Capitolo 27
Fiori e cioccolatini
“Perché
tu possa ascoltarmi le mie parole si fanno sottili, a volte, come impronte
di gabbiani sulla spiaggia.”
Pablo
Neruda, Perché tu possa ascoltarmi
Immagine dal film “Il club del libro
e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli, ottobre 1946
~ Un mese al matrimonio
~
Quando
sentirono bussare alla porta di casa, Hannah sbuffò pesantemente, tirandosi il
lenzuolo sulla testa e lasciando così intendere a chi delle due sarebbe toccato
alzarsi per andare ad aprire.
“Sei
sempre la solita pigrona”, le disse Sarah, in tono scherzoso e, con uno
sbadiglio poco aggraziato, lasciò il tepore del letto.
Prese
dallo schienale della sedia la sua vestaglia color rosa pallido e la indossò,
mentre raggiungeva l’ingresso a piedi nudi e con i bigodini in testa,
chiedendosi chi fosse a quell’ora del mattino. Preoccupata e annoiata, abbassò
cautamente la maniglia della porta e, strizzando un po’ gli occhi per
riprendersi dal sonno, aprì uno spiraglio. Subito, la sua espressione si colorò
di stupore e un largo sorriso si disegnò sulle sue labbra.
“Matteo!”
La voce di Sarah fu una miscela di contentezza e incredulità per l’inaspettata
apparizione del giovane ai primi bagliori del mattino e con un enorme mazzo di
fiori e una scatola di cioccolatini tra le mani.
Il
pomeriggio precedente, dopo l’incidente del nome e il loro muto chiarimento,
Sarah era andata via da Matteo con gli occhi ancora bagnati di lacrime e, a
causa del conseguente mal di testa, aveva rimandato la prova dell’abito da
sposa. E questo il giovane lo aveva saputo tramite il signor Gennaro che,
scorgendo al lavoro lo stato d’animo della ragazza e intuendo che lui
c’entrasse qualcosa, lo aveva anche rimproverato severo e con tanto di indice puntato
contro, dicendogli: “Per me Sarah è come una figlia e, se la farai soffrire, te
la vedrai con me. Sono stato chiaro?” E Matteo si era limitato ad annuire
mortificato, mentre, al senso di colpa per l’accaduto, si aggiungeva la paura
che Sarah non volesse più sposarlo, dal momento che aveva annullato
l’appuntamento con la sarta. Ma, adesso, i dubbi che lo avevano tormentato
durante la pesca notturna, impedendogli poi di riposare per presentarsi da lei
di buon mattino con fiori e cioccolatini da regalarle come richiesta di
perdono, affondavano nel luccichio dei suoi occhi stupiti, gioiosi che
riflettevano amore. Sorrise risollevato, perdendosi nel suo radioso sorriso.
Sarah
si soffermò su quegli occhi scuri e profondi, rassicuranti, belli – anche se
cerchiati da troppo sonno arretrato – e su quel sorriso che dava forma a due
attraenti fossette sulle guance; poi si portò una mano alla testa ricordando di
averla ricoperta di bigodini e, d’un tratto imbarazzata, sussurrò: “Scusami,
sono…” Stava per dire «in disordine».
“Bellissima”,
la anticipò Matteo. “Volevi dire «bellissima»”, concluse in un tono a metà tra l’affermativo
e l’interrogativo.
Sarah
abbassò lievemente e per un attimo lo sguardo, sorridendogli lusingata e,
aprendo di più la porta, lo invitò a entrare. Fecero colazione insieme ad
Hannah, poi Matteo l’accompagnò al Gran Cafè e l’andò a prendere durante la
pausa pranzo per mangiare una deliziosa pizza a portafoglio, seduti su una
panchina del lungomare – ovviamente, Sarah si sporcò la gonna di sugo ed
entrambi ne risero divertiti, mentre tentavano di rimediare al pasticcio. Approfittando
di un tempo ancora estivo, passeggiarono verso il porto e, senza accorgersene,
discutendo sugli ultimi preparativi del matrimonio, superarono il Cantiere
Navale, le Terme Comunali e la Corderia Militare per ritrovarsi davanti alla
spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna – la stessa
che, all’inizio dell’estate, aveva visto sigillare la loro amicizia. Mano nella
mano, si avvicinarono alla riva del mare e, stanchi per aver camminato la
bellezza di due chilometri e mezzo, sedettero sui ciottoli levigati dall’acqua.
Sarah si accoccolò fra le gambe di Matteo, con la schiena contro il suo petto e
la testa sotto il suo mento, con le braccia e le mani saldamente intrecciate
alle sue. E il giovane la strinse sempre più forte in quell’abbraccio, fin
quasi a formare con lei un solo corpo, una sola vita, nella quiete di una
spiaggia deserta, mentre a parlare erano soltanto il soffio del vento, lo
sciabordio delle onde e il garrito di qualche gabbiano. Sarah chiuse gli occhi
alla meravigliosa visuale del Vesuvio, delle isole e della città in lontananza,
lasciandosi accarezzare in viso dalla brezza che profumava di sale e di
rinnovate speranze e baciare ripetutamente e con delicatezza la guancia dalle
labbra di Matteo. E fu lui a rompere il silenzio.
“Sarah,
permettimi di renderti felice”, le sussurrò all’orecchio. Dopo gli ultimi
eventi, aveva, infatti, dovuto ammettere a se stesso che lei non lo era
realmente, tormentata ancora dal suo passato.
“Ma
io lo sono”, rispose con tono dolce e sicuro e, volgendo leggermente il viso di
lato, donò gli occhi al suo caldo sguardo, “con te.” E confuse quella
sensazione di pace e di benessere che l’avvolgeva con una gioia interiore, la
magia dell’innamoramento con un amore già maturo e consolidato.
Matteo
avvicinò le labbra alle sue e lei accolse il suo bacio ardente a occhi chiusi,
mentre le palpebre pizzicavano per i raggi del sole e lo scaturire di lacrime
d’emozione. Il mondo sembrò fermarsi, il tempo scorrere troppo velocemente e
andarono via da lì solo dopo quando, ben nascosti in mezzo agli scogli, vissero
ciò che, il giorno precedente, era stato loro impedito dal fantasma di Hermann.
E fu tenerezza e stupore il loro lasciarsi andare al desiderio di scoprirsi
l’un l’altra.
“Perché
ti amo. Perché sarai la mia sposa, la mia stessa carne”, disse il giovane,
prima che la mano di Sarah giungesse a quietare la sua libido.
“Ballo con te
nell’oscurità,
stretti forte e poi
a piedi nudi noi,
dentro la nostra musica.
Ti ho guardata ridere
e sussurrando ho detto:
«Tu stasera vedi sei perfetta per me».”
Ed Sheeran &
Andrea Bocelli, Perfect Symphony
***
Berlino
A
un forte colpo sullo scrittoio, Hermann sobbalzò, alzando di scatto la testa
dal libro sopra il quale, come qualche giorno prima, si era assopito. Sotto la
mano di suo padre, vide i documenti che da ormai troppo tempo stava aspettando.
“Dato
che ti piace così tanto, ti chiamerai come lei: Bonanni.” Karl diede voce al
risentimento e al disprezzo che nutriva adesso verso suo figlio e con i quali
gli aveva sbattuto sotto il naso quei fogli. “Bonanni Ermanno”, precisò e la
sua voce assunse un’inflessione più grave, “e vedi di inventarti una storia che
sia quantomeno credibile.”