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Autore: Adele Emmeti    14/04/2020    3 recensioni
La Fuga non è un rimedio, ma un tentativo di allontanarsi dalla fonte primaria del proprio dolore.
E Mizu lo sa bene, perché lei sta fuggendo da un torto assoluto, da un male gratuito e ingiustificato, da un'ingiustizia silenziosa ma lacerante. Lifeline è il racconto del suo lento percorso di rinascita, della sua sofferta risalita, dell'insieme di amore e gentilezza che nuovi e vecchi amici sono in grado di fornire.
Perché tutti, prima o poi, hanno bisogno di un'ancora di salvezza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono le dieci e un quarto. La lezione di matematica sembra infinita.
E io odio la matematica.
Ieri sera Beky mi aspettava in lacrime, seduta al tavolo della cucina. Pensava che non volessi tornare a casa per quanto la odiassi. Quando mi ha vista sporca di sabbia e con i bordi dei jeans bagnati, è scoppiata a ridere e mi ha abbracciata. L'ho stretta anch'io, nonostante non sapessi bene se, dentro di me, l'avevo perdonata del tutto o provassi ancora del rancore. Mentre mi chiedeva scusa e mi diceva di aver sbagliato a non consultarsi prima con me, ho pensato che, in fin dei conti, stava soltanto provando ad aiutarmi. E che avrei dovuto apprezzare i suoi sforzi, anziché preferire che ignorasse il mio problema.
Fely mi fa “ciao” con la una manina di plastica attaccata sulla punta della sua matita. Forse odia la matematica più di me.
A mensa ci sediamo a un tavolo quasi centrale, perché unico libero.
«Sei passata davanti a Samuel con i libri, ieri?» Mi chiede Greta ridacchiando.
«Uhm... no. Non c'era.»
«Oh... strano. Davvero strano.»
«L'avranno richiamato a casa gli alieni. Finalmente è tornato con i suoi simili.» Afferma Fely masticando un pezzo di arrosto bruciacchiato.
«Oggi provo a ripassare. Ieri sera ho studiato fino a mezzanotte. Il bello è che si aspetta che gli mandi tutto per e-mail, così potrà copiare e incollare le mie ricerche comodamente, senza perdere troppo del suo prezioso tempo. Ma io... » apro lo zaino e sfilo un quaderno stracolmo di fogli e fascicoli.
«Sto facendo tutto a mano! Dovrà riscriversi decine di pagine come un umile scribacchino.» Le ragazze ridono e io me la godo soddisfatta.
«Sei davvero degna di stare nel nostro club. Cinismo gratuito e odio incondizionato. È così che si fa.»
«Ma io non sono cinica e non odio in modo incondizionato.» Greta ribatte e i suoi riccioli sembrano prendere vita.
«Stai calmina... o non ti passerò più la piastra!» Le risponde Fely.
«Ma chi la vuole la tua piastra! Io adoro i miei capelli!»
Durante il loro piacevole battibecco, mi viene in mente che dopo la scuola dovrò accompagnare Beky a svolgere alcune commissioni. Dunque non avrò il tempo di passare dalla biblioteca a mostrare a Samuel il mio bottino di appunti.
«Ragazze... corro un secondo in biblioteca, perché dopo le lezioni passerà subito mia zia a prendermi. Vi lascio lo zaino. Sarò rapidissima!»
«Vai pure!» Mi rispondono, così afferro il quaderno e mi dirigo velocemente al piano inferiore.
Cammino a passi svelti verso la biblioteca deserta, mi addentro tra gli scaffali, supero le sezioni, che ormai conosco a memoria, e svolto verso lo spazio sospeso nel tempo dello studente prodigio.
E che dire.
Non c'è nessuno. La scrivania è spoglia, esattamente come ieri. La luce è spenta e non c'è alcun segno di vita, né aliena né robotica.
Vado all'information-desk e aspetto due minuti, in attesa che la signora Mindy esca dal gabbiotto in legno.
