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Autore: Red Owl    15/04/2020    0 recensioni
Agnese e Caterina non si incontreranno mai, perché le dividono quasi cent'anni di storia. Eppure hanno qualcosa che le accomuna: qualcosa celato nei boschi che circondano il paesino di San Giorgio della Valle, dove entrambe sono cresciute. C'è un segreto antico, nascosto tra i castagni e le vecchie mura di un paesino della montagna lombarda: Agnese ha scelto di dimenticarlo, Caterina, forse, non l'ha mai conosciuto. Verrà però un giorno in cui entrambe dovranno fare i conti con il passato, quando un nemico subdolo e ingannatore verrà a bussare alla loro porta, alla ricerca di qualcosa che soltanto loro possono dargli.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Quasi cent’anni prima

Con le maniche rimboccate fino ai gomiti, Margherita immerge nell’acqua fredda del lavatoio un paio di pesanti pantaloni neri che appartengono a suo padre. Si sforza di non alzare lo sguardo dall’acqua che, da trasparente che era, ha ormai assunto una lattiginosa sfumatura azzurrina a causa di tutta la schiuma di sapone che vi è disciolta. Agnese, intenta a lavare i panni sul lato opposto del lavatoio, le ha chiesto di non guardare a destra e lei, per accontentare la sua imprevedibile amica, non guarda.

«Eccolo!» sussurra ad un tratto la ragazza bionda, con la voce che trema dall’emozione. «È lui!»

A sedici anni, Agnese ha iniziato a interessarsi ai ragazzi. E non a un ragazzo solo, ma a ogni giovane uomo che si fermi a studiarla un po’ più a lungo di quanto non sia strettamente necessario. Reprimendo un sorriso accondiscendente, Margherita interrompe i movimenti metodici con cui sta insaponando una gamba dei pantaloni. «Posso guardare, adesso?» chiede.

«Ma sì, ma sì» annuisce freneticamente la sua amica.

Fingendo indifferenza, la ragazza bruna volta il capo e scruta la strada che, da qualche anno a quella parte, ha preso a riempirsi di automobili, motorini e agili biciclette. Ed è proprio lì, in sella a una bicicletta nuova fiammante, ma con un piede a terra, che vede l’uomo che ha catturato l’interesse di Agnese: l’Aldo Pépp, miracolosamente tornato in patria quando ormai tutti lo davano per morto.

Al termine della guerra, l’Aldo si trovava in Albania ed era stato quindi rimpatriato a bordo di una nave che era sventuratamente naufragata nel cuore del Mediterraneo. Le voci che correvano per il paese raccontavano che il ragazzo, che non sapeva nuotare, aveva creduto di morire e si era rassegnato ad andare a fondo insieme al bastimento. Per sua fortuna, quel giorno si era trovato accanto una sorta di angelo custode: un suo commilitone, tale Raffaele da Otranto, l’aveva convinto ad affidarsi a lui. Che l’Aldo si tuffasse, aveva detto, ci avrebbe poi pensato lui a tenerlo a galla. E così aveva fatto.

Una volta che si era trovato nuovamente con i piedi saldamente piantati sulla terra ferma, l’Aldo aveva insistito per recarsi personalmente in Puglia e per incontrare la famiglia del ragazzo che gli aveva salvato la vita, così da far comprendere ai suoi genitori che razza di figlio eroico avessero. Sfortunatamente, l’Aldo non aveva mai pensato di far avere notizie di sé ai propri, di genitori. Questi, una volta appreso che la nave su cui viaggiava il figlio era colata a picco, l’avevano dato per morto: del resto, l’Aldo e l’acqua non erano mai andati particolarmente d’accordo, e se il giovanotto non aveva mandato nemmeno una lettera, significava che si trovava ormai sul fondo del mare. Si era dunque celebrato un funerale a cui aveva presenziato pure il sindaco e durante il quale una bara tristemente vuota era stata interrata nel cimitero del paese tra la commozione generale.

