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Autore: Carme93    20/04/2020    4 recensioni
Vi siete mai sentiti soli con tanta gente intorno?
Vi siete mai sentiti maltrattati e malvoluti?
Vi siete mai sentiti afoni, di un'afonia causata da un mondo che non vuol aver orecchie per ascoltare?
Se la risposta è no, allora lasciate stare: questo posto non far per voi; anzi probabilmente mi avrete già dato del matto o non mi avrete proprio ascoltato.
In caso contrario, prendete la mia mano, fidatevi, e vi condurrò sull'isola, dove nessuno cercherà di cambiarvi o rendervi come vuole, nessuno vi deriderà, nessuno vi minaccerà.
Venite sull'isola con me, non ve ne pentirete.
[Questa storia si è classificata settima al contest "Una biblioteca in disordine" indetto da Marika Ciarrocchi sul forum di EFP ed è vincitrice del premio speciale "Calza a pennello" per l'utilizzo calzante e originale del titolo].
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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[Questa storia si è classificata settima al contest "Una biblioteca in disordine" indetto da Marika Ciarrocchi sul forum di EFP ed è vincitrice del premio speciale "Calza a pennello" per l'utilizzo calzante e originale del titolo]







Benedetto si passò una mano tra i capelli e se ne pentì all’istante tentando di appiattirli nuovamente. «Sono spettinati?».
Due dei suoi più cari amici, Gabriele Sorrentini e Kijami Jama, sbuffarono. «Non devi uscire con una ragazza» commentò il primo alzando gli occhi al cielo. «Come ti sei vestito? Non ti stai sciogliendo?».
Effettivamente era una calda mattina di giugno e la camicia a maniche lunghe, che quel giorno aveva scelto d’indossare, era completamente fuori luogo. «Voglio farle una buona impressione. Le camicie bianche sono eleganti, ma l’unica che ho trovato nell’armadio risale alla Comunione di Giulia ed è troppo piccola». Quella a motivi scozzesi che indossava in quel momento non era particolarmente elegante, ma era pur sempre una camicia.
«Avresti potuto chiedermene una» borbottò Gabriele.
«Andiamo? Che facciamo qui?» li sollecitò Kijami. «Avrei preferito andare a mare per festeggiare la promozione».
«Ancora non sei stato promosso» obiettò Gabriele. «Gli esami devono iniziare».
«Quanto sei pignolo! Voglio festeggiare l’ammissione, credo di averne diritto, no?».
Nel frattempo si erano avvicinati al militare di stanza all’ingresso del Tribunale dei Minori, che li scrutò accigliato. «Che volete?».
«Dobbiamo incontrare il giudice De Luca» mormorò Benedetto intimorito.
Il militare non sembrò particolarmente convinto, ma li perquisì e li permise di passare.
«Avete un appuntamento?» chiese loro una signora, probabilmente la segretaria, appena trovarono l’ufficio.
«No, ma mi chiamo Benedetto Lorenzini».
«E con ciò?» replicò la donna.
«Le chieda se ha cinque minuti per noi» intervenne Gabriele. «Non le costa nulla».
La donna sbuffò ma annuì. Tornò poco dopo. «Vi riceve, ma sbrigatevi tra un’ora ha un’udienza».
I tre non se lo fecero ripetere ed entrarono. Salutarono e la donna dietro la scrivania ricambiò con un lieve sorriso.
«Accomodatevi. Allora, chi di voi è Benedetto?».
Il ragazzino, il più piccolo dei tre, si fece avanti. «Io».
«Di cosa vuoi parlarmi?».
«Vorrei che lei confermasse il mio affidamento e quello delle mie sorelle a nostra madre».
La donna si accigliò, si sporse verso di lui e affermò con dolcezza: «Sono questioni molto complesse, Benedetto. Deciderò quello che è meglio per te».
«Ma le prove che le ha portato mio padre, per dimostrare la non idoneità di mia madre, sono costruite».
«Ah, sì?».
Benedetto annuì. «Non sono un bambino, presto compirò quattordici anni. Io sto bene con mia mamma e non voglio andare a vivere con mio padre, al contrario delle mie sorelle. So che lui non si prenderà cura di noi». Stava facendo un grande sforzo, ma era vitale che lei lo ascoltasse. «Non è vero che mia madre si comporta negligentemente. Ha solo avuto un brutto periodo a lavoro e lui ne ha subito approfittato, invece di aiutarla. La prego, mi ascolti. Ecco, guardi, questa è la mia pagella, l’abbiamo presa stamattina: sono stato ammesso con 9 agli esami. Non sono un ragazzo problematico o di certo non come intende mio padre».
«Ultimamente sei stato coinvolto in parecchie risse o sbaglio?» ribatté lei.
«Sì, ma volevo solo difendere l’isola».
«L’isola?».
«Sì, l’isola».
 
 
 
 
 
 
L’isola oltre la siepe
 
 








«Gabriele, quello pesa troppo!».
«No, che non pesa» sbottò un ragazzino dai capelli castani; fulminò la madre con gli occhi e tentò faticosamente di salire il primo gradino.
«Gabriele…» tentò nuovamente sua madre.
«Stai zitta!» quasi urlò. Dovevano lasciarlo in pace, lui ce l’avrebbe fatta. Prese un bel respiro e, aiutandosi con il passamano, quasi saltò sul gradino e perse l’equilibrio non riuscendo a puntellarsi con la stampella a causa del peso dello zaino. Cadde a terra e gemette per il contraccolpo.
«Basta con i capricci!» sbottò suo padre prendendo lo zaino e aiutandolo a rimettersi in piedi.
Gabriele avrebbe voluto rispondergli a tono, ma lui non gliene diede il tempo e lo superò raggiungendo la porta d’ingresso.
«Passa» ringhiò a sua madre che si era fermata ad aspettarlo e magari avrebbe voluto anche dargli una mano! Si sedette sul gradino ansimando leggermente più per la rabbia che per la fatica.
«Gabriele, ti aiuto» tentò sua madre.
«Lascialo stare» intervenne suo padre dall’ingresso.
Gabriele, anche se non l’avrebbe ammesso, lo apprezzò. Seduto sul gradino, lasciò vagare la vista sul suo nuovo quartiere. Storse la bocca e sbuffò: non aveva nulla a che vedere con quello precedente. La sua vera casa – perché non era certo quella villetta -, a Milano, era in centro - a piedi poteva raggiungere Piazza Duomo in un batter d’occhio -, era piena di vita e rumorosa. In quel posto, invece, non c’era nessuno. Avevano incontrato solo qualche macchina per strada. Sua mamma si era subito detta contenta, affermando che lì ci fosse meno inquinamento e più tranquillità. Ma com’era possibile? Gabriele proprio non la capiva: aveva creduto che l’avrebbe appoggiato contro la follia del padre e invece no, si era alleata con il marito ed erano partiti. A migliaia di chilometri dalla loro vita. Lei era una milanese doc, come poteva approvare quel cambiamento così drastico? È meglio così, gli aveva detto. Eppure anche lei aveva lasciato i suoi amici, i suoi colleghi, e non era detto che avrebbe riottenuto il suo lavoro. Per suo padre era stato semplice: era un professore universitario di una certa fama e, appena aveva chiesto il trasferimento nella sua città natale, l’università del posto l’aveva accolto a braccia aperta, più delusa era rimasta la Statale di Milano dove aveva insegnato per anni.
Gabriele odiava quel trasferimento, odiava l’egoismo di suo padre e odiava la remissività di sua madre, che prontamente aveva preparato i bagagli e aveva seguito il marito. E, naturalmente, odiava quelle stupide stampelle che non gli permettevano neanche di scappare e raggiungere la prima stazione di quel posto desolato e tornarsene a casa.
In quella via c’erano soltanto un paio di villette come la sua e poi una serie di palazzoni, decisamente orribili, trascurati e cadenti. A sinistra c’era una siepe palesemente mal curata, come tutto in quel posto - passando con la macchina, aveva visto persino numerose buste di spazzatura abbandonate sul ciglio delle strade -; sembrava che nessuno potasse quella siepe da anni, eppure non sembrava di dimensioni tali da comportare particolari difficoltà.
«Gabri, perché non entri? Se sei stanco potresti riposarti un po’. Ti sistemo velocemente il letto oppure, se non sei stanco, potresti ordinare la tua camera».
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dalla voce della madre. Gabriele non si voltò: era sicuramente sulla soglia e lo fissava torcendosi le mani sperando che lui non si arrabbiasse. Ormai erano mesi che si comportava in quel modo. Era contento che almeno suo padre si fosse stancato e gli rispondesse seccato o lo ignorasse a volte.
«Devo proprio?» chiese scontrosamente.
«Se non ti va, no. Posso occuparmene io».
«No» sbottò Gabriele. «Non toccare le mie cose». Prese un bel respiro e si aggrappò al passamano con la mano sinistra e con la destra si diede una spinta verso l’alto.
Erano pochi gradini, ma con le stampelle fu una fatica salirli. Il medico gli aveva comunicato che presto avrebbe potuto cominciare a muoversi di più. Lui, però, nonostante non l’avrebbe mai ammesso, non si sentiva per nulla sicuro e le sue gambe sembravano completamente rigide.
Il resto del pomeriggio si prospettava quanto mai noioso, d’altronde chi amava disfare le valige? In più prima di partire aveva gettato tutte le sue cose alla rinfusa in alcuni scatoloni, ora sperava di non aver rotto tutto. Nella nuova camera aveva una libreria di media grandezza, perciò decise di svuotare prima lo scatolone con i libri e i fumetti, sua madre avrebbe senz’altro pensato ai vestiti. Non volendo chiedere aiuto a nessuno, il ragazzo sedette sul pavimento e spinse lo scatolone verso la libreria, sperando che non lo vedesse nessuno: suo padre non avrebbe approvato perché il pavimento era freddo, al contrario sua madre si sarebbe messa le mani nei capelli e probabilmente avrebbe pianto.
Partì dal ripiano più basso e vi sistemò i romanzi - quelli da bambino e quelli d’avventura letti negli ultimi anni - e la sua collezione di dvd. Lavorò alacremente finché non prese tra le mani uno degli almanacchi del calcio - ne aveva uno per ogni anno da quando aveva iniziato a giocare, così come gli album della Panini -, si bloccò e deglutì incerto: una parte di lui avrebbe voluto gettarli, ma sapeva che sarebbe stato stupido. Non odiava il calcio.  Senza pensarci ulteriormente li sistemò su uno scaffale e si concentrò sugli ultimi libri rimasti nello scatolone, ma su quelli non aveva dubbi. «Mamma!».
Come sempre, lei accorse subito: «Che c’è?».
«Questi che li ho portati a fare?» chiese indicando il plico di libri che, intanto, aveva appoggiato sul pavimento. «Non mi servono». Erano i suoi vecchi libri di scuola. Naturalmente ce li aveva messi lui in quello scatolone, insieme agli altri illudendosi che preparando i bagagli alla rinfusa avrebbe fatto un dispetto ai suoi. Ora si ritrovava a fare i conti con quella decisione: non poteva riempire quella stanza con roba che sarebbe stato meglio fosse rimasta a Milano insieme al resto della sua vita.
«Non li vuoi conservare? Potrebbero servirti» rispose gentilmente sua madre.
«E per cosa? Mi avete comprato quelli nuovi, no?».
«Sì, ma…».
«Non li voglio. Non so che farmene».
«Che succede?» chiese suo padre sopraggiungendo alle spalle della moglie.
«Vedetevela tra voi» sospirò la donna.
Gabriele si accorse di quanto fosse stanca e si sentì in colpa. «Non li possiamo vendere di seconda mano?» chiese a suo padre indicando i libri.
«Come vuoi» replicò lui, stringendosi nelle spalle.
«Tanto sono quasi nuovi» non riuscì a trattenersi dall’aggiungere.
Suo padre lo sentì e sospirò. «Hai ragione, è meglio darli via. Magari possiamo spedirli a tua zia, lei li porterà al mercatino dell’usato. Peccato, non averci pensato prima».
Gabriele sbuffò e si chiese se avrebbero mai smesso di dargli ragione solo perché non riusciva a camminare.
Si era già seccato di riordinare, così si trascinò fino al letto e si sdraiò. Non voleva neanche usare le stampelle. Si piegò di lato e aprì un altro scatolone, quello riempito più alla rinfusa di tutti. Vi rovistò all’interno e tirò fuori la sua maglia preferita, poi spinse lontano lo scatolone. Più tardi avrebbe detto alla madre di portarlo via, non voleva vederlo: quella roba non gli serviva più. Annusò la maglia e la baciò, poi chiuse gli occhi e immaginò Lukaku correre per il campo, festeggiando per un goal. Al viso del calciatore, però, non si sovrappose il suo. Non succedeva più da mesi.
 
