Quasi
cent’anni prima
Con
le maniche rimboccate fino ai gomiti, Margherita immerge
nell’acqua fredda del
lavatoio un paio di pesanti pantaloni neri che appartengono a suo
padre. Si
sforza di non alzare lo sguardo dall’acqua che, da
trasparente che era, ha
ormai assunto una lattiginosa sfumatura azzurrina a causa di tutta la
schiuma
di sapone che vi è disciolta. Agnese, intenta a lavare i
panni sul lato opposto
del lavatoio, le ha chiesto di non guardare a destra e lei, per
accontentare la
sua imprevedibile amica, non guarda.
«Eccolo!»
sussurra ad un tratto la ragazza bionda, con la voce che trema
dall’emozione.
«È lui!»
A
sedici anni, Agnese ha iniziato a interessarsi ai ragazzi. E non a un
ragazzo
solo, ma a ogni giovane uomo che si fermi a studiarla un po’
più a lungo di
quanto non sia strettamente necessario. Reprimendo un sorriso
accondiscendente,
Margherita interrompe i movimenti metodici con cui sta insaponando una
gamba
dei pantaloni. «Posso guardare, adesso?» chiede.
«Ma
sì, ma sì» annuisce freneticamente la
sua amica.
Fingendo
indifferenza, la ragazza bruna volta il capo e scruta la strada che, da
qualche
anno a quella parte, ha preso a riempirsi di automobili, motorini e
agili
biciclette. Ed è proprio lì, in sella a una
bicicletta nuova fiammante, ma con
un piede a terra, che vede l’uomo che ha catturato
l’interesse di Agnese:
l’Aldo Pépp, miracolosamente
tornato in patria quando ormai tutti lo
davano per morto.
Al
termine della guerra, l’Aldo si trovava in Albania ed era
stato quindi
rimpatriato a bordo di una nave che era sventuratamente naufragata nel
cuore
del Mediterraneo. Le voci che correvano per il paese raccontavano che
il
ragazzo, che non sapeva nuotare, aveva creduto di morire e si era
rassegnato ad
andare a fondo insieme al bastimento. Per sua fortuna, quel giorno si
era
trovato accanto una sorta di angelo custode: un suo commilitone, tale
Raffaele
da Otranto, l’aveva convinto ad affidarsi a lui. Che
l’Aldo si tuffasse, aveva
detto, ci avrebbe poi pensato lui a tenerlo a galla. E così
aveva fatto.
Una
volta che si era trovato nuovamente con i piedi saldamente piantati
sulla terra
ferma, l’Aldo aveva insistito per recarsi personalmente in
Puglia e per
incontrare la famiglia del ragazzo che gli aveva salvato la vita,
così da far
comprendere ai suoi genitori che razza di figlio eroico avessero.
Sfortunatamente, l’Aldo non aveva mai pensato di far avere
notizie di sé ai
propri, di genitori. Questi, una volta appreso che la nave su cui
viaggiava il
figlio era colata a picco, l’avevano dato per morto: del
resto, l’Aldo e
l’acqua non erano mai andati particolarmente
d’accordo, e se il giovanotto non
aveva mandato nemmeno una lettera, significava che si trovava ormai sul
fondo
del mare. Si era dunque celebrato un funerale a cui aveva presenziato
pure il
sindaco e durante il quale una bara tristemente vuota era stata
interrata nel
cimitero del paese tra la commozione generale.
Nel
frattempo, l’Aldo se l’era presa comoda. Si
vociferava che le bellezze della
Puglia l’avessero stregato, o forse a stregarlo era stata
solo una certa
Annina, una contadina che il ragazzo menzionava con una certa
frequenza.