Nel frattempo, l’Aldo se l’era presa comoda. Si vociferava che le bellezze della Puglia l’avessero stregato, o forse a stregarlo era stata solo una certa Annina, una contadina che il ragazzo menzionava con una certa frequenza. Ciononostante, dopo un paio di mesi aveva sentito la nostalgia di casa e così, senza particolare fretta e senza sospettare che i suoi cari avessero già celebrato il suo funerale, s’era avviato verso nord. In una sera di maggio, aveva fatto un’ultima tappa sul lago per rifocillarsi a forza di polenta e agoni ed era stato lì, in quella Varenna arroccata sul fianco della montagna, che l’aveva trovato la signora Pina Rogantini. La Pina, che era scesa in pianura per far visita a una figlia che lì s’era sposata, se l’era trovato davanti sul lungo lago, l’aveva riconosciuto e per poco non aveva avuto un infarto, credendo di essersi imbattuta in un fantasma.

Rassicurata la comare e appreso quanto era accaduto, l’Aldo era ritornato in valle in pompa magna: per i primi tempi, era stato una sorta di eroe di paese e non poteva mettere il naso fuori di casa senza che qualche suo compaesano si fiondasse su di lui e gli chiedesse di raccontargli i dettagli del suo viaggio di ritorno dall’Albania. Il giovanotto era stato addirittura intervistato da un giornaletto locale, ma poi la sua notorietà era andata scemando.

Ora, al principio dell’estate, l’Aldo è tornato a essere un ragazzo come tanti, ma la sua presenza continua a destare un certo interesse in una determinata categoria di persone: le ragazze nubili.

Non me lo ricordavo così, pensa Margherita, spiandolo da dietro la colonna che sorregge il tetto del lavatoio. Prima di partire per la guerra, l’Aldo era stato un ragazzetto mingherlino e con un viso tormentato dall’acne, mentre adesso, a qualche anno di distanza, è un giovane uomo alto e robusto, con le spalle larghe, la mascella squadrata e un lucente ciuffo di capelli biondi.

La ragazza lo osserva con lo stesso distaccato interesse con cui osserva i dipinti in chiesa. A differenza di Agnese, che si è fatta tutta rossa e si sta già rassettando gli abiti, sistemandosi la camicetta così che questa metta in risalto il seno, lei non prova che una blanda ammirazione nei confronti del ragazzotto. Non è il tipo d’uomo che le interessa. In tutta onestà, non ha ancora capito quale sia il tipo di uomo che le interessa. Forse non le dispiace il fratello maggiore di Agnese, Alberto, che con la sua pelle abbronzata e i suoi tratti mediterranei le fa venire in mente pensieri esotici. Peccato che sia già sposato, si dice. E peccato che il fratello mediano, Giovanni, detto Schvann di Zecch a causa della sua professione di pastore di capre, non gli assomigli più di tanto, né nei colori né nella propensione all’igiene personale.

All’oscuro dei pensieri che stanno passando per la testa dell'amica, Agnese si sporge un po’ al di sopra della vasca del lavatoio e fissa apertamente l’Aldo, sperando forse di attirare la sua attenzione con la mera forza del pensiero. E, caso curioso, la tattica pare funzionare. Sentendosi osservato, il ragazzo si volta verso di loro. Per un istante, i suoi occhi indugiano sulla figura sottile Margherita: sono solo pochi secondi, ma tanto basta perché lei irrigidisca la schiena e pieghi le labbra in una smorfia sdegnosa, un’espressione volta a scoraggiare qualsiasi approccio.

Non lo vede, ma sa che l’Aldo adesso sta sorridendo e, forse, sta scuotendo la testa. Sa cosa pensano di lei, i ragazzotti del paese. Dicono che è bella, ma altezzosa. La Signora, la chiamano: un titolo derisorio, assegnatole solo per canzonarla. Margherita però non se la prende e, anzi, se ne fa un vanto: che la considerino pure una che non è buona per essere corteggiata e sposata, a lei sta solo bene. Non vuole fastidi e non desidera avere attenzioni non richieste.

Davanti al suo atteggiamento ostile, Agnese le rivolge una lunga occhiata di rimprovero che però si dissolve come neve al sole nel momento in cui l'Aldo smonta dalla bicicletta e, afferrandola per il manubrio, si avvicina a loro, gli occhi fissi sulla ragazza bionda.

«Buongiorno, Agnese» le dice con voce suadente e un sorriso che mette in mostra due file di denti sorprendentemente dritti.

«Buondì, Aldo» replica lei, gli occhi bassi come per modestia o timidezza.

