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Autore: Fire Gloove    16/04/2020    5 recensioni
Sabbia di ferro. Un materiale grezzo, scuro, amaro, volatile. Il rapporto tra i due migliori portieri che la Generazione d’Oro del calcio giapponese abbia da offrire, un po’ ci somiglia. Sono separati da dissapori alimentati da anni di competizione senza esclusione di colpi. Distanti e disinteressati, come granelli di sabbia.
Poi però qualcosa cambia d’improvviso: il ritorno di Genzo in Giappone potrebbe mettere in discussione un sacco di cose.
Perché, in fondo, è proprio dalla sabbia di ferro che si parte per creare un acciaio meraviglioso come quello della lama di una katana.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Genzo Wakabayashi/Benji, Kojiro Hyuga/Mark, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Iron Sand & co'
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Solitudine

 

 

 

 

La luce dell’alba avvolgeva la stanza come un velo di tulle, rendendo l’atmosfera sfumata e smussando gli angoli più duri dell’esistenza. Ken se ne stava seduto al centro del pavimento nella posizione del loto, concentrandosi solo sull’aria che ritmicamente entrava e usciva dai polmoni, facendolo sentire vivo. La mente era sgombra: i pensieri se ne stavano ritirati negli angoli del suo cervello, come una pacifica mandria che aspettava di essere lasciata uscire al pascolo. Li avrebbe liberati a breve, e la giornata avrebbe avuto inizio, ma per il momento si concentrava solo sul calore del sole che gli illuminava il viso, e sull’energia che traeva dal respiro. Era con sua madre che aveva preso l’abitudine di meditare, la mattina presto. Ricordava ancora la meraviglia che l’aveva pervaso, a sette anni, la prima volta che Eiko gli aveva mostrato come respirare correttamente, come riconnettersi con l’anima dell’universo – così l’aveva definita lei. Finché aveva vissuto a casa, il nascere del giorno li aveva sempre trovati insieme, davanti alla grande finestra della veranda, a godersi la reciproca compagnia e a ritornare in equilibrio col mondo. Durante gli anni dell’adolescenza, complice il fatto che vivesse all’Accademia Toho e che spesso avesse attorno i suoi compagni di squadra, aveva dovuto mettere in pausa quell’abitudine, riuscendo a dedicarsi alla meditazione solo in qualche momento particolarmente tranquillo, ma ora che viveva da solo aveva ripreso a farlo ogni mattina. Lo aiutava a cominciare la giornata con più serenità, e gli Dei solo sapevano quanto ne avesse bisogno.

Una sinfonia di strumenti a fiato proveniente dal cellulare lo avvisò che era il momento di mettersi in movimento. Con un ultimo profondo respiro aprì gli occhi e si alzò con scioltezza, stiracchiandosi come un gatto che era stato immobile per troppo tempo. La prima cosa che notò quando riprese contatto con questo piano dell’esistenza, fu che aveva un leggero mal di testa che nemmeno meditando era riuscito a scacciare, e si rimproverò per essersi fermato a casa del portiere dell’Amburgo fino a così tardi, la sera prima, e di aver bevuto tutta quella birra. Aveva dormito un paio d’ore meno del solito, e ora il suo corpo glie lo stava facendo notare. La cena, però, era stata meno spiacevole di quanto avesse pensato, quello lo dovette ammettere. In gran parte era stato merito di Morisaki, che come al solito si era dimostrato una compagnia piacevole e rilassante, però anche Wakabayashi era riuscito a non essere completamente sgradevole. Ken ripensò alla loro conversazione su Star Wars, e ancora una volta se ne stupì. Gli sfuggì un sorriso al pensiero della faccia che avrebbe fatto Kojiro quando gli avrebbe raccontato che forse, in fondo in fondo, il loro più accanito rivale era un ragazzo normale, e non un cyborg programmato per rendere la loro esistenza un inferno come invece avevano sempre pensato.

Continuando a ripercorrere gli eventi della sera prima nella sua testa, il ragazzo svolse tutta la sua routine mattutina, e dopo una mezz’ora fu pronto per uscire. 