«Oh, buongiorno. Non ti avevo sentita, cara.»
«Buongiorno a lei! Sono passata di qui perché cercavo Samuel... quel ragazzo che... »
«Sì, Samuel... certo. Sai, ti dirò: è il secondo giorno che non lo vedo. Non è passato nemmeno stamattina presto.»
«Succede spesso che si assenti?»
«A dire il vero no... è abbastanza raro. A ogni modo, vuoi lasciargli un messaggio? O un quaderno?» Mi chiede lanciando un'occhiata ai miei appunti.
«No... grazie. Proverò a ripassare domani. Scusi il disturbo.»
«Di nulla, cara. Buona giornata.» Mi sorride e torna nel gabbiotto.
Sta' a vedere che il furbone non si sta presentando a scuola per evitarmi. Se anche domani non si farà vedere, saranno trascorsi i tre giorni e io non potrò consegnargli tutto il mio materiale. Dunque sarò automaticamente esclusa dal progetto, secondo le regole che lui stesso ha stabilito.
Ma che rabbia. Non posso crederci che sia così meschino... è la persona più infantile e puerile che abbia incontrato qui a Whitecliff.
Torno in mensa e racconto l'accaduto alle ragazze, le quali concordano subito con me che questo ragazzo è seriamente disturbato.

Appena la campanella suona, afferro il mio zaino e mi lancio lungo le scale, salutando le ragazze.
Fuori dai cancelli, Beky mi aspetta nella sua decappottabile lucente, con un paio di occhiali da sole larghi quanto il parabrezza. Salgo a bordo e inizia a sfrecciare per le strade della cittadina.
«Devo ritirare due abiti da una sarta e incontrare il mio assistente al parco centrale, per il servizio fotografico di domani.»
«Mi sta bene tutto. Dovrei soltanto tornare a casa in tempo per completare alcune ricerche.»
«Stai tranquilla.» Si volta e mi sorride. Ha un rossetto rosso così intenso che brilla più di quello dei semafori.
L'atelier che deve consegnarci gli abiti è nell'esatto centro della strada principale di Withecliff. Entriamo in pompa magna e mi sento leggermente osservata. Al passaggio di Beky, diverse assistenti alle vendite, eleganti e raffinate, ci salutano con un luccichio agli occhi. Se soltanto avessi immaginato il livello di sciccheria di questo posto, avrei evitato di indossare una felpa con il cappuccio e dei jeans grigini.
«Questa è Mizu, mia nipote.» Afferma mentre bacia sulle guance la donna bassina e impettita che ci attende nel retro. Ha i capelli raccolti a tubo dietro la testa, una veste leggera, di lino, dalle stampe floreali, in tinte pastello, che le nascondono la forma tozza e tondetta. Le manine a punta, sorreggono degli aghi da una parte, un paio di occhiali dall'altra. Quando mi avvicino, infila le sue lenti e mi osserva dal basso verso l'alto.
«Davvero notevole. Fai anche tu la modella?» Mi chiede.
«No... mai fatto nulla del genere.»
«Peccato.» Mi dice sorridendo.
«Ho sempre provato a convincerla, ma nulla. Vuole intraprendere carriere ben più gratificanti.»
«Come darle torto.» La sarta solleva un abito adagiato sul tavolo e lo allunga, per quanto riesce, tra un braccio e l'altro.
«Questo è il primo. Come ti dicevo, ho applicato una piega laterale, per sovrapporre la seta alla tela più rigida. In questo modo fa un gioco molto particolare.»
«Hai ragione. Vogliamo vederlo? Dov'è il manichino?»
«Ma che manichino, fallo indossare a lei!» Afferma divertita, indicandomi con un cenno del viso.
«Io?»
«Sì... perché no! Dai, il camerino è lì.»