 


 
*
 



 
La camera era in penombra, ma già attraverso le serrande penetrava qualche raggio di sole: non abbastanza da illuminare il volto di un ragazzino che dormiva quietamente con il copriletto fin sul viso.
«Benedetto, alzati! Non puoi fare tardi un’altra volta!».
Il ragazzino mugugnò leggermente, percependo a malapena quel richiamo e continuò a dormire.
 «Benedetto!» la porta accostata della stanza si aprì e il ragazzino si svegliò di scatto.
«Mmm ancora cinque minuti».
«No, ti voglio in cucina tra dieci minuti».
«Va bene» sbuffò il ragazzino, mettendosi a sedere. Si passò una mano sul viso, ma purtroppo non bastava così poco per scacciare il sonno, ma non aveva altra scelta: a sua madre non piaceva ripetersi. Si fece coraggio e si recò in bagno. Per fortuna ancora non faceva freddo: quanto era antipatico alzarsi la mattina e lasciare il calore delle coperte! Tentando di non essere troppo lento, tornò a in camera velocemente e nel farlo lanciò un’occhiata in quella delle sorelle: vuota. Tornò sui suoi passi e vide che addirittura i letti erano stati rifatti. Perse almeno un minuto a fissare quello strano spettacolo.
«Benedetto, muoviti!».
«Sì» urlò in risposta riscuotendosi. Recuperò un paio di jeans dalla sedia e una camicia dell’armadio, la sua preferita a quadretti rossi. Poi si legò le scarpe e scese a fare colazione.
«Hai impiegato quasi venti minuti».
Possibile che fosse trascorso tutto quel tempo?
«Mi dispiace» mormorò, passandosi una mano tra i capelli. Sarebbe arrivato in ritardo anche quel giorno e sarebbe stato un guaio: il vicepreside lo aveva avvertito che se fosse accaduto di nuovo, avrebbe convocato i suoi genitori.
«Vi accompagno io stamattina».
Benedetto scrutò la madre sorpreso. «Non vai a lavoro?».
La donna ispirò. «No». Poi riprese a rassettare la cucina.
«È stata licenziata» disse imbronciata e con tono monocorde sua sorella maggiore, Chiara.
«Non ti avevo chiesto di tacere?» sbottò loro madre lanciando lo straccio nel lavello.
«Licenziata?» chiese Giulia, la più piccola della famiglia.
Benedetto vide che sua madre era sul punto di perdere la pazienza, ma non aveva idea di come spostare l’attenzione su un altro argomento.
«Sì, ma stamattina ho un colloquio per un altro lavoro» disse la madre.
«Ha perso il lavoro da quasi un mese e non ci ha detto nulla» insisté Chiara.
«Ora basta, è tardi» sbottò allora la madre fulminandola con lo sguardo. «Ho già detto che non voglio discuterne con voi e credevo di essere stata chiara. Perché non pensi alla scuola? Eh? L’anno scorso c’è mancato poco che venissi bocciata!».
Benedetto decise che avrebbe parlato dopo con la madre e dedicò tutta la sua attenzione ai biscotti e alla sua tazza di latte. In tredici anni di vita si era convinto che l’arte d’inzuppare i biscotti senza che si sbriciolassero dentro la tazza fosse molto fine. Ne afferrò uno e si concentrò. Naturalmente ogni biscotto aveva una consistenza diversa e quindi poteva essere inzuppato per un tempo differente. Quelli che avevano quella mattina erano abbastanza leggeri, quindi lo intinse pochi secondi e lo mise in bocca subito dopo. Qualcuno avrebbe potuto dire che fosse un’arte insulsa, come molte delle altre attività alle quali lui si dedicava, ma che ne sapevano loro di quanto lo salvasse ogni giorno dalle liti tra la madre e la sorella? Era più semplice concentrarsi sui biscotti e ignorare il resto. Ma gli altri non potevano capirlo: lo consideravano strano, compresa sua sorella.
«Andate a lavarvi i denti, prima che perda veramente la pazienza» sbottò la donna.
«Non ho finito» si lamentò Benedetto.
«Muoviti, o ti lascio a casa».
Benedetto avrebbe voluto dirle che fosse una minaccia vana: non gli avrebbe mai permesso di saltare la scuola, ma si trattenne conscio che si sarebbe arrabbiata. Prese la tazza e bevve lunghi sorsi, abbandonando il suo gioco con i biscotti.
Anche se la madre li accompagnò, arrivarono appena in tempo a scuola. Giulia scese subito e corse in cortile alla ricerca dei compagni, mentre Benedetto si trattenne in macchina.
«Che cosa vuoi?» gli chiese a bruciapelo la madre. «Non ho molto da dirti. Lo sai che ero alle strette con il mio capo». Fissava il volante e sembrava veramente stanca.
Benedetto avrebbe voluto andarsene e lasciarla in pace, ma c’era qualcosa che non gli tornava. «Che è successo?».
Lei sospirò. «Ha esagerato, io ho reagito male e mi ha denunciato».
Quello suonava molto male. Benedetto si appoggiò allo schienale del sedile, dimentico delle minacce del vicepreside. «Che ha fatto?». Sua madre stava utilizzando fin troppi eufemismi e girava attorno al punto della questione.
La donna strinse forte il volante con le mani. «Non mi va di parlarne con te» disse sinceramente. Sua madre era sempre sincera e se non aveva detto loro che era stata licenziata doveva essere perché era qualcosa di grosso, qualcosa non adatto ai bambini.
«L’hai detto a Chiara?».
«Sì» sospirò la donna. «Tua sorella pensa che dovrei chiamare tuo padre» sbuffò poi.
Benedetto non replicò e registrò soltanto il messaggio. «Posso andare da don Paolo pomeriggio?».
«Porta anche Giulia».
«A Giulia non piace venirci» protestò Benedetto.
«Non fa niente. Verrà».
La richiesta non piacque per nulla a Benedetto, ma non fiatò. «In bocca a lupo per il colloquio».
«Grazie. Buona giornata, Benny».
«Grazie» replicò il ragazzino scendendo finalmente dalla macchina.
Quando entrò nell’atrio la campanella era suonata da nemmeno un minuto e il ragazzino lanciò un’occhiata al professore Corrado Barbieri, il vicepreside, intento a parlare con un collaboratore scolastico. Gli si avvicinò, sperando di convincerlo che era solo un minuto: sua madre aveva ben altri problemi.
«Lorenzini».
«Buongiorno, professore» mormorò Benedetto.
«Dov’eri? Ho visto tua sorella quasi cinque minuti fa, ma non te».
«Stavo parlando con mia madre» replicò sinceramente.
«Tutto bene?».
«Sì» mentì. «La campanella è suonata poco fa» aggiunse supplichevole.
«Lo so, fila in classe. Sto arrivando. Vedete di non fare chiasso».
«Grazie» replicò Benedetto quasi correndo via.
Procedette a passo spedito verso la sua classe che purtroppo si trovava al primo piano. Lo zaino pesava e lo rallentava. Appena arrivò fece a malapena in tempo a compiere un salto all’indietro prima che una stampella lo prendesse in pieno. La risata sguaiata di Mattia Auderi si levò al di sopra del chiacchiericcio.
«Che state combinando?» proruppe uno dei collaboratori che stava al loro piano, ma non si avvicinò.
«Lorenzini, ti spaventi?» ghignò Filippo Lanfranchi quasi saltandogli addosso, ma il ghigno gli sparì dal volto. Solo a quel punto Benedetto sentì una mano sulla spalla e si voltò: Barbieri. Ed ecco perché il bidello non era intervenuto. L’insegnante lo spinse leggermente perché si decidesse a entrare.
«Auderi! Lanfranchi! Sempre voi? Ah, c’è anche Uberti, naturalmente».
Era stata una questione di secondi: proprio mentre il professore entrava in aula, Diego Uberti aveva lanciato l’altra stampella sul banco di un ragazzo che Benedetto non aveva mai visto.
«Prof, gli era caduta» si giustificò Diego Uberti.
Qualcuno rise, specialmente tra i ragazzi, ma badò bene a nascondersi: sapevano quanto cattivo potesse diventare Barbieri se provocato.
Il professore non rispose, ma ordinò: «Sedetevi».
Benedetto fissò il nuovo arrivato che gli aveva fregato il posto.
«Lorenzini, un posto qualsiasi» sibilò il professore notando la sua incertezza.
Il ragazzino annuì e si volse verso l’unico posto libero: l’ultimo banco accanto a Filippo Lanfranchi. Fece una smorfia e ignorò il ghigno di quest’ultimo.
«Come al solito non vi smentite mai, ma quando dico che vi potete scordare l’ammissione agli esami, non scherzo. Metà della terza A dell’anno scorso non è stata ammesso. E indovinate un po’ di chi è la responsabilità?».
Benedetto non avrebbe mai messo in dubbio le sue parole e si affrettò a tirare fuori i propri libri dallo zaino.
«Tu devi essere il nuovo allievo, vero?» continuò Barbieri rivolto al ragazzo in prima fila. «Come ti chiami?».
«Gabriele Sorrentini» rispose il ragazzo infastidito.
Barbieri chiamò l’appello e poi disse: «Auderi, Lanfranchi e Uberti vi siete guadagnati la quinta nota dell’anno, complimenti! Ora mettete i quaderni sul banco, spero per voi che abbiate fatto gli esercizi e che abbiate studiato. Oggi ho voglia d’interrogare».
«Come se fosse una novità» borbottò ad alta voce Mirea Pellegrini.
La ragazza si beccò un’occhiataccia, ma a parte questo il professore si limitò a ghignare.
«Prof, accetta volontari?» chiese Mattia Auderi.
«Dipende da chi sia il volontario» replicò il professore, finendo di fare il giro per controllare i compiti.
«Lorenzini» disse Filippo Lanfranchi tutto contento e sollevò di forza il braccio di Benedetto, che lo fissò sgomento.
Barbieri li squadrò un attimo. «Per un solo attimo, mi sono illuso che volessi proporti tu Lanfranchi».
«No, prof, non toglierei mai quest’onore a Lorenzini».
«Invece io sono sicuro che Lorenzini sarà felice se, invece di dar fastidio a lui, vieni alla lavagna».
Filippo, preso in contropiede, si pentì palesemente di aver parlato. Mirea ridacchiò ma il professore non la richiamò.
«Allora, una signorina che faccia compagnia a Lanfranchi…?» chiese Barbieri scorrendo l’elenco.
Una mano si alzò timidamente dalla prima fila e Benedetto sorrise vedendola, ma il professore la ignorò. «Barone?».
«Ma Emilia ha alzato la mano» si lamentò Ambra Barone.
«Non m’interessa. Vieni tu».
 
 
Gabriele aprì un quaderno nuovo a quadretti e, annoiato, tentò di seguire la lezione. Quel posto già non gli piaceva. Odiava non potersi difendere e quelle stampelle lo rendevano fin troppo vulnerabile, ma di certo non l’avrebbe data vinta a quei tre.
L’accoglienza era stata pessima: dopotutto era una scuola come le altre, avrebbe dovuto prevederlo. Gli avevano permesso di usare l’ascensore, normalmente di uso esclusivo dei professori, e un bidello l’aveva aiutato. Quest’ultimo gli si era rivolto in dialetto, ma aveva assunto una strana espressione quando gli aveva detto a quale classe era stato assegnato.
 Comunque il fatto che avesse quel problema non significava che fosse incapace di difendersi: quei tre l’avevano preso di sorpresa, in caso contrario sarebbe andata diversamente. Ma forse era stato meglio così: finire nei guai non sarebbe stato il miglior modo di cominciare.
Quegli argomenti li ricordava vagamente dall’anno precedente, ma scribacchiò distrattamente: non voleva scontrarsi con quel professore che non sembrava aver voglia di scherzare, sebbene non fosse privo di spirito dell’umorismo.
Inoltre Lanfranchi e Barone apparivano tutt’altro che felici, così Gabriele si raddrizzò e seguì con più attenzione la spiegazione del professore visto che i compagni non aprivano bocca. Sbuffò: quanto erano stupidi. Appoggiò la guancia sulla mano aperta e si stravaccò sul banco, spingendo leggermente il suo quaderno su quello del compagno, il quale lo allontanò con stizza provocando la caduta del borsellino e di tutto il suo contenuto. Tutti si voltarono verso di lui, che, però, fissò sconvolto il compagno.
«Raccoglilo» disse semplicemente il professore degnandoli di una sola occhiata per poi tornare a torchiare Lanfranchi e Barone.
«Ma l’ha fatto apposta» si lamentò Gabriele.
«Hai toccato il mio banco» replicò l’altro con tono piatto.
Gabriele lo fissò stranito. «Stai scherzando?! Non l’ho fatto apposta, io!» sbottò.
«Sorrentini, silenzio» sbuffò il professore continuando a fissare a braccia conserte Lanfranchi che non riusciva a risolvere una stupidissima espressione con i numeri relativi.
Gabriele era sconvolto: ma come poteva dargli torto? Lo guardò male, raccolse il borsellino e si rimise a scribacchiare sul quaderno.
Durante l’intervallo si sentì profondamente estraneo a quel posto: non c’erano i suoi vecchi amici, non era come la sua vecchia scuola. Alcune ragazze lo guardavano e sghignazzavano, ma che avevano?
«Ciao!».
Gabriele scrutò la ragazza che aveva occupato il suo campo visivo.
«Ciao» replicò scontroso. Era quella che aveva risposto sarcasticamente a Barbieri.
«Io sono Mirea, piacere».
«Mirea? Che razza di nome è?».
Lei lo fulminò con lo sguardo, ma non ebbe il tempo di ribattere.
«Guarda, zoppo, per fare amicizia con lei devi essere veramente disperato» disse Auderi avvicinandosi.
Uberti con la bocca piena ridacchiò sputacchiando intorno, cosa che suscitò un’espressione di disgusto in Mirea.
«È la Greta Tenberg dei poveri» disse Lanfranchi.
«Thuberg, idiota» lo corresse Mirea. «Non cominciate a rompere».
«Che paura!» strillò Auderi per poi scoppiare a ridere.
Erano tre imbecilli e Gabriele stava per perdere la pazienza.
«Allora, Pellegrino, vattene e lasciaci parlare tra uomini» disse Uberti spingendo Mirea.
«Uomini?» sbuffò la ragazzina per nulla intimorita. «E dove sarebbero? Barbieri è già uscito».
«E levati un po’ dai piedi» sbottò Auderi affrontandola a muso duro, ma ancora una volta Mirea non si mosse.
«Buongiorno».
Gabriele fissò infastidito la donna appena entrata: non aveva più voglia di star lì e se l’avessero provocato ancora non si sarebbe trattenuto.
«Tu sei quello nuovo?».
Gabriele la fissò imbronciato: perché gli ponevano tutti quella domanda? No, sono il fattorino della pizza! Che avrebbe dovuto rispondere?
«Sì» replicò forzatamente. Qualcuno ridacchiò.
«Come ti chiami?».
«Gabriele Sorrentini». Non potevano leggerlo direttamente sul registro? E poi anche lui avrebbe voluto chiederle chi fosse. Il suo compagno di banco era una specie di ameba strana: per tutto il cambio dell’ora aveva continuato a risolvere espressioni algebriche, per giunta molte più di quelle che il professore avevano loro assegnato, che già non erano poche.
«Io sono Giulia Bianchi, l’insegnante di educazione artistica».
Ok, adesso poteva anche andarsene. A quel punto sarebbero state meglio altre due ore con Barbieri! Solo nei film i protagonisti avevano la loro materia preferita alla prima ora e scoprivano che il loro insegnante era fantastico? E lui non aveva nemmeno idea di quando avrebbero avuto musica o ed. fisica.
«Dedichiamo un’ora alla pratica e una alla storia dell’arte solitamente» gli spiegò la professoressa come se gli interessasse veramente. «Non so dove sei arrivato con il programma».
Gabriele la fissò stranito: quella allora non sapeva nulla. Che gli avevano detto? Che c’era uno nuovo e magari che aveva un problema fisico e basta? Beh certo non sarebbe stato lui a spiegarle che era stato bocciato l’anno precedente, ma che non aveva alcun problema con il programma del primo quadrimestre e dell’inizio del secondo. L’incidente era stato dopo. Non avrebbe mai raccontato quella storia davanti a quegli stupidi dei suoi nuovi compagni. Nuovi compagni. Chissà se sarebbe riuscito a convincere suo padre a tornare a Milano il più velocemente possibile.
«È il mio primo giorno di scuola quest’anno» rispose allora per non stare zitto visto che gli altri ridacchiavano, ma questo non lo aiutò molto.
«Silenzio! Non c’è niente da ridere» sbottò la donna tentando di richiamare all’ordine gli altri alunni. «Abbiamo iniziato il Romanticismo, non avrai problemi a recuperare. Chi vuol venire a ripetere quanto fatto finora per aiutare il vostro compagno?». Gabriele si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo: interrogava per aiutarlo? Ottimo, l’avrebbero odiato tutti. «Allora?». La stessa ragazzina, che aveva alzato la mano durante l’ora di matematica, la sollevò in quel momento. «No, Borgatti no, hai già un voto. Nessun altro?». Gabriele la fissò mentre cercava miracolosamente un volontario. Ma i miracoli non accadevano per simili stupidaggini. «No, Lorenzini, nemmeno». Quella era incontentabile. «Pellegrini, perché non vieni tu?».
Gabriele si voltò leggermente per guardare l’unica ragazzina che aveva provato a fare amicizia con lui.
«Perché non ho studiato» replicò lei con semplicità.
Gabriele si coprì la bocca con la mano e ridacchiò: quella ragazzina sembrava proprio tosta.
«Impreparato. Un altro».
Mirea non replicò e tornò a scarabocchiare il banco come se nulla fosse.
Gabriele sospirò quando la professoressa, dopo aver finito l’intero elenco, si arrese, li rimproverò e decise di spiegare il romanticismo italiano e Francesco Hayez. «Hai il libro?» gli chiese.
«No, nessuno mi ha comunicato l’orario in anticipo». Avrebbero anche potuto farlo, ma evidentemente non erano particolarmente efficienti.
«Borgatti, siediti vicino al compagno e seguite insieme, poi fagli copiare l’orario delle lezioni».
Gabriele osservò la ragazzina che sedette accanto a lui dopo avergli sorriso leggermente. Lei non era tra quelle che ridacchiavano durante l’intervallo, anzi l’aveva a malapena considerato. Fu gentile anche alla fine dell’ora e non solo gli lasciò copiare l’orario, ma lo informò anche su tutte le materie a grandi linee.
Le ultime due ore trascorsero nella noia più totale: la professoressa di francese era antipatica; mentre don Paolo era un prete ed era noioso a prescindere.
Gabriele accolse con sollievo il suono della campanella, cercò di recuperare lo zaino il più velocemente possibile ignorando il prete che si preoccupava di aiutarlo.
«Vuoi che te lo porto?».
Un ragazzino di colore lo fissava sorridendo e con la mano allungata verso il suo zaino.
«No, grazie ce la faccio».
 