Nei giorni feriali, aveva preso l’abitudine di fare colazione in una piccola sala da tè a gestione familiare vicino al campo dove si allenava con i Grampus. Era un ambiente raccolto, con bassi tavolini di legno e morbidi cuscini, e la mattina presto era solitamente quasi vuoto, particolare che lo rendeva perfetto agli occhi del portiere. Quel giorno scelse di sedersi in fondo alla sala, accanto alla grande finestra. Era come se il suo corpo gli stesse dicendo che aveva bisogno che fosse l’energia del sole a portargli il ristoro che non era riuscito a trovare a sufficienza durante la notte.

“Wakashimazu-kun! Buongiorno, ti porto il solito?”

La cameriera, figlia dei proprietari, era una ragazza graziosa, che con dolcezza e perseveranza era riuscita ad aprirsi uno spiraglio nelle difese del portiere, tanto da essersi guadagnata il diritto di appellarlo in maniera informale e, ogni tanto, quando il lavoro glie lo permetteva, di sedersi al tavolo con lui a fare due chiacchiere.

“Sì, grazie, Fujii-san.”

La giovane tornò dopo pochi minuti con una tazza di tè verde e un piattino con due mochi alla marmellata di ciliegia. Si fermò a un paio di passi dal tavolo a osservare il ragazzo, che aveva da subito fatto colpo su di lei. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Con quei lineamenti delicati, i lunghi capelli color dell’ebano e il fisico alto e slanciato, era veramente bellissimo. In più, il locale era frequentato per la maggior parte da persone di mezza età, o addirittura da anziani, e non le capitava spesso di avere un coetaneo con cui scambiare due chiacchiere durante le ore di lavoro. Certo, riuscire a entrare un minimo in confidenza con lui non era stato facile, ma proprio per questo lo riteneva un risultato prezioso. Con lo scorrere dei mesi, la sciocca infatuazione che le era presa la prima volta che aveva posato lo sguardo su di lui era passata, ed era stata sostituita da un’incredibile voglia di entrare in sintonia con lui, di capire perché i suoi occhi grigi fossero sempre velati da quell’accenno di tristezza. Si riscosse da quei pensieri, e ringraziò che il giovane fosse troppo occupato a godersi il tepore del sole per aver notato come lo osservava: si era fatta l’idea che con un tipo così bastasse il minimo passo falso perché si richiudesse nel suo guscio, e voleva assolutamente evitare che ciò accadesse. Chiuse la distanza che la separava dal tavolino e poggiò con delicatezza la tazza e i dolci davanti a Ken, che si riscosse e la ringraziò con un sorriso e un cenno del capo. Kiyo decise che quella mattina non fosse il caso di trattenersi, il ragazzo sembrava troppo assorto nei suoi pensieri, e così gli rivolse un inchino accennato e tornò ad aiutare sua madre in cucina.

“Dal modo in cui sorridi, immagino sia arrivato il tuo avventore preferito.”

Per la signora Fujii la figlia era sempre stata un libro aperto.

“Se vuoi fermarti al suo tavolo a fare due chiacchiere, per me non è un problema, posso ancora cavarmela da sola qui.”

“No mamma, tranquilla. Oggi non mi sembra che sia giornata, non voglio essere invadente. È sempre così pensieroso…”

“Non è forse quello che ti incuriosisce di lui, bambina?”

“Sì, ma sento che se forzassi la mano, perderei tutti i progressi fatti in questi mesi. Chiamalo istinto femminile… riuscirò a capire quando sarà il momento giusto per forzare le sue ultime difese, vedrai.”

“Oh sì, non ho dubbi, mia cara. Non sei mai stata il tipo da arrenderti davanti a una sfida. A proposito di sfide, vieni a finire di montare questi albumi, che il mio povero polso da vecchia non riesce più a starci dietro!”

Ignaro di essere al centro delle chiacchiere di madre e figlia, Ken beveva il suo tè, che stava riuscendo nell’impresa di fargli passare il mal di testa, e coi pensieri continuava a tornare allo sguardo che Wakabayashi gli aveva rivolto per buona parte della loro cena condivisa: inizialmente aveva pensato fosse animosità, ma allora perché chiedergli se gli andasse di vedersi, qualche volta? Non riusciva proprio a sciogliere il mistero dietro a quegli occhi neri che gli erano rimasti incollati addosso per ore, dandogli un po’ di tregua solo quando Morisaki riusciva ad attirare la sua attenzione con una battuta o un aneddoto sui bei tempi andati. Perso in quella riflessione, non si rese conto del tempo che passava, e quando il suo sguardo si posò sullo schermo del cellulare, per poco non gli prese un colpo: all’inizio degli allenamenti mancavano meno di dieci minuti. In fretta, pagò e uscì: gli sarebbe toccato prendere la strada principale per andare al campo, e farlo anche con una certa fretta, se voleva arrivare in tempo. Gettò un’occhiata malinconica alla stradina laterale ombreggiata dagli alberi che percorreva di solito e si incamminò attraverso la calca del mattino, sentendo tutta la serenità che erano riusciti a infondergli il tè e la meditazione evaporare in fretta nel calore di fine agosto. 

