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Autore: Fabio Brusa    01/04/2020    1 recensioni
"Fenrir Greyback è un mostro. Un assassino. Un selvaggio licantropo. Approcciare con cautela."
Quello che il mondo vede è solo il prodotto di ciò che mi è stato fatto.
La paura li ha portati a ritenerci delle bestie, dei pericolosi predatori da abbattere. E la vergogna per non averci aiutati li spinge a tentare di cancellare la mia stessa esistenza.
Forse finirò ad Azkaban. Più probabilmente, qualcuno riuscirà a uccidermi, prima o poi.
Non mi importa.
Non mi importa, fintanto che sopravvivrà la verità su come tutto è iniziato e sulla nostra gente.
Sui crimini del Ministero e sull'omertà di uomini come Albus Silente.
Su come il piccolo H. sia morto e, dalle sue ceneri, sia venuto al mondo Fenrir Greyback.
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GREYBACK segue la storia del famoso mago-licantropo. Attraverso vari stili narrativi, dai ricordi di bambino ad articoli di giornale, dagli avvenimenti post ritorno di Voldemort a memorie del mannaro a Hogwarts, in 50 capitoli le vicende dietro il mistero verranno finalmente portate alla luce.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Fenrir Greyback
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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38/50
 
Una estenuante paranoia si faceva il nido nella mia testa durante la notte, per poi urlare a squarciagola per tutto il giorno come un cuculo appena nato. Continuavo a ripensare alle voci divertite e spaventate dei miei compagni quando arrivammo a pagina trecentonovantaquattro del manuale di Difesa Contro le Arti Oscure. L'incubo si era materializzato e io rischiavo di pisciarmi addosso per la paura ogni volta che qualcuno mi toccava alle spalle o chiamava il mio nome.

La professoressa Black era stata infida. Ignoravo quello di cui fosse realmente a conoscenza, ma ritrovarmi in una classe di ragazzi a cui veniva insegnato come puntare il dito contro i lupi mannari fu tremendo. Le domande stupide, le battute sui cani e i paragoni con gli animali mi facevano infuriare, ma non erano la cosa peggiore. Quello che mi faceva sentire un verme era la paura che serpeggiava al di sotto dei commenti spavaldi di gente come Diggory. Il terrore e il raccapriccio di mostri nascosti sotto la pelle di uomini e donne solo all'apparenza uguali agli altri, pronti a uccidere e strappare ogni parvenza di sicurezza dalle vite dalla brava gente.

Il subbuglio nello stomaco mi obbligò a vomitare il pranzo fra i cespugli nel Cortile della Torre dell’Orologio. Dai gruppi dei ragazzi che studiavano o giocavano a gobbiglie si alzarono una serie di versi disgustati. Alcune delle voci erano anche conosciute, ma non ebbi la forza di voltarmi a guardare in faccia chi si prendeva gioco di me.

- Hey, ehm, tutto bene? Butta fuori tutto. Se c'è qualcosa che fa torcere le budella, meglio lasciarla alle piante, dico io. - Spuntata da chissà dove, mentre ero preoccupato solo di non inzupparmi di poltiglia maleodorante la divisa e le scarpe, la grossa mano di Hagrid mi diede un paio di colpi fra le scapole. Che gli altri guardassero pure: quel poco di familiarità contribuì a far di nuovo entrare aria pulita nei polmoni.

- Grazie, Hagrid. Ora mi sento meglio - dissi asciugandomi la bocca con l'interno della manica. - Devo tornare a lezione. -

- Non se ne parla. Per oggi hai finito: vai a sdraiarti da me. Quando arrivo metto su una teiera sul fuoco e ti porto un paio di biscotti. Vedrai che qualsiasi cosa ti sei preso, passerà in un lampo. -

Avrei voluto far finta di nulla e ingoiare il malessere che mi dava il tormento, ma non ci riuscii. Volai fino al capanno con l'unico desiderio di rintanarmici e non aprire più la porta, mai più.