 
I giorni successivi non furono molto diversi: conobbe tutti gli altri professori, imparò i nomi dei suoi compagni, sua mamma era sempre pressante e suo padre si era lasciato coinvolgere nei consueti impegni universitari.
Giochicchiò con un filo d’erba e sospirò: voleva tornare a Milano. Voleva tornare dai suoi amici. Qualcuno gli aveva scritto, ma dopo l’incidente era stato lui a tagliare i ponti per un po’. Vero anche che nessuno di loro aveva insistito a cercarlo.
Staccò il filo d’erba e lo fece a pezzettini, mentre il suo sguardo cadde sulla siepe dall’altra parte della strada. Non sapeva perché lo attirasse tanto. Forse perché gli ricordava la casa di Luca a Milano, il suo compagno, co-capitano, il suo braccio destro, che era diventato capitano e non gli aveva più scritto. L’aveva visto su Facebook. Luca abitava in una villa enorme circondata da siepi perfettamente curate. Quella non lo era di certo, ma chissà chi era lo stupido riccone che vi abitava. Magari uno dei suoi stupidi compagni di classe.
«Ti avevo detto di non uscire. Fa freddo a quest’ora».                        
Gabriele continuò a fissare la siepe. «Io non ho freddo. A Milano fa freddo, non qui».
«Muoviti, o faremo tardi».
«Tanto tu hai lezione alle nove» ribatté il ragazzino, ma accettò l’aiuto del padre per alzarsi e recuperare le stampelle.
«Pomeriggio cominci la fisioterapia».
Gabriele gemette: a lui sembrava una tortura inutile. «Ritornare a Milano non è tra le opzioni pomeridiane?» chiese, dopo essersi accomodato in macchina.
Vide il padre tentennare mentre inseriva la chiave nel quadro, poi la infilò e il rombo della macchina ruppe il silenzio. «No».
Non si scambiarono più una parola: Gabriele evitò ogni tentativo di conversazione infilandosi le cuffie e mettendo Fedez a palla. Quando suo padre si fermò, scese salutando con un gesto frettoloso della mano.
In cortile, secondo il regolamento di quella stupida scuola, avrebbero dovuto attendere il suono della campanella ognuno nel riquadro della propria classe. Gabriele si appoggiò al muro della palestra e fissò i suoi compagni. Emilia gli sorrise con la solita delicatezza e gli si avvicinò.
«Non dovresti stare qui o Barbieri ti rimprovererà».
Il loro insegnante di matematica era anche il vicepreside e sembrava che il suo hobby preferito fosse controllare ogni mattina i suoi allievi, in modo da cogliere ogni minimo ritardo o sgarro alle regole.
Emilia era una ragazzina ingenua, questo Gabriele l’aveva capito da un po’, infatti Auderi e i suoi amici la deridevano spesso e volentieri.
«Sì, lo so, ma non m’interessa. Non mi frega niente di lui» le disse Gabriele, mantenendo la voce gentile per quanto fosse nervoso.
«Wow, lo zoppo è coraggioso».
Gabriele ringhiò. Come peggiorare la mattinata: incontrare Auderi e i suoi amici, naturalmente! «Non mi chiamare zoppo o…».
«O cosa?» sbottò Auderi.
«Non abbiamo paura di uno zoppo» disse Uberti.
Gabriele perse la pazienza e colpì lo stinco di Auderi con una stampella. Auderi strillò molto poco virilmente. Emilia fece un balzo indietro, probabilmente era abbastanza intelligente da capire che la situazione si stesse mettendo male.
«Ti spezzo le ossa» sbottò Uberti spingendolo e facendogli perdere l’equilibrio.
Forse aveva ragione suo padre: doveva smetterla d’intestardirsi con quello zaino, non era la prima volta che cadeva a causa del suo peso.
«Lasciatelo in pace». Uberti stava per tirargli un calcio, quando intervenne Kijami, un altro compagno di classe che Gabriele aveva etichettato come ‘terribilmente socievole’. In quelle settimane Kijami aveva tentato di stringere amicizia con lui in ogni modo. Non che gli desse torto visto che di solito stava in compagnia di Benedetto Lorenzini – che non spiccicava mai parola in classe, se non sollecitato dai professori - ed Elia Baldini – il suo compagno di banco antipatico e fastidioso, che a malapena gli rivolgeva la parola e non poteva nemmeno toccarlo -, ma lui non voleva quelli amici.
 «Oh, Jama, stanne fuori» sbottò Auderi.
«Sì, brutto nero, stanno fuori» rincarò Lanfranchi che era forte solo in compagnia di Auderi e Uberti.
Gabriele ansimò e si rimise in piedi con l’aiuto di Emilia che, coraggiosamente, non era scappata via. Kijami fronteggiò da solo gli altri tre.
«Sempre voi, sempre. E complimenti Sorrentini, sei arrivato da poco, ma mi pare che tu abbia lo stesso temperamento».
Gabriele fulminò Barbieri con lo sguardo. «A differenza di questi tre, credo di avere un cervello».
Auderi, Uberti e Lanfranchi gli ringhiarono contro, ma non ebbero il coraggio di fiatare di fronte al professore.
«Borgatti, che cosa è successo?».
Emilia sobbalzò nel sentirsi chiamare in causa, ma gli raccontò per filo e per segno quello che era accaduto. Gabriele si preoccupò per lo sguardo che i tre le rivolsero, ma lei in quel momento non sembrò farci caso.
La campanella suonò in quel momento, ma nessuno di loro si mosse. «Borgatti, vai in classe e sei pregata di non allontanarti dalla zona destinata alla tua classe la prossima volta» ordinò Barbieri. La ragazzina annuì e si allontanò velocemente. Poi il professore si voltò verso di loro e li soppesò. «Auderi, Uberti e Lanfranchi, domani verrete accompagnati o potrete starvene a casa» tuonò infine. «Sorrentini, ti sei guadagnato una nota. Sei un piantagrane proprio come loro».
«Io mi sono solo difeso».
«Mi pare di aver capito che tu sia stato il primo a colpire, o Borgatti mi ha mentito?» replicò Barbieri con fermezza tacitando le proteste dei tre.
«No, ma mi hanno provocato».
«Questa non è una giustificazione» ribatté Barbieri. «Jama aiuta il tuo compagno con lo zaino e accompagnalo all’ascensore».
Kijami annuì e sembrò particolarmente sollevato mentre si dirigevano all’interno, dove avrebbero trovato l’ascensore. «Sono tre cretini, tranquillo. Non sai quante volte sono stati sospesi l’anno scorso. È una vera sfortuna che li abbiano messi in classe con noi» gli disse.
Gabriele era furioso. «Barbieri è un bastardo come loro».
Kijami lo fissò inorridito e si guardò intorno. «Ma che dici? Se ti sentisse! Ha sospeso gente per molto meno».
«A me sembra uno che va a preferenze».
«Oh, no, ti sbagli» replicò l’altro. «Non è il tipo. È solo molto burbero».
«Col cavolo. Perché non rimprovera mai quel Baldini che sta seduto con me? Non lo fanno manco gli altri professori. È un raccomandato».
«Elia? Ma no, ti sbagli».
«Per forza, è tuo amico» sbottò Gabriele salendo sull’ascensore. «Senti, mettiamo le cose in chiaro, io non la voglia la tua amicizia. Non sembri male, ma ti circondi degli sfigati della classe e no, io non rientro tra quelli. È chiaro?».
«Non ho mai pensato che tu fossi sfigato» ribatté Kijami. «E non lo sono nemmeno Elia e Benedetto».
«Questo lo dici tu. Comunque, grazie dell’aiuto prima, ora stammi fuori dai piedi» concluse Gabriele raggiungendo la loro classe. La Bernardini d’italiano era già arrivata, ma lui non ricambiò il suo sorriso.
Per il resto della giornata fu scontroso e a malapena rispose ai suoi mentre pranzavano.
«Alle cinque devi essere pronto» gli disse scocciato suo padre, quando si alzò da tavola senza nemmeno aspettare che avessero finito di mangiare. «L’appuntamento è alle cinque e trenta».
Gabriele sbuffò e non rispose, probabilmente infastidendo di più suo padre, ma mai quanto lo era lui: quando avrebbe perso la pazienza? Quando tutto sarebbe tornato normale? Perché gli altri, compresi i suoi genitori, vedevano soltanto quelle maledette stampelle?
 
 
 