Ciononostante, dopo un paio di mesi aveva sentito la nostalgia di casa
e così,
senza particolare fretta e senza sospettare che i suoi cari avessero
già
celebrato il suo funerale, s’era avviato verso nord. In una
sera di maggio,
aveva fatto un’ultima tappa sul lago per rifocillarsi a forza
di polenta e
agoni ed era stato lì, in quella Varenna arroccata sul
fianco della montagna,
che l’aveva trovato la signora Pina Rogantini. La Pina, che
era scesa in
pianura per far visita a una figlia che lì s’era
sposata, se l’era trovato
davanti sul lungo lago, l’aveva riconosciuto e per poco non
aveva avuto un
infarto, credendo di essersi imbattuta in un fantasma.
Rassicurata
la comare e appreso quanto era accaduto, l’Aldo era ritornato
in valle in pompa
magna: per i primi tempi, era stato una sorta di eroe di paese e non
poteva
mettere il naso fuori di casa senza che qualche suo compaesano si
fiondasse su
di lui e gli chiedesse di raccontargli i dettagli del suo viaggio di
ritorno
dall’Albania. Il giovanotto era stato addirittura
intervistato da un
giornaletto locale, ma poi la sua notorietà era andata
scemando.
Ora,
al principio dell’estate, l’Aldo è
tornato a essere un ragazzo come tanti, ma
la sua presenza continua a destare un certo interesse in una
determinata
categoria di persone: le ragazze nubili.
Non
me lo ricordavo così, pensa Margherita, spiandolo
da dietro la colonna che
sorregge il tetto del lavatoio. Prima di partire per la guerra,
l’Aldo era
stato un ragazzetto mingherlino e con un viso tormentato
dall’acne, mentre
adesso, a qualche anno di distanza, è un giovane uomo alto e
robusto, con le
spalle larghe, la mascella squadrata e un lucente ciuffo di capelli
biondi.
La
ragazza lo osserva con lo stesso distaccato interesse con cui osserva i
dipinti
in chiesa. A differenza di Agnese, che si è fatta tutta
rossa e si sta già
rassettando gli abiti, sistemandosi la camicetta così che
questa metta in
risalto il seno, lei non prova che una blanda ammirazione nei confronti
del
ragazzotto. Non è il tipo d’uomo che le interessa.
In tutta onestà, non ha
ancora capito quale sia il tipo di uomo che le interessa. Forse non le
dispiace
il fratello maggiore di Agnese, Alberto, che con la sua pelle
abbronzata e i
suoi tratti mediterranei le fa venire in mente pensieri esotici. Peccato
che
sia già sposato, si dice. E peccato che il
fratello mediano, Giovanni,
detto Schvann di Zecch a causa della sua
professione di pastore di
capre, non gli assomigli più di tanto, né nei
colori né nella propensione
all’igiene personale.
All’oscuro
dei pensieri che stanno passando per la testa dell'amica, Agnese si
sporge un
po’ al di sopra della vasca del lavatoio e fissa apertamente
l’Aldo, sperando
forse di attirare la sua attenzione con la mera forza del pensiero. E,
caso
curioso, la tattica pare funzionare. Sentendosi osservato, il ragazzo
si volta
verso di loro. Per un istante, i suoi occhi indugiano sulla figura
sottile Margherita:
sono solo pochi secondi, ma tanto basta perché lei
irrigidisca la schiena e
pieghi le labbra in una smorfia sdegnosa, un’espressione
volta a scoraggiare
qualsiasi approccio.
Non
lo vede, ma sa che l’Aldo adesso sta sorridendo e, forse, sta
scuotendo la
testa. Sa cosa pensano di lei, i ragazzotti del paese. Dicono che
è bella, ma
altezzosa. La Signora, la chiamano: un titolo
derisorio, assegnatole
solo per canzonarla. Margherita però non se la prende e,
anzi, se ne fa un
vanto: che la considerino pure una che non è buona per
essere corteggiata e
sposata, a lei sta solo bene. Non vuole fastidi e non desidera avere
attenzioni
non richieste.