Riuscì comunque ad arrivare al campo perfettamente in orario, e si unì ai suoi compagni di squadra che si erano radunati per ascoltare le indicazioni di mister Okada: la partita contro il Consadole Sapporo si stava avvicinando, e gli allenamenti sarebbero dunque stati adattati alle strategie di gioco degli avversari. Dopo un’oretta di riscaldamento ed esercizi a terra, fu il momento di una serie di partite brevi, durante le quali le composizioni delle squadre furono rimescolate spesso: con sua grande soddisfazione, Ken riuscì a mantenere la porta inviolata per tutta la mattina. La sensazione positiva fu però macchiata dagli sguardi che gli lanciarono i compagni, che sembravano quasi risentiti dalla sua bravura. Wakashimazu sapeva da dove derivasse quel sentimento: l’offerta della dirigenza del Nagoya Grampus gli era arrivata perché il precedente portiere, che era anche stato capitano della squadra per quasi un decennio, aveva dovuto ritirarsi in anticipo a causa di un brutto infortunio, e gli altri giocatori sembravano non volersi rassegare a questo evento. Non aiutava il fatto che avessero quasi tutti dai ventiquattro anni in su, e che quindi trovassero ancora più snervante il fatto che il portiere che aveva sostituito il loro leader fosse poco più che un liceale. Aggiungendo a questo il carattere schivo del giovane, il risultato non era dei più promettenti. In campo, durante le partite, erano riusciti a trovare una quadra che gli permettesse di giocare bene, ma il legame personale tra di loro faticava a crearsi. Ken si trovava spesso a rimpiangere i tempi della scuola, quando non solo faceva parte di un gruppo affiatato e compatto, ma ne era anche uno degli elementi chiave. Gli scappò un profondo sospiro: ma perché la vita continuava a metterlo in situazioni in cui c’era l’ombra di un portiere quasi mitico che gli aleggiava attorno, facendolo sentire in difetto?

Fu con questo pensiero in testa che concluse gli allenamenti. Sentì gli altri atleti fare programmi per pranzare tutti insieme, e non si sorprese quando l’invito non gli venne esteso. Rientrò a casa di pessimo umore, e senza nemmeno mangiare, malgrado lo stomaco brontolasse e il corpo gli chiedesse un rifornimento di energie, dopo gli sforzi della mattinata, andò a stendersi sul futon, nella speranza di riuscire a recuperare il sonno perduto, insieme a un briciolo di serenità mentale.

Lo svegliò qualche ora dopo la vibrazione del cellulare, che gli era rimasto in tasca nel momento in cui si era addormentato. Un sorriso genuino gli si disegnò sulle labbra quando vide la foto di Takeshi sullo schermo.

“Ehi, Sawada.”

“Ohi, buonasera. Che è ‘sto tono dall’oltretomba?”

“Mh, mi ero addormentato. Ieri sera ho fatto tardi.”

“Ah, sì, la cena con Wakabayashi. Il Capitano me l’aveva accennato.”

“Cos’è, voleva mandarti qui per sventare il disastro?”

Il sorriso sul volto del portiere si ampliò al pensiero della conversazione dai toni catastrofisti che dovevano aver avuto Hyuga e Sawada sull’argomento.

Dall’altro lato della linea, Takeshi scoppiò a ridere.

“Qualcosa del genere. Quando gli ho risposto che sei abbastanza grande per cavartela da solo, mi ha dato del disertore.”

“Sì, era giusto un pochino preoccupato. Sembra sempre dimenticarsi che è lui quello con problemi di gestione della rabbia, non io.”

