Capitolo
13
Il
corno d’idromele era quasi vuoto, ma Loki scelse di non
riempirlo. Alla sua
scintilla si erano spenti gli occhi. Era seduto su una comoda
poltrona, con
le gambe allungate su un tavolo basso, davanti a un camino acceso. Non
era lì
per scaldarsi, anzi, l’aria troppo calda lo infastidiva, ma
le fiamme guizzanti
su cui aveva puntato gli occhi somigliavano alla sua anima furente.
Sfiorò con
i polpastrelli le ricche decorazioni del recipiente fissandone la
meticolosa
lavorazione, ma con la mente era altrove. Le sue dita avevano carezzato
la
pelle di lei, calda, profumata, indimenticata. Dove
ora c’erano
l’argento e l’osso prima c’era stata
Sigyn – e toccarla non era mai stata
un’azione priva di conseguenze. La maledisse perché
aveva fallito e non
era riuscito a salvarla, perché non
aveva smesso di desiderarla[1].
Non erano bastati gli abiti umili, l’aria dimessa o la
treccia mesta che
imprigionava la massa d’oro dei suoi capelli. Era e sarebbe
rimasta, per
sempre, la ragazza sfacciata vestita di rosso che
l’aveva fissato a un
banchetto come se si trovasse al cospetto non di un principe o un
guerriero o
un mago, ma di un ragazzo insolente. Lo disapprovava, eppure non aveva
perso
l’occasione per osservare con curiosità ogni cosa
di lui, dal modo in cui
portava il corno alle labbra al fluido movimento delle sue mani quando
voleva
sottolineare un concetto, per arrivare ai dettagli della sua armatura
decorata
con draghi e serpenti. E lui se n’era accorto, che le sue
sorelle tenevano gli
occhi bassi e lei no, era l’ultima a chinarli, la sola a
incrociare il suo
sguardo. Allora Sigyn si smarriva: di fronte alla piega ironica del suo
sorriso
che voleva dire tutto e niente, che prometteva e irretiva.
Ma
ora quello sguardo non esisteva più. Ed era qualcosa che gli
arroventava
l’anima pensare che lei fosse altrove, che si spogliasse dei
suoi stracci
davanti a Kalfr e lui non potesse far nulla per impedirlo.
Appoggiò la nuca allo
schienale della poltrona e chiuse gli occhi raccogliendo le idee,
ordinandole
grazie alla sua mente febbrile, rapida. Se non fosse stato il fiero
figlio di
Odino si sarebbe lasciato sfuggire un sospiro o una maledizione, ma era
nato
per essere re: una simile debolezza non era nemmeno contemplata
– s’inumidì le
labbra raccogliendo l’ultima traccia d’idromele.
Era
tornato ad Asgard la notte prima, senza neanche togliersi gli stivali,
precipitandosi
nella parte più oscura della biblioteca per
capire, per vedere
l’inchiostro rossastro seccato sulla pergamena formare le
parole che aveva
dimenticato, anzi, ignorato, perché era più
facile raccontarsi una consolante
menzogna che togliere il velo dalla realtà. E lui, questo,
lo sapeva meglio di
chiunque altro; in troppe occasioni aveva sfruttato il bisogno di
illudersi proprio
delle sue vittime per ingannarle fino alla fine, con poco sforzo.
L’archivio,
di notte, era spaventoso, ma Loki non temeva
l’oscurità. Lasciava che lo
avvolgesse, consapevole che nel buio si nascondevano ombre e fantasmi e
colpe.
Era sensibile a certe percezioni per colpa del seiðr che, ogni
tanto, gli
rendeva possibile scorgere i punti di contatto tra questo mondo e
quello della
spaventosa Hela dalle due facce, minaccioso e oscuro[2].
Aveva rovistato tra le pergamene arrotolate e accatastate le une sulle
altre
impaziente, nervoso, veloce, come se il tempo potesse scivolargli via
dalle
dita, a lui, che era un figlio degli Æsir. Si era ritrovato
tra le mani il
documento che cercava quasi per caso ed era rimasto a fissarlo un
momento lungo
un’eternità, prima di srotolarlo e far scorrere lo
sguardo sulle rune vergate
con cura. E il sangue aveva iniziato a scorrergli più
velocemente nelle vene,
confermando il dubbio emerso nel Tempio. Ogni cosa gli si era rivelata
con una
chiarezza estrema, ma troppo tardi. Se solo lei gli avesse detto che
stava
diventando cieca.
