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Autore: Adele Emmeti    16/04/2020    1 recensioni
La Fuga non è un rimedio, ma un tentativo di allontanarsi dalla fonte primaria del proprio dolore.
E Mizu lo sa bene, perché lei sta fuggendo da un torto assoluto, da un male gratuito e ingiustificato, da un'ingiustizia silenziosa ma lacerante. Lifeline è il racconto del suo lento percorso di rinascita, della sua sofferta risalita, dell'insieme di amore e gentilezza che nuovi e vecchi amici sono in grado di fornire.
Perché tutti, prima o poi, hanno bisogno di un'ancora di salvezza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ok.
Ho appena rovistato nei cassetti della cucina, in quelli del mobiletto su cui è sistemato il televisore e in una sorta di gabbiotto vicino la porta d'ingresso, ma non ho trovato alcun tipo di farmaco. Dovrei provare a guardare nel resto della casa, ma sono pur sempre una sconosciuta; è la seconda volta che vedo questa persona in vita mia e se contassi il numero totale di parole che ci siamo rivolti, non arriverei a cento.
Mi siedo su una poltroncina, di fianco al divano, e mi limito a fissarlo. Cosa posso fare? Se andassi a comprargli dei farmaci con l'autobus, tra l'attesa alla fermata e il viaggio di andata e ritorno, si farebbe notte e non sarei più sicura di poter tornare a casa.
Ci sono! Ma certo... mio padre mi diede un piccolo kit di pronto-soccorso da tenere nello zaino, con cerotti, garze, disinfettante e alcuni farmaci d'emergenza.
Afferro lo zaino e cerco nelle tasche laterali. Mio padre ha sempre provveduto a rifornire sia me che la mamma di questi stupendi kit. Infilo le dita più in fondo possibile e, dopo un assorbente e un pacchetto di liquirizie, lo trovo.
All'interno distinguo immediatamente una bustina di paracetamolo, di quelle da sciogliere in bocca. Ma come lo sveglio? E come lo convinco ad assumere una polvere di cui non sa la provenienza?
Ok, mi serve dell'acqua. Prendo un bicchiere, lo riempio dal rubinetto e dissolvo la polverina al suo interno..
Mi avvicino a lui e provo a svegliarlo, punzecchiandogli una spalla.
Quando il mio punzecchiare diventa una sorta di scuotimento, mi accorgo che prende coscienza e dischiude gli occhi.
«Ecco... sono sempre io. Ho qui del paracetamolo, per farti abbassare la febbre. Ti aiuto a berlo.»
Incredibilmente mi ascolta e beve tutto quel liquido biancastro, dal gusto terribile.
Poi si accascia di nuovo. Ha il respiro accelerato e il volto paonazzo; è sudato e ha le labbra asciutte.
Torno in cucina e cerco degli strofinacci puliti. Ne ho visti alcuni nel secondo cassetto a destra. Con un leggero imbarazzo per la dimestichezza assunta in questo ambiente a me estraneo, prendo lo strofinaccio e lo bagno con dell'acqua fredda. Poi glielo adagio sulla fronte.
Mugugna qualcosa e stringe le mani sotto la coperta, ma poi si acquieta.
Resto ferma a fissarlo.
Che sia stato così male in tutti e tre i giorni di assenza?
Forse è per questo che non è venuto a scuola. E io che l'ho odiato dal profondo del mio cuore...
Ti ho odiato e disprezzato, Samuel. E tu eri qui, con la febbre alta.
Mi allungo leggermente sul divanetto. Posso aspettare che tornino i suoi genitori. Forse sono usciti, lui era a letto, si è alzato per spegnere il gas ed è svenuto.
Non avrebbero dovuto lasciarlo da solo. Soprattutto con un fornello acceso.
Do un'occhiata al sito degli autobus cittadini; l'ultima corsa dell'unico mezzo che passa di lì è alle sette. Beh, sono appena le quattro, non resterò di sicuro così tanto.
Che faccio nel frattempo?
Ma sì... diamo una sistemata agli appunti, così sarà più facile ricopiarli.
Inizio a suddividere i fogli per argomento, creando quattro pile distinte. In alcuni punti la mia scrittura è indecifrabile - se mai mi chiamerà per insultarmi, dovrò dargli ragione-.
Toh, guarda: ha il libro dell'uomo che si reincarna decine di volte, nella sua libreria a muro.
Mi alzo e lo sfilo dalla sua posizione. Nell'aprirlo, cade un qualcosa riposto tra la copertina e la prima pagina. Guardo in basso e lo vedo: è un cartoncino rigido, di quelli che si usano per fare gli auguri di compleanno o di Natale. Lo raccolgo. Sulla facciata esterna c'è un paesaggio stilizzato, dai colori tenui, con dei gabbiani che volano verso il tramonto. All'interno intravedo delle parole, scritte con una bellissima grafia, dai tratti dolci ed eleganti, sicuramente femminile.
Dovrei rimetterlo subito a posto.
Sì, adesso lo faccio.
No, non sarebbe giusto, né corretto leggerlo.
Non potevi rendermi più fiera...” Cavoli. Ho intravisto l'inizio. Non dovevo.
Lo richiudo e inserisco tra la copertina e la prima pagina del libro.
Ma di cosa è fiera? Cosa avrà mai fatto Samuel?
Ok. Leggerò soltanto le prime righe. Lo risfilo velocemente, controllando rapidamente che lui stia ancora dormendo. Ecco. Ci siamo.
Non potevi rendermi più fiera...
Sono contenta che tu abbia raggiunto il tuo obiettivo. Te lo meritavi più di chiunque altro.
Ma ho saputo cose... che mi hanno fatta stare molto male. Ho saputo che, da quando sono partita, hai ripreso a isolarti. Che non parli più con nessuno, che non rispondi alle chiamate e che esci soltanto per andare a scuola. E ho pianto per questo. Non volevo che accadesse... non volevo andare via e lasciarti lì...
Tu lo sai, Samuel, che io...”
Ok. Basta. Maledizione. Mizu: posalo.
Posalo. Adesso!
ci sarò sempre per te, qualunque cosa accada.
Non lasciarti andare. Non abbatterti. Non dimenticare tutto il tempo passato insieme.
Fallo per me.
Cercherò di venire a trovarti il prima possibile e recupereremo il tempo perso.
Nel frattempo, provvedi a te stesso e non essere triste.
Con affetto.
Lisa.”