 
*
 



 
Benedetto aveva quasi terminato di rassettare la cucina quando sua madre rientrò.
Sentì il rumore della serratura scattare e si voltò verso la porta: sapeva che sarebbe rientrata a quell’ora, ma era sempre meglio stare attenti.
«Ciao» l’accolse all’istante e l’abbracciò.
«Ciao, tesoro» replicò stancamente la madre, scompigliandogli leggermente i capelli. «Tutto bene?».
«Sì» rispose il ragazzino. «Tu?».
Sua madre strinse le labbra in un’espressione sofferente. «Potrebbe andare meglio» decise infine di rispondere.
«Perché quell’uomo ti ha toccata ancora?» sbottò Benedetto, spaventato e arrabbiato allo stesso tempo.
Sua madre si voltò sconvolta e lo fissò. «Cosa ne sai tu?».
Benedetto si mordicchiò il labbro, avrebbe dovuto star zitto. «So cosa ti ha fatto» replicò a voce bassa senza guardarla negli occhi.
Sua madre sbuffò. «Te l’ha detto Chiara? Rispondi».
«Sì».
«Non posso fidarmi di lei» sospirò la donna e Benedetto non l’aveva mai vista così stanca e fragile.
«Ma non è un problema» tentò di consolarla. «Non lo dico a Giulia».
«Ci mancherebbe pure» sbottò sua madre. «Senti, Benedetto, non ti fare strane idee: non ho permesso a quell’uomo di fare un bel nulla. Ci ha solo provato. Spero solo che l’avvocato d’ufficio che mi hanno affibbiato sia in grado di dimostrarlo».
Benedetto la fissò incerto e poi disse: «Si sistemerà tutto».
«Lo spero. Vieni qui». Benedetto si lasciò abbracciare stretto. «Chiara ha chiamato vostro padre. Lui pensa che dovreste andare da lui». Benedetto s’irrigidì. «Chiara è pronta a preparare i bagagli».
«Ma io non voglio» mormorò sul punto di scoppiare in lacrime.
«E nemmeno io. E finché sarete sotto la mia custodia, nemmeno tua sorella andrà da nessuna parte. Può parlare quanto vuole finché non compie diciotto anni».
Benedetto non rispose nemmeno e rimase appoggiato con la testa sulla spalla di sua madre finché non si calmò, poi si alzò e finì di ordinare la cucina. Sua madre, nel frattempo, andò in camera a cambiarsi e poi tornò in cucina a mangiare qualcosa.
«Posso andare da don Paolo?» le chiese.
«Sì, vai» rispose distrattamente sua madre. «Torna prima che faccia buio».
«Ma mamma alle cinque è già buio».
«Non fa niente. Non voglio che stai in giro da solo».
«Non sono in giro, sono…».
«Benedetto».
«Ok, va bene. Ci vediamo dopo» sospirò Benedetto baciandola sulla guancia e recuperando lo zainetto che aveva già preparato.
Ispirò l’aria fresca di novembre, ma il sole che solleticava il suo viso era ancora tiepido. I brutti pensieri lo accompagnarono per quasi tutto il tragitto: non aveva alcun desiderio di andare a vivere con suo padre al Nord, a lui casa sua andava benissimo e poi voleva stare con la mamma. Se suo padre avesse voluto loro bene, sarebbe rimasto, si sarebbe fatto sentire più spesso e non solo una volta al mese, se andava bene. L’unica che tentava di mantenere un contatto con lui era Chiara. Perché poi sua sorella ce l’avesse tanto con la mamma, non era chiaro a Benedetto, ma non gli interessava approfondire. A volte la verità faceva troppo male.
Quando era quasi arrivato, notò Gabriele Sorrentini, il nuovo compagno di classe, seduto sul prato di fronte a casa sua, intento a lanciare una pallina contro il muro e riprenderla. Il compagno indossava solo una felpa leggera e Benedetto rabbrividì non comprendendo come potesse non sentir freddo: lui indossava una felpa pesante e un giubbotto. Non era solito andare in casa di altre persone, per quanto potesse aver legato con alcuni compagni s’incontrava con loro solo da don Paolo. Si fece coraggio e lo raggiunse, non riuscendo a dimenticare le lamentele di Kijami su una discussione che quella mattina era avvenuta tra loro.
«Ciao, posso?» gli chiese attirando la sua attenzione, ma senza lasciare il marciapiede, temendo di risultare invasivo.
Gabriele smise di lanciare la pallina e si voltò verso di lui accigliandosi. «Se proprio devi» replicò.
«Ti disturbo?».
«Che vuoi?».
«Kijami mi ha raccontato quello che è accaduto stamattina».
«Tu parli?».
Benedetto sospirò e quasi si pentì di essere andato da lui: Gabriele non sembrava avere un carattere molto diverso da quello di Auderi e dei suoi amici e lui di solito stava lontano da quelli come loro. Mise le mani in tasca e si avvicinò maggiormente. Era già stanco di discutere e non voleva farlo anche con lui.
«Kijami è un bravo ragazzo, è simpatico, gentile…».
«Dacci un taglio» lo tacitò bruscamente Gabriele. «Che vuoi da me?».
Benedetto l’osservò per qualche secondo, poi mormorò: «Ho bisogno di un favore».
«Un favore?! Stai scherzando? Non ci conosciamo nemmeno e tu vieni a casa mia a chiedermi un favore?» sbottò Gabriele con più cattiveria di quanto avrebbe voluto e totalmente gratuita.
«Scusa, hai ragione». Benedetto fece per andarsene, ma Gabriele lo fece inciampare con una stampella. «Non così in fretta, ora mi dici quello che vuoi».
Benedetto a gattoni nell’erba sospirò e si sedette. «Mi restituisci il mio posto?».
«Il tuo posto?».
«Sì, prima che tu arrivassi, io ero seduto accanto ad Elia. Non sopporto proprio Lanfranchi, non mi lascia stare».
Gabriele era stato preso in contropiede. «Vuoi cambiare posto?» ripeté.
«Per piacere, Filippo non mi lascia in pace. Oggi la Giusti se l’è presa con me» sospirò Benedetto.
«E perché dovrei stare io con quel cretino?».
«A te non piace stare con Elia».
«E non capisco come faccia a sopportarlo tu» ribatté Gabriele.
Benedetto sospirò. «Elia non è raccomandato».
«Jama ti ha raccontato proprio tutto».
«Il silenzio non è una virtù di Kijami».
Gabriele sollevò gli occhi al cielo. «Decisamente no. Perché ha delle virtù?».
«È simpatico, è…».
«Non ricominciare» lo zittì nuovamente Gabriele. «Comunque io sto dove sono».
«Perché?» tentò d’insistere Benedetto.
«Perché sì. Ora vattene, mi stai annoiando».
Benedetto annuì e chinò il capo. «Scusami, buon pomeriggio».
«Ehi, aspetta». Benedetto si voltò sorpreso. «Chi abita dietro quella siepe? Quel cretino di Auderi?».
Benedetto si accigliò e, quando capì cosa intendesse, rise.
«Ma che ti ridi?».
«Niente, scusa. Comunque no, non ci abita Auderi».
«Uberti?».
«Nemmeno».
«Quella smorfiosa della Barone, ci scommetto!».
«No. Ci vediamo domani».
Benedetto gli voltò le spalle e si diresse verso le strisce pedonali più vicine, anche se a quell’ora del pomeriggio non passavano quasi mai macchine. La siepe casa di Auderi! Era proprio fuori quel ragazzo.
«Aspetta, non starai andando lì!?» ruggì la voce di Gabriele in lontananza.
Sentendo il rumore delle stampelle sull’asfalto, Benedetto si fermò e lo attese sul marciapiede, non era gentile ma non lo sarebbe stato nemmeno lui a lasciarlo solo.
«Dimmi che cosa c’è lì».
Benedetto sorrise per la sua impazienza, ma era anche inquieto: non era sicuro di volerne parlare con lui. «No» sbottò ora con fastidio.
Gabriele sbuffò. «Bene, allora prenditi il posto vicino a quello strano di Baldini, ma dimmi che c’è là dietro».
«No» ripeté Benedetto. «Prima di tutto, Elia non è strano: ha la sindrome di Asperger. È molto intelligente, è un genio della matematica, ma non gli piacciono alcune cose: essere toccato, le voci troppo alte, che qualcuno tocchi le sue cose… È per questo che Barbieri non l’ha rimproverato quando ti ha spinto il quaderno e buttato il borsellino a terra».
«È per questo che gli fanno fare tutto quello che vuole».
«A lui non piace. E non tutti gli fanno fare quello che vuole: Barbieri e la Bernardini no, per esempio».
«Sì, vabbè, ora mi dici cosa c’è lì».
«No».
«Cos’altro vuoi?».
Benedetto sospirò. «Ma perché t’interessa?».
«Voglio saperlo».
«Non mi sembra una gran motivazione».
«E che cavolo, è da stamattina con queste motivazioni. Sono curioso, ok?».
Benedetto si mordicchiò il labbro nervosamente e annuì. «Prometti che non lo dirai a nessuno? Soprattutto ad Auderi e gli altri».
«Certo, che pensi? Io non parlo con quelli lì».
«Va bene, allora vieni».
Benedetto attraversò la strada e s’inoltrò subito nel prato oltre il marciapiede: era incolto e in alcuni tratti c’era anche spazzatura. Gabriele lo seguì a fatica e compirono il giro della siepe. Da quel punto non si vedevano più le villette, ma solo alcune vecchie case con le porte sbarrate.
Benedetto si fermò e indicò quello che apparve un’apertura nella siepe. «Vieni?».
«Sei scemo o cosa?» sbottò Gabriele. «Non posso passarci con queste».
«Ah, giusto, scusa. Allora passiamo dalla porta principale».
«La porta principale? Non potevamo farlo subito?».
«Di solito noi entriamo da qui» replicò il ragazzino. «Scusami».
«Non voglio la tua pietà né quella di nessun altro» sbottò Gabriele.
«La mia non è pietà» sbuffò Benedetto infastidito. «Perché dovrei? Sei un ragazzo muscoloso, sai che tutte le ragazze di terza ti guardano?».
«Sul serio?».
«Sì, l’ha detto Mirea a Emilia».
«Non credevo che a loro interessassero certe cose… mi avevano dato un’impressione diversa» disse Gabriele incespicando nuovamente nell’erba alta e tentando di evitare la spazzatura. «Ma qui non pulite mai?».
«Non sono interessate» replicò Benedetto. «Mirea ce l’aveva con te infatti… e comunque abbiamo un problema con lo smaltimento dei rifiuti. È uno degli argomenti di conversazione preferiti di Mirea, ogni tanto ci costringe a pulire e organizza sit-in contro il Comune».
«Ce l’ha con me?» sbuffò il ragazzo fermandosi.
«Sì, pensa che guardi solo quelle che lei definisce oche e si lamentava con Emilia, che, però, non era particolarmente interessata. Poi anche se con le stampelle cammini e ti muovi, c’è chi non può farlo e sai difenderti benissimo. Lanfranchi ti teme e non è il solo… Vedi, non c’è alcun motivo per cui io debba aver pietà di te». Benedetto aveva detto quelle cose tutte di un fiato e poi lo aveva guidato lungo il marciapiede fino a un cancello rosso riverniciato da poco. Una vecchia targhetta recitava “L’isola felice”.
«Che roba è?».
«Un centro per anziani».
«Un ospizio, in pratica».
«Non mi piace quel termine» replicò Benedetto entrando, «e non piace nemmeno a loro».
«Che ci facciamo noi in un ospizio?».
«È un centro» ripeté Benedetto. «Andiamo dagli altri. Non volevi scoprire che cosa c’è dietro la siepe?».
«Ma i vecchi?» borbottò Gabriele che non amava molto le persone anziane.
«Alle tre del pomeriggio riposano» rispose Benedetto avviandosi verso l’ala sinistra di quel comprensorio di media grandezza. Oltre quello che doveva essere un capannone per gli attrezzi e una serie di aiuole ben curate, trovarono una zona delimitata da un’ampia rete verde.
«Oh». Gabriele rimase sorpreso.
Oltre la rete vi era quello che sembrava un campetto da calcio in terra con delle porte improvvisate e addirittura, ai margini, vi era un canestro malconcio. Un gruppo di ragazzi vi stava giocando allegramente.
«Benvenuto sull’isola» sospirò Benedetto visibilmente contento e molto più rilassato.
«L’isola? Non è molto originale».
Quelle parole non sfiorarono nemmeno Benedetto che, però, si voltò e lo fissò con serietà. «Hai promesso, ricordi?».
«Cosa?».
«Hai promesso che non lo dirai a nessuno».
«E manterrò la promessa» sbuffò Gabriele sollevando gli occhi al cielo. «Ma non mi sembra un gran segreto: è solo un campetto, mica San Siro. Lo conosceranno tutti quelli della zona».
«Invece no» ribatté Benedetto con fermezza. «Questo posto appartiene al centro anziani, nessuno sa che ci veniamo a giocare. E il nome non è legato solo a quello del centro».
«E a che cosa?» domandò Gabriele.
«L’isola che non c’è».
«L’isola che non c’è? Quella di Peter Pan?».
«Esattamente. Vieni ti presento gli altri».
E Gabriele lo seguì. Alcuni li conosceva già: Kijami, intento a tirare rigori a un ragazzino grassottello, lo accolse felice come al solito; Mirea e Darya, una ragazzina di origini iraniane, giocavano a basket; Elia, seduto a terra vicino a una panchina che usava come tavolino, risolveva strani esercizi di matematica; Barku, profugo siriano, che giocava in porta ma non prendeva nessuno dei tiri di Kijami.
«Quando avete scoperto questo posto?».
«Circa a metà della prima media» disse Benedetto salendo all’in piedi sulla panchina. «Era pieno di erbacce. Era stato completamente abbandonato perché il centro non aveva i fondi né per pulirlo né per mantenerlo».
Gabriele notò che Benedetto era diverso; aveva salutato tutti con tranquillità e non con il solito timore che mostrava a scuola. «E voi dove avete trovato i soldi per sistemarlo?».
«Da nessuna parte. L’abbiamo pulito io e Kijami, poi man mano si sono uniti gli altri».
«Benedetto» chiamò Kijami. «Quando sistemiamo le buche?».
«Nel fine settimana» rispose con sicurezza Benedetto. «Domenica, possiamo lavorarci prima e dopo la messa. Tu e Barku non ci andate, quindi avrete ancora più tempo».
«Giusto» assentì Kijami. «È proprio snervante quando la palla finisce lì dentro. In fondo si è creata una vera e propria voragine!».
Kijami tornò a giocare insieme agli altri.
«Ehi, Benedetto, pensavo: non potremmo comprare una rete e giocare a tennis? Io ho due racchette a casa, potremmo usarle» si avvicinò Mirea.
«Dipende da quanto costa la rete» replicò Benedetto accigliandosi. «Io sono al verde al momento».
Mirea storse la bocca e annuì. «Controllo e ti faccio sapere».
«Sei tu il capo?» chiese sorpreso Gabriele. Era questa l’impressione che gli aveva dato l’altro: gli altri si rivolgevano a lui e aspettavano il suo consiglio e giudizio.
«Ho scoperto io il posto e io gliel’ho mostrato» rispose Benedetto stringendosi nelle spalle. «Non sono propriamente il capo, però. Ognuno può fare quello che vuole, tranne rivelare l’esistenza dell’isola».
A Gabriele sembrava strano che quel posto fosse veramente segreto, ma non aveva intenzione di discutere con lui. «Se questo posto appartiene all’osp-centro per vecchi, chi ti ha dato il permesso di stare qui? Lo sai che illegale occupare la proprietà privata?».
«Sì, ma ho stretto un accordo. Finché l’accordo vale, questo posto ci appartiene. Una specie di affitto insomma».
«Un affitto? Chi affitterebbe mai a dei ragazzini? Qualcuno vi chiede soldi?».
Benedetto sorrise e scosse la testa. «Niente soldi. Pago diversamente».
«Diversamente?».
«Sì, te l’ho detto, ho un accordo con don Paolo».
«Don Paolo, quello di religione?».
«Sì, è anche il sacerdote della nostra parrocchia» spiegò Benedetto.
«E cosa gli hai promesso?» domandò Gabriele sospettoso.
«Un’ora al giorno andrò a trovare gli anziani. Sai, si sentono molto soli e spesso i loro familiari non vanno a trovarli».
Gabriele si accigliò. «Quindi per stare qui, dobbiamo stare con i vecchi?».
«No, don Paolo ha stretto l’accordo con me e solo io devo andarci. Gli altri solo se vogliono. Di solito Elia e Kijami vengono con me. Mirea ha litigato con un paio di infermiere e non può farsi vedere spesso».
«Aspetta, perché mai ci ha litigato?» ridacchiò Gabriele.
«L’hanno accusata di sobillazione».
La risata divenne più forte. «Sobillazione?».
«Sì, praticamente spingeva gli anziani a scioperare per avere cibo migliore o infermiere più simpatiche».
Gabriele rise e Benedetto lo imitò, poi raggiunse Elia e tirò fuori un quaderno dallo zainetto.
«Che fate?».
«Ho bisogno di aiuto con matematica o Barbieri domani mi uccide» rispose Benedetto.
Gabriele li fissò accigliato e poi dedicò la sua attenzione a Kijami e gli altri intenti a giocare.
Dopo circa una mezz’oretta, Benedetto lo raggiunse e disse: «Ho finito».
«Di già?».
«Elia è un genio» replicò Benedetto stringendosi nelle spalle. «Vuoi venire con me al centro? Così ti presento gli altri amici».
Gabriele non era per nulla entusiasta all’idea di seguirlo, ma non si oppose. Degli altri solo Elia li seguì affermando di dover sistemare i canali a un certo signor Vaccari per la partita della sera.
Benedetto lo condusse per la stessa strada che avevano percorso all’andata.
Il centro era come Gabriele se l’aspettava: bianco, troppo bianco e asettico, divanetti all’ingresso, a mo’ di sala comune, tutti rivolti verso un televisore spento, e dei tavolini pieni di riviste a destra; a sinistra un tavolino e delle poltrone con la vista su una porta a vetri, che dava sullo stretto cortile con le aiuole curate. In fondo a destra c’era quella che doveva essere l’accettazione con il suo bancone biancastro, dietro al quale sedeva una signora che giocava distrattamente con il cellulare; alla sinistra del bancone s’intravedeva una scala che doveva portare al piano superiore e un’altra vetrata che contribuiva a illuminare l’ambiente.
Elia si diresse subito verso l’unico signore anziano seduto davanti alla televisione spenta, il quale s’illuminò nel vederli. Benedetto si avvicinò per salutarlo e gli presentò Gabriele, poi si allontanò e si avvicinò alla signora all’accettazione, la quale si limitò a un cenno d’assenso e a indicargli le scale.
«Dove andiamo?» borbottò Gabriele preoccupato.
«Ti presento la signora Elisabetta» disse Benedetto. «Mi raccomando, sii educato. È una maestra in pensione ed è molto fissata con le buone maniere».
«Perché stai andando in camera sua? E perché io ti sto seguendo?».
«Leggo per lei ogni pomeriggio».
«Non può leggere da sola?».
«No, ha perso la vista» sospirò Benedetto salendo sull’ascensore vicino alle scale; pochi minuti dopo scesero in uno stretto corridoio su cui davano una serie di porte in legno chiaro. «Mi raccomando». Bussò ed attese che una voce femminile gli desse il permesso di entrare. «Buon pomeriggio, signora Elisabetta».
«Buon pomeriggio, Benedetto» rispose la signora, seduta in una poltrona vicino a un’ampia finestra.
Fortunatamente in quel posto la luce non mancava. Gabriele si guardò intorno preoccupato, ma sembrava una stanza normale e ordinata. Non c’era nulla che urlasse vecchiaia o malattia: aveva temuto di sentire odore di disinfettante. Non lo sopportava minimamente.
«Ho portato un amico con me oggi, spero che non le dispiaccia».
«Non è quel ragazzino che sa a memoria tutti i giocatori della Juventus?».
«No, Kijami è rimasto al campetto».
«Ah, meglio così» borbottò la signora.
«Io sono interista» borbottò, invece, Gabriele per il quale essere scambiato per uno juventino era insulto grave. «Mi chiamo Gabriele Sorrentini».
«Piacere» replicò la signora. «Come state oggi?».
«Bene, grazie» rispose Gabriele sedendosi sul letto su istruzione di Benedetto, che fece altrettanto.
«Oggi a scuola abbiamo letto Il sabato del villaggio di Leopardi» raccontò Benedetto.
«Oh, bellissima poesia».
«Vuole che le legga qualche poesia dal libro di letteratura o continuiamo Se una notte d’inverno un viaggiatore?».
«Calvino, Calvino, sono curiosa di scoprire come va a finire».
«Anch’io» disse contento Benedetto, recuperando il libro dalla scrivania vicino alla porta.
Gabriele lo fissò mentre era intento a togliere il segno, schiarirsi la voce e iniziare a leggere. La storia era strana e sebbene Benedetto e la vecchia si stessero esaltando, lui cominciò ben presto ad annoiarsi. Sembrava che Benedetto non si stancasse mai; personalmente accolse con un sospiro di sollievo l’arrivo di una delle addette che invitò la signora a scendere per il thè pomeridiano e il rosario.
«Temo che per stasera non potremo andare avanti, don Paolo non viene sempre».
«Non c’è problema» rispose Benedetto riponendo il libro. «Mamma vuole che torni a casa prima che faccia buio e devo ancora fare quasi tutti i compiti per domani».
«Mi raccomando, la scuola è importante».
«Sì, signora Elisabetta. Posso accompagnarla?».
«Certamente».
«Oh, le dispiace se prendiamo l’ascensore» ricordò Benedetto fissando Gabriele. «Il mio amico non può scendere le scale».
«Come mai?» chiese la vecchia.
«Ho le stampelle. Anch’io devo andare, mio padre mi aspetta» disse con fermezza Gabriele, senza alcuna voglia di parlare della propria condizione.
Al piano di sotto Kijami, che nel frattempo li aveva raggiunti, ed Elia erano impegnati a giocare a Fifa con il signor Vaccari, ignorando don Paolo che cercava di richiamarli, se per smetterla di giocare o di eccitare il vecchio, che sembrava in fibrillazione come un bambino con quel joystick in mano, Gabriele non avrebbe saputo dirlo, ma tutto sommato non gli era dispiaciuta quella visita.
«Facciamo un pezzo di strada insieme?» chiese Benedetto.
«Come vuoi».
Quando arrivarono a casa sua, Gabriele vide subito la madre in apprensione ricordandosi di non averla avvertita.  «Vieni ti presento i miei» disse al compagno.
«Cosa? No, non voglio disturbare e mi vergogno».
«Saranno furiosi perché mi sono allontanato senza permesso, se ci sei tu si ammansiscono, ok?».
«Mi vergogno» ripeté Benedetto.
«Non fa niente. Per piacere! Li conosco, daranno di matto. Sono molto ansiosi».
«Va bene» mormorò Benedetto per nulla contento.
Gabriele si stampò un sorriso in volto e lo spinse avanti. «Sono tornato!» trillò come se nulla fosse. «Vi presento Benedetto, un mio amico e compagno di classe».
«B-buona s-sera» balbettò il ragazzino fissandosi in piedi.
Suo padre gli lanciò uno sguardo furioso, mentre la madre mutò rapidamente la sua espressione da ansiosa a entusiasta «Un amico? Accomodati, accomodati».
«I-io v-veramente…» tentò Benedetto travolto dall’entusiasmo della signora.
«Vieni! Ti piace la ciambella al cioccolato?».
«I-o dovrei andare a casa» mormorò.
«Solo cinque minuti!» disse allegra la signora.
Benedetto acconsentì senza comprendere veramente perché la signora si comportasse in quel modo; Gabriele, invece, comprendeva eccome e si irritò, ma non lo diede a vedere solo per non finire nei guai.
 