Dall'altra parte del lavatoio, Margherita non riesce a nascondere un'espressione scettica. Anche se l'età ha attenuato l'esuberanza infantile di Agnese, sa bene che la ragazza è tutt'altro che timida o modesta: l'atteggiamento pudico che sta esibendo è in realtà civetteria, e Margherita si chiede se l'Aldo se ne renda conto o no.

«Pensavo di venire a trovare tuo fratello Giovanni, un giorno di questi» riprende il ragazzo, senza staccare gli occhi dai riccioli biondi di Agnese. «È da tanto che non lo vedo. Vivete ancora tutti e due con la mamma, vero?»

Agnese annuisce. «Sì. Mio fratello però lo trovi solo di sera, perché di giorno sta dietro alle capre.»

L'Aldo sorride. «Allora vorrà dire che verrò dopo cena» dice, con una strana luce negli occhi chiari. «Adesso che andiamo verso la bella stagione, si possono anche fare delle belle passeggiate prima che faccia notte.»

Nell'udire quelle parole, la ragazza gli rivolge un sorriso che rivela la sua vera personalità. «Mi pare una bellissima idea» approva, incontrando lo sguardo di lui.

Il giovanotto annuisce. «Allora è deciso: ci vediamo una sera di queste. Buona giornata, Agnese.» Il ragazzo fa come per sollevare un cappello che non ha in un cenno di saluto, poi monta nuovamente sulla bicicletta e rivolge un cenno del capo a Margherita. «Signora» le dice, in un tono deferente che sa tanto di sarcasmo.

Quando si è allontanato a sufficienza, Agnese lancia un gridolino e fa un saltello sul posto, stringendosi al petto il pezzo di sapone viscido e scivoloso che ancora ha tra le mani. «È tanto bello, vero?» chiede, cercando l'approvazione di Margherita.

La ragazza mora si stringe nelle spalle. «Immagino di sì» replica con scarso entusiasmo. Per essere bello, l'Aldo è bello, ma Margherita lo trova anche tanto banale, nonostante quel suo rientro in patria così avventuroso.

Sulle ali dell'entusiasmo, Agnese ignora la scarsa partecipazione dimostrata dall'amica, la testa senza dubbio piena di sogni e fantasticherie romantiche. Per i successivi dieci minuti, le due lavano i panni in silenzio, ognuna immersa nei propri pensieri. Margherita è intenta a risciacquare un paio di spesse calze di lana, quando si accorge che Agnese si è immobilizzata e guarda la strada con il sapone ancora stretto nella mano destra.

Sarà tornato l'Aldo? Si chiede la ragazza bruna con una punta di irritazione, ma quando alza il capo e segue lo sguardo dell'amica, si rende conto che l'attenzione di Agnese non è stata attirata dal ragazzo di cui è invaghita. Lì dove prima c'era il giovanotto in sella alla bicicletta, è ora parcheggiata una Fiat rossa fiammante.

Non se ne vedono spesso di automobili così, lì da quelle parti, e lo stomaco della ragazza si contrae in una morsa improvvisa. C'è qualcosa che la pungola all'altezza dello sterno, un vago presentimento che le stringe la gola, ma, sulle prime, Margherita non riesce a dare un nome a quelle ombre. Guarda invece Agnese e vede che la sua fronte liscia è increspata da tre piccole rughe di concentrazione.

Prima che le due ragazze riescano a scambiarsi una sola parola, però, uno degli sportelli dell'automobile si apre e dal veicolo scende quella che alla giovane bruna pare la personificazione di un ricordo. È la Zingara, riconosce Margherita, e per un istante il mondo pare perdere la propria nitidezza.

Sono passati molti anni dall'ultima volta che l'ha vista. Durante uno dei loro ultimi incontri, la donna le ha donato la piccola chiave d'ambra che la fanciulla porta sempre appesa sopra al seno, e poi è svanita nel nulla. È scappata lontano per dare alla luce la sua bambina, ricorda la ragazza, ma i conti non tornano. Perché la Zingara non è sola, ma porta al collo una figuretta scura e ricciuta, un bebè che non può avere più di un anno. La bambina indossa un vestitino di pizzo bianco e rosa che l'identifica come appartenente al sesso femminile, ma Margherita pensa che quella non può essere la creatura che stava per nascere quand'era lei stessa una bimba, perché è troppo piccola. Dovrebbe avere nove o dieci anni, mentre questa ancora non cammina. Con un brivido d'apprensione, la ragazza si chiede se qualcosa sia andato storto: è stata forse una tragedia a tenere lontana quella donna che un tempo l'era stata amica?

