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Autore: QueenOfEvil    18/04/2020    1 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Multa paucis





 

Elai non era affatto come se l’era aspettata.
Pur avendo fatto qualche breve viaggio -soprattutto quando era molto piccolo- nei territori della Repubblica, Julius non aveva mai visitato le terre liisiane, di cui aveva sempre solo sentito parlare nei libri di storia -itreyani- e nei racconti di suo padre, per il quale però qualsiasi cosa che non fosse la capitale si riduceva ad un mucchio di selvaggi con una lingua incomprensibile e fastidiosa. Lo spettacolo che si era ritrovato davanti una volta sceso dalla passerella del pontile, quindi, lo aveva colto impreparato: invece che da una sparuta ammucchiata di casette, Elai era formata da palazzi alti anche numerosi piani, con torri di guardia dei Luminatii visibili a miglia di distanza -per non correre il rischio che un giorno quella provincia si dimenticasse di essere, appunto, una provincia e iniziasse ad agire un po’ troppo di testa sua- e i cui muri, molti di un bianco accecante, riflettevano la luce del sole tanto da fare male agli occhi. Uomini e donne dagli occhi scuri in vesti colorate si aggiravano tra banchi di pesce e carne -presumibilmente il mercato- e, anche a una certa distanza, Julius poteva sentirli contrattare a toni accesi in una lingua di cui non comprendeva che poche parole -tratte dai libri di testo e che, realizzò, nella sua testa aveva sempre pronunciato male- ma che gli sembrò molto più melodiosa della descrizione di suo padre.
Fino a qualche cambio prima, non avrebbe mai potuto pensare di trovarsi tanto spaesato in un territorio che, a rigor di logica, apparteneva pur sempre alla sua Nazione e rimpianse di non essersi documentato a dovere, prima di partire.
Certo, ‘Grave era piena di schiavi liisiani -‘Grave era piena di schiavi in generale, se si faceva attenzione-, ma il giovane non aveva mai considerato di intavolare una vera e propria conversazione con uno di loro: era pur sempre figlio di un midollano.
Per quanto tempo lo sarò ancora, però? Si domandò, mordendosi le labbra ed evitando per un pelo di essere schiacciato da un carro, passato troppo vicino ai margini della strada: era in quella che credeva -sperava- essere la strada principale della città, o almeno così gli era sembrato di capire dalle indicazioni in Itreyano stentato che aveva ricevuto al porto. La villa di sua zia -identificabile dal simbolo di Aa incastonato sull’estremità superiore dei cancelli, come gli aveva detto il padre- doveva essere lì, da qualche parte, ma tra la polvere, il rumore, il calore combinato dei due soli e il fatto che non mangiava da quasi un giorno intero, sentiva che sarebbe crollato a breve se non l’avesse trovata. Le cinghie di cuoio dello zaino gli stavano incidendo la pelle attraverso la camicia sottile e la borsa stessa, troppo grande sulle sue spalle, gli faceva continuamente perdere l’equilibrio. Malgrado fosse piuttosto alto per i suoi dodici anni, e questo lo portasse a spiccare tra i suoi coetanei, il suo corpo faticava ad irrobustirsi, in quel periodo in particolare soprattutto per mancanza di cibo, e questo conferiva a Julius l’aspetto di una piccola asta dall’aria fragile1. Se non poteva dire di avere sofferto mai di stenti -i crampi allo stomaco che non ti fanno alzare dal letto, la nausea sempre presente malgrado siano passati giorni dall’ultima volta che hai messo qualcosa sotto i denti, il colorito cinereo di chi ha sempre meno forza in corpo-, nell’ultimo anno più di una volta la sua familia aveva dovuto fare dei sacrifici.
Sacrifici che, evidentemente, non erano bastati.
Atticus gli aveva detto che la zia, moglie del defunto fratello di sua madre, era l’unica erede di una famiglia facoltosa e, perciò, piuttosto ricca lei stessa. Julius non sapeva esattamente cosa avrebbe potuto spingere una donna come lei ad accogliere un lontano parente, ma pregava che il contenuto della lettera che portava con sé si sarebbe dimostrato sufficiente. Era stato più volte tentato di aprirla -voleva conoscere quanto grave fosse la situazione, avere un’idea di cosa avrebbe dovuto aspettarsi da quell’incontro-, ma il sigillo di cera del padre era troppo ben fatto e non aveva candele con sé con cui poter riparare ad eventuali danni. La paura di non essere ammesso nella casa della sua parente oscurava, in quel momento, anche la curiosità.
