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Autore: G RAFFA uwetta    06/04/2020    4 recensioni
La Vita è il ticchettio che scandisce l'ora.
La Morte è il silenzio tra una oscillazione e l'altra del pendolo.
Il Tempo è la velocità con cui la ruggine polverizza l'orologio. (G RAFFA uwetta)
Sarà una raccolta con tema principale i sogni e le sue molteplici sfumature.
Scelgo te si è classificata quarta al contest ‘Tattoo Studio’ indetto da wurags, rilevato da Juriaka, sul forum e quinta al contest ‘L’enigma dell’Uroboro’ indetto da _ Freya Crescent _ sul forum.
Pieghe tra le lenzuola partecipa al contest 'Scriptophobia' indetto da Soul_Shine sul forum.
Anche gli incubi hanno fame partecipa al contest 'Generi a catena' indetto da Dark Sider sul forum e al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite e inedite)" indetto da GaiaBessie sul forum di efp. Ha vinto il 'Premio come migliore storia in conorso'.
Genere: Drammatico, Horror, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prefazione: ‘Diventare grandi’ è un passaggio obbligatorio. Crea ansie e un terrore folle di non essere abbastanza, di correre e non arrivare mai da nessuna parte.

Buona lettura e i commenti sono graditi.



Pieghe tra le lenzuola


Nessuno si sofferma sul periodo di mezzo della vita, quello in cui il bruco lotta per diventare farfalla. (Anton Valigt)


Il letto era sfatto e le lenzuola fruste irritavano la pelle sensibile. Sbuffai, mi girai su un fianco e poggiai il braccio davanti al viso. Incastrata sotto il mento, l’altra mano teneva il bordo delle coperte lontano dall’orecchio.

Serrai le ciglia sul buio; la lucina notturna, incastrata nella parete, era un palo conficcato negli occhi. Il silenzio della camera aumentava il frastuono del mio battito, e il ronzio di mille vespe ramificava dentro la testa.

Tirai un profondo respiro, ingollando aria e saliva, l’attenzione rivolta al lento strusciare dei polpastrelli sul cuscino.

Un brontolio, uno scricchiolio, e il resoconto della giornata naufragava nella bottiglietta d’acqua accanto alla sveglia. Il rito del sonno nuovamente interrotto.

Altro fianco, altra visuale, altra prospettiva.

Ma chi vuoi prendere in giro! La voce della ragione urlò nella mia testa. La gola raspò e prese a morsi l’ossigeno, come fosse un macigno duro da digerire.

Alzai di scatto il capo, lo scossi e mille aghi schizzarono dietro le palpebre. Mi sentivo sospesa, eterea, una foglia sotto lo zoccolo di un cavallo in corsa.

Ripresi fiato, piano, quasi contando i passi che separavano il letto dal bagno. Nel tragitto, ipotizzai ogni ostacolo, ogni angolo, ogni imprevisto, finché l’improvviso fulgore che incendiò la plafoniera non riportò la calma.


Nemmeno il diavolo era ingannevole quanto l’apparenza.


Seduta sulla tazza del water, le dita artigliate ai capelli, mi sentii la regina che sapevo di non potere interpretare. Creai mondi fantastici, poesie dalle strofe scadenti, tele dai colori sgargianti.

Stai temporeggiando. E odiai quella voce petulante che mi derideva.

Ritrovare il materasso era come spiaggiarsi su un’isola deserta dopo avere fluttuato in balia delle onde, assieme a quella sensazione di barcollare che non mi abbandonava mai del tutto.

Strinsi gli occhi, le lenzuola incollate alla schiena sudata. Provai a ragionare, rilassando ogni nervo e muscolo che il cervello riusciva a raggiungere.

Vedi, basta poco. Mi convinse soddisfatta, le dita dei piedi che flettevano al di fuori della linea marcata delle coperte messe di traverso sul materasso.

Il languore prese il sopravvento, un centimetro alla volta, fino a fare sprofondare la testa nel cuscino. Dietro le ciglia serrate, la stanza era bombardata da sfavillii psichedelici. Ora l’armadio con l’ombra riflessa del letto. Ora la finestra con gli spifferi luminosi del lampione che perforavano la tapparella. Ora il filo intricato di tungsteno che si faceva beffe dal lampadario. Ora il mio volto come in una foto in negativo.


Unghie spezzate che graffiavano la mia resistenza.


I pensieri divennero ingorghi, mulinelli di parole e immagini sempre più densi, sempre più foschi, sempre più torbidi.

Deglutii e la gola si inceppò. La saliva vibrò come l’ala spezzata di una mosca, incastrata senza via di scampo nella ragnatela. Il panico dilagò come una slavina, facendomi scattare seduta sul letto. Le dita affossate nel materasso, gli occhi vitrei a contemplare il buio. Inspirai col naso, profondamente, fino a sentire i polmoni dolere, più volte, per essere certa di essere viva. Inghiottii e ogni cosa tornò al proprio posto, anche se il terrore non mi abbandonò del tutto.

Guardai a destra, a sinistra, senza arrischiarmi a bere un goccio d’acqua.

Mi lasciai scivolare tra le lenzuola, muovendo il corpo perché si adattasse alle pieghe. Arricciai le membra e incastrai le braccia sotto il petto, le mani chiuse a coppa sul seno acerbo.