Gli occhi della Signora Mursciù – che, a conti fatti, deve chiamarsi Madame Mourchou, come direbbe la sua insegnante di francese – incontrano quelli delle due ragazze, e solo in quell'istante Margherita si rende conto che non sembra invecchiata d'un giorno.

Ma ha l’aria triste. Tanto, tanto triste, e questo nonostante la bambina che si stringe al petto. Margherita vorrebbe dire qualcosa, ma ogni parola che le nasce nella mente pare morirle in gola. Anche Agnese sembra essere diventata improvvisamente muta, solo che il suo volto mostra ancora l'espressione contratta e confusa di poco prima. Nei suoi occhi verdi brilla uno sguardo quasi ostile e la ragazza bruna si rende conto che l'amica non sembra felice di rivedere la Zingara. È tesa, guardinga, e Margherita si chiede il perché. Non le mancavano le loro chiacchierate, quel brivido di fantastico che ora non si sa più spiegare, ma che a sei anni le sembrava così normale?

Chissà poi se quelle cose che ricordo sono successe davvero? Con Agnese non ne parliamo da anni, ormai, e adesso non so più dire se la magia fosse vera, o se ci fosse un trucco e una spiegazione dietro a ogni cosa apparentemente priva di senso.

Non avrebbe dovuto lasciarsi scivolare tra le dita ciò che aveva vissuto da bambina, ma con l'arrivo della guerra il loro mondo era cambiato: avevano dovuto crescere in fretta e non c'era più stato tempo per le fantasticherie. E adesso, forse, è tardi.

La Zingara si passa la bambina da un braccio all'altro e poi si avvicina alle due ragazze. «Margherita» le dice, con la stessa voce morbida che la fanciulla serba ancora nei propri ricordi. «Mi dispiace essere stata via così tanto.» C'è una nota tremula dietro a quelle parole, ma la donna sembra voler fare il possibile per mantenere un tono saldo, senza cedimenti.

Anche se tutta la sua attenzione è concentrata sulla Francesa, con la coda dell'occhio la ragazza bruna nota che Agnese si è irrigidita. Deve averlo notato anche la Signora Mourchou, perché distoglie gli occhi neri da quelli azzurri di Margherita e si rivolge alla giovane bionda. «E Agnese!» esclama, rivolgendole un sorriso amichevole. «Come stai?»

«Non c'è male, grazie» replica Agnese, gelida, e Margherita comprende che l'amica non ha mai veramente accettato la disparità di trattamento che la Zingara ha riservato loro.

La bimba che la donna regge tra le braccia sgambetta impaziente e la madre si china per posarla sulla striscia d'erba selvatica che cresce accanto al lavatoio. La piccola vi atterra con gioia e subito afferra un ciuffetto di parietaria, osservando affascinata le foglie che le rimangono appiccicate alle dita grassocce.

La Signora Mursciù la osserva per qualche istante con gli occhi pieni di tenerezza, poi si avvicina al lavatoio e sfiora con i polpastrelli il legno ruvido delle assi che corrono tutt’attorno alla vasca più bassa. C’è imbarazzo, nel silenzio che per qualche istante regna tra loro, e Margherita si schiarisce la voce. «Come si chiama?» chiede, indicando la bambina che razzola ai loro piedi.

La donna si china appena per spettinare i riccioli scuri della sua creatura. «Flora. Il suo nome è Flora.» Lo pronuncia alla francese, florà, in quella che sembra quasi una capriola lessicale.

Ed è la tua unica figlia? Vorrebbe chiedere Margherita. Che ne è stato dell’altra, quella che stava per nascere quando sei scappata via prima della guerra? «È una bella bambina» dice invece, non osando porre quella domanda.

È solo uno scambio di cortesia che non porta a niente se non ad altro silenzio e la ragazza bruna inizia a sentirsi a disagio. Se ci fosse chiunque altro, davanti a lei, l’avrebbe già invitato ad andarsene e a lasciarle lavorare in pace, ma con la Signora Mursciù – Madame Mourchou! – non può essere sgarbata.