Il
fuoco crepitava e s’arrotolava nell’immenso camino
centrale che scaldava la
stanza e l’idromele, ormai, era finito. Strinse la mascella
virile e affilata e
serrò tra le dita il recipiente lavorato, vuoto, inutile,
incapace di soffocare
la bestia nera che gli rodeva lo spirito sussurrandogli, con la sua
stessa voce
perfida, che l’aveva persa perché non era degno,
così come non lo era stato di
Mjollnir. Lui che li tesseva per gli altri, si era crogiolato
nell’inganno di
aver sconfitto la più ignobile delle creature di tutti i
Nove Regni.
Invece,
aveva fallito, e Sigyn se n’era andata perché
stava perdendo la vista e aveva
compreso come quello fosse il primo, inequivocabile segno, che quella
cosa fosse
ancora viva. E la reclamava. Gettò il
corno a terra con una smorfia.
Cos’avrebbe fatto se fosse venuto a conoscenza, col giusto
anticipo, di quanto
le stava accadendo? Consapevole di aver festeggiato una sconfitta
scambiandola
per una vittoria, avrebbe cercato di rendere vera
l’illusione, abbracciando il
destino da cui era sfuggito per un soffio non una, ma due volte. E, con
tutta
probabilità, sarebbe morto.
Non
era abbastanza potente per fermarlo, non ancora,
nemmeno con
l’intervento delle reliquie in possesso di Padre Tutto
– e lui, quanta parte di
responsabilità aveva nell’allontanamento di Sigyn?
Le aveva confermato i suoi
sospetti? Si era deciso a mantenere il silenzio nei suoi confronti
perché
riteneva che avrebbe commesso qualche altro atto sconsiderato? Non si
era
fidato del suo secondo figlio? Una risata secca e amara gli
uscì dalla gola.
Non poteva biasimarlo, non dopo l’ultima volta, non dopo che
si era rivelato
incapace di resistere all’impulso di andare a letto con lei,
colpevole di non
riuscire a interrompere la loro relazione. Aveva scoperto che
commettere
sacrilegio non portava solo caos: era dolce
– irresistibile, necessario
come il balsamo su una ferita o l’idromele a un banchetto.
Il
fuoco saltava nel camino e la notte era scesa su Asgard;
nell’aria pungente
c’era già il sentore dell’inverno e Loki
si chiese come avrebbe agito ora che,
ironicamente, sapeva, era a conoscenza dell’unico dettaglio
capace di dare un
senso agli avvenimenti degli ultimi anni. Cosa voleva? Giustizia?
Il suo
spirito impaziente e feroce di guerriero, di principe orgoglioso, di
figlio di
re, gli imponeva di prendersi, una volta per tutte, ciò che
credeva di aver
posseduto: doveva liberare Asgard dal marciume che ne avvelenava le
fondamenta,
impedendo che Sigyn venisse immolata.
Riaprì gli occhi e fissò le fiamme
ardenti.
Chiamala
col suo nome, Loki: vendetta.
Sorrise
al pensiero, ma soprattutto s’accorse che la sua era
un’idea egoista, in grado
di tenere conto unicamente dei suoi bisogni e che si scontrava
amaramente con
la realtà dei fatti. Affrontarlo di nuovo significava
morire, raggiungere il
Valhalla da eroe sconfitto e non trionfante. Aveva perso,
ma la
soddisfazione non era nella sua natura e nel fuoco davanti a lui rivide
la
gonna cremisi di lei che girava graziosamente per il banchetto,
attirando
irrimediabilmente il suo sguardo.
Sigyn
non gli aveva detto niente per proteggerlo dalla verità e
impedirgli
d’intervenire. Per non essere guardata con pietà e
commiserazione, per non
subire l’umiliazione di venire considerata un peso.
Ricordò le lacrime mute che
le avevano rigato le guance quando si era deciso a rivelarle la
verità sul suo
essere l’ultima scintilla, la sola rimasta[3].
Il dolore di lei era stato misurato e composto, nobile, fatto di un
pianto silenzioso
difficile da sostenere, tradito soltanto dal fremito delle labbra,
dalle dita
che stringevano convulsamente la coperta. Fin da quella notte era
rintracciabile la sua fierezza di principessa, sì, ma
l’orgoglio esigeva sempre
il pagamento di un prezzo. E Loki, questo, lo sapeva bene, anche se si
trattava
di una lezione che avrebbe appreso ancora meglio solo in futuro: Sigyn
aveva
preferito allontanarsi per non costringerlo a vedere la ragazza col
vestito
rosso divorata dall’oscurità, immolata a forze
oscure e indecifrabili. Chissà
da quanto se n’era accorta.