Il pensiero di vivere come Hagrid, in quel momento, mi sembrò desiderabile. Ai limiti della società, in quella che era solo una stanza con scricchiolanti pareti di legno grezzo, mai incluso veramente nella vita degli altri o trattato come pari, ma tranquillo. Preso in giro, ma non temuto e cacciato. Sarebbe stata una soluzione possibile? Chiedere a Silente di proteggermi, trattarmi come una specie di cane da guardia per il resto dei miei giorni, fino a che le sbarre della mia cella a forma di castello fossero sfumate completamente nel paesaggio e riuscire, finalmente, a credere di essere felice?

Dovetti essermi addormentato per un po', poiché nel mezzo dei miei pensieri ricomparve Hagrid, sbattendo la porta abbastanza forte da far risvegliare anche i morti.

- Prima o poi ci resto secco, oh sì! Quel Rumble, mi fa scompisciare! - Appoggiò un cesto di vimini sulla tavola e riempì la teiera di acqua da mettere sul fuoco. - I ragazzi sono in pensiero per te - ammiccò. - Si preoccupano, anche se tu continui ad allontanarli. -

- L'impicciarsi degli affari miei per poterne sparlare non è preoccupazione. - Mi tirai a sedere, per poter allungare le mani e sbirciare il contenuto della cesta.

- Allora come lo spieghi che ti hanno preparato dei pasticcini? Eh? - Con un sorriso e un occhiolino, Hagrid si appoggiò soddisfatto allo schienale, in attesa del tè. 

Cinque muffin al cioccolato con ciliegia caramellata in cima riposavano come soldati disciplinati nelle loro vaschette di carta.

- Li hanno fatti davvero per me? - chiesi incredulo. Ne sollevai uno, lo squadrai: non era perfetto, ma sembrava invitante. Decisamente non erano stati comprati. Ne staccai un piccolo morso, temendo uno scherzo, magari sale al posto dello zucchero o qualcosa di simile. Ma era buono.

- Certamente! E tutti insieme mi hanno detto, pensa. Anche se, ecco, non è chiaro il tuo problema... specifico, gli Inquisitori nel castello stanno stressando tutti, mettono i ragazzi sotto torchio e fanno pressioni, e questo crea casini non soltanto a te. E poi, nessuno sospetta che... che... - Hagri non finì la frase. Alzò la manona, come a voler dire "tu lo sai", e distolse lo sguardo, insicuro. Forse pensava di offendermi con questi discorsi, quando invece erano gli unici momenti di conforto che avevo.

Mentre versava il tè nelle tazzine rigate, ingoiai il muffin in tre morsi.

- Ringraziali domani, intesi? - disse Hagrid.

Dovetti riflettere più di un istante, per immaginare come fare una cosa simile. - Dovrei ringraziare tutti i compagni di Casa insieme, magari nella sala della Tana Tassorosso. Sarebbe più facile. -

- Forse, ma non ti sentirebbero tutti quanti. Hai anche dei Serpeverde da ringraziare. -

Naturalmente. - Magnus capirà. Mi conosce meglio di chiunque altro. -

- Non stavo parlando di lui, ma della signorina Urquart. - Hagrid strizzò l'occhio con complicità, come se si aspettasse che fossi in imbarazzo.

Ma la mia sensazione era un'altra. - Liz? Perché lei? -

- Mi ha portato lei i dolcetti. Si è fatta portavoce di tutti quanti, non è carina? Secondo me sotto c'è qualcosa. Potrebbe anche piacergli qualcuno. Che ne pensi? Eh? H.? - La sua voce si stava perdendo nell'antro profondo di una caverna, un'eco sempre più lontana e annebbiata. Guardai Hagrid in volto e vidi solo un paio di labbra strette e occhi gentili che scomparivano nella foresta di nidi di corvo sulla sua testa. 

Da dietro la poltrona si alzò un'ombra familiare, su fino a coprire le travi del capanno con l'ampio petto e le braccia ferine. Incapace di reagire, la fissai  invaso dal terrore. Non aveva un viso da guardare, ma sapevo che non stava fissando me. Io non ero interessante, chiuso fra sbarre troppo alte, nemmeno capace di cambiare posizione. Quello che voleva era il sangue, la liberazione della carne da un incubo eterno.

Una donna urlò fino a che il suono acuto della sua paura divenne un rantolo gorgogliante strozzato dagli artigli del mostro.