Un passo alla volta, Julius. Un passo alla volta.
Impossibilitato a continuare per la fatica, posò lo zaino a terra in prossimità di un incrocio e si sedette sopra di esso, gomiti sulle ginocchia e mani che gli sorreggevano il capo: guardandosi attorno, vide che la folla, meno numerosa che al porto, ma in ogni caso piuttosto densa, veniva incanalata verso una strettoia che la obbligava a rallentare, con conseguenti sospiri, alzate di occhi ed esclamazioni di cui, pur non conoscendo la lingua, Julius poteva benissimo intendere il significato. 
Ad un certo punto, qualcosa sul margine destro della via attirò la sua attenzione: un uomo, che dall’aspetto sembrava ancora più vecchio di suo padre, si era fermato sotto un balcone, braccio teso in avanti e mano appoggiata contro il muro. Ad una prima occhiata, Julius pensò che fosse un ubriaco appena uscito da un’osteria e che, non riuscendo a stare in piedi, si stesse sorreggendo in tal modo in attesa che i giramenti di capo più forti cessassero. Poi, però, guardandolo meglio, riconobbe degli abiti di buona fattura -non un console, e neanche un tribuno, ma… qualche basso funzionario, magari?- e i suoi movimenti, per quanto strani, non parevano quelli di un avventore in preda ai fumi dell’alcool: sembrava, invece, che stesse parlando con qualcuno. Ma, anche sforzando la vista, il ragazzino non riusciva proprio a capire chi potesse essere il suo interlocutore.
Per un improvviso movimento della calca, il soggetto dovette spostarsi dalla sua posizione e fare qualche passo indietro, chiaramente contrariato dall’essere stato interrotto, e Julius poté finalmente capire chi fosse la controparte di quel dialogo. 
Schiacciata contro un muro, con le mani strette a pugno, stava una ragazzina liisiana dalla carnagione olivastra e i lunghi capelli neri raccolti in una treccia che le arrivava fino alla vita: era vestita con quello che un tempo avrebbe potuto essere un buon capo -dopo anni passati ad ascoltare la sua matrigna sproloquiare sul suo guardaroba, Julius aveva accumulato una buona dose di informazioni, per lo più inutili, sulla moda itreyana-, ma che ormai sembrava liso e, soprattutto, troppo corto. Anche le calzature, per quello che era possibile scorgere, dovevano essere nella stessa condizione. Il giovane le avrebbe dato, forse, un paio di anni meno di lui, anche se la statura minuta e il portamento remissivo avevano influito sulla sua valutazione: tutto, dalle spalle ingobbite allo sguardo basso, sembrava indicare un’estrema soggezione nei confronti dell’individuo davanti a lei che in quel momento le stava sorridendo.
Sempre che si potesse chiamare sorriso quella smorfia.
L’uomo allungò una mano e per tutta risposta ella si ritrasse, appiattendosi ancora di più alla parete e diventando, se possibile, ancora più piccola: realizzando di averla intimidita, forse spaventata, il suo interlocutore ritirò il braccio e rimase a pensare per qualche secondo, prima di riassumere quello che Julius non avrebbe esitato a definire un ghigno e tirare fuori dalla borsa un sacchetto marrone. Lo aprì e, malgrado la distanza, il ragazzino poté vedere con certezza che lo sconosciuto aveva tirato fuori due mendicanti, che stava mostrando alla sua interlocutrice con l’aria di chi ha indovinato la mossa vincente degli scacchi.
Lei, all’inizio ancora reticente, sembrò cambiare idea alla vista delle monete e, con movimenti lenti e strascicati, si avvicinò di qualche passo all’uomo, che, sempre con il sacchetto di monete in una mano, alzò l’altra per accarezzarle il viso.
E fu in quel momento che successe.
La ragazzina, eseguendo un movimento che aveva, in tutta evidenza, ripetuto molte altre volte, si scostò dalla mano dell’uomo un istante prima che quella le sfiorasse la guancia, inarcò la schiena e, con uno sguardo negli occhi che nulla aveva a che spartire con l’uccellino tremante che era sembrata fino ad allora,2 assestò un violento calcio nei gioielli di famiglia dell’individuo di fronte a lei, che cadde in ginocchio con un urlo strozzato, un misto di sorpresa e dolore a decorargli il volto. 
Il sacchetto di monete gli cadde di mano.
E lei