Bugiarda. Hai
scelto il tuo destino e hai
osato decidere anche per me, che credevo di aver vinto e, invece, ho
perso.
Non
c’era altra spiegazione e, sebbene Sigyn gli avesse risposto
praticamente a
monosillabi, il suo sguardo vuoto e perso, irrimediabilmente cieco,
diceva ogni
cosa. La profezia si riferiva a lei.
Toccò
a Balder interrompere questa ridda di pensieri oscuri. Loki non si
mosse,
sentendolo arrivare. Aprì gli occhi ed emise un sospiro
scocciato, vedendo che
l’altro si avvicinava al camino tanto da sfiorargli quasi la
punta degli
stivali. Il ragazzo si scaldò i palmi intirizziti dal
freddo, consapevole che,
se desiderava avere un dialogo con il fratello, avrebbe dovuto iniziare
a
parlare per primo. L’ingannatore gli faceva scontare gli anni
che li separavano
e il più giovane dei figli di Odino aveva dimenticato il
tempo in cui il
maggiore intagliava per lui giocattoli di legno e provava a erudirlo
nell’utile
arte dello spionaggio.
“Mentre
eravate a divertirvi a caccia è arrivato questo,”
disse porgendogli una
pergamena.
A
Loki non sfuggì la punta di gelosia nella voce di Balder. Li
accusava di
tagliarlo fuori da ogni impresa in cui si lanciavano, ed era vero;
nelle rare volte
in cui lui e Thor avevano fatto lo sforzo di portarlo con loro,
l’altro si era
sentito un intruso, uno spettatore straniero non abbastanza svelto da
cogliere
il senso delle battute che facevano. Li osservava riferirsi a fatti,
battaglie
e persone facenti strettamente parte di un passato condiviso che lui
ignorava,
così come assisteva a un’intesa profondissima per
cui bastava un sopracciglio
alzato o uno sguardo per approntare sul momento strategie e decisioni.
E quelle
giornate passate nella foresta a seguire le orme di prede e predatori,
lontano
da Asgard, per i suoi fratelli erano momenti preziosi,
perché Loki e Thor,
prima di essere figli di Odino, erano alleati, compagni
d’arme, amici.
Trovavano necessario e divertente abbandonare la competizione e i ruoli
che si
confacevano al loro rango per trattenere il respiro di fronte a un
cervo o a un
orso. Un giorno quel loro legame si sarebbe spezzato, infranto, e
Balder
avrebbe scoperto che persino nella perfetta intesa che aveva sempre
invidiato si
erano insinuato il risentimento, ma non era ancora il tempo.
Loki
gli scoccò un’occhiata severa e prese il foglio:
era una missiva che parlava di
una serie di disordini nati lungo il confine col regno di Laufey a
causa di un
terreno conteso. Se ne sarebbe dovuto occupare al più
presto, decise, ma un
ragionamento crudele gli s’infilò nella testa
– bugia, c’era sempre stato: appianare
le divergenze tra i popoli confinanti era un compito delicato che
spettava generalmente
a un sovrano o al suo erede. Eppure, sebbene Odino affibbiasse a lui
questi
incarichi da anni, pareva prediligere comunque Thor come suo
successore, a
prescindere dai brillanti risultati che Loki otteneva. Era come se ogni
suo
sforzo fosse vano o apparisse come tale e si scontrasse con una
decisione già
presa che niente, in questo mondo o nell’altro, avrebbe
potuto cambiare. Thor
era l’eroe di Asgard e la sua stella brillava più
delle altre, mentre la sua,
per quanto si sforzasse di farla scintillare, nascondeva sempre una
traccia
d’oscurità, di buio. Una tenebra che lo corrodeva
da dentro, mordendo e
graffiando, avvelenandogli i pensieri – perché
Odino non riusciva, col suo
unico e terribile occhio, a guardare lui con l’orgoglio
malcelato con cui ammirava
Thor? Come mai quando si ritrovava a essere l’oggetto della
sua attenzione le
sopracciglia argentee si arcuavano guardinghe, all’erta,
quasi suo padre volesse
valutarlo ogni volta e capire se e quanto fosse meritevole?