 


 
*
 
 



Benedetto fissò la fiocina, incerto su dove riporla per evitare che si rompesse – aveva l’aria di essere sufficientemente costosa – o lo ferisse. Lo inquietava non poco quell’aggeggio. Nel dubbio l’aveva appoggiata sulla scrivania. Sospirò e strinse le mani in grembo; mani che fino a qualche minuto prima aveva tenuto ben premute sulle orecchie nella speranza di non sentirli litigare. Avrebbe volentieri sostituito quel Natale con una lezione della professoressa Giusti e lui non la sopportava proprio come odiava il francese.
Aveva un profondo timore d’immergersi ad alte profondità e non aveva alcuna voglia di dedicarsi alla pesca subacquea. Di solito ringraziava e riponeva i regali nell’armadio, ma come avrebbe potuto mettere la fiocina lì? Insieme alla pistola a piombini, il piccolo chimico, l’overboard… tutti simboli di quanto suo padre non lo conoscesse o, peggio ancora, segno di quanto lui non piacesse a suo padre così com’era e di come volesse cambiarlo. E non era una sua convinzione personale, suo padre l’aveva detto esplicitamente quel giorno, accusando sua madre di aver cresciuto un ragazzino senza spina dorsale.
Benedetto sospirò: Chiara aveva insistito perché trascorressero il Natale tutti insieme e la mamma aveva ceduto e invitato anche l’ex marito, nonostante non ne avesse la minima voglia. La giornata era stata un completo disastro: dal momento in cui suo padre aveva messo piede in casa non aveva fatto altro che criticare tutto e tutti – tranne Chiara ovviamente e la piccola Giulia -; infine era scoppiato un prevedibile e violento litigio tra i due ex coniugi.
«Benedetto».
Il ragazzino sobbalzò quando suo padre entrò in camera sua senza neanche bussare. In realtà non ricordava nemmeno l’ultima volta che era stato lì. L’uomo si guardò intorno e storse la bocca: Benedetto non avrebbe saputo dire perché, ma lui di certo non era come gli altri papà. La camera era sufficientemente ordinata – la madre gli aveva intimato di far ordine appena iniziate le vacanze, ma sicuramente il fastidio paterno non dipendeva da quello.
«Usciamo. Andiamo a vedere l’horror uscito qualche giorno fa, Chiara non vede l’ora; poi non so, facciamo un giro e troviamo qualcosa d’interessante da fare. Avanti sbrigati e indossa qualcosa di decente, non quella roba da bambini».
Benedetto chinò gli occhi sul suo maglione rosso con un elfo di Babbo Natale e fece una smorfia. «È divertente» bofonchiò a mo’ di scusa.
«Mettiti qualcosa di decente e sbrigati» ripeté suo padre.
Benedetto prese un bel respiro e disse: «No, grazie».
«Cosa?» chiese suo padre evidentemente sorpreso.
«Non mi va di venire, grazie».
«Vuoi rimanere a casa con tua madre? Non ho intenzione di farti diventare un mammone!» sbottò suo padre arrabbiandosi.
«Ho da fare» replicò il ragazzino. «Ho degli amici…» borbottò.
«Amici! Ma per favore! Chiara mi ha detto che a scuola stai in compagnia sempre di sfigati. Non mi piace che li frequenti, quindi verrai con noi».
«No!» alzò la voce Benedetto e lo fissò con rabbia. «Non voglio venire con voi!».
«Chiara ha detto che te la fai addosso a vedere un film horror».
«Sì, è così, ora mi lasci in pace?».
«Non parlarmi così! Sono pur sempre tuo padre!».
«Solo quando te lo ricordi!» sbottò Benedetto senza riuscire a trattenere le parole.
L’uomo lo guardò con rabbia. «Tu non mi piaci, Benedetto. Ti assicuro, però, che farò in modo di poter decidere io per te e vedrai che comincerai a rigar dritto».
Benedetto deglutì e suo padre lo lasciò solo. Il ragazzino non si mosse dalla sua stanza finché non sentì la porta d’ingresso sbattere mezz’ora dopo. Non aveva mai risposto in quel modo a suo padre, ma non si sentiva né soddisfatto né dispiaciuto: solo svuotato. Si alzò e si diresse nella stanza della madre. Era al buio, ma lui entrò lo stesso.
«Mamma» chiamò.
La donna accese la lampadina del comodino e vederla con il volto rosso e striato di lacrime colpì profondamente Benedetto.
«Benny, tesoro, ho bisogno di dormire un po’». Benedetto annuì e gli occhi gli caddero sulle gocce che la madre teneva sul comodino, sapeva che servivano a dormire ma era un po’ che lei non le usava. «Penso che tuo padre e le tue sorelle faranno tardi, conoscendolo ceneranno fuori». Il ragazzino annuì ancora, senza sapere che cosa dire. «Non sapevo che ti dovessi vedere con Kijami. Credo faccia troppo freddo per giocare fuori».
In verità non aveva alcun appuntamento, tutti i suoi amici erano impegnati a festeggiare a casa con i propri familiari. «Faccio solo un giro» disse quasi supplichevole rendendosi conto di quanto volesse andare il più lontano possibile da lì.
Sua madre sospirò e annuì. «Va bene, vai, ma stai attento, per piacere».
«Vuoi che rimango qui con te?» chiese però Benedetto non volendo lasciarla sola.
«No, te l’ho detto, voglio riposare».
Benedetto non era convinto, ma assentì lo stesso. «Grazie per la sciarpa di Tassorosso».
«Sono contenta che ti piaccia. Ora vai, o si farà tardi».
Benedetto sorrise leggermente e si sbrigò a uscire. Per strada non c’era quasi nessuno e faceva freddo. Indeciso si fermò di fronte alla casa di Gabriele. Non era mai andato sull’isola il giorno di Natale e magari l’amico gli avrebbe fatto compagnia, ma prima di suonare si rese conto che dovevano esserci degli invitati e lasciò perdere: non aveva voglia di vivere il Natale degli altri.
Al centro fu, però, ben accolto. Gli anziani, che non erano andati a casa dei figli per le festività, erano intorno a un lungo tavolo e giocavano a tombola. Don Paolo lo salutò con allegria e la signora Elisabetta lo volle accanto. Un balsamo per il suo cuore affranto, in teoria; in pratica quando non è la tua giornata, non è la tua giornata: seduto a fianco della signora c’era niente meno che il professor Barbieri, il vicepreside, l’incubo dell’intera scuola e naturalmente della sua classe. Benedetto balbettò un saluto e un augurio di buon Natale, ma la signora Elisabetta lo afferrò per le spalle appena fu abbastanza vicino. Era cieca, ma la forza non le mancava.
«Com’è che oggi sei più timido del solito?» lo redarguì lei con una gioia quasi fanciullesca, che non ricordava il tono scorbutico con il quale di solito si rivolgeva alle infermiere della struttura. «Bernardo, ti presento Benedetto, il ragazzino di cui ti ho tanto parlato e che ogni pomeriggio legge per me». Era uno di quei momenti in cui si vorrebbe scomparire: Benedetto non sapeva da che parte guardare per simulare l’imbarazzo e il timore nei confronti di quell’uomo. Avrebbe tanto voluto scappare a gambe levate, per un momento anche le fredde strade vuote apparvero più appetibili. «Benedetto, ti presento mio figlio Bernardo».
Il ragazzino era paralizzato: quanto ti presentano una persona dovresti dire qualcosa come piacere di conoscerla o qualcosa del genere, ma lui lo conosceva già! Non era un insegnante cattivo, nonostante facesse di tutto per sembrarlo, però suscitava comunque un sacco di paura.
«Ci conosciamo già». La voce ferma di Barbieri lo tolse dall’imbarazzo di rispondere. «È un mio allievo».
«Oh, non lo sapevo!» commentò la signora divertita. «Che strane coincidenze ti riserba la vita!». Già, a dir poco, pensò Benedetto. «Oh, ma non sarai turbato per questo? Su non essere sciocco! Siediti, stiamo giocando tutti insieme! Passate una cartella anche a Benedetto, su. Don Paolo sta chiamando i numeri».
Benedetto non riuscì a trovare una scusa per andarsene: la signora quasi lo spinse sulla sedia, che un’inserviente aveva portato appositamente per lui. Nonostante la premessa, la situazione migliorò e si ritrovò a ridere e sorridere più volte. A quanto pareva i pochi anziani rimasti volevano un po’ di compagnia giovanile e ognuno tentava di attirare la sua attenzione. Alle sette smisero di giocare per prepararsi a cenare, la signora Elisabetta sarebbe andata a casa della figlia insieme al professore, ma proprio quando Benedetto stava per congedarsi, dopo aver sistemato la televisione al signor Vaccari che voleva conoscere le ultime novità del mercato nonostante il dissenso generale, la signora Elisabetta gli chiese di accompagnarla in camera. Niente di anormale in teoria, lo faceva spesso, ma quella sera c’era anche Barbieri e di certo non aveva bisogno del suo aiuto.
«Non vorrei disturbare» mormorò.
«Un attimo solo» replicò la donna attaccandosi al suo braccio come faceva di solito.
Benedetto, sempre più a disagio, - perché non sapeva proprio che cosa pensasse di lui il professore - la guidò come al solito. In camera la donna gli porse una bustina di carta.
«È per te. Non l’ho incartato. Qui fanno tutti troppe domande».
Benedetto era sorpreso, la signora non gli aveva mai fatto un regalo. Sentì un fiotto di calore al petto e non trattenne un lieve sorriso. «Non era necessario».
«Oh, è solo un pensiero» si schermì lei, lasciandosi aiutare dal figlio per indossare un cappotto.
«Grazie» mormorò Benedetto tirando fuori I ragazzi della via Paal.
«L’hai letto?».
«No, non lo conoscevo» disse sinceramente.
«Vedrai ti piacerà. Dovresti mostrarlo anche ai tuoi amici».
«Sì, grazie» ripeté imbarazzato.
«Vuoi un passaggio? Stasera fa freddo» gli chiese Barbieri un po’ burberamente.
«No, grazie» rispose Benedetto sempre più imbarazzato.
«Non dovresti andare in giro a quest’ora da solo».
«Sono abituato». E poi non aveva alcuna voglia di rientrare a casa, ma questo lui non poteva saperlo.
Barbieri lo squadrò per qualche secondo costringendolo ad abbassare gli occhi. «Come preferisci». Salutarono e lasciarono il centro. «Buon Natale».
«Buona Natale» ricambiò Benedetto, dirigendosi dalla parte opposta a quella del professore. Subito, però, si sentì preso da un profondo scoramento: era tutto buio, freddo e vuoto. Non c’era nessuno in giro e transitavano pochissime macchine. Una parte di lui quasi si pentì di non aver accettato l’offerta, certo poi sarebbe stato terribilmente imbarazzante: in macchina con un professore? L’incubo di ogni studente! Eppure avrebbe goduto del calore della vettura e soprattutto della loro compagnia.
Ebbe la tentazione di andare da Gabriele, sicuramente non l’avrebbero cacciato: sarebbe stato bello il calore di una vera famiglia. Gabriele si lamentava sempre di quanto i suoi lo soffocassero, ma loro gli volevano bene. Gabriele proprio non capiva quanto fosse fortunato. Ma non era la sua famiglia, solo perché i signori Sorrentini l’avrebbero accolto a braccia aperte, non significava che sarebbe stato un bene per lui illudersi: dopo, avrebbe fatto molto male.  Sospirò e rassegnato si avviò verso casa: forse sua madre non aveva preso le gocce e avrebbe potuto convincerla a guardare insieme un film natalizio.
 