Davanti
al suo atteggiamento ostile, Agnese le rivolge una lunga occhiata di
rimprovero
che però si dissolve come neve al sole nel momento in cui
l'Aldo smonta dalla
bicicletta e, afferrandola per il manubrio, si avvicina a loro, gli
occhi fissi
sulla ragazza bionda.
«Buongiorno,
Agnese» le dice con voce suadente e un sorriso che mette in
mostra due file di
denti sorprendentemente dritti.
«Buondì,
Aldo» replica lei, gli occhi bassi come per modestia o
timidezza.
Dall'altra
parte del lavatoio, Margherita non riesce a nascondere un'espressione
scettica.
Anche se l'età ha attenuato l'esuberanza infantile di
Agnese, sa bene che la
ragazza è tutt'altro che timida o modesta: l'atteggiamento
pudico che sta
esibendo è in realtà civetteria, e Margherita si
chiede se l'Aldo se ne renda
conto o no.
«Pensavo
di venire a trovare tuo fratello Giovanni, un giorno di
questi» riprende il
ragazzo, senza staccare gli occhi dai riccioli biondi di Agnese.
«È da tanto
che non lo vedo. Vivete ancora tutti e due con la mamma,
vero?»
Agnese
annuisce. «Sì. Mio fratello però lo
trovi solo di sera, perché di giorno sta
dietro alle capre.»
L'Aldo
sorride. «Allora vorrà dire che verrò
dopo cena» dice, con una strana luce
negli occhi chiari. «Adesso che andiamo verso la bella
stagione, si possono
anche fare delle belle passeggiate prima che faccia notte.»
Nell'udire
quelle parole, la ragazza gli rivolge un sorriso che rivela la sua vera
personalità. «Mi pare una bellissima
idea» approva, incontrando lo sguardo di
lui.
Il
giovanotto annuisce. «Allora
è deciso: ci
vediamo una sera di queste. Buona giornata, Agnese.» Il
ragazzo fa come per
sollevare un cappello che non ha in un cenno di saluto, poi monta
nuovamente
sulla bicicletta e rivolge un cenno del capo a Margherita. «Signora»
le
dice, in un tono deferente che sa tanto di sarcasmo.
Quando
si è allontanato a sufficienza, Agnese lancia un gridolino e
fa un saltello sul
posto, stringendosi al petto il pezzo di sapone viscido e scivoloso che
ancora
ha tra le mani. «È tanto bello, vero?»
chiede, cercando l'approvazione di
Margherita.
La
ragazza mora si stringe nelle spalle. «Immagino di
sì»
replica con scarso entusiasmo. Per essere bello, l'Aldo
è bello, ma
Margherita lo trova anche tanto banale, nonostante quel suo rientro in
patria
così avventuroso.
Sulle
ali dell'entusiasmo, Agnese ignora la scarsa partecipazione dimostrata
dall'amica, la testa senza dubbio piena di sogni e fantasticherie
romantiche.
Per i successivi dieci minuti, le due lavano i panni in silenzio,
ognuna
immersa nei propri pensieri. Margherita è intenta a
risciacquare un paio di
spesse calze di lana, quando si accorge che Agnese si è
immobilizzata e guarda
la strada con il sapone ancora stretto nella mano destra.
Sarà
tornato l'Aldo? Si chiede la ragazza bruna con una punta di
irritazione, ma
quando alza il capo e segue lo sguardo dell'amica, si rende conto che
l'attenzione di Agnese non è stata attirata dal ragazzo di
cui è invaghita. Lì
dove prima c'era il giovanotto in sella alla bicicletta, è
ora parcheggiata una
Fiat rossa fiammante.
Non
se ne vedono spesso di automobili così, lì da
quelle parti, e lo stomaco della
ragazza si contrae in una morsa improvvisa. C'è qualcosa che
la pungola
all'altezza dello sterno, un vago presentimento che le stringe la gola,
ma,
sulle prime, Margherita non riesce a dare un nome a quelle ombre.