Non faccio in tempo a dire la mia che sono già mezza nuda, davanti a uno specchio altissimo. Entrambe mi passano intorno e mi infilano l'abito dalla testa, tirandomelo da tutti i lati. Resto incastrata nella cucitura, poi ci restano i miei capelli, e infine prendo fiato mentre mi stringono una cerniera sulla schiena. Che fatica.
Beky mi fa uscire e salire su un mezzo piedistallo, posto al centro di una saletta tonda, dalle pareti di un leggero rosa antico.
«Sei stupenda. Ne ero convinta.»
Mi guardo allo specchio e resto stranita. Non mi ero mai vista in quel modo, con un abito così particolare: un corpetto mi stringe la vita e mi avvolge il seno, da una stretta cintura parte una gonna rigida, con un profondo spacco laterale; un velo morbido di seta rosso, sovrapposto al tessuto rigido della gonna, dà al vestito una forma e una sinuosità che, da dentro, non si percepisce affatto.
«Penso che potresti fare qualche scatto. Hai il viso adatto. Sei un'interessante combinazione tra un volto occidentale e uno orientale. Ci hai mai pensato?» Mi chiede la donna.
E cosa avrei di interessante? Gli occhi neri e sottili? Il naso piccolo e dritto? O forse la bocca tonda, che sembra sempre imbronciata.
«Dobbiamo fare qualcosa per quelle occhiaie.» Aggiunge Beky, guardandomi con le braccia incrociate.
«È mancanza di sonno!» Mi rimprovera amorevolmente la sarta.
E forse ha ragione.
Chissà quanto sonno ho perduto.

Dopo l'incontro con Martin, l'eccentrico assistente di mia zia, voliamo verso casa e mentre lei mi prepara un sandwich, io sfilo dallo zaino i miei appunti e riparto subito da dove mi ero fermata. Devo recuperare un sacco di tempo perso, ma sono a buon punto.
Domani rintraccerò Samuel e gli scaraventerò davanti tutta la mia roba, così imparerà a sfidarmi.
La nottata si prospetta lunga e Beky mette su un caffè molto concentrato. Si offre di aiutarmi, ma la congedo. È molto stanca e fa persino fatica a girare lo zucchero nel caffè. Mi saluta con un bacio sulla fronte e mi lascia alla mia personale battaglia. Che la ricerca abbia inizio!

Ore 7:55. I gabbiani stanno cantando da un po', ma credo di non averli sentiti.
Sollevo una palpebra e leggo l'ora sull'orologio appeso al muro. La richiudo. Poi salto come un salmone appena pescato e corro in bagno. Mi vesto con gli abiti di ieri, afferro tutta la mia roba e mi catapulto di sotto, rischiando di inciampare e spezzarmi l'osso del collo.
Mentre scendo lungo la collina, a passi lunghi, mastico e butto giù le mie fette biscottate con la marmellata. Samuel sopporterà anche il mio alito di ribes e bacche del Madagascar.
Le prime quattro ore del mattino passano veloci. Ho il volto appesantito dal sonno, ma il racconto dell'abito e della prova fatta nell'atelier della sera prima, accende sia il mio entusiasmo che quello delle ragazze. Entrambe hanno gli occhi foderati di quella seta rossa, riescono persino a sentirne la morbidezza sotto le dita e affermano di invidiarmi in modo spudorato. Dal canto mio, prometto loro che, prima o poi, le poterò con me a fare “dei giri con Beky”.
La campanella suona e io mi carico come un boxeur prima di affrontare il suo avversario sul ring. Sciolgo le spalle e le gambe, indosso il mio zaino, afferro il mio quaderno ancora più spesso e stracolmo di fogli, saluto le ragazze e mi incammino verso la biblioteca. Se penso che questa sarà la mia vita fino alla fine del progetto, mi viene da piangere.
Arrivo nei pressi dell'information-desk e saluto con un cenno la signora Mindy, la quale prova a dirmi qualcosa, ma non ci riesce.