lo prese

e iniziò a correre.

Era accaduto tutto in pochi secondi, niente più che un battito di ciglia, ma quasi subito qualche passante più attento degli altri notò la situazione -uomo che si contorceva dal dolore con le mani in una posizione inequivocabile, figura saltellante che si allontanava da lui- e si lanciò all’inseguimento di quest’ultima. 
C’era, però, un problema: come Julius aveva giustamente notato, in quel punto la via era preda di un ingorgo quasi costante e nessuno, tra i massicci mercanti presenti, aveva la corporatura adatta per muoversi con destrezza in spazi tanto ristretti.
Nessuno tranne la ladra. 
Non passò molto tempo prima che ella diventasse infatti irraggiungibile a coloro che le stavano alle calcagna: tra gomitate, falsi scivoloni e balzi, la ragazzina, che, lasciata da parte la maschera del povero cucciolo indifeso, sembrava ora essere percorsa da una corrente arkemica, si faceva strada con sorprendente facilità e una sicurezza che lasciava intendere un controllo totale della situazione. Qualche attimo ancora, e tutti gli altri l’avevano persa del tutto di vista.
Solo Julius riuscì a seguirla ancora per qualche secondo. Ella, infatti, prima di sparire in uno dei vicoli laterali, si girò nella direzione dove aveva lasciato il vecchio -ancora a terra, più per l’orgoglio ferito che per reale dolore- e, schiena dritta e mento alzato -in una posizione che al suo unico osservatore ricordò più una domina midollana che un’adolescente di strada-, fece a lui e a tutti quelli che ancora la stavano cercando un plateale gesto delle nocche. Alzò poi lo sguardo verso l’altro lato della strada e lì, per meno di un attimo, incrociò lo sguardo di Julius.
Una domanda inespressa aleggiò sulle loro teste, quando ella si rese conto che qualcuno l’aveva vista. Che qualcuno sapeva dov’era.
Una domanda che si dissolse nell’aria quando Julius scosse il capo e increspò le labbra in un sottile sorriso.
Un istante più tardi, in quel vicolo non c’era nessuno.


 