“Lo sai che con noi gli piace fare la mamma chioccia. Fa tanto il burbero, ma sotto sotto è buono, ed esce di testa all’idea di essere lontano e di non potersi assicurare in prima persona del fatto che stiamo bene. Poi, per te ha sempre avuto un occhio di riguardo…”

Ken si trovò a dovergli dare ragione. Per quanto l’affetto che legava Kojiro al più giovane dei Toho Boys fosse più che sincero, il rapporto che aveva con lui era più intimo… la loro amicizia, negli anni, era arrivata a essere profonda quanto un legame di sangue. 

“Comunque, come vanno le cose lì? Con i tuoi compagni di squadra va meglio?”

“Purtroppo no…”

Ci fu qualche istante di silenzio.

“Ken, non voglio risultare ripetitivo, ma non puoi stare sempre da solo. Lo sai anche tu che ti fa male…”

“Takeshi, che vuoi che ti dica?! Lo sai che per me è difficile.”

Il tono gli uscì più brusco di quanto avrebbe voluto, e sentì distintamente il ragazzo dall’altro capo della cornetta trattenere il respiro.

“Scusami… è stata una giornata lunga. È che mi sento un po’ solo.”

“Oh, Ken, lo so. Purtroppo io sono super incasinato con la preparazione degli esami di ammissione per l’università, se no lo sai che salterei sul primo treno per Nagoya.”

“Non preoccuparti, tu. Pensa a studiare. Io me la caverò. Non posso stare sempre a contare su di te e sul Capitano per rimettere insieme i brandelli della mia salute mentale.”

Il tono del portiere cercò di convogliare una sicurezza che non sentiva affatto. Non voleva assolutamente che il suo pensiero fosse un peso per gli amici, avevano entrambi cose molto più importanti su cui concentrarsi.

“Comunque noi ci siamo, e questo lo sai. Ora devo andare, ma ti scrivo più tardi. Ok?”

“Okay, ci sentiamo dopo.”

Quando la chiamata si chiuse, Ken si alzò stiracchiandosi e andò in cucina a scaldare l’acqua per un tè. Sapeva che avrebbe dovuto mangiare qualcosa, ma non riuscì a trovare la forza per imporsi di cucinare. Appoggiato al bancone della cucina, si perse a osservare la luce del tramonto che tingeva il mondo di rosso, e si chiese se sarebbe più riuscito a trovare dentro di sé quello stesso calore che ora vedeva brillare al di fuori della finestra. Sapeva che il primo passo per farlo sarebbe stato trovare dei nuovi amici lì a Nagoya, perché se avesse continuato a poter contare solo su Kojiro e Takeshi, sarebbe rimasto incastrato nel passato, il che a lungo andare sarebbe diventato deleterio, gli effetti se ne stavano già facendo sentire. Percorrendo quella linea di pensiero, gli venne in mente prima il volto sorridente di Kiyo Fujii, e poi l’espressione indecifrabile di Wakabayshi, e sospirò nel pensare che le strade per uscire da quell’isolamento autoimposto non fossero poi così difficili da scorgere. Quella sera però proprio non ce l’aveva la forza per cominciare a percorrerle. Sarebbe mai riuscito a trovarla?

 

***

 

La scritta Wakabayashi Motors campeggiava a grandi lettere rosse e nere sopra l’ingresso del complesso di capannoni nella zona industriale di Nagoya.

Genzo trasse un profondo respiro e si sistemò per l’ennesima volta il nodo della cravatta. Se avesse dovuto fare una lista dei posti in cui meno avrebbe voluto essere nell’universomondo, la sua posizione attuale sarebbe stata molto in alto. Forse giusto l’inferno si sarebbe trovato a competere per essere in cima alla classifica. Forse, eh.

Con un ultimo improperio incastrato tra i denti, il giovane fece il suo ingresso nella hall, una sala rettangolare con un bancone dal piano di acceso plexiglass rosso e divanetti e tavolini bassi lungo le pareti, intervallati da piante ornamentali di varie fogge. All’accoglienza era seduta una ragazza vestita di un elegante tailleur nero, con lo stemma della ditta ricamato sul bavero della giacca, che lo accolse con un sorriso.

“Buongiorno. Posso esserle utile?”

Ancora una volta, il portiere si trovò a dover resistere alla tentazione di girare i tacchi e andarsene – ‘fanculo al volere di suo padre – e di nuovo trasse un profondo respiro e si trattenne.