Guarda invece
Agnese e vede che la sua fronte liscia è increspata da tre
piccole rughe di
concentrazione.
Prima
che le due ragazze riescano a scambiarsi una sola parola,
però, uno degli
sportelli dell'automobile si apre e dal veicolo scende quella che alla
giovane
bruna pare la personificazione di un ricordo. È la
Zingara, riconosce
Margherita, e per un istante il mondo pare perdere la propria nitidezza.
Sono
passati molti anni dall'ultima volta che l'ha vista. Durante uno dei
loro
ultimi incontri, la donna le ha donato la piccola chiave d'ambra che la
fanciulla porta sempre appesa sopra al seno, e poi è svanita
nel nulla. È
scappata lontano per dare alla luce la sua bambina, ricorda
la ragazza, ma
i conti non tornano. Perché la Zingara non è
sola, ma porta al collo una
figuretta scura e ricciuta, un bebè che non può
avere più di un anno. La
bambina indossa un vestitino di pizzo bianco e rosa che l'identifica
come
appartenente al sesso femminile, ma Margherita pensa che quella non
può essere
la creatura che stava per nascere quand'era lei stessa una bimba,
perché è
troppo piccola. Dovrebbe avere nove o dieci anni, mentre
questa ancora non
cammina. Con un brivido d'apprensione, la ragazza si chiede
se qualcosa sia
andato storto: è stata forse una tragedia a tenere lontana
quella donna che un
tempo l'era stata amica?
Gli
occhi della Signora Mursciù – che, a conti fatti,
deve chiamarsi Madame
Mourchou, come direbbe la sua insegnante di francese
– incontrano quelli
delle due ragazze, e solo in quell'istante Margherita si rende conto
che non
sembra invecchiata d'un giorno.
Ma
ha
l’aria triste. Tanto, tanto triste, e questo nonostante la
bambina che si
stringe al petto. Margherita vorrebbe dire qualcosa, ma ogni parola che
le
nasce nella mente pare morirle in gola. Anche Agnese sembra essere
diventata
improvvisamente muta, solo che il suo volto mostra ancora l'espressione
contratta e confusa di poco prima. Nei suoi occhi verdi brilla uno
sguardo
quasi ostile e la ragazza bruna si rende conto che l'amica non sembra
felice di
rivedere la Zingara. È tesa, guardinga, e Margherita si
chiede il perché. Non
le mancavano le loro chiacchierate, quel brivido di fantastico che ora
non si
sa più spiegare, ma che a sei anni le sembrava
così normale?
Chissà
poi se quelle cose che ricordo sono successe davvero? Con Agnese non ne
parliamo da anni, ormai, e adesso non so più dire se la
magia fosse vera, o se
ci fosse un trucco e una spiegazione dietro a ogni cosa apparentemente
priva di
senso.
Non
avrebbe dovuto lasciarsi scivolare tra le dita ciò che aveva
vissuto da
bambina, ma con l'arrivo della guerra il loro mondo era cambiato:
avevano
dovuto crescere in fretta e non c'era più stato tempo per le
fantasticherie. E
adesso, forse, è tardi.
La
Zingara si passa la bambina da un braccio all'altro e poi si avvicina
alle due
ragazze. «Margherita»
le dice, con la stessa voce morbida che la fanciulla serba ancora nei
propri
ricordi. «Mi dispiace essere stata via così
tanto.» C'è una nota tremula dietro
a quelle parole, ma la donna sembra voler fare il possibile per
mantenere un
tono saldo, senza cedimenti.
Anche se tutta la sua attenzione
è concentrata sulla Francesa,
con la coda dell'occhio la ragazza bruna nota che Agnese si
è irrigidita. Deve
averlo notato anche la Signora Mourchou, perché distoglie
gli occhi neri da
quelli azzurri di Margherita e si rivolge alla giovane bionda.
«E Agnese!» esclama,
rivolgendole un sorriso amichevole. «Come
stai?»
