di Ottosir. L’inquietante addetto alle consegne del panettiere lo stava tenendo d’occhio e, di certo, non sarebbe stato contento di scoprire che il suo complice aveva cambiato fazione. La paura lo fece rimanere bloccato per vari secondi e Rockwell, perplesso, si girò per vedere cosa stava guardando. Però, all’ultimo, i mesopitechi si tuffarono nel fitto della foresta e svanirono: il farmacista non li notò.

«Ragazzo, che ti succede? Ultimamente sei strano, è chiaro che qualcosa ti tormenta! Sarei troppo indiscreto se ti chiedessi di condividere le tue preoccupazioni con me?» insisté allora.

Jack guardò per terra e cominciò a sudare freddo, in cerca di una buona scusa con cui sostituire la confessione. Alla fine gli tornò in mente una cosa che lo fece arrossire, ma deglutì e decise di buttarsi:

«Ecco, io… non riesco a togliermi dalla testa quello che ho scoperto dopo il viaggio mentale! Sa… Laura…»

Rockwell fece l’espressione di uno che capisce tutto dopo aver unito i puntini e sorrise, divertito. Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con uno straccio. Si schiarì la voce e rispose:

«I meccanismi della passione non sono per nulla la mia specialità, ma quando avevo ancora la barba scura e le articolazioni in forma ho avuto le mie esperienze…»

«E?»

«Non è insolito credere di aver scoperto all’improvviso di provare sentimenti forti per una ragazza, quando in realtà è iniziato tutto molto prima: eri solo troppo introverso per ammetterlo anche a te stesso. Vediamo se ci ho visto giusto… voi quattro vivete insieme, da quello che ho capito, vero?»

«Sì, da quando ci siamo laureati»

«Come ti comporti in sua presenza, di solito?»

«Be’… normalmente»

«Ti capita spesso di discutere dei tuoi impegni, delle tue occupazioni, con lei?»

«A pensarci bene… tutte le volte. Ma non solo con lei, anche con gli altri e con chiunque conosca. Mi viene naturale»

Rockwell si rimise gli occhiali e annuì, compiaciuto:

«Allora è proprio così: il tuo istinto sa da tanto tempo che lei ti piace, ma è sempre stato soffocato dalla tua ragione, che ti ha fatto pensare continuamente ai tuoi doveri per non fartelo notare. Ed è stato così finché lo stupefacente del 2150 non ha spalancato le porte ai segreti più intimi della tua mente, quindi ora ne sei del tutto consapevole!»

«Grazie per la diagnosi, ma io vorrei sapere… lei ha qualche idea di cosa dovrei fare con Laura? Devo dirglielo o è meglio se non…»

«Chi sono io, per dirti come relazionarti con la tua amica? Tutto quello che posso dirti è che devi sempre ricordare che, quando esprimi le tue emozioni con le donne, devi sempre essere garbato, onesto, aperto a risposte negative, reciproco… insomma, è come quando io e ogni altro gentiluomo che conoscevo avevamo incontri formali con nobildonne rispettabili»

Jack ridacchiò, aspettandosi un consiglio simile da uno come Sir Edmund Rockwell. Questo non gli aveva dato più sicurezza, anzi… aveva le idee ancora più confuse. Poi, però, una cosa detta da Edmund lo fece riflettere: doveva essere onesto con Laura. E doveva diventare più coraggioso, come si era promesso dopo l’incidente al fiume. Quindi decise che la prima cosa che avrebbe fatto al ricongiungimento sarebbe stato svelare tutto con lei, almeno in privato… se fosse sopravvissuto alla coccatrice e ad Ottosir. Ricordandosi di quell’omone inquietante, il terrore gelido ricominciò a perseguitarlo, sbriciolando l’ispirazione che gli stava venendo. Quella notte, Jack non chiuse occhio, mentre Rockwell sorvegliava il fuoco e continuava a pianificare per conto suo.

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Il terrore di Jack era alle stelle, ormai si sentiva come se nelle sue vene scorresse più adrenalina che sangue: dopo l’alba, giunsero alle pozze di zolfo. Non c’era nessun dubbio che sarebbe successo qualcosa di terribile a Rockwell, prima che passassero oltre quel maleodorante luogo da brividi. Le sorgenti termali si trovavano in un prato circondato da una fitta foresta di platani. Erano conche di calcare larghe e poco profonde in cui ribolliva dell’acqua blu zaffiro. I fumi che ne scaturivano avevano un disgustoso puzzo di uovo marcio che pizzicava le narici e faceva girare la testa. Rockwell stava a due passi di fronte a Jack e procedeva spedito e sicuro di sé, usando la lancia come bastone. Jack, invece, la teneva sollevata e la stringeva così forte da farsi sbiancare le nocche. Si guardava continuamente in giro, per vedere se all’improvviso apparivano dei mesopitechi dallo sguardo torvo o se saltava fuori la sagoma senza un braccio di Ottosir. Ad un certo punto, accanto ad una delle pozze le vide: impronte di scimmiette. Non era di certo una coincidenza. Alla fine, cedé: il senso di colpa prevalse sulla paura di Ottosir e Jack, di colpo, si parò davanti a Rockwell:

«Cambio di programma! Perché non usiamo quell’altra strada di cui aveva parlato lei?» suggerì, nel panico.