Ammetto che mi batte leggermente il cuore. Ma non so perché.
Che tu stia soffrendo d'amore, Samuel? La ragazza che ami è stata costretta ad andarsene, e sei crollato in una depressione silenziosa?
Lo rimetto a posto con una certa riverenza. Se sapessi che ho sbirciato nella tua vita e nei tuoi affetti, come una meschina ficcanaso, mi cacceresti di casa all'istante. E avresti ragione.
D'improvviso lui si muove e lo strofinaccio che ha in testa gli cade. Lo raccolgo e sento che è caldo. Lo inzuppo nuovamente nell'acqua fredda e glielo ripongo sulla fronte. Chi sa a quanto sarà arrivata la temperatura?
Sta sognando, vedo le sue pupille muoversi sotto le palpebre. Muove la bocca, fa dei versi leggeri. Ho paura che stia soffrendo.
Spero soltanto che qualcuno della sua famiglia arrivi quanto prima.

Accipicchia.
Sono le sei. Che diavolo faccio adesso? Gli ho cambiato lo strofinaccio almeno una quindicina di volte e ho una fame che sto per svenire.
Chiamo mia zia e le spiego che sono a casa di un mio compagno di classe, il quale si è sentito poco bene e che sto aspettando il ritorno dei suoi. Mi dice di non preoccuparmi, di stare tutto il tempo che voglio perché verrà a prendermi, se necessario.
Verso le sette e un quarto, mi accorgo che Samuel ha gli occhi leggermente dischiusi e che sta fissando un angolo del soffitto. Sbando e mi cadono i fogli che stavo diligentemente inserendo in un raccoglitore.
Sembra morto.
Si volta lentamente nella mia direzione, e inizia a fissarmi accigliato.
Io prendo fiato, ma resto impietrita.
«Ci... ciao. Come ti senti?»
«Chi sei?» Mi chiede con un fil di voce.
«Sono Mizu... la ragazza del progetto di storia. Ero venuta a portarmi il mio materiale e... ti ho trovato a terra.»
Raddrizza la testa e rimane per un attimo a riflettere, forse a metabolizzare quanto gli ho detto.
«Ti ho dato del paracetamolo e ti ho messo uno strofinaccio freddo sulla fronte ogni quarto d'ora. Sei molto meno caldo di prima, adesso. Perdonami se sono rimasta mentre dormivi ma... aspettavo che tornassero i tuoi genitori.»
Non so se mi abbia sentita.
Mi rimetto dritta. Immagino che abbia ignorato quanto ho detto.
«Pensi che... torneranno a breve? Perché io... dovrei andare.»
«Vai pure. Ti ringrazio.» Mi dice con fermezza.
«Sicuro?»
«Sì.» Mi risponde, poi si fa forza e si solleva, restando poggiato sugli avambracci piegati.
«Non dovresti muoverti. Cerca di stare disteso... potresti svenire di nuovo. Ti ho sistemato altre bustine di farmaco sul tavolino. Puoi prenderne una ogni otto ore. Magari lo lascio scritto a tua madre o... tuo padre.»
«Non tornerà nessuno, quindi non serve.»
Resto per un attimo in silenzio.
«Cosa vuoi dire? Vivi da solo?» Gli rispondo con una punta di sarcasmo.
«Sì... » la sua risposta è netta, non lascia spazio ad alcuna supposizione.
«Ok... non volevo farmi gli affari tuoi. Scusami.»
«Nessun problema. Chiuditi la porta alle spalle, per favore. Grazie.» Nel dirmi questo, si volta verso lo schienale del divano e si ridistende, dandomi le spalle.
Questo è tutto?
Sono stata più di tre ore al suo capezzale, e questo è il suo ringraziamento? Ho bruciato il mio sabato pomeriggio per cambiargli gli strofinacci sulla testa, cercando di capire cosa fosse meglio fare per alleviare le sue sofferenze, e mi congeda così?
Prendo le mie cose e le ripongo nello zaino, lo chiudo e lo infilo. Mi sollevo di scatto e vado verso la porta.
Poi torno indietro.
«La mia ricerca è sul tavolo. È completa, dettagliata e soprattutto è scritta a mano. Spero avrai la forza di ricopiarla al pc e dirmi se ti aggrada. Siamo soltanto all'inizio e c'è ancora molto da fare. Ho deciso che seguirò un altro percorso, maturato durante le tre ore passate al tuo capezzale. Spero che ti vada bene, anche perché non hai alternative. Alla prossima.»