«Non c'è male,
grazie» replica Agnese, gelida, e Margherita
comprende che l'amica non ha mai veramente accettato la
disparità di
trattamento che la Zingara ha riservato loro.
La bimba che la donna regge tra le
braccia sgambetta
impaziente e la madre si china per posarla sulla striscia d'erba
selvatica che
cresce accanto al lavatoio. La piccola vi atterra con gioia e subito
afferra un
ciuffetto di parietaria, osservando affascinata le foglie che le
rimangono
appiccicate alle dita grassocce.
La Signora Mursciù la
osserva per qualche istante con gli
occhi pieni di tenerezza, poi si avvicina al lavatoio e sfiora con i
polpastrelli il legno ruvido delle assi che corrono
tutt’attorno alla vasca più
bassa. C’è imbarazzo, nel silenzio che per qualche
istante regna tra loro, e
Margherita si schiarisce la voce. «Come si chiama?»
chiede, indicando la bambina che razzola
ai loro piedi.
La donna si china appena per
spettinare i riccioli scuri della sua creatura. «Flora. Il
suo nome è Flora.»
Lo pronuncia alla francese, florà, in
quella che sembra quasi una
capriola lessicale.
Ed è la tua unica figlia? Vorrebbe chiedere Margherita.
Che ne è stato dell’altra, quella che
stava per nascere quando sei scappata
via prima della guerra? «È una bella
bambina» dice invece, non osando porre
quella domanda.
È solo uno scambio di
cortesia
che non porta a niente se non ad altro silenzio e la ragazza bruna
inizia a
sentirsi a disagio. Se ci fosse chiunque altro, davanti a lei,
l’avrebbe già
invitato ad andarsene e a lasciarle lavorare in pace, ma con la Signora
Mursciù
– Madame Mourchou!
– non può essere sgarbata.
C’è
però Agnese, che sembra non farsi remore ad affrontare la
questione di petto. «Perché
è qui?» chiede, lasciando che la
camicia che aveva in mano cada sull’asse con uno sciàf
che sembra un
colpo di frusta. Per un istante, Margherita crede che l’amica
si stia rivolgendo
a lei, poi si sente stupida comprendendo che la giovane ha invece usato
il lei
di cortesia che da bambine ignoravano.
Negli
occhi della Zingara passa un lampo smarrito, poi la donna china il capo
e il
suo volto sembra piegarsi in una maschera di dolore. «Mio
marito è morto» dice in un sussurro spezzato.
Agnese la guarda senza mutare espressione,
perché lei non l’ha mai conosciuto, il Signor
Mursciù, ma Margherita si sente
vacillare. Non sa nemmeno lei perché le sembri tanto
importante la morte di un
uomo con il quale non ha scambiato che poche parole scompagnate: il
dolore che
prova le pare quasi ingiusto, perché negli anni passati ne
sono morte tante, di
persone (compreso il papà di Agnese), e non capisce
perché quella morte debba
essere diversa. Però lo è. Perché il
marito della Francesa era grande, scuro e
imponente e, ai suoi occhi di bambina, non di questo mondo; e il fatto
che sia
morto la lascia come spaesata: se uno come lui
può morire, chi mai può
dirsi al sicuro?
«Mi dispiace» mormora, ma
è una frase
quasi senza senso, pronunciata da una voce che non le sembra nemmeno la
sua.
«Quindi adesso ha intenzione di restare
qui?» chiede ancora Agnese, attirandosi l’occhiata
perplessa di Margherita. Se
prima, mentre civettava con l’Aldo, il suo atteggiamento era
simile a quello di
una tortorella in amore, adesso c’è un che di volpesco
nella piega
sottile dei suoi occhi verde pallido.
La Zingara fa il gesto di asciugarsi una
lacrima che forse c’è e forse no, poi scuote il
capo. «No, non posso» dice.