Cos’altro doveva fare Loki, figlio di Odino, per convincere
il genitore di
essere degno di lui, di Asgard? E se non avesse fallito con Sigyn le
cose
sarebbe andate diversamente? Piegò la pergamena sotto le
belle dita di mago e
Balder, incauto, osò parlargli ancora.
“Siete
andati da lei,” disse con una punta di delusione, di accusa.
“Me l’ha detto
Thor,” aggiunse, affinché il fratello non potesse
mentire o negare. Il dio
degli inganni non rispose.
“Non
l’ho detto a nostro padre,” proseguì il
ragazzo con un sospiro. “Ma… forse
avrei voluto che tu facessi qualcosa, stavolta.”
Un
sorriso laterale si disegnò sulle labbra sottili di Lingua
d’Argento. Piegò
appena la testa di lato, scrutandolo divertito. “Sei deluso?
È curioso. Per
anni mi hai accusato di tenerla prigioniera e di averne fatto la mia
concubina
e ora mi rimproveri perché non l’ho tolta dal
Tempio. Ha giurato. Non
commetterò di nuovo un sacrilegio. La casa di Odino non
subirà altre offese.”
“Ma
Thor ha detto che le sue condizioni…” insistette
l’altro.
“Thor
ti ha detto che ho pagato. E pagherò ancora,
finché vivrà. Nostro padre sa già
tutto, te l’assicuro,” concluse seccamente,
fingendo di concentrarsi sulla
lettera che gli era stata recapitata. Loki amava Odino. Lo ammirava con
il
feroce orgoglio che l’altro non gli aveva mai restituito. Ne
apprezzava la
sagacia, l’astuzia, la forza, la saggezza, ma quando, come
quella sera, si
scontrava con la sua crudeltà, ne rimaneva inevitabilmente
ustionato. Il re
degli Æsir sapeva e l’aveva convinta ad andarsene
o, nel migliore dei casi, si
era detto d’accordo con lei nell’abbandonare ogni
speranza. Lingua d’Argento poteva
imitare il tono della sua voce, indovinare che strade avrebbero
intrapreso i
suoi ragionamenti finemente arguti, arrivare alle medesime conclusioni.
Era
stato ascoltandolo che aveva imparato a essere se stesso e, ora, si
trovava a
contemplare rabbiosamente la costanza con cui gli aveva mentito,
nascondendogli
il vero motivo per cui lei se n’era andata. Deliberatamente,
scientemente,
inesorabilmente, Padre Tutto aveva scelto di celargli la
verità, tenendo per sé
la notizia della sconfitta e della conseguente cecità di
Sigyn.
A
lei, che si accorgeva che la vista le diminuiva giorno dopo giorno,
maledetta
da un destino ineluttabile, non volle pensare; ai
momenti in cui lui,
l’astuto Loki, avrebbe potuto accorgersene, nemmeno. Era
troppo fiero, orgoglioso
e crudele per scavare nella propria coscienza.
“Io
non volevo che soffrisse, fratello,” si giustificò
Balder. “Nessuno di noi lo
voleva, ma Sigurdr diceva che la sua terra era ancora
maledetta e che i
raccolti avevano smesso di crescere, gli animali di mangiare.
Raccontava che la
sua gente moriva di fame perché tu ti eri preso qualcosa
di più di un’ancella
destinata agli antenati, e quando ha scoperto che era la scintilla,
la
scintilla che sarebbe sempre rimasta sua, o loro, o
qualsiasi cosa
significhi, ha continuato a scrivere. Io non lo so,
non c’ero, ma le hai
permesso di andare via, di essere ciò che voleva, e quella
terra è tornata
fertile e rigogliosa,” concluse, perché era troppo
giovane per non comprendere
che il bene e il male spesso s’intrecciavano insieme.
“Era
libera di andare dove volesse,” soffiò
l’ingannatore, pensando con una smorfia
che quelli erano discorsi vecchi, già fatti – solo
che, al tempo, il peso della
conoscenza non lo schiacciava. Si alzò, prese
l’attizzatoio e smosse alcune
braci per ravvivare il fuoco.
“Non
da sempre. Non all’inizio,” lo accusò
Balder. Vide che lo sguardo verde del
fratello si era fatto tagliente, furioso.
“Perché
sei ancora qui? Per chiedermi di
rapirla?” s’interessò Loki.