C’è però Agnese, che sembra non farsi remore ad affrontare la questione di petto. «Perché è qui?» chiede, lasciando che la camicia che aveva in mano cada sull’asse con uno sciàf che sembra un colpo di frusta. Per un istante, Margherita crede che l’amica si stia rivolgendo a lei, poi si sente stupida comprendendo che la giovane ha invece usato il lei di cortesia che da bambine ignoravano.

Negli occhi della Zingara passa un lampo smarrito, poi la donna china il capo e il suo volto sembra piegarsi in una maschera di dolore. «Mio marito è morto» dice in un sussurro spezzato.

Agnese la guarda senza mutare espressione, perché lei non l’ha mai conosciuto, il Signor Mursciù, ma Margherita si sente vacillare. Non sa nemmeno lei perché le sembri tanto importante la morte di un uomo con il quale non ha scambiato che poche parole scompagnate: il dolore che prova le pare quasi ingiusto, perché negli anni passati ne sono morte tante, di persone (compreso il papà di Agnese), e non capisce perché quella morte debba essere diversa. Però lo è. Perché il marito della Francesa era grande, scuro e imponente e, ai suoi occhi di bambina, non di questo mondo; e il fatto che sia morto la lascia come spaesata: se uno come lui può morire, chi mai può dirsi al sicuro?

«Mi dispiace» mormora, ma è una frase quasi senza senso, pronunciata da una voce che non le sembra nemmeno la sua.

«Quindi adesso ha intenzione di restare qui?» chiede ancora Agnese, attirandosi l’occhiata perplessa di Margherita. Se prima, mentre civettava con l’Aldo, il suo atteggiamento era simile a quello di una tortorella in amore, adesso c’è un che di volpesco nella piega sottile dei suoi occhi verde pallido.

La Zingara fa il gesto di asciugarsi una lacrima che forse c’è e forse no, poi scuote il capo. «No, non posso» dice. «Devo andare via. Devo portare al sicuro la mia bambina.»

Margherita si chiede se loro l’avessero trovata, quelle persone di cui serba soltanto una memoria indistinta, quegli individui senza volto che l’avevano costretta a scappare dalla Francia e a lasciarsi alle spalle tutte le cose belle che aveva costruito in quel paese al di là delle Alpi. E poi si chiede anche perché sia venuta a cercarle al lavatoio.

«Dove… andrà?» chiede, per un attimo indecisa tra il vecchio tu e il nuovo e più cortese lei. Se da un lato sente che non c’è bisogno di tante formalità tra loro due, dall’altro non vuole offendere Agnese, che invece sembra intenzionata a mantenere le distanze.

Gli occhi della Zingara sembrano farsi ancora più scuri. «Via, lontano» sospira, con la voce che trema ancora un po’. «Non posso rivelarvi il luogo, è meglio che voi non sappiate. Sono passata solo per dirvi addio e per accertarmi che sia tutto a posto.»

La donna non aggiunge altro, ma Margherita capisce benissimo a cosa si sta riferendo. Solleva una mano quasi inconsciamente e posa le dita all’altezza del proprio sterno. I suoi polpastrelli sfiorano la sagoma famigliare della chiave d’ambra e tanto basta perché la Francesa le rivolga un piccolo sorriso di gratitudine. Quasi non si vede, ma la ragazza si sente riempire d’orgoglio. Sì, è stata brava: per dieci anni ha conservato quel piccolo oggetto apparentemente privo di valore. Non ne ha mai fatto parola con nessuno (se non con Agnese, tanti anni prima) e non l’ha mai mostrato a nessuno. Non ha capito perché sia tanto importante, perché la Zingara gliel’abbia affidato e si sia tanto raccomandata, e cionondimeno l’ha conservato come il più prezioso dei tesori.

Ha la sensazione di avere addosso lo sguardo di Agnese, ma quando alza gli occhi vede che l’amica sta fissando la Zingara, una mano sul fianco e l’altra sull’asse per lavare i panni. La conosce bene, l’espressione disegnata sul volto della ragazza: sta pensando che la Francesa si sia trattenuta fin troppo a lungo e che adesso possa anche andarsene.

Perché la odio tanto? Si chiede Margherita, infastidita. È davvero per la storia della chiave, oppure c’è dell’altro?