❊❊❊



Dopo quella breve parentesi, Julius aveva deciso di rimettersi in marcia il più in fretta possibile. Aveva avuto più volte conferma della regola aurea che autorizzava l’ira dei potenti -quando l’oggetto della loro frustrazione non era reperibile- ad usare come ripiego i loro sottoposti meno fortunati e, anche se lui non aveva avuto direttamente a che fare con lo scippo, sapeva come sarebbe apparso, agli occhi di estranei: un ragazzo con i vestiti polverosi, uno zaino in spalla, privo di denaro, e nessuno a prendere le sue difese. Di capri espiatori del genere, a ‘Grave, se ne vedevano a dozzine.
Certo, sarebbe anche potuto andare dal funzionario e segnalargli la direzione verso cui era sparita la ragazza, ma, punto primo, dubitava che sarebbero riusciti a trovarla, e, punto secondo, non provava grande simpatia per gli idioti che si facevano fregare così facilmente.
Suo padre non era la lama più affilata dell’arsenale -di questo, il ragazzo era tristemente conscio-, ma se c’era una cosa in cui aveva eccelso, da un punto di vista oggettivo, era far aprire molto presto gli occhi del proprio figlio su quale fosse la realtà di ‘Grave e della Repubblica in generale. Julius non ricordava che il padre gli avesse mai letto -o lasciato leggere, se era per questo- favole per bambini, né che avesse mai cercato di edulcorare l’ambiente attorno a loro, e almeno di questo, a conti fatti, gli era grato: sarebbe stato di sicuro peggio svegliarsi un giorno e vedersi crollare il mondo addosso -realizzare che la vita era crudele, che il Semprevigile aiutava chi si aiutava prima da solo-, piuttosto che crescere già con quella mentalità.
E anche se ogni tanto Julius si faceva delle domande e si chiedeva perché Itreya fosse arrivata a quel punto, se fosse sempre stata così -priva di speranza tranne che per coloro che sapevano come muoversi nelle sue ombre-, e nonostante non si sentisse perfettamente a suo agio con le risposte che si dava -una pesantezza nel petto e un gusto amaro in bocca-, si era sempre concentrato sul tenere a bada la paura di cadere lui stesso.
Ascolta quanto puoi.
Sta’ in silenzio quando devi.
Non abbassare mai la guardia.
Non ci sarà nessuno a impedirti di precipitare, se farai un passo falso.
Per questo non aveva rivelato a nessuno quello che aveva visto, sulla strada principale: la ragazzina aveva capito le regole del gioco e le aveva sfruttate a suo favore.
Era un atteggiamento, quello, quantomeno degno di stima.
Lo zaino aveva di nuovo cominciato a fargli male alle spalle e pregò Aa di essere sulla strada giusta: non sapeva per quanto a lungo sarebbe potuto andare avanti in quelle condizioni.
Stava quasi sedersi di nuovo sul polveroso selciato sotto di lui -chiudere gli occhi, trarre un respiro profondo, immaginare per qualche secondo di essere ancora a ‘Grave-, quando vide la fila di case interrompersi per lasciare spazio a un muro di cinta piuttosto lungo, al cui centro spiccava un enorme cancello, bianco a tal punto da risultare quasi accecante. In mezzo ad esso, infine, i tre occhi del Semprevigile.
Era arrivato.
Malgrado tutti suoi ragionamenti, Julius era pur sempre un ragazzino e la prospettiva di poter essere ricevuto dopo tutti quei cambi in un ambiente accogliente, seppur lontano dalla sua città e dalle uniche due persone che aveva sempre considerato la sua familia, lo riempì di un po’ di calore.
Ora doveva solo sperare che la zia lo accogliesse.
Tenendo la mano sinistra sulla camicia e traendo conforto dalla sensazione della carta da lettere sotto di essa, si avvicinò al cancello e si guardò attorno: la casa vera e propria era a qualche piede da lì, troppo lontana per arrivare fino alla porta e bussare, ma sulla destra del muro vi era un cordone collegato ad una campana, presumibilmente per annunciare la propria presenza alla padrona di casa.
Con il cuore che gli batteva forte nel petto e la fronte sudata per il gran caldo, Julius prese la cordicella tra le mani tremanti e la tirò una, due, tre volte. 
E restò in attesa.
Per una manciata di secondi -un tempo spaventosamente lungo se hai dodici anni e sei a mille miglia da casa- non successe nulla, e Julius iniziava già a temere che qualcosa fosse andato storto, che le indicazioni che aveva ricevuto fossero sbagliate, che Atticus lo avesse semplicemente mandato lì per toglierselo di torno, quando la porta della casa si aprì.
“Chi è?” chiese una voce femminile con un marcato accento liisiano.
“Sono Julius” rispose lui, sforzandosi di mantenere la voce ferma e di darle un’intonazione di cui suo padre sarebbe andato fiero “Julius Scaeva. Mio padre mi ha inviato da voi, Mea Domina
Di nuovo, vi fu un momento di silenzio.
Poi, finalmente, la risposta.
“Tuo padre è Atticus Scaeva?”
“Sì, Mea Domina. Ho una lettera per voi con cui…”
“Ti stavo aspettando. Mando qualcuno ad aprirti. Bada bene, però: sei già in ritardo”
Al sentire quelle parole, il momentaneo sollievo che Julius aveva provato quando la padrona di casa aveva risposto si tramutò in una profonda inquietudine: Atticus gli aveva detto che non c’era stato tempo di avvertire la zia, che quello era il motivo per cui gli consegnava la lettera.
E lui, come uno stupido, ci aveva creduto.
Ma se invece lei sapeva che stava arrivando…
Su cos’altro poteva avergli mentito suo padre?
Aveva una pessima, pessima sensazione3.
Perso nei suoi pensieri, quasi non si accorse che un uomo, basso e tarchiato, probabilmente un servitore, era arrivato ad aprirgli e gli faceva segno di seguirlo.
I tre occhi del Semprevigile, infissi nel cancello come lo erano nella volta celeste, lo osservarono entrare.







 

[1] Come suppongo potrete immaginare da voi, l’aspetto in questo caso traeva piuttosto in inganno.
[2] 
Assomigliava, se mi permettete un paragone poco signorile, più a un kraken delle sabbie piuttosto incazzato. Oppure, se avete in voi l’animo dei poeti, ad un esemplare femmina di ragno sorgivo.
[3]  Julius ebbe modo di imparare, col tempo, che raramente il suo istinto sbagliava a temere il peggio.




Nota conclusiva: ed anche il secondo capitolo è qui. Non è uno dei miei preferiti, tra quelli che ho scritto sino ad adesso, ma spero voi l'abbiate gradito lo stesso. Ancora una volta, mi auguro che il personaggio di Scaeva non risulti completamente diverso da quello di cui siamo abituati a leggere nei libri (visto e considerato che questa è la sua versione molto più giovane ed innocente) e che questo capitolo abbia destato la vostra curiosità per quanto riguarda la sua sorte in casa della zia e l'identità della ragazzina da lui incontrata per strada. Diciamo che, per quanto riguarda quest'ultima cosa, dovrebbe esserci un indizio nel testo, anche se un po' nascosto... Ringrazio anche solo chi ha letto fin qui e ancora di più chi vorrà lasciarmi un commentino per dirmi cosa ne pensa.
Al prossimo sabato!
QueenOfEvil

 
   
 
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