Edmund era molto perplesso:

«Che stai dicendo? Ormai abbiamo preso questa strada, allungheremmo solo i tempi. E perché sei così pallido? Sei allergico allo zolfo?» chiese, preoccupato.

Jack si sforzò di fingere una risata, ma l’effetto che fece lasciò Rockwell ancora più interdetto:

«Questa è buona! Allergia allo zolfo? Certo che no! È solo che ho fatto due più due e… se è vero non abbiamo tempo da perdere, perché continuare con la strada lunga? Prendiamo l’altra e ammazziamo l’uccellaccio?»

Rockwell inarcò un sopracciglio e si lisciò la barba, molto sospettoso. Jack continuò la sceneggiata patetica:

«Su, che aspettiamo? Corriamo!»

Fece per incamminarsi veloce come il vento, ma si accorse che Rockwell non si era mosso e lo stava fissando con sguardo diffidente:

«Tu mi nascondi qualcosa, ragazzo, non negarlo. Cosa c’è che non va? Hai detto che tale Ottosir ha spiegato che quel percorso è pieno di predatori…»

«Oh, sì, Ottosir! Lui stesso, però, ha detto che non è niente di impossibile, quindi ho pensato che con la sua esperienza potremmo…»

Rockwell si impuntò e, con grande sgomento del giovane, lo chiamò per nome per la prima volta:

«Jack, non sono stupido. Dimmi subito cosa sta succedendo, esigo spiegazioni concrete e sensate!»

Jack si sentì esplodere e non si trattenne più:

«Oh, e va bene! Lei è in pericolo, Ottosir è…»

TOC!!!

Una pietra scagliata con una fionda colpì la tempia di Rockwell e il farmacista inglese collassò al suolo, privo di sensi. Jack ammutolì e rimase a fissarlo come uno stocafisso, incredulo. A quel punto, come dei ninja, il manipolo di mesopitechi di Ottosir apparve come dal nulla, rivelando di essere tutti nascosti nei radi cespugli del luogo o dietro le conche calcaree. Urlando e danzando come delle forsennate, le scimmiette si radunarono attorno a Rockwell, ignorando Jack. Poi, all’improvviso, dal cielo atterrò proprio lui: Ottosir, a cavallo di un pelagornite. Quando il suo sguardo incontrò quello di Jack, il ragazzo ebbe la netta impressione di essere sul punto di farsela addosso… l’omone sfregiato gli si avvicinò, mentre i mesopitechi iniziavano a danzare sul povero Rockwell, a tirargli sassi e rametti e prenderlo a calci mentre era svenuto.

«Gli stavi rivelando tutto, vero?» chiese Ottosir.

«Ehm… uh… ecco…» farfugliò Jack, in preda al panico.

Ottosir scosse la testa:

«Patetico… scommetto che se morissi, nessuno piangerebbe per te. Anzi, forse riderebbero»

A quel punto, alla paura di Jack si unì una cocente indignazione che lo fece riscuotere:

«Ehi! Ritira subito…»

Prima che finisse, Ottosir gli tirò un pugno sul naso così forte da fargli vedere le stelle. Il ragazzo cadde seduto e sentì il sangue che gli scendeva sulla bocca praticamente subito. L’indignazione sparì e tornò la paura, ora accompagnata dall’imbarazzo per essere così impotente.

«Sai, se questo fosse successo un paio di anni fa, ti avrei appeso ad uno scoglio e ti avrei lasciato lì a marcire, e gli ittiorniti avrebbero becchettato i tuoi resti. Ma ora mi rendo conto che se lo facessi, non sarei migliore di questo lurido essere – indicò Rockwell – Quindi, lascerò stare. Che sia la natura a fare il suo corso»

«Che vuol dire?»

«Che non durerai nemmeno un giorno qui, prima di raggiungere un villaggio: fai troppa pena per sopravvivere»

«Non mi accompagni tu?»

«Perché dovrei? Non mi servi più a niente»

Detto questo, Ottosir prese una lancia dalla sella del pelagornite e si avvicinò a Rockwell, ordinando ai suoi mesopitechi di farsi da parte. Rivolse la punta dell’arma verso il basso, la afferrò al centro e la sollevò, pronto a trafiggere i polmoni del medico. Jack non poteva lasciare che succedesse, non se lo sarebbe mai perdonato. Neanche gli altri gliel’avrebbero perdonato. Ebbe uno straordinario guizzo di coraggio e si alzò in piedi. Prima che la lancia infilzasse la schiena di Edmund, prese la rincorsa e si avvinghiò al collo di Ottosir con un salto.

«Oh? Ma che… e lasciami!»

Senza il minimo sforzo, Ottosir si scrollò Jack di dosso semplicemente sollevando il braccio di scatto. Tutti i mesopitechi lo fissarono, scoprendo i denti e scimmiottando.

«Sul serio? Ti sei coperto di ridicolo per salvare questo maledetto? – ringhiò Ottosir – Tu non fai pietà come penso, di più!»