Mi dirigo a passo pesante e deciso verso “il fantastico mondo di Samuel” quando, svoltato il solito angolo tra lo scaffale di letteratura russa e quella ungherese, mi accordo, con estremo disagio e sconforto, che la scrivania è ancora drammaticamente spoglia, le sedie vuote, la luce spenta e un certo flutto d'aria dei condizionatori ha rinfrescato la zona, diversamente riscaldata dalla presenza di un assente Samuel.
Inizio a maledire il professor Clark, poi lo studente prodigio e infine me stessa, per aver accettato di partecipare a questa follia autodistruttiva.
Ma io non mi arrendo. No. Io non getto mai l'ascia di guerra.
Così poggio lo zaino sulla scrivania, lo apro con foga ed estraggo la scheda primaria compilata dal professore, dove sono indicati i dati dei partecipanti al progetto, ovvero nome, cognome e indirizzo.
Nel visualizzare il suo, mi brillano gli occhi. Sono più che determinata. Nemmeno un'apparizione divina può fermarmi.
Risalgo a piano terra velocemente, esco dall'edificio e inizio a cercare con il navigatore, il punto preciso dove vive quel mostro diabolico che chiamano Samuel Hyden.
Scopro che si trova in una zona un po' periferica, spostata verso i boschi dell'entroterra.
Vado alla fermata dell'autobus e leggo, sul tabellone, che la linea numero diciannove passa nei pressi della sua casa.
Attendo mezz'ora, tempo durante il quale provo a mandargli una e-mail. In pratica, dall'ultima mandatami il giorno stesso del nostro primo incontro, lui è completamente scomparso. Non mi ha più contattata, né mi ha mandato altre istruzioni o chiarimenti sul come lavorare al meglio, né si è presentato in alcun locale scolastico.
Il tutto mi snerva e mi lascia basita.
Il pullman arriva e salgo al volo. È vuoto, tranne che per una donna anziana, seduta nel centro, che si tiene alla maniglia del sedile dinnanzi a lei e osserva il paesaggio dal finestrino, manco fosse su una giostra.
Il tragitto è piuttosto lungo. Saliamo lungo la montagna che fa da scudo alla vallata, terminante con le spiagge. La vegetazione è sempre marittima, ma più fitta e intravedo diversi pini e abeti, persino alcuni cipressi. Le strade diventano sterrate, circondate da boschi o recinzioni di legno. Per fortuna il sole non è ancora tramontato, perché è sabato e siamo usciti subito dopo pranzo, per cui ho ancora qualche ora di sole.
Quando arrivo in prossimità dell'indirizzo che cerco, scendo rapidamente e le porte cigolanti si richiudono alle mie spalle. Il pullman riparte e resto completamente sola, nel ben mezzo del nulla.
Il navigatore mi dice di seguire una strada a destra di quella principale, e di cercare l'abitazione dopo circa duecento metri. Faccio esattamente così e, dopo alcuni minuti, mi imbatto in una casetta di legno, immersa nella vegetazione, con un piccolo cortile antistante, raggiungibile con una breve stradina. Sembra una baita di montagna, immersa nel silenzio e sospesa nel tempo, proprio come il suo rifugio nella biblioteca.
Mi avvicino piano. Suppongo che sua madre o suo padre saranno in casa, che vorranno sapere chi sia e soprattutto perché stia cercando loro figlio. Immagino che non siano molti i ragazzi o le ragazze che vengono fin qui a trovarlo. Penseranno che non sono tutta normale.
Più mi avvicino e più ho la sensazione che la casa e tutta la tenuta intorno siano deserti. Non ci sono rumori, se non il fischiettio sporadico di qualche uccellino e un cantare leggerissimo di cicale.
Arrivo ai gradini che portano a un basso soppalco e quindi alla porta di ingresso. Salgo e inizio a cercare il campanello, ma non lo trovo.
Magari busso. Sì, busso.