«Devo andare via. Devo portare al sicuro la mia
bambina.»
Margherita si chiede se loro
l’avessero trovata, quelle persone di cui serba soltanto una
memoria
indistinta, quegli individui senza volto che l’avevano
costretta a scappare
dalla Francia e a lasciarsi alle spalle tutte le cose belle che aveva
costruito
in quel paese al di là delle Alpi. E poi si chiede anche
perché sia venuta a
cercarle al lavatoio.
«Dove…
andrà?» chiede, per un attimo
indecisa tra il vecchio tu e il nuovo e
più cortese lei. Se da un
lato sente che non c’è bisogno di tante
formalità tra loro due, dall’altro non
vuole offendere Agnese, che invece sembra intenzionata a mantenere le
distanze.
Gli occhi della Zingara sembrano farsi
ancora più scuri. «Via, lontano»
sospira, con la voce che trema ancora un po’.
«Non posso rivelarvi il luogo, è meglio che voi
non sappiate. Sono passata solo
per dirvi addio e per accertarmi che sia tutto a posto.»
La donna non aggiunge altro, ma Margherita
capisce benissimo a cosa si sta riferendo. Solleva una mano quasi
inconsciamente e posa le dita all’altezza del proprio sterno.
I suoi
polpastrelli sfiorano la sagoma famigliare della chiave
d’ambra e tanto basta
perché la Francesa le rivolga un piccolo sorriso di
gratitudine. Quasi non si vede,
ma la ragazza si sente riempire d’orgoglio. Sì,
è stata brava: per dieci anni
ha conservato quel piccolo oggetto apparentemente privo di valore. Non
ne ha
mai fatto parola con nessuno (se non con Agnese, tanti anni prima) e
non l’ha
mai mostrato a nessuno. Non ha capito perché sia tanto
importante, perché la
Zingara gliel’abbia affidato e si sia tanto raccomandata, e
cionondimeno l’ha
conservato come il più prezioso dei tesori.
Ha
la
sensazione di avere addosso lo sguardo di Agnese, ma quando alza gli
occhi vede
che l’amica sta fissando la Zingara, una mano sul fianco e
l’altra sull’asse
per lavare i panni. La conosce bene, l’espressione disegnata
sul volto della
ragazza: sta pensando che la Francesa si sia trattenuta fin troppo a
lungo e
che adesso possa anche andarsene.
Perché
la odio tanto? Si chiede Margherita, infastidita. È
davvero per la
storia della chiave, oppure c’è
dell’altro?
Come
in cerca di risposte, la giovane lascia che il suo sguardo corra verso
l’automobile dalla quale è scesa la donna e
sussulta. C’è qualcun altro, lì, un
conducente che fino a quel momento aveva ignorato. L’uomo
incrocia i suoi occhi
e Margherita sente il cuore accelerare i battiti.
Quasi
fosse stato richiamato dall’occhiata della ragazza,
l’uomo apre la portiera e
scende dalla Fiat rossa, avvicinandosi a loro a
grandi passi. Margherita
lo riconosce subito, anche perché non è che ne
abbia visti molti, di uomini
come lui: è l’amico della Zingara, quello dalla
pelle scura che tanti anni
prima aveva preso un fazzoletto grigio e l’aveva trasformato
in un medaglione.
Lei è cresciuta, ma per qualche motivo le sembra ancora
più imponente di quanto
non le sembrasse da bambina: si scopre a fissarlo a bocca aperta e a
notare che
nemmeno lui, al pari della Signora Mursciù, sembra
invecchiato. Solo i suoi
abiti sono cambiati e sembrano essersi fatti un po’ meno
eleganti di quelli che
ricordava.
Quando
raggiunge il lavatoio, la Zingara allunga una mano e gli stringe
brevemente un
braccio. “Vi ricordate di lui, vero?” chiede,
rivolta alle due ragazze.