“Buongiorno. Wakabayashi Genzo, immagino di essere atteso.”

Nel rivolgersi alla receptionist, sfoderò il suo miglior sorriso, sperando che riuscisse a mascherare il suo scombussolamento interiore. Non sapeva se a vincere, nella battaglia che si stava svolgendo nelle sue viscere, fosse l’incazzatura o l’ansia, ma nessuna delle due sembrava intenzionata a cedere, al momento. Fortuna che era sempre stato bravo a nascondere le proprie emozioni. 

A sentire il suo nome, la ragazza sgranò gli occhi, iniziando a profondersi in una serie di inchini.

“Wakabayashi-sama, mi perdoni, non l’avevo riconosciuta. Venga, la accompagno di sopra, suo fratello la sta aspettando.”

L’umore di Genzo, che era in caduta libera da quando si era svegliato, se possibile peggiorò ancora. Era ovvio che il vecchiaccio avrebbe mandato uno dei due eredi modello a fargli da cane pastore, come aveva potuto non pensarci? Le porte dell’ascensore si aprirono con un sonoro ding e la ragazza, che non poteva essere più di due o tre anni più vecchia di lui, lo accompagnò fino a una delle sale riunioni, per poi accomiatarsi con un inchino. Genzo si sistemò la cravatta, fece un profondo respiro, e aprì la porta come se stesse scostando il tendone di un sipario, entrando ufficialmente nella pantomima che la sua famiglia aveva deciso di imporgli. La prima cosa che vide fu una figura di spalle, che scrutava fuori dalla finestra. 

“Prima regola: lascia tutta la tua strafottenza fuori da quella porta, perché qui non sei un cazzo di nessuno.”

La voce di Keiji era fredda, tagliente, e il portiere avrebbe giurato di averci sentito una traccia di divertimento.

Il fratello si girò a guardarlo, e sì, eccola, proprio lì, dipinta sul sorrisetto sarcastico che era un po’ il segno distintivo della famiglia.

“Il cognome di papà non servirà a farti avere un trattamento di favore. Me ne assicurerò io stesso.”

“Te la sei studiata, questa scena, eh? Cos’è, viene dal manuale “Mille modi di essere un fratello di merda”? O era “Come rendere la vita impossibile al prossimo e vivere felici”?”

“Pensavo che sul campo da calcio ti avessero insegnato almeno ad ascoltare le direttive, ma evidentemente invece è stata un’esperienza completamente inutile. Poco male, ti abituerai in fretta al mondo dei grandi, fratellino.”

L’ultima parola era ricoperta da un tale strato di cattiveria, che Genzo ebbe l’impressione di sentirla gocciolare per terra. Nel campo di battaglia del suo stomaco, la rabbia passò in netto vantaggio sull’ansia, e gli uscì in un rigurgito velenoso.

“Almeno io ho un talento. Se ne hai bisogno, ti presto un vocabolario per cercarne il significato.”

Keiji si irrigidì vistosamente, e gli rivolse uno sguardo carico di risentimento. Per un attimo ebbe l’impressione che volesse tirargli un pugno, ma poi la scintilla che aveva acceso le iridi scure si affievolì, e sulle labbra ritornò quell’odioso sorriso.

“Ne riparleremo tra un paio di settimane, bamboccio.”

Con queste parole, lo prese per un braccio e lo spinse fuori della sala riunioni. Varcata la soglia, sembrò che il mondo assumesse un’altra sfumatura. Tutta l’animosità sparì dal volto del più grande dei due fratelli, e anche Genzo adottò un atteggiamento più rilassato, almeno all’apparenza. Per quanto potessero scannarsi in privato, il fatto di comportarsi in modo rispettabile in pubblico ce l’avevano impresso nel DNA, come una sorta di imprinting. Il portiere ebbe un moto di disgusto verso se stesso al pensiero che parte degli insegnamenti della famiglia avesse attecchito anche su di lui.

Fecero il giro dell’azienda, e Keiji gli spiegò nel dettaglio tutto ciò di cui si occupava quella particolare sede: dai rapporti coi fornitori e coi clienti, alla parte più tecnica di progettazione. Visto da fuori, poteva sembrare un’insegnante attento e solerte, ma in realtà stava instillando nella sua esposizione quanta più pedanteria e quanto più disprezzo possibili, cercando di far sentire il fratello un idiota, e cercando di fare in modo che anche tutti i dipendenti dell’azienda si facessero quell’idea su di lui.