Come in cerca di risposte, la giovane lascia che il suo sguardo corra verso l’automobile dalla quale è scesa la donna e sussulta. C’è qualcun altro, lì, un conducente che fino a quel momento aveva ignorato. L’uomo incrocia i suoi occhi e Margherita sente il cuore accelerare i battiti.

Quasi fosse stato richiamato dall’occhiata della ragazza, l’uomo apre la portiera e scende dalla Fiat rossa, avvicinandosi a loro a grandi passi. Margherita lo riconosce subito, anche perché non è che ne abbia visti molti, di uomini come lui: è l’amico della Zingara, quello dalla pelle scura che tanti anni prima aveva preso un fazzoletto grigio e l’aveva trasformato in un medaglione. Lei è cresciuta, ma per qualche motivo le sembra ancora più imponente di quanto non le sembrasse da bambina: si scopre a fissarlo a bocca aperta e a notare che nemmeno lui, al pari della Signora Mursciù, sembra invecchiato. Solo i suoi abiti sono cambiati e sembrano essersi fatti un po’ meno eleganti di quelli che ricordava.

Quando raggiunge il lavatoio, la Zingara allunga una mano e gli stringe brevemente un braccio. “Vi ricordate di lui, vero?” chiede, rivolta alle due ragazze.

Quelle annuiscono in silenzio e sul volto dell’uomo compare un sorriso gentile. “State bene?” chiede. Si rivolge a entrambe, ma per qualche motivo il suo sguardo sembra indugiare su Margherita.

Vuole sapere anche lui se la chiave è al sicuro, pensa la ragazza, portandosi nuovamente una mano allo sterno e premendo il palmo contro l’oggetto che porta appeso al collo. I loro occhi si incontrano ancora e quelli di lui sembrano farsi più caldi, quasi nascondessero un sorriso che solo lei può vedere. La giovane china il capo, mentre sulle sue gote compare un rossore che spera che nessuno noti. Le piace, quello sguardo.

L’uomo cinge con un braccio le spalle della Zingara e la attira contro il suo fianco. Margherita si ritrova in mano il sapone senza nemmeno rendersi conto di averlo afferrato, mentre una sensazione mai provata prima le morde lo stomaco e la costringe a fissare l’acqua lattiginosa. Non le piace che tocchi così la Francesa. Non le piace che la Francesa si lasci toccare così da lui. C’è qualcosa tra di loro? L’idea non l’ha mai sfiorata prima, perché lei era troppo piccola per badare a quelle cose e perché comunque l’aveva vista insieme a suo marito, ma adesso… adesso

“Vi ha spiegato che lei e Flora dovranno andare via, giusto?” chiede l’uomo, spostando i suoi occhi caldi sulla donna al suo fianco.

“Sì, ce l’ha detto.” È Agnese a rispondere e Margherita non riesce a rammaricarsi del tono distaccato con cui la sua amica ha parlato.

L’uomo fa un piccolo cenno d’assenso. “Io le accompagnerò nella loro nuova casa”, dice, “ma poi tornerò qui, così che, se avrete bisogno di me, io potrò aiutarvi.”

“Non darai un po’ troppo nell’occhio?” chiede ancora la ragazza bionda. Ha usato il ‘lei’ per rivolgersi alla Zingara, ma a lui dà del ‘tu’, nota Margherita. La cosa la disturba un po’, anche se non sa spiegarsi il perché.

L’uomo sorride, ma il suo sorriso sembra un po’ tirato, come se non fosse del tutto sincero. Forse Agnese non gli è molto simpatica. “Ho imparato da tempo a non dare troppo nell’occhio” ribatte. “Non devi preoccuparti per me.”

Margherita lo guarda di sottecchi e non riesce a soffocare la domanda che le si affaccia sulla punta della lingua. “Come la dobbiamo chiamare?”

L’uomo si volta appena verso di lei. “Il mio nome è Hasim” dice. “Puoi chiamarmi così.”

“Hasim” ripete la giovane bruna. È un nome strano, che però le sembra tanto semplice da pronunciare.

Uno sciabordio improvviso la costringe a riscuotersi dai suoi pensieri. Agnese sta ritirando i panni che aveva drappeggiato sul lungo bastone di legno lasciato in ammollo nella vasca superiore del lavatoio. Senza nemmeno strizzarli, li getta nel catino, fradici e pesanti per l’acqua che li inzuppa. Margherita la guarda con gli occhi sgranati. “Cosa stai facendo?”