Vado verso la porta, esco e la sbatto alle mie spalle.
Percorro la stradina che conduce a quella principale e solo dopo alcuni secondi mi rendo conto di non aver ancora avvisato Beky di venire a prendermi.
Maledizione.
La chiamo: ci metterà più di venti minuti.
Qui fuori è buio pesto e fa molto più freschetto che giù a valle.
Torno verso l'ingresso della sua casa, illuminata da due faretti esterni, posti alla base della tettoia.
Mi siedo sul primo gradino della serie e faccio un lungo respiro.
D'un tratto, sento la porta dischiudersi.
Mi volto e vedo Samuel fare capolino dall'interno.
Ci guardiamo negli occhi.
«Vuoi aspettare dentro?»
Come avrà fatto a sentirmi? Ho parlato a voce così alta?
«No... sarà qui a breve.»
Scompare. Poi riappare con una coperta sulle spalle. Esce sul porticato e si avvicina con passo lento e trascinato.
«Ho scoperto che ci sono alcuni registri anagrafici in una biblioteca, poco lontano da Whitecliff. Potremmo andarci lunedì, se vuoi. Dopo la scuola.»
La sua proposta non è timida, né stentata. È piuttosto fatta con una certa riluttanza. Sono convinta che ci sarebbe voluto andare da solo ma che, accortosi di essere in gran debito con me, ha optato per un coinvolgimento del tutto eccezionale nei suoi programmi.
«Dopo la scuola?»
«Sì... »
Non voglio indagare sul come mi ci porterà. Voglio proprio che mi stupisca.
«Va bene... ci sto.» Affermo.
Annuisce leggermente con la testa, mantenendo lo sguardo basso.
Poi lo solleva nella mia direzione. I suoi occhi sono pungenti come spilli e fermi come roccia viva. Sono impassibili, come quelli d'avorio di alcune statue antiche.
«Perché sei venuta fin qui?» Mi chiede.
«... perché erano passati i tre giorni che mi avevi dato per completare le mie ricerche. Pensavo che non fossi venuto a scuola per farmi perdere la sfida e impedirmi di partecipare ulteriormente al progetto.»
«Sfida? Chi ha parlato di sfida?»
«Non l'hai detto esplicitamente, ma l'hai lasciato intuire. Volevi mettermi alla prova? Volevi testarmi e verificare che riuscissi a completare tutto in pochissimo tempo? Ti ho accontentato.»
«A quanto pare non è servito. La febbre mi è salita giovedì sera, poco dopo averti inviato l'e-mail, e sono rimasto a letto per due giorni. Dunque sono a zero. Non ho preparato nulla. Sei molto più avanti di me. Contenta?»
Apro la bocca, ma le parole mi restano sulla lingua.
Che razza di battaglia sto combattendo? Chi è questo individuo? Perché mi sforzo di odiarlo e di andargli contro?
«Mi spiace che non ci fosse nessuno ad aiutarti... » gli dico, stemperando i miei toni.
Sento un'auto provenire dal fondo della strada. Mi alzo e mi sistemo lo zaino.
«Intendo... in questi giorni. E scusa se ti sono piombata in casa senza preavviso. Ti ho visto svenuto dalla finestra... e non ho esitato.»
Resta a fissarmi.
«Ti ringrazio.» Afferma, dirigendo lo sguardo verso il buio della boscaglia.
«Ma so cavarmela... » Conclude.
L'auto di Beky arriva proprio dinnanzi alla stradina che conduce alla casa di Samuel.
Mi volto senza salutarlo. Non so chi dei due sia più sulla difensiva. Se io, con la mia incurabile sfiducia nel prossimo, o lui col suo profondo disprezzo per l'intera umanità.

«Chi è quel ragazzo? Un tuo compagno di classe?» Mi chiede Beky, mentre chiudo lo sportello dell'auto.
«Sì... dobbiamo lavorare insieme a un progetto di storia.»
«E che tipo è? Tranquillo?»
L'auto inizia a percorrere strade a me sconosciute, ingoiate da un buio diradato soltanto dalla luce della luna.
«Sì. Un tipo tranquillo.»

   
 
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