L’insonnia è una brutta bestia. Ma la paura di cedere al sonno ti rende ancora più nervosa e irritabile. E non credo che prendere a testate il muro risolva la faccenda, insinuò ragionevole la solita voce.

Ogni sera, una volta poggiato il capo sul cuscino, le mie certezze sgretolavano via. Erano sabbia sul fondale in tempesta. La paura dilagava libera, incapace di cedere il passo alla sonnolenza.

Ricordai di avere letto da qualche parte che contare le pecore rilassasse. “Concentrarsi sul visualizzare, e tenere a mente il numero dei simpatici erbivori, allontana il desiderio morboso di essere sveglio nell’esatto momento in cui il cervello si addormenta.”

Ispirata, presi a muovere la gamba come il pendolo di un orologio. Avanti e indietro, indietro e avanti, senza seguire una particolare cadenza, snocciolando i numeri come grani del rosario.

Uno… due… tre; avanti e indietro… ventiquattro, venticinque; indietro e avanti… settantadue; avanti… novantacinque; indietro…




I toni neri e gialli diluivano nel verde bottiglia. Sagome scure erano annidate ai lati di una lunga strada: ombre minacciose che incombevano come falchi. L’aria era densa, umida, e sbrodolava via, come approssimative spennellate di un dilettante acquarellista. Ero in piedi, solitaria figura al centro della strada. Dinnanzi, un camion lanciato a folle velocità con l’unico obiettivo di centrarmi in pieno. Era una scena già vista, rivisitata mille volte e altrettante volte arricchita di nuovi particolari.


Un intrecciato loop aggrovigliato strettamente a un deja-vù. Un pasticciato uroboro a cui dovevo trovare in fretta una via d’uscita.


Mi buttai a terra, scansando ed evitando con precisione millimetrica ogni ostacolo che l’infernale mezzo proponeva per chiudere ogni via di fuga. Il cassone che mi sovrastava sembrava eterno e toglieva il fiato, chiudendo in una scatola sempre più ristretta la mia volontà. Annaspavo e mi infervoravo, osservando me stessa dall’alto compiere gli stessi gesti, le stesse movenze in un perenne rituale scaramantico. E poi eccolo lì, dopo infiniti minuti che parevano ore, il nuovo intoppo: luminoso e potente, abbagliante come un faro nella notte. Pochi secondi per decidere come concludere le danze, l’ultimo passo per non soccombere alla morte.



Mi accorsi di essere sveglia e incastrata nella mia testa. L’eco dell’incubo appena vissuto che strisciava lento sulla pelle sudata. Sentivo il cervello pesante e il morbido del cuscino dolere come una morsa.

Che strano controsenso, farfugliai nella mia mente mentre inseguivo mille dettagli. Eppure, chiusa in quello spazio angusto, tutto mi appariva chiaro. Avvertivo il mio corpo come se stesse affogando nella melassa, lontano e allo stesso tempo così vicino da essere intimo. Chiaro e scuro, realtà e sogno, ingaggiavano battaglia davanti ai miei occhi stupiti.

Sono sveglia, pensai. Ragiono e mi muovo. Ma come le parole appena formulate raggiunsero il cervello, mi accorsi di essere paralizzata, immersa in uno strano formicolio. Tentai un respiro profondo e scivolai nel panico quando non successe nulla.

Cercai di muovere la testa, le mani, le gambe. Mi sentivo pesante, le membra dure come la roccia: un tutt’uno con il vuoto che mi circondava. Il respiro mozzato nell’aria sempre più rarefatta. Mi sforzai, concentrando la mia volontà in un unico gesto, in un unico punto, che arroventò quasi fossi già sprofondata all’inferno.

Mi figuravo lottare, graffiare, mordere, dibattermi senza sosta. Tiravo fino a tendere i nervi e arcuare la schiena, le braccia piagate all’indietro strette nel giogo di fantomatiche catene. Eppure non mi muovevo, non un muscolo, non un tendine finché, ormai giunta allo stremo della disperazione, dalle mie labbra serrate, non sfuggì un grido, una parola, un’invocazione: «Mamma!»




Mi destai così, la gamba che scattava come un pendolo, la gola riarsa di chi aveva urlato a fondo, il corpo stanco di un maratoneta, dolori vividi che presto sarebbero mutati in lividi.


Ogni notte, qualsiasi cosa avessi affrontato durante la giornata, avrei rivissuto tutto con lucidità disarmante. Per tutto il periodo adolescenziale, come un cancro che, centimetro dopo centimetro, avrebbe divorato ogni mia volontà.



Note dell’autrice: tutto ciò che ho scritto l’ho vissuto personalmente nel periodo più buio che ogni essere umano è costretto ad affrontare: l’adolescenza.


La fobia trattata è la Somnofobia o Oneirofobia e una delle sue possibili conseguenze è la paralisi del sonno. Trovate le spiegazioni a questo link: https://angolopsicologia.com/oneirofobia-somnifobia-paura-di-dormire/, e a questo link: https://it.wikipedia.org/wiki/Paralisi_nel_sonno.


Questa storia partecipa al contest ‘Scriptophobia’ indetto da Soul_Shine sul forum.





Leggenda

Genere: introspettivo – horror.

Rating: verde.

Note: Missing Moments.

Coppia: nessuna.

   
 
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