 
 


 
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Gennaio fu un mese impegnativo - dopotutto il primo quadrimestre stava per volgere al termine e gli esami erano sempre più vicini –, ma lasciò presto il posto a febbraio che portò con sé le pagelle. Benedetto per conto suo fu abbastanza soddisfatto. Unica consolazione di quel periodo: dopo Natale a casa sua la situazione sembrava essere precipitata. Suo padre sembrava convinto di chiedere la loro custodia e il ragazzino non aveva idea di come impedirlo, considerando che sua madre non poteva permettersi neanche un avvocato.
«C-ciao».
Benedetto si accigliò e prese posto accanto a Elia come ogni giorno.
«Non ti sembra strano Barku? Ha balbettato quando mi ha salutato».
Elia era impegnato a sistemare il borsellino e il diario in linea con il bordo del banco. «Mio padre vuol farmi fare ripetizioni di francese».
Benedetto tirò fuori i libri e non replicò: Elia seguiva un filo del discorso tutto suo a volte. «E tu non vuoi?» intuì abituato alla sua espressione seccata.
«Io non le farò».
«Gliel’hai detto?».
«Ha risposto che non gli interessa. Devo cominciare pomeriggio».
«Ah, mi dispiace».
«Non mi può costringere ad ascoltare la professoressa».
«Su questo non ci sono dubbi». Elia Baldini era terribilmente testardo: l’anno prima la Giusti, la loro professoressa di francese, aveva perso la pazienza con lui perché si era rifiutato di sporcarsi le mani con il gesso durante l’interrogazione. Ogni tanto gli prendevano quelle piccole manie, ma di solito passavano: gli altri insegnanti avevano accettato la situazione e gli avevano concesso di scrivere su un foglio. Tutti tranne la Giusti. Da quel momento in poi Elia aveva deciso che non avrebbe più studiato francese. Sì, decisamente era testardo. «Poi mi racconti?». Sarebbe stato divertente osservare la povera insegnante di turno che avrebbe dovuto fargli ripetizioni.
In quel momento entrò la professoressa di educazione artistica, Adelaide Bianchi, e tutti si alzarono in piedi salutando sommessamente.
«Sì, è strano». Benedetto si voltò di scatto verso Elia. «Negli ultimi giorni l’ho visto chiacchierare spesso con Auderi, Lanfranchi e Uberti».
Benedetto lo fissò a bocca aperta, per qualche assurdo motivo quell’informazione lo inquietò profondamente: parlava di Barku, non c’erano dubbi.
«Lorenzini!».
Tornò a porre la sua attenzione sulla professoressa, ma lei aveva iniziato a chiamare l’appello.
«Oggi ci occuperemo di fumetti» annunciò la Bianchi, tutti ne furono entusiasti, tranne Elia che gemette. Benedetto si chinò verso di lui e sussurrò, sebbene avrebbe potuto mettersi nei guai con la Bianchi che sapeva essere intollerante: «Puoi disegnare anche degli atomi o dei numeri e farli interagire tra loro».
Elia s’illuminò e sorrise. «Hai ragione».
Elia non amava disegnare, per quanto nel disegno tecnico fosse fantastico e aiutasse sempre Benedetto.
Il resto della giornata trascorse tranquillamente e Benedetto quasi corse a casa, desideroso di raggiungere l’isola il più velocemente possibile.
Kijami e Gabriele giocavano già al suo arrivo, entrambi abitavano vicini all’isola. Benedetto li sorrise e salutò felice. I due avevano trovato quello strano modo di giocare: Gabriele seduto sulla panchina cercava di colpire il pallone, che Kijami gli tirava, con la testa.
«Mi sa che saremo solo noi oggi. Elia non verrà».
«È di questo che parlavate stamattina?» ridacchiò Gabriele. «La Bianchi vi ha richiamati almeno due volte. Questo non va a favore della tua reputazione da dieci in condotta».
Benedetto alzò gli occhi al cielo. «Barku è strano, parlavamo anche di questo».
«Non ti fissare» gli disse Gabriele.
«Ehi!».
I tre si voltarono verso il buco nella siepe.
«Ciao» trillò Darya.
Insieme a lei c’era Emilia. Gabriele mancò il pallone e le sorrise. «Non pensavo sareste venute» disse proprio quest’ultimo. «Tuo nonno non era arrabbiato per la pagella?».
Emilia fece una smorfia e si strinse nelle spalle. «Non è mai contento. Però, ieri, al colloquio, i professori gliel’hanno detto che deve lasciarmi un po’ di spazio e quindi oggi si è convinto a farmi uscire».
«Ottimo! Giochiamo tutti insieme a schiacciasette?» propose Gabriele.
Accettarono di buon grado, ma troppo presto furono costretti a smettere.
«Fa troppo freddo» disse Darya. «Che facciamo?».
«Io devo andare dalla signora Elisabetta. Oggi dobbiamo iniziare un nuovo romanzo» disse Benedetto stringendosi nelle spalle.
«Mia madre mi ha chiesto di stare in giro fino al tramonto, perché oggi inizia a fare ripetizioni a un ragazzo e non vuole che la disturbi» disse Gabriele.
«Ha una grande considerazione di te» ridacchiò Kijami. «Comunque vengo anch’io. Elia non c’è e il signor Vaccari avrà bisogno di aiuto con il televisore, stasera c’è la Champions».
«Ti aiuto allora» disse Gabriele, che non apprezzava molto tutti quei vecchi, ma il signor Vaccari era simpatico e lui si stava riavvicinando al calcio.
«Io andrei» disse, invece, Darya. «Devo ancora finire gli esercizi di matematica per domani. Kijami, tua sorella la strozzo prima o poi, è colpa sua se Barbieri ce ne ha assegnati tanti».
Kijami sbuffò. «Pensa a me che convivo con lei da prima di nascere».
Tutti scoppiarono a ridere, tranne il povero Kijami che ultimamente non faceva altro che litigare con la sorella gemella.
«Guardate che non è divertente» si lamentò Kijami. «Sono contento che stamattina Barbieri l’ha rimproverata, a casa riesce sempre a far ricadere la colpa su di me».
«È colpa di Ambra e delle sue amiche» disse Darya. «Sta sempre appiccicata a loro».
«Lo so, ma…» le parole di Kijami furono interrotte da un rumore improvviso. Tutti si voltarono verso la siepe e videro Barku spuntare dall’entrata segreta.
«Ciao, Barku» salutò gentilmente Benedetto. Aveva cominciato a chiedersi se avesse fatto qualcosa di male e quindi era contento di avere la possibilità di parlare con lui con calma. «Sono felice che tu sia riuscito a venire, noi stavamo…». Le parole successive rimasero impigliate in gola alla vista dei ragazzi che seguivano Barku.
«Mi dispiace» disse quest’ultimo facendosi da parte.
Mattia Auderi, Filippo Lanfranchi e Diego Uberti ghignarono, cono loro c’erano altri sei ragazzi palesemente più grandi, almeno tra i quindici e i sedici anni. Ragazzi delle superiori.
«Questo posto è nostro ora. Smammate» dichiarò Auderi.
Benedetto ebbe difficoltà a elaborare quanto stesse accadendo.
«Giuda!» urlò Gabriele riscuotendo Benedetto.
Kijami ringhiò e si fece avanti a pugni levati. «Andatevene voi, razza di troll che non siete altro».
Quelli risero. «Troll? Jama non sapevo che fossi un nerd anche tu, ma solo Lorenzini».
Darya ed Emilia si misero l’una vicina all’altra, entrambe preoccupate.
«Davvero volete sfidarci?» chiese, invece, Uberti soppesandoli con sarcasmo.
«Siete voi che ci state provocando. Andatevene subito» sibilò Gabriele affiancando Kijami e sventolando una stampella minacciosamente. Benedetto rimase immobile conscio che non avrebbero avuto alcuna possibilità: le ragazze non combattevano, forse se ci fosse stata Mirea, sarebbe stato diverso; Gabriele era migliorato molto grazie alla fisioterapia, ma aveva ancora bisogno del supporto delle stampelle e Auderi lo sapeva, quindi ne avrebbe approfittato subito; lui e Kijami da soli non avevano speranza.
«No, questo posto, mi piace».
«Anche a me» disse il più grande del gruppo. «Auderi, mi hai sorpreso, non mi aspettavo conoscessi un posto del genere. È perfetto per fumare e nascondersi».
Auderi sembrò lusingato.
Poi successe il pandemonio: Kijami si gettò su Auderi, il più vicino, Gabriele gli diede subito manforte dando un colpo a Uberti sulle gambe con la stampella e facendolo cadere; due ragazzi più grandi scattarono e lo spinsero a terra, allontanando le stampelle; Benedetto dovette vedersela con Lanfranchi e le ragazze urlarono. Il peggio, però, accadde quando gli altri invasori superarono il confine e si avviarono verso il centro anziani.
Benedetto sapeva di dover fare qualcosa, ma l’idea che fosse tutto perduto era troppo forte. Sorprendentemente le ragazze intervennero in suo aiuto, colpendo Lanfranchi sulla schiena e sulle gambe, tanto che dovette liberarlo per difendersi da loro. Benedetto allora ne approfittò subito e corse dietro i ragazzi più grandi: doveva impedirli di farsi vedere dagli adulti.
Ormai era troppo tardi: si fermò paralizzato di fronte a quelle che una volta erano aiuole e vasi in attesa della fioritura invernale. Gli amici di Auderi stavano devastando tutto e dando fastidio a due dei tre vecchietti che di solito si occupavano di quell’angolo. Intervenne in loro aiuto, ma poté fare ben poco. Non seppe quanto durò quella confusione, ma a un certo punto apparve don Paolo accompagnato da alcuni inservienti del centro. Appena li videro i più grandi si diedero alla fuga, gli inservienti li seguirono e Benedetto si sentì artigliare il braccio.
«Non me l’aspettavo da te».
Quelle uniche parole, pronunciate da don Paolo mentre lo trascinava verso l’isola, furono un colpo al cuore: Benedetto non riusciva nemmeno a parlare e difendersi.
Gli inservienti erano fermi all’entrata del campo. Kijami, Gabriele e le ragazze erano tutti vicini. I due ragazzi non sembravano messi troppo bene.
«Avevamo un accordo e voi l’avete spezzato. Andatevene, prima che chiami la polizia».
Benedetto si sentì impotente. La presenza degli inservienti funzionò molto più delle minacce di don Paolo e i ragazzi più grandi corsero via sghignazzando.
«Vale anche per voi».
«Ma…» tentò Gabriele.
«Don Paolo!» si lamentò Kijami intento a pulirsi un gomito insanguinato con un fazzoletto.
«Andate! E non tornate qui!».
L’incanto era finito. Benedetto recuperò lo zaino e seguì gli altri dall’ingresso principale, sotto lo sguardo attento degli adulti finché non furono sul marciapiede.
«Accidenti! Se solo potessi muovermi per bene» sbottò Gabriele. «Sono dei vigliacchi!».
Benedetto non disse nulla, ma si limitò a salutare flebilmente. Ancora per il tramonto ci voleva un po’, ma quando arrivò a casa era quasi buio tanto camminò lentamente.
Era stata una giornata terribile, non riusciva nemmeno ad accettare di non poter tornare sull’isola. Aprì la porta di casa ben intenzionato a fiondarsi in camera sua e non uscirne prima della mattina successiva e solo perché doveva andare per forza a scuola. Appena entrò si rese conto, però, che le cose sarebbero andate ben diversamente: sua madre era appollaiata sul bordo di una vecchia e lisa poltrona rossa e aveva gli occhi rossi; sul divano c’era suo padre, circondato dalle braccia di Chiara, e sull’altra poltrona sedeva un signore che non conosceva.
«Buonasera» borbottò.
«Che cosa hai combinato?» chiese sua madre sgranando gli occhi. Benedetto si guardò e si avvide di aver sporcato i jeans e di averli strappati vicino al ginocchio, inoltre doveva avere il viso graffiato e rigato di lacrime.
«Uh, qualcuno è nei guai» ghignò Chiara.
«Vede, avvocato, la mia ex moglie non è in grado di prendersi cura dei figli!».
Il cuore di Benedetto sprofondò: ancora una volta quella sera non riuscì a parlare e non rispose a nessuna domanda di quelle che gli furono poste. Non fiatò e quando i suoi cominciarono a urlarsi contro, si nascose in camera conscio che l’unica speranza fosse di trovarsi in un incubo.
 