«Smetti di dire che faccio pena!» gridò Jack, esasperato.

Ottosir stava per dire qualcosa, ma accadde una cosa inaspettata che paralizzò tutti i presenti dallo stupore: quasi in risposta all’urlo del ragazzo, dalla foresta di platani echeggiò un verso agghiacciante. L’orribile unione tra un canto di gallo e uno strillo d’aquila. Sia Jack che Ottosir la riconobbero.

“È lei… siamo finiti!” pensò il giovane.

Il pelagornite, terrorizzato, starnazzò e volò via.

«No!» esclamò Ottosir, vedendolo sparire all’orizzonte.

I mesopitechi si alzarono in piedi e iniziarono a fissare il fronte boscoso immobili e ad occhi sbarrati, come dei suricati. Sentirono dei passi, rumori di rametti spezzati… e la coccatrice apparve, più orrenda che mai. Facendo vibrare il suo collare di pelle come un dilofosauro, squadrò i presenti uno ad uno con aria minacciosa. E, alla fine, il suo sguardo si fermò su Ottosir, la preda più grossa. Fece schioccare il becco, i due canini a sciabola grondarono saliva e gli artigli delle zampe raschiarono la terra. Il dodo mutato partì all’attacco; raggiunse lo sfregiato in un lampo e lo atterrò con un calcio che lasciò dei solchi sulla sua pancia flaccida. Ottosir riuscì a mettere la lancia di traverso davanti a sé per fermare il becco della coccatrice prima che lo mordesse, mentre l’uccellaccio usava le sue robuste zampe per tenerlo a terra.

«Tjpip! Tjpip, veb vjzaz!» esclamò l’Arkiano.

I mesopitechi, sentendo l’ordine, urlarono come forsennati e si gettarono sulla coccatrice come uno sciame d’api. Ammassandosi su di lei, la costrinsero a lasciar andare Ottosir. Mentre lei era occupata a scrollarseli di dosso starnazzando e a decimarli a calci e beccate, l’omone si alzò a fatica, premendosi la ferita sulla pancia con l’unica mano, e sbarrò gli occhi: sia Jack che Rockwell erano spariti. Guardandosi in giro, vide il giovane biondo sparire nella foresta ai lati delle pozze di zolfo, trascinando Rockwell per le braccia.

«No! Non mi sfuggirai, Edmund Rockwell! Ti troverò!» gridò, furioso.

La coccatrice, però, si liberò per un attimo e lo scaraventò a terra con una codata ai fianchi, facendolo rotolare per terra. Per poco, non cadde in una delle sorgenti sulfuree. Prima che lo uccidesse, però, le scimmiette si ripresero e tornarono a saltarle addosso, mordicchiarla e lanciarle pietre; il massacro ricominciò. Jack, ignorando il terrificante trambusto che proveniva dalla radura delle pozze fetide, si sforzava di trascinare Rockwell in salvo, addentrandosi nella foresta più che poteva. Teneva un braccio del medico avvolto attorno alle sue spalle e gli reggeva l’altro con la mano libera. Purtroppo, così era molto goffo e la fatica gli faceva bruciare le gambe e i polmoni, la sua faccia era pregna di sudore e scottava come se avesse la febbre; si sentiva gli abiti appiccicati sulla schiena umida. Ma la paura e l’adrenalina erano dei carburanti potenti e gli bastavano per andare sempre avanti, senza mai rallentare né voltarsi indietro… ma avrebbe dovuto anche guardare in basso. Dopo svariati minuti che gli parvero un’eternità, la vegetazione davanti a lui si aprì e… sentì il vuoto sotto i suoi piedi. Non si era accorto di essersi trovato di fronte ad un pendio roccioso, in fondo al quale la foresta continuava.

«Dannazione!» fece in tempo ad esclamare.

I due cominciarono a rotolare a peso morto lungo la discesa pietrosa, graffiandosi dovunque e sbattendo le ossa contro le rocce. Per ripararsi la faccia, Jack fu costretto a coprirsela con le mani, mollando la presa su Rockwell. Alla fine, con un’ultima caduta, il ragazzo sbatté un fianco su una superficie piana. Con le orecchie che fischiavano, la vista annebbiata e le ossa doloranti, Jack si girò sul ventre e si guardò intorno: erano giunti sul fondo ed erano circondati da cespugli. Rockwell giaceva davanti a lui, immobile… Jack si sentì mancare per un attimo, ma tirò un sospiro di sollievo quando gli poggiò le dita sul collo: il cuore del farmacista batteva. Per fortuna, non ci avevano lasciato le penne, anche se non poteva capire se lui o Edmund avessero qualcosa di rotto… prima che verificasse anche quello, però, il giovane sentì qualcosa rotolare giù dal pendio. Si girò e… un sasso gli precipitò sulla tempia. Sentì una fitta tremenda alla testa e tutto, all’improvviso, diventò buio. Cadde un silenzio di tomba. Erano svenuti entrambi, soli nella foresta arkiana, abbandonati alla natura selvaggia.

   
 
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