- Cosa sta succedendo? - La mia voce era cambiata, distorta anche se ancora riconoscibile. - Hagrid? - Nella stanza, il buon gigante non c'era più. E io non ero più nel capanno, di fronte al fuoco. Le pareti erano crollate, svanite in silenzio per ricomporsi in mezzo al campo erboso di un paesino sperduto. Era solo una catapecchia quella che avevo di fronte, rovente come l'inferno e congelata come le mattine d'inverno del nord.

Dall'interno, proveniva il suono di artigli che grattavano. Grattavano per uscire.

Non riuscivo a dire una parola, nonostante volessi urlare: - Papà! Papà! - Il mio petto era un mantice vuoto, bloccato dalla pressione dell'aria attorno. Sentivo che sarei potuto implodere, rannicchiarmi nell'angolo più oscuro dei ricordi e diventare minuscolo, sempre più piccolo fino a scomparire per sempre. Nessuno mi avrebbe più trovato. Lì sarei rimasto solo con me stesso, nel crocevia piovoso e inzaccherato del passato, con la sagoma di mia madre dipinta in rosso sulla parete di una distilleria e mio padre appeso a una corda, legato per il collo di fronte alla porta, sbattuto come una campanella mentre clienti torvi ma ingioiellati entravano e uscivano senza vedermi.

Sotto la pioggia battente, un uomo storto, retto su un bastone che assomigliava a una bacchetta spezzata, stava picchiando un bambino. Rideva, alzava il braccio e lo colpiva con violenza. A ogni vergata, il naso mi si riempiva dell'odore del fango e del piscio che il bambino si era fatto addosso.

Corsi verso di lui, per tentare di aiutarlo. - Lascialo stare! - urlai, inferocito, con la rabbia che mi montava alle tempie. 

L'uomo continuava a colpire, senza girarsi, cantilenando parole senza senso. - Questo è perché non hai fatto niente e questo è perché hai fatto troppo. Comprendi? Questo è per non essere rimasto al tuo posto e questo è per essere andato troppo lontano. Comprendi? - E a ogni domanda, una bastonata: sulla testa, sulle costole, sulle gambe del bambino che cercava di proteggersi.

Estenuato dalla visione, afferrai l'uomo storto per la manica. Non mi venne nemmeno in mente di usare la bacchetta: volevo distruggerlo a mani nude. Una furia incontrollabile era cresciuta nel lunghissimo percorso che mi aveva separato da lui e, quando riuscii ad afferrarlo, lo strattonai con tutta la forza.

L'uomo storto non cadde. Come il Platano Picchiatore rimase solido e radicato nel fango, ruotando solo il busto per permettermi di fissarlo dritto in volto. E quel volto, era il mio.

Ricordo la rabbia fatta carne evaporare in una nuvola d'inchiostro nero. Il bambino, assalito dai rampicanti, veniva consumato dalle creature del suolo mentre l'uomo che ero io mi divorava con la propria essenza furibonda.

Lentamente, quel viso ormai svanito cominciò a riformarsi, con più barba, più capelli, con occhi più gentili.

- Per la barba di Merlino, riprenditi! Sei con me? Sei con me adesso? - Hagrid mi stava scuotendo per le spalle come se fossi un sacco di patate.

La testa rimbombava e le immagini si confondevano. Di Hagrid, io ne vedevo quattro.

- Santo cielo, che cosa ti è successo? - mi domandò, come se non fossi appena tornato da un incubo ad occhi aperti.

- Ti prego, Hagrid, smettila di agitarmi. -

- Oh, sì, scusa. Ma avevi gli occhi girati all'indietro e straparlavi. Mi hai fatto preoccupare. Non è ancora sorta la luna, non capivo. -

- Non è stata la luna - mugugnai.

- Ah no? -

- Mi hanno avvelenato... con la pozione del professor Lumacorno... Fammi un favore, - dissi - non accettare niente di preparato per me se non è fatto da Magnus e Driade. - Ero stremato. Mi sdraiai, completamente svuotato da ogni energia.

Le coperte di Hagrid erano calde e impregnate del mio sudore. E fuori dalla finestra, il sole stava calando. La prima notte di luna piena sarebbe cominciata in poche ore.

   
 
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