I giorni successivi dimostrarono che, per quanto potesse essere terribile, non era altro che la realtà. Benedetto non sapeva più che fare: tutto era andato a rotoli all’improvviso.
«Senti» sbottò un paio di settimane dopo Gabriele, «non fa niente, era solo un campo in terra battuta con delle porte di canna di bambù e corde».
Benedetto, con la testa appoggiata sul banco, non replicò.
«Vuoi?» gli chiese Elia porgendogli un pacchetto di cracker.
Scosse la testa e chiuse gli occhi. Ormai negli ultimi tempi aveva sempre un forte mal di testa e lo stomaco chiuso.
«Pomeriggio Elia viene a casa mia per fare francese con mia madre. Possiamo approfittarne e fare i compiti con loro e poi giochiamo alla playstation, ho dei bei giochi» tentò di nuovo Gabriele. In effetti avevano scoperto che l’insegnante di Elia fosse proprio la madre di Gabriele e, a quanto sembrava, era riuscita a convincere il ragazzo a collaborare.
«Benedetto, mi stai facendo preoccupare» borbottò invece Kijami fissandolo. «Non puoi far così».
«Ragazzi, seduti. L’intervallo è finito».
Benedetto sentì gli amici sospirare alle parole della Bernardini, la professoressa di italiano, e andare a sedersi.
«Benedetto, stai bene?».
Il ragazzino si obbligò a mettersi dritto e annuire.
«Sicuro? Hai una brutta cera».
Annuì di nuovo.
«Ragazzi, ricordatevi che pomeriggio ci sarà l’orientamento. È molto importante per voi, vi consiglio di ponderare bene quale scuola superiore sceglierete».
Benedetto chinò il capo sul libro di grammatica e ignorò la conversazione che ne seguì: suo padre aveva deciso d’iscriverlo all’istituto tecnico e anche in questo caso lui era rimasto in silenzio. Che senso avrebbe avuto protestare? Avrebbe soltanto causato l’ennesimo litigio tra i suoi genitori.
 
 
«Non puoi continuare così!» sbottò Gabriele. «Non parli e non mangi. Sei impazzito per caso?».
Benedetto lo fissò sorpreso: come lo sapeva lui?
«Ehm, ho sentito tua mamma parlare con la mia» confessò Kijami senza guardarlo negli occhi.
Le loro madri avevano stretto amicizia e a volte si incontravano: due solitudini diverse.
Erano nel cortile della scuola in attesa dell’inizio delle lezioni. Ormai marzo era alle porte e così la primavera, ma quelle prime giornate di sole non rallegravano minimamente Benedetto: era come se non riuscisse più essere felice. Effetto dissennatore, insomma. Ma lui non sapeva evocare un patronum per difendersi.
Emilia e Darya si avvicinarono altrettanto preoccupate. «Come possiamo aiutarti?» chiese la prima.
Benedetto scosse la testa: nessuno poteva aiutarlo.
«Mio padre ha detto che, se vogliamo, ci accompagna in centro. Possiamo fare un giro sul corso oppure andare al cinema» provò di nuovo Gabriele.
«Oppure possiamo trovare un nuovo campo» aggiunse Kijami. «O andiamo a giocare in spiaggia. Non c’è nessuno in questo periodo e avremo tutto lo spazio che vogliamo».
«Ecco questa potrebbe essere una buona idea» concordò Gabriele. «Non ho mai giocato a calcio in spiaggia».
«Hanno ragione» disse Emilia. «Una situazione si trova».
Benedetto scosse di nuovo la testa proprio mentre suonava la campanella. Emilia e Darya lo fissarono sconsolate e poi si avviarono con il resto della classe. Gabriele e Kijami trattennero di forza Benedetto.
«Ora stai esagerando» sbottò Gabriele.
«Infatti. Noi ci stiamo provando, a questo punto non ci resta che un’unica soluzione» aggiunse Kijami.
«Giusto. Sfidare Auderi e i suoi amici e riprenderci l’isola. Almeno loro non si avvicineranno più e magari riusciremo a convincere don Paolo. I miei possono andare a parlare con lui» aggiunse Gabriele.
«E non scuotere la testa» lo fermò Kijami. «Lo faremo a tutti i costi».
«Esatto».
Kijami e Gabriele non era mai stati così d’accordo.
Salì sull’ascensore con loro, nonostante non avrebbe dovuto, ma continuò a tacere.
«Va bene» disse prima di entrare in aula. Se avessero riavuto l’isola, forse anche il resto si sarebbe sistemato.
Benedetto prese un bel respiro e, anziché raggiungere Elia, si diresse verso Mattia Auderi: l’avrebbe affrontato. Non poteva continuare a rimandare.
«Che stai facendo?» sbottò Gabriele seguendolo con Kijami.
«Auderi» chiamò Benedetto con sicurezza. «Ti sfido».
Gabriele si sbatté la mano in faccia e Kijami lo fissò incredulo.
Auderi e i suoi amici, riuniti in fondo alla classe, li fissarono per un attimo e poi scoppiarono a ridere. «Tu sfidi me?» chiese Auderi dopo aver smesso di ridere.
«Sì. E se vinco non vi farete mai più rivedere sull’isola».
«L’isola? Quale isola?».
«La casa di riposo» lo aiutò Uberti.
«Ah, ma a Ivan e agli altri piace. Ci hanno preso nel loro gruppo. Loro fanno tutti il secondo o il terzo superiore».
«Mio fratello li conosce. Dice che sono stupidi». Elia stranamente li aveva raggiunti e li fissava torvi.
«Mio nonno mi ha detto di starli alla larga» borbottò Emilia, che si era avvicinata insieme a Darya e li osservava preoccupata.
Auderi alzò gli occhi al cielo. «Che volete saperne voi? Siete solo dei bambini».
«Accetti o no la mia sfida?» insisté Benedetto che voleva concludere la discussione prima dell’arrivo della professoressa di musica.
Auderi sembrò incerto, ma Uberti lo esortò: «Che fai? Hai paura di loro?».
«No, no, certo che no» sbuffò Auderi. «Accetto, accetto».
«Vi batterete voi due» intervenne Uberti. «Va bene?».
«No» sbottò Gabriele. «Sarebbe uno scontro impari».
«Mi ha sfidato lui» replicò Auderi ghignando. «Se non te la senti, puoi tirarti indietro».
«La prof sta arrivando» annunciò Mirea avvicinandosi e scrutandoli curiosa.
«Non mi tiro indietro» assicurò Benedetto.
«Sei impazzito del tutto» sbottò Gabriele.
«Ci vediamo pomeriggio, nello spiazzo vicino alla spiaggia alla fine della via Marina».
«Va bene» assentì Benedetto.
 Alla fine delle lezioni Kijami e Gabriele tentarono di farlo ragionare insieme alle ragazze, ma non servì a nulla.
«Ti farà a pezzi» decretò Gabriele.
«Grazie della fiducia» borbottò Benedetto.
«Era meglio quando non parlavi» continuò Gabriele furioso. «Non si tratta di fiducia, si tratta di logica!».
«Questa è la peggiore idea che ti sia venuta mai in mente» sbottò Kijami.
«È l’unica soluzione».
«Ma che dici? Perderai, ne prederai un sacco e non otterrai nulla» insisté Gabriele.
«Li avrò almeno affrontati» replicò Benedetto. «Risolveremo la situazione una volta per tutte e almeno potrò dire di averci provato».
Gabriele imprecò e scosse la testa.




Quel pomeriggio Benedetto uscì di corsa di casa, senza aver rassettato la cucina e senza aspettare il rientro della madre da lavoro, le aveva lasciato solo un bigliettino. Prima di raggiungere Auderi per l’appuntamento, doveva parlare con la signora Elisabetta.
Naturalmente decise di entrare dalla porta d’ingresso, visto che non era più il benvenuto. Si era aspettato di dover discutere con qualche inserviente, ma la centralinista di turno gli fece un cenno della mano e gli disse che avrebbe trovato la signora nella sua stanza.
La ringraziò e si diresse al piano superiore. Anche qui nessuno lo fermò. Bussò ed entrò, quando gli fu dato il permesso.
«Buongiorno» mormorò incerto: era quasi un mese che non si faceva vedere né sentire. Non era stato educato sparire in quel modo e abbandonare la signora? Ma che avrebbe dovuto fare? Don Paolo l’aveva bandito da lì. Aveva pensato di mandarle almeno un messaggio, ma si era vergognato troppo di chiedere a Barbieri o a don Paolo. Eppure avrebbe dovuto cominciare a trovare il coraggio: anche le non scelte, sono scelte.
«Benedetto!» lo accolse sorpresa la donna.
«Come sta, signora Elisabetta?».
«Come al solito. Mi sono annoiata molto in questi giorni. Nessuno ha la pazienza di leggere per me. Che fine hai fatto? Ho sentito un sacco di strane storie da quei vecchi che parlano solo in dialetto. Ho chiesto addirittura a mio figlio».
Benedetto si dondolò sul posto. «Mi dispiace, ma abbiamo avuto dei problemi e don Paolo non ci vuole più qui. Oggi sono venuto perché dovevo dirle una cosa importante, ma lui non lo sa».
La signora Elisabetta si accigliò. «Ma che sciocchezza! Don Paolo non può averti impedito di venire qui! Ci farò due chiacchiere io.  Non sai quanto ho sentito la tua mancanza».
«Mi dispiace» ripeté Benedetto.
«Che cosa mi devi dire di così importante?» gli chiese visto che lui taceva.
«Ha presente quando i ragazzi della via Paal affrontano quelli dell’orto botanico perché Hans e gli altri vogliono il loro campo?».
«Certamente» replicò la signora Elisabetta palesemente perplessa.
«Ho deciso di sfidare Mattia Auderi, anche se sono più Nemecsek che Boka».
«Non ho capito».
«Affronterò Auderi e mi riprenderò l’isola».
La signora Elisabetta, oltre don Paolo – ma lui era troppo vecchio per aver compreso veramente – era l’unica adulta a sapere che cosa fosse e cosa rappresentasse per loro l’isola.
«Benedetto, tesero, ti sento troppo agitato. Perché non stai qui e mi racconti con calma? E poi leggiamo qualcosa? Ho un paio di libri nuovi».
«Mi dispiace, signora Elisabetta, devo andare o arriverò in ritardo all’appuntamento» rispose Benedetto.
«Benedetto, I ragazzi della via Paal è solo un romanzo».
«Ma l’isola è vera» replicò testardamente Benedetto. E lui ne aveva terribilmente bisogno. «Non posso perderla».
«Aspetta…» tentò la signora Elisabetta.
«Sono in ritardo. Buon pomeriggio».
«Dove dovete vedervi?».
«Nello spiazzo verso la fine della via Marina» replicò il ragazzino prima di scappare via.
 
Fece la strada quasi di corsa, più per la tensione che per l’orario in sé. Quando arrivò erano tutti lì: Auderi, Uberti, Lanfranchi e i loro amici delle superiori, Gabriele, Kijami, Mirea e Barku.
«Oh, sei arrivato. Cominciavo a pensare che ti fossi rintanato da qualche parte per la paura» lo accolse Auderi.
«Ti avevo detto che sarebbe venuto» ringhiò Kijami.
Gabriele teneva la mascella serrata ed era arrabbiato, ma non fiatò. Barku non lo guardava. Aveva tentato più volte di chiedergli scusa, ma Benedetto l’aveva sempre evitato.
«Iniziamo?» chiese con noncuranza Ivan, il capo del gruppo al quale si erano uniti Auderi e gli altri.
Benedetto deglutì e si fece avanti. Gabriele lo tirò per il colletto e gli sussurrò: «Rimani in piedi, se ti butta a terra è finita».
«Io sono pronto» disse Auderi togliendosi il giubbotto e lanciandolo a Lanfranchi.
«Dammi il tuo giubbotto» gli disse Kijami. «T’intralcerà».
Benedetto avrebbe voluto obbiettare di aver freddo nonostante un tiepido sole, ma forse stava tremando più per la paura. Obbedì: ormai non poteva tornare indietro.
Indossava una felpa abbastanza vecchia e slargata che suscitò varie risate, ma le ignorò: a quel punto serviva a ben poco preoccuparsi di quello. Aveva letto su un libro che i medievali a volte si appellavano al Giudizio di Dio: due cavalieri si sfidavano in duello e si riteneva che avrebbe vinto chi Dio avrebbe ritenuto nel giusto. Benedetto aveva posto delle domande alla Bernardini in merito e la professoressa gli aveva risposto che per i medievali la religione era pregnante, quindi vi credevano fermamente, nonostante queste tradizioni fossero il più delle volte delle barbarie che mai sarebbero state veramente ben accette al Signore. Aveva provato a interrogare anche a don Paolo, ma non lui era molto incline alla discussione.
Fissò Auderi impotente: alla fine quella era una pessima idea, ma sperava fermamente che non l’avrebbe veramente fatto a pezzi. A differenza di quanto detto agli amici, aveva riflettuto eccome sulle conseguenze.
Strinse i pugni e li levò davanti a sé.
Auderi rise e con un solo spintone lo gettò a terra. Gemette, mentre gli altri ridevano.
«Sei una mozzarella» lo derise Uberti.
Benedetto sospirò e si rimise in piedi, guardando male Auderi e gli altri.
«Auderi, vedi che mi annoio» disse Ivan.
Il ragazzino sobbalzò e attaccò l’avversario. Benedetto si scansò una prima volta, ma l’altro fu più veloce e lo colpì sulla spalla. Benedetto gemette nuovamente e si portò la mano sul punto dolorante.
«Difenditi» urlò Mirea.
Ma Auderi ne approfittò all’istante e lo colpì sul naso. Benedetto urlò e cadde seduto. Le risate si intensificarono. Qualcosa di caldo gli scendeva dal naso e il ragazzino comprese con orrore che fosse sangue.
Auderi si fece avanti pronto per colpirlo ancora, ma Gabriele si fece avanti brandendo una stampella. «Basta» sibilò.
«Questo non è nei patti» intervenne Uberti facendosi avanti.
«Non c’è nulla che m’infastidisce più di chi si sente forte colpendo i più deboli» sbottò una voce arrabbiata.
Tutti si voltarono verso il nuovo arrivato che li fissava a braccia incrociate. Benedetto, con gli occhi annebbiati di lacrime, non ebbe difficoltà a riconoscerlo e lo fissò terrorizzato.
Anche Auderi e i suoi amici erano senza parole.
«E questo vecchio chi è?» chiese Ivan sprezzante. «Avanti, Auderi, finisci quello che hai iniziato».
Auderi, però, non si mosse.
«Ubi maior, minor cessit» sentenziò l’uomo. «Mio caro, Tavecchi, conosco tuo padre da anni ma è un po’ che non lo vedo, sarò felice di farci due chiacchiere più tardi. È meglio che tu e i tuoi amici spariate». Ivan era furioso, ma ordinò ai suoi di ritirarsi. «Quanto a voi, non la passerete liscia».
«Professore, le ricordo che siamo fuori dalla scuola» intervenne Auderi riacquistando un po’ della sua baldanza. «Lei non può fare proprio nulla».
Barbieri, sempre più arrabbiato, stranamente annuì. «Hai ragione, Auderi, ma se chiamassi la polizia, sarebbero guai per voi, quindi, ascolta almeno un consiglio: filate a casa».
Auderi lo fissò ancora per un attimo, poi lui e Lanfranchi se ne andarono via. Barku rimase lì, ma distante dagli altri.
«Lo stesso vale per voi altri. Andate a studiare che è meglio».
Kijami si fece avanti per aiutare Benedetto che si era rialzato. «No, mi occupo io di lui».
«Ma…» tentò Gabriele.
«Sorrentini, vattene a casa, se non vuoi che chiami tuo padre seduta stante» minacciò Barbieri, avvicinandosi a Benedetto ed esaminandone il naso. «Non è rotto. Lo aiuto io».
Ogni protesta fu inutile, così i ragazzi si avviarono con le loro bici.
«Tieni il fazzoletto premuto sul naso» borbottò Barbieri conducendolo verso una fontanella. Lo aiutò a sciacquarsi e ripulirsi. «A tua madre verrà un colpo» sbuffò. Benedetto si rese conto di avere la felpa macchiata di sangue e il naso gli faceva molto male. «Ti passerà in un paio di giorni. Ha tirato meno forte di quello che potrebbe sembrare. Siediti».
Benedetto sedette accanto a lui sulla panchina di pietra, senza avere la minima idea di che cosa dire: si sentiva svuotato.
«Potrei rimproverarti dicendo che se c’è un problema ti devi rivolgere a un adulto, ma tecnicamente tu l’hai fatto: una donna cieca non è esattamente il massimo, però». Benedetto non replicò, comprendendo comunque che era stata la signora Elisabetta a chiamare Barbieri. «Solo che non ho capito perché l’hai fatto… beh, tranne che Auderi ti ha portato allo stremo, prevedibile: alla fine tutti compiamo delle sciocchezze quando non troviamo altra soluzione». Il ragazzino non ebbe il coraggio di chiedergli se l’avesse fatto anche lui, ma si strinse le braccia intorno al corpo infreddolito. «Sei sudato» bofonchiò il professore. «Rimettiti il giubbotto» gli ordinò porgendoglielo. Kijami doveva averglielo consegnato prima di andar via. «Mia madre mi ha detto qualcosa su un’isola… su qualcosa che Auderi ti avrebbe rubato…?».
Benedetto sospirò e decise di raccontargli tutto da principio.
Barbieri sospirò e si grattò la testa.
«Ora è tutto finito».
«Giudizio di Dio» sbuffò Barbieri. «Non sono un assiduo frequentatore della Chiesa, ma penso che tu abbia vinto».
Benedetto lo fissò incredulo: niente isola e sua madre avrebbe sicuramente perso la causa di affidamento. Era tutto finito. Sentì nuovamente gli occhi riempirsi di lacrime.
«Senti, Auderi ha quasi quindici anni ed è più forte di te fisicamente» disse Barbieri. «E poi conosco quei ragazzi. Ivan non è un problema, gli stanno intorno solo perché è ricco, ma gli altri sono pericolosi. Credo che nemmeno Auderi sappia veramente con chi si sia messo. Se non fossi arrivato io, avresti potuto farti molto male e non per colpa di Auderi. Dio ti ha guardato».
Quella logica gli serviva ben poco.
Barbieri attese che si calmasse e poi gli diede una pacca sulle spalle. «Andiamo, tra non molto sarà buio. Ti accompagno a casa o hai la bici?».
«Non ce l’ho» sospirò Benedetto alzandosi. «La prego non dica niente a mia madre».
Barbieri storse la bocca. «Parlerò con i genitori di Auderi, Uberti e Lanfranchi, non mi piacciono le loro compagnie. Non mi sembra il caso che tu tenga all’oscuro tua madre. Vedrà la felpa sporca, dovrai spiegarglielo».
Benedetto tirò la cerniera del giubbotto e disse eloquentemente: «Non la vedrà».
«Non essere stupido» lo redarguì. «Prima o poi dovrà lavarla».
«La laverò io, non è un problema».
Barbieri lo fissò dritto negli occhi e, notando quanto fosse serio, annuì. «Come vuoi, ma è meglio per te che non ti becchi ancora a fare a pugni».
Benedetto annuì. «Sì, professore». Non che ne avesse voglia.
 