Quelle
annuiscono in silenzio e sul volto dell’uomo compare un
sorriso gentile. “State
bene?” chiede. Si rivolge a entrambe, ma per qualche motivo
il suo sguardo
sembra indugiare su Margherita.
Vuole
sapere anche lui se la chiave è al sicuro, pensa
la ragazza, portandosi
nuovamente una mano allo sterno e premendo il palmo contro
l’oggetto che porta
appeso al collo. I loro occhi si incontrano ancora e quelli di lui
sembrano
farsi più caldi, quasi nascondessero un sorriso che solo lei
può vedere. La
giovane china il capo, mentre sulle sue gote compare un rossore che
spera che
nessuno noti. Le piace, quello sguardo.
L’uomo
cinge con un braccio le spalle della Zingara e la attira contro il suo
fianco.
Margherita si ritrova in mano il sapone senza nemmeno rendersi conto di
averlo
afferrato, mentre una sensazione mai provata prima le morde lo stomaco
e la
costringe a fissare l’acqua lattiginosa. Non le piace che
tocchi così la
Francesa. Non le piace che la Francesa si lasci toccare
così da lui. C’è
qualcosa tra di loro? L’idea non l’ha mai sfiorata
prima, perché lei era troppo
piccola per badare a quelle cose e perché comunque
l’aveva vista insieme a suo
marito, ma adesso… adesso…
“Vi
ha spiegato che lei e Flora dovranno andare via, giusto?”
chiede l’uomo,
spostando i suoi occhi caldi sulla donna al suo fianco.
“Sì,
ce l’ha detto.” È Agnese a rispondere e
Margherita non riesce a rammaricarsi
del tono distaccato con cui la sua amica ha parlato.
L’uomo
fa un piccolo cenno d’assenso. “Io le
accompagnerò nella loro nuova casa”,
dice, “ma poi tornerò qui, così che, se
avrete bisogno di me, io potrò
aiutarvi.”
“Non
darai un po’ troppo nell’occhio?” chiede
ancora la ragazza bionda. Ha usato
il ‘lei’ per rivolgersi alla Zingara, ma a lui
dà del ‘tu’, nota
Margherita. La cosa la disturba un po’, anche se non sa
spiegarsi il perché.
L’uomo
sorride, ma il suo sorriso sembra un po’ tirato, come se non
fosse del tutto
sincero. Forse Agnese non gli è molto simpatica.
“Ho imparato da tempo a non
dare troppo nell’occhio” ribatte. “Non
devi preoccuparti per me.”
Margherita
lo guarda di sottecchi e non riesce a soffocare la domanda che le si
affaccia
sulla punta della lingua. “Come la dobbiamo
chiamare?”
L’uomo
si volta appena verso di lei. “Il mio nome è
Hasim” dice. “Puoi chiamarmi
così.”
“Hasim”
ripete la giovane bruna. È un nome strano, che
però le sembra tanto semplice da
pronunciare.
Uno
sciabordio improvviso la costringe a riscuotersi dai suoi pensieri.
Agnese sta
ritirando i panni che aveva drappeggiato sul lungo bastone di legno
lasciato in
ammollo nella vasca superiore del lavatoio. Senza nemmeno strizzarli,
li getta
nel catino, fradici e pesanti per l’acqua che li inzuppa.
Margherita la guarda
con gli occhi sgranati. “Cosa stai facendo?”
La
ragazza bionda le punta addosso quei suoi occhi che adesso sembrano di
pietra
verde. “Si sta facendo tardi. Dovremmo tornare a casa. O, se
non altro, io devo
farlo: c’è il pranzo da preparare.” Una
stoccatina, quest’ultima, fatta apposta
per ricordare a Margherita che i suoi compiti a casa non si esauriscono
con
l’occasionale puntata al lavatoio.
“Scusate”
sussurra la Zingara, liberandosi dalla stretta dell’uomo e
piegandosi per
prendere in braccio la bambina che adesso le sta strattonando la gonna.