Il tour durò parecchie ore, e quando finirono l’ora di pranzo era passata da un pezzo.

“Io devo tornare a Tokyo, ho una riunione con papà e Hiro riguardo ad alcuni affari importanti. Ti lascio nelle mani sapienti di Nishimura-san: è il caporeparto per quanto riguarda i rapporti con le altre aziende del settore. Mi raccomando, fratellino.”

Di nuovo quel termine… avrebbe potuto sembrare una frase amorevole, ma l’unica immagine che suscitò a Genzo fu quella di una vasca piena di serpenti velenosi.

Quando suo fratello lasciò l’azienda, fu proprio il signor Nishimura ad avvicinarlo.

“Bene, giovanotto. Mettiamoci al lavoro.”

Il portiere si girò a guardarlo e fu sorpreso dal non trovare cattiveria nello sguardo dell’uomo, quanto piuttosto una profonda serietà, unita a un pizzico di qualcosa che il ragazzo non riuscì a definire.

 

***

 

La porta di casa si chiuse con un tonfo alle sue spalle, e Genzo scivolò a sedere sul divano senza nemmeno togliersi la giacca. Era esausto. L’immagine di se stesso davanti alle porte della ditta di famiglia gli sembrava risalire ad almeno un millennio prima, invece che a quella stessa mattina. La testa pulsava in modo atroce, e lo stomaco brontolò con veemenza, a ricordargli che ancora non aveva cenato. Dopo la partenza di Keiji, aveva passato il pomeriggio a familiarizzare con le varie aziende con cui collaboravano, cercando di imparare una serie di dati sulle forniture e le consegne che dopo un paio d’ore avevano cominciato a incrociarglisi davanti agli occhi, smettendo di avere alcun senso. Nishimura-san si era dimostrato un insegnante molto esigente, e non l’aveva lasciato tornare a casa finché non era stato in grado di fargli quantomeno un riassunto per macro-aree di tutto ciò di cui si occupava la sezione di Nagoya della Wakabayashi Motors, riuscendo ad azzeccare i nomi dei collaboratori e i dati sulle vendite senza esitare. Erano rimasti solo loro due in azienda, molto oltre l’orario di chiusura.

Quando finalmente l’uomo, scrutandolo da dietro le lenti degli occhiali tondi e da sopra i folti baffi grigi che lo facevano sembrare più vecchio dei suoi cinquantacinque anni, si era detto soddisfatto, il grande orologio a muro della hall segnava le nove e mezza di sera. Contando la mezz’ora di macchina per tornare a casa, il portiere calcolò che fossero passate più di quattordici ore da quando era uscito quella mattina.

Si guardò attorno nell’appartamento buio – non aveva avuto nemmeno l’energia di accendere la luce, prima che le sue gambe cedessero – e sentì un profondo senso di solitudine invaderlo. E dire che erano anni che viveva da solo… eppure ad Amburgo sapeva di avere sempre almeno un paio di buoni amici a un colpo di telefono di distanza. Lì, nell’immensità di quella città sconosciuta, in un paese per il quale sentiva un qualche senso di appartenenza solo quando indossava la maglia della Nazionale, non c’era nessuno che fosse pronto a portargli conforto, a dirgli che sì, certo, non c’erano problemi a incontrarsi per una birra anche con così poco preavviso. 

Sfilò il cellulare dalla tasca e lo schermo luminoso gli restituì la stessa risposta datagli tutte le sere intercorse tra la rimpatriata tra portieri e quel momento: Wakashimazu non si era fatto sentire. Forse avrebbe dovuto ingoiare l’orgoglio e scrivergli lui, pensò. Ma prima che potesse elaborare del tutto quell’idea, le palpebre si fecero troppo pesanti per essere tenute aperte e lui sprofondò in un sonno profondo popolato di incubi con la sembianza di Keiji.

 

 

Notine notose: Non posso scrivere sempre cose allegre, no? Ma... dal prossimo capitolo la storia cambia ritmo, quindi brace yourself.

Grazie mille per essere arrivati fin qui!

 

 

 

   
 
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