Sollevo la mano richiusa con le nocche ben sporgenti, ma qualcosa attira la mia attenzione. Da una finestra alla mia sinistra, noto che uno dei fornelli della cucina è acceso e che c'è una pentola sopra, con qualcosa che vi bolle dentro. Deduco, quindi, che ci sia per forza qualcuno in casa. Rifaccio per bussare, ma un dettaglio attira nuovamente il mio sguardo.
C'è qualcosa a terra, sul pavimento della cucina.
Mi avvicino alla finestra e mi faccio ombra con le mani. Osservo bene e sbando subito dopo.
Samuel è a terra.
È a faccia in giù, disteso, come se fosse caduto e fosse rimasto in quella posizione.
Mi sale un certo affanno. Cosa faccio?
Al diavolo l'educazione. Afferro la maniglia della porta e spero che sia aperta.
Incredibile: lo è.
La apro pian piano, infilo la testa e guardo dentro. Non c'è nessuno, ma proprio nessuno.
Allora entro e vado verso la cucina. Trovo Samuel lì, disteso, mentre nella pentola sul fuoco, l'acqua è quasi del tutto evaporata e resta un alone bianco sui bordi.
Mi chino su di lui e gli tocco la fronte, tremando come una foglia. E se fosse morto? E se fossi capitata sul luogo di un delitto? Chi ci crederebbe mai? Chi crederebbe mai che ho rincorso l'uomo senza amici fino a casa sua?
Incredibilmente è caldo, molto caldo. Se non altro è vivo.
Inizio a chiamarlo e scuoterlo. Non sembra avere lividi o ecchimosi.
La sua fronte scotta. Lo rigiro a pancia in su, lo schiaffeggio leggermente ma non risponde. Infine decido di chiamare l'ambulanza. Prendo il telefono e compongo il numero.
Mentre l'operatore mi risponde, vedo che Samuel apre gli occhi e, dopo avermi studiata dalla testa ai piedi, finalmente mi riconosce.
«Pronto.. sì, chiamo perché c'è qui un mio amico che si è sentito male... »
Samuel realizza che ho appena chiamato l'ambulanza e una certa smania lo prende, così violenta da dargli la forza di mettersi seduto e afferrare il bordo dei miei pantaloni.
«Butta giù.» Mi intima. Ma l'operatrice mi sta già chiedendo i particolari.
«Chiudi... chiudi!» Mi urla.
Io balbetto. Non so che fare.
«Vuole dirmi cosa ha avuto? È cosciente o no?» Mi chiede con insistenza la donna.
«Ecco... si è appena svegliato. Non saprei... »
Samuel fa per alzarsi, ma crolla e stavolta mi stringe la caviglia.
«Attacca quel cazzo di telefono!» Il suo tono è perentorio.
Allora obbedisco. Dico all'operatrice che il mio amico si è ripreso e che mi spiace averli disturbati. Chiudo la chiamata e resto lì a fissarlo, come un'ebete.
Non ha la forza di mettersi in piedi, ma l'ambulanza è l'ultima delle cose che avrebbe voluto vedere.
Mi abbasso e gli porgo la mano.
«Ti accompagno al divano, aggrappati.»
A questa proposta non si oppone. Mi metto il suo braccio intorno al collo e facendo forza sulle gambe, lo sollevo. Arriviamo lentamente al divano, dall'altro lato della stanza. Lo aiuto a distendersi e gli allungo una coperta addosso.
Prendo fiato e faccio un lungo sospiro, osservandolo con le mani poggiate sui fianchi.
«Penso tu abbia una febbre molto alta. Hai un termometro? Del paracetamolo e del ghiaccio?»
Gli chiedo, ma Samuel è nuovamente crollato.
Non mi resta che spegnere il fuoco della cucina e rovistare nei cassetti alla ricerca di qualcosa che possa fargli scendere la temperatura.

Ma che razza di sabato è questo?

   
 
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