La ragazza bionda le punta addosso quei suoi occhi che adesso sembrano di pietra verde. “Si sta facendo tardi. Dovremmo tornare a casa. O, se non altro, io devo farlo: c’è il pranzo da preparare.” Una stoccatina, quest’ultima, fatta apposta per ricordare a Margherita che i suoi compiti a casa non si esauriscono con l’occasionale puntata al lavatoio.

“Scusate” sussurra la Zingara, liberandosi dalla stretta dell’uomo e piegandosi per prendere in braccio la bambina che adesso le sta strattonando la gonna. “Vi stiamo facendo far tardi?”

No, vorrebbe dire Margherita, ma l’espressione che passa sul volto della sua amica le fa morire le parole in gola. Agnese non sembra solo infastidita, ora, sembra quasi… preoccupata? È una reazione strana, che non sa spiegarsi e che la fa sentire come in sospeso tra due lealtà: deve stare dalla parte di Agnese o da quella della Signora Mursciù? Una volta non c’era differenza, pensa con rammarico. Una volta stavano tutte e due dalla stessa parte.

La ragazza non dice nulla, ma i due adulti sembrano capire. La Francesa annuisce con espressione grave e poi posa una mano sul braccio di Agnese. Sul suo volto passa un’ombra di tristezza e per una frazione di secondo Margherita pensa che la donna stia per dire qualcosa di importante. Ma è solo un attimo e le labbra della Zingara, che per un istante si erano schiuse, tornano a serrarsi. “Buona fortuna, piccola mia” mormora, prima di girare attorno al lavatoio e raggiungere Margherita.

La giovane bruna abbassa il capo. C’è qualcosa che le stringe la gola impedendole di respirare e di parlare liberamente, di pronunciare quelle parole che nemmeno lei conosce, ma che sente che dovrebbe davvero dire perché, se non lo fa ora, non ci sarà una seconda occasione. La donna la abbraccia e, quando la stringe a sé, Margherita respira il suo profumo buono, che la fa tornare con la mente a quand’era bambina. Quella vera, di bambina, stacca una manina dal collo della madre e la porta sul capo della ragazza, accarezzandola quasi con indulgenza.

Sorpresa da quel contatto, Margherita reclina il capo all’indietro e incontra gli occhi di Flora, seri e profondi. Con due dita sfiora la guancia vellutata della bimba. «Buona fortuna» le dice con la voce che trema un po’.

«Anche a te, Margherita» risponde la Zingara, stringendole brevemente un braccio. «Fai attenzione e, se avrai bisogno di aiuto, fidati di Hasim.»

La ragazza annuisce, ma una punta di irritazione le punge lo stomaco. Perché dovrei aver bisogno di aiuto? Vorrebbe chiederle. A che cosa devo fare attenzione? Si rende conto che la donna non ha mai risposto a quelle domande. Anni prima, quando le aveva affidato la chiave, le aveva detto che a tempo debito tutto si sarebbe chiarito, ma sono ormai passati dieci anni e non si è chiarito proprio niente. Però capisce che non è quello il momento giusto per insistere: la Signora Mursciù ha fretta di andare via, adesso, e poi c’è Agnese. Che, chissà perché, non deve sapere niente.

La giovane sposta lo sguardo sull’uomo e gli rivolge un piccolo sorriso. Bene, vorrà dire che chiederà spiegazioni a lui, quando tornerà in paese. Quella prospettiva la riempie il petto di un calorino curioso.

«Addio, bambine» fa ancora la Zingara, allontanandosi di qualche passo. «No… ragazze. Margherita, Agnese.»

La giovane bionda annuisce seccamente e con la mano le rivolge un cenno di saluto, prima di sollevare il pesante catino che dovrà riportare a casa. Ha il capo chino e i riccioli chiari le schermano il volto, impedendo a Margherita di scorgere la sua espressione.

«Addio, Signora…» la ragazza bruna esita. «Madame…»

«Nalowen» pronuncia lentamente la Zingara. «Mi chiamo così.»

«Addio, Nalowen» ripete Margherita con una stretta al cuore.

 

PS. La vicenda di Aldo non me la sono inventata: ricalca, almeno a grandi linee, quella vissuta da un vecchietto del mio paese.

 

   
 
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