 


 
*
 
 


 
Gabriele rientrò a casa furioso per quanto era accaduto: Benedetto avrebbe potuto farsi molto male per colpa di quegli stupidi e lo aveva anche avvertito! Insomma, perché quel ragazzino, così minuto e fragile, era tanto ossessionato da un pezzo di terra battuta senza valore?
«Che ti è successo?» gli chiese sua madre ansiosamente.
«Niente! Che mi deve essere successo?» sbottò il ragazzino.
«Non alzare la voce» lo richiamò suo padre entrando in cucina con il tablet. «Dove sei stato?».
«Che ti frega?» replicò Gabriele chiedendosi se per caso Barbieri avesse fatto la spia. Ma come diavolo faceva quell’uomo a spuntare sempre all’improvviso? Persino fuori dalla scuola!
«Gabriele, non esagerare».
«In caso contrario che fai?» lo provocò. Dopo l’incidente suo padre non l’aveva più rimproverato seriamente e questo infastidiva non poco il ragazzino che non ne comprendeva pienamente il motivo.
Suo padre lo fulminò con lo sguardo, ma non fiatò.
Gabriele sbuffò e roteò gli occhi. «Ma per favore… comunque, non t’interessa, faccio quello che voglio».
«Non ti sarai azzuffato un’altra volta?» domandò suo padre seguendolo in camera.
«Può essere, e allora?».
Inaspettatamente suo padre gli tirò uno schiaffo. Gabriele, sorpreso, si portò una mano sulla guancia e lo scrutò.
«Caro». Il tono di sua madre era di rimprovero.
«Mi è scappato… mi farà impazzire…» bofonchiò suo padre.
«Ti è scappato? Volevi darmelo sì o no? Me lo meritavo?» quasi gli urlò contro Gabriele. «Vi faccio pietà, vero? È per questo che me le passate tutte, eh?».
Sua madre sgranò gli occhi e li lasciò soli. Gabriele era sicuro di aver sentito un singhiozzo.
«Non mi fai pietà» mormorò suo padre. L’uomo sembrava veramente stanco e gli rivolse un’occhiata dispiaciuta.
«No? Mi prendi per scemo? Ormai non dici nulla se prendo un brutto voto, se prendo una nota, se mi azzuffo… non dici nulla, perché vedi solo le mie stampelle. Ti vergogni di avere un figlio in queste condizioni?».
Suo padre sospirò e gli appoggiò le mani sulle spalle. «Non mi fai pietà, Gabriele, però è vero, ogni volta che vedo quelle maledette stampelle non riesco nemmeno a sgridarti, non riesco a dire nulla».
Gabriele fu colpito da quelle parole. «Quindi è vero! Non mi mentire, l’hai appena detto: ti faccio pietà!».
«No» ribatté con fermezza suo padre. «Quelle stampelle mi ricordano quella maledetta notte. È solo colpa mia se sei così e non posso fare nulla per rimediare. Ho lasciato Milano sperando di lenire il mio senso di colpa, ma naturalmente è stato stupido: hai ragione, sono un enorme egoista».
«Non è colpa tua!» proruppe Gabriele sempre più sconvolto.
«Sì, invece. Il tempo era orribile, non ci saremmo mai dovuti mettere in viaggio. Tua madre me l’aveva detto, ma io non le ho dato ascolto». Gabriele deglutì perché ricordava perfettamente i giorni successivi al suo risveglio e al suo rientro a casa: sua madre si prendeva cura di lui e sembrava ignorare completamente il marito, per questo ogni tanto discutevano; ma all’epoca aveva pensato che il padre si sentisse trascurato, mai e poi mai avrebbe potuto pensare che la madre incolpasse il marito per quello che era accaduto.
«Ma io volevo andare» intervenne allora Gabriele. «Non ti avrei perdonato, se fossimo rimasti a casa».
«A tredici anni si possono fare tutti i capricci del mondo, ma io sono l’adulto e io avrei dovuto comprendere che era pericoloso e, invece, ho minimizzato le preoccupazioni di tua madre».
«Papà, non è colpa tua e nemmeno del maltempo» lo interruppe nuovamente Gabriele. «Guidavi piano, me lo ricordo… è stato quell’altro che era strafatto e ci è venuto addosso contromano… Non è colpa tua… La strada era bagnata, ma non pioveva più…». Sentì le lacrime bagnarli le guance e abbracciò il padre di slancio: non voleva che si sentisse in colpa, l’incidente non era avvenuto a causa sua. Suo padre ricambiò la stretta e Gabriele fu sicuro che anche lui si commosse. «Quella partita è stata bellissima, grazie di avermici portato».
Rimasero per un po’ abbracciati, alla fine Gabriele sciolse l’abbraccio e sospirò tentando di ricomporsi. «Non mi sono azzuffato pomeriggio, non io almeno». Gli raccontò dello scontro tra Benedetto e Auderi e dell’intervento del professore di matematica; poi gli parlò dell’isola, del tradimento di Barku e di quelli che in fondo erano i suoi nuovi amici. Era un’infinità che non parlava con lui e quella chiacchierata lo fece sentire bene: ormai le gambe era quasi del tutto guarite, secondo la fisioterapista era bloccato psicologicamente, per questo non riusciva ancora a separarsi dalle stampelle, ma presto ce l’avrebbe fatta. Naturalmente non sarebbe tornato tutto come prima, no: non erano più a Milano e quelli che aveva creduto amici, gli avevano voltato le spalle; ora era a chilometri da quella che era stata la sua casa e aveva trovato degli amici veri.
Suo padre lo ascoltò con attenzione e gli promise che avrebbe parlato personalmente con questo don Paolo, se fosse stato necessario.
Gabriele sorrise, contento di poter contare sul suo aiuto, e comprese quello che Benedetto gli aveva detto mesi prima: era un ragazzo fortunato perché aveva delle persone che gli volevano bene; Benedetto non l’aveva detto esplicitamente, ma Gabriele sapeva quanto l’amico stesse soffrendo per i dissapori tra i suoi genitori.
 
 


 
*
 


 
La mattina dopo Benedetto arrivò a scuola puntuale e raggiunse Gabriele, Kijami, Emilia, Mirea e Darya nel cortile.
«Come stai?» chiese timidamente Emilia.
Benedetto si strinse nelle spalle: il naso gli faceva malissimo, sembrava essersi gonfiato leggermente durante la notte e non era riuscito a tenerlo nascosto a sua madre, che sembrava sempre più disperata. Non le aveva raccontato tutto, ma solo che si era scontrato con Auderi e lei si era arrabbiata moltissimo; in più Chiara l’aveva subito raccontato a loro padre. Era scontato che il padre avrebbe usato quanto avvenuto per assicurarsi la loro custodia e Benedetto si sentiva infinitamente sciocco per quello, non credeva che avrebbe potuto deludere tanto la madre.
Gli altri non dissero nulla, ma sembravano dispiaciuti quanto lui. Come capo era stato pessimo: non era riuscito minimamente a difendere la loro isola.
«Voi, sparite. Lorenzini, ti devo parlare». L’arrivo di Barbieri fece sobbalzare tutti. «Forza!».
Benedetto lo fissò preoccupato.
«Ho parlato con don Paolo prima». Quelle erano decisamente le ultime parole, che il ragazzino si sarebbe aspettato. «Gli ho raccontato quello che è successo. Mi ha detto che gli dispiace, perché era convinto che Auderi e gli altri facessero parte del vostro gruppo, ecco perché vi ha cacciato». Benedetto era sempre più sorpreso: non da don Paolo, che era anziano e vedeva poco e non a più di un metro di distanza senza i suoi occhiali, ma da Barbieri che si stava prodigando tanto per quella storia. «Don Paolo ha detto che potete tornare, a quanto pare gli anziani del centro sentono la vostra mancanza».
«Auderi ha comunque vinto ieri pomeriggio» disse timidamente Benedetto.
«Non vi daranno più fastidio: don Paolo ha allertato le forze dell’ordine dopo il caos che hanno creato l’ultima volta, senza contare che Ivan e i suoi sono stati più volte beccati a fumare e a disturbare gli anziani da quando voi ve ne siete andati».
«Grazie» disse di cuore Benedetto non riuscendo a credere che almeno quella situazione si fosse risolta. Se alla fine suo padre avesse vinto, almeno i suoi amici avrebbero potuto godersi l’isola anche senza di lui.
«Un’altra cosa» disse il professore, proprio mentre suonava la campanella. «Questo discorso dovrebbe farlo don Paolo, ma ormai lui non è affidabile da questo punto di vista… Quella che chiamate isola è solo un pezzetto di terreno abbandonato che usate per i vostri giochi, gli avete dato un valore superiore a quello che ha veramente… mia madre dice che non dovete dimenticare che quello che pensate, che pensi, che l’isola vi dia è solo un’illusione. L’isola esiste solo perché voi volete che esista: esiste perché tu ti senti a tuo agio e sei circondato solo da persone che ti vogliono bene e perché hai voluto che anche altri si sentissero accolti, a partire da Kijami che quando è arrivato in prima media non spiccicava parola e tutti lo additavano solo perché è straniero, ma con la sua allegria coinvolge tutti compreso te che invece sei taciturno e riflessivo, fino a Sorrentini che è maledettamente testardo e ribelle. E i tuoi amici erano con te ieri pomeriggio. L’isola siete voi».
Benedetto lo fissò sconvolto.
«Fila in classe» ordinò Barbieri.
Benedetto annuì ancora confuso. Salì in fretta la prima rampa delle scale esterne e trovò Gabriele e Kijami ad attenderlo. «Che fate qui?» chiese sorpreso.
«Ti aspettavamo, no?» replicò Gabriele.
«Non dovresti prendere l’ascensore?».
«Oggi no» rispose Gabriele passandogli le stampelle.
«Stai attento» disse Kijami che doveva esserne già al corrente.
Gabriele salì lentamente ogni gradino. Impiegò più di cinque minuti a raggiungere il primo piano, dove si trovava la loro classe. Kijami e Benedetto rimasero per tutto il tempo al suo fianco temendo che cadesse. Nel frattempo Benedetto raccontò quanto gli aveva detto Barbieri.
«Grande!» strillò Kijami battendo una pacca sulla spalla di Gabriele, appena raggiunsero il loro piano.
Benedetto sorrise.
«Sì, ma mi stanco ancora facilmente. La fisioterapista mi ha detto di non forzare. Non ditelo a nessuno, che l’ho fatto. Non vedo l’ora di poter giocare contro di te» disse Gabriele.
«Non vedo l’ora anch’io» replicò Kijami.
«Ehi, piccoletto, sorridi!» disse Gabriele arruffando i capelli di Benedetto. «L’isola è di nuovo nostra!».
«Già» sussurrò Benedetto, sperando che anche il resto si sarebbe sistemato. «Perdonerò Barku».
«Non avevo dubbi» borbottò Gabriele palesemente contrario. «Fallo aspettare un po’ però, se lo merita».
Benedetto si sentì rincuorato: aveva degli amici di cui fidarsi e che gli volevano bene. Avrebbe dovuto confidarsi con loro e forse avrebbero potuto aiutarlo.
 
 
 
 
   
 
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