“Vi
stiamo facendo far tardi?”
No,
vorrebbe dire Margherita, ma l’espressione che passa sul
volto della sua amica
le fa morire le parole in gola. Agnese non sembra solo infastidita,
ora, sembra
quasi… preoccupata? È una
reazione strana, che non sa spiegarsi e che la
fa sentire come in sospeso tra due lealtà: deve stare dalla
parte di Agnese o
da quella della Signora Mursciù? Una volta non
c’era differenza, pensa
con rammarico. Una volta stavano tutte e due dalla stessa
parte.
La
ragazza non dice nulla, ma i due adulti sembrano capire. La Francesa
annuisce
con espressione grave e poi posa una mano sul braccio di Agnese. Sul
suo volto
passa un’ombra di tristezza e per una frazione di secondo
Margherita pensa che
la donna stia per dire qualcosa di importante. Ma è solo un
attimo e le labbra
della Zingara, che per un istante si erano schiuse, tornano a serrarsi.
“Buona
fortuna, piccola mia” mormora, prima di girare attorno al
lavatoio e
raggiungere Margherita.
La
giovane bruna abbassa il capo. C’è qualcosa che le
stringe la gola impedendole
di respirare e di parlare liberamente, di pronunciare quelle parole che
nemmeno
lei conosce, ma che sente che dovrebbe davvero dire perché,
se non lo fa ora,
non ci sarà una seconda occasione. La donna la abbraccia e,
quando la stringe a
sé, Margherita respira il suo profumo buono, che la fa
tornare con la mente a
quand’era bambina. Quella vera, di bambina, stacca una manina
dal collo della
madre e la porta sul capo della ragazza, accarezzandola quasi con
indulgenza.
Sorpresa
da quel contatto, Margherita reclina il capo all’indietro e
incontra gli occhi
di Flora, seri e profondi. Con due dita sfiora la guancia vellutata
della bimba.
«Buona fortuna» le dice
con la voce
che trema un po’.
«Anche a te, Margherita»
risponde la
Zingara, stringendole brevemente un braccio. «Fai attenzione
e, se avrai
bisogno di aiuto, fidati di Hasim.»
La ragazza annuisce, ma una punta di
irritazione le punge lo stomaco. Perché dovrei
aver bisogno di aiuto? Vorrebbe
chiederle. A che cosa devo fare attenzione? Si
rende conto che la donna
non ha mai risposto a quelle domande. Anni prima, quando le aveva
affidato la
chiave, le aveva detto che a tempo debito tutto si sarebbe chiarito, ma
sono
ormai passati dieci anni e non si è chiarito proprio niente.
Però capisce che
non è quello il momento giusto per insistere: la Signora
Mursciù ha fretta di
andare via, adesso, e poi c’è Agnese. Che,
chissà perché, non deve sapere
niente.
La giovane sposta lo sguardo sull’uomo e
gli rivolge un piccolo sorriso. Bene, vorrà dire che
chiederà spiegazioni a
lui, quando tornerà in paese. Quella prospettiva la riempie
il petto di un
calorino curioso.
«Addio, bambine» fa ancora la
Zingara,
allontanandosi di qualche passo. «No… ragazze.
Margherita, Agnese.»
La giovane bionda annuisce seccamente e con
la mano le rivolge un cenno di saluto, prima di sollevare il pesante
catino che
dovrà riportare a casa. Ha il capo chino e i riccioli chiari
le schermano il
volto, impedendo a Margherita di scorgere la sua espressione.
«Addio, Signora…» la
ragazza bruna esita. «Madame…»
«Nalowen» pronuncia lentamente
la Zingara.
«Mi chiamo così.»
«Addio, Nalowen» ripete
Margherita con una
stretta al cuore.
PS.
La vicenda di Aldo non me la sono inventata: ricalca, almeno a grandi
linee,
quella vissuta da un vecchietto del mio paese.