“Perché,
ora che Thor ti ha raccontato come vive, improvvisamente
l’idea che debba
trascorrere il resto della sua vita espiando le sue presunte colpe ti
rattrista
e macchia il tuo animo, candido come il mantello che porti?”
“Ecco
dov’eri.” Thor s’intromise raggiungendo
l’ingannatore e posandogli una mano
sulla spalla, in un gesto che voleva essere d’ammonimento e
di consolazione
insieme. Strinse, quasi volesse infondergli un po’ della sua
poderosa forza.
L’altro non lo guardò nemmeno, troppo intento a
scrutare Balder e il suo
sincero, tardivo, inutile pentimento. Credeva che le altre ancelle
avrebbero
accolto Sigyn senza farle scontare di aver avuto un amante, di aver
vissuto. Ingenuo
idiota.
“Volevo
dire a nostro fratello che mi dispiace,” rispose il figlio
più giovane di Odino
con un sospiro. Sentì di essere stato debole e
superstizioso, ripensò alla
confusione provata quando si era accorto di come Loki e Sigyn, che
credeva si
detestassero profondamente, in verità si cercassero e si
appartassero negli
angoli di Asgard.
A
Thor non piacque quella battuta. La considerò inutile.
“Non è il momento per tormentarci,
Balder,” tagliò corto con fare spiccio.
Loki
aggrottò la fronte e ridusse gli occhi a due fessure. Era in
piedi,
impassibile, misurato, sarcastico. “Per cosa ti
dispiace?” s’interessò. “Era
il
suo destino,” concluse freddamente.
Il
più giovane non fece in tempo a replicare; Thor riconobbe le
intenzioni
dell’ingannatore, ben nascoste dietro l’apparente
calma che sfoggiava, e si
frappose tra i due, bloccando il mago.
“Balder,
adesso vai fuori e vedi di stare al tuo
posto,” ordinò con voce urgente.
Il ragazzo colse il disappunto sul viso affilato di Loki e comprese che
il
tonante lo stava proteggendo. Serrò le labbra,
perché nonostante fosse
considerato da tutti un valente guerriero, non se n’era
accorto che l’altro
stava per attaccarlo. Si allontanò senza voltarsi,
sospirando esasperato.
“Gli
hai salvato il naso,” commentò il dio
dell’inganno.
“Lo
so,” bofonchiò Thor. “
Non
avevano parlato di quanto era successo nel Tempio. Loki si era chiuso
in un
fastidioso silenzio stordendolo con tutt’altro tipo di
discorsi, ma il tonante
lo conosceva abbastanza da sapere che stava rimuginando – che
era successo
– qualcosa. Lo capiva dai molti segni invisibili a chiunque
altro, che lui individuava
così bene; l’inquietudine lievissima con cui si
riempiva un corno d’idromele,
l’impazienza celata nell’atto di spronare il
proprio cavallo e, poi, il segno
più allarmante e scontato di tutti: la solitudine dietro cui
si era trincerato
da quando, la sera prima, erano rientrati ad Asgard. Thor non si era
preparato
alcun discorso – non era nella sua natura: suo fratello era
volubile e
scostante e di pessimo umore e lui deciso a fare chiarezza sul loro
ultimo
viaggio.
“Cos’hai
scoperto, fratello?”
Loki
lo guardò per un istante, poi spostò la sua
attenzione sulle fiamme danzanti. “Sigyn
ha perso la vista. È cieca.”
“Questo…
questo che significa?” Un’idea gli
attraversò la mente. Di nuovo gli afferrò la
spalla e strinse. “Noi avevamo fermato tutto questo!
Tu sei quasi morto
e ora lei dovrebbe stare bene, isolata in quel posto, ma sana e
salva.”
Gli
occhi di Loki avevano una trasparenza particolare. “Significa
che la
maledizione non si è fermata, fratello.” Lo disse
scandendo ogni sillaba e
fissando il tonante diritto negli occhi. “Non si è
fermata,” ripeté con un
brivido, pensando a quegli incubi striscianti che ora –
troppo tardi – avevano
un maledetto senso.
Thor
lasciò andare la presa – nella penombra, i
lineamenti scolpiti dell’ingannatore
parevano ancora più taglienti. Il mago si voltò
tornando a guardare il fuoco
guizzante, nervoso, inghiottendo nel petto le parole che avrebbe dovuto
dire ad
alta voce.
Che
non è morto. Che Sigurdr ha usato sua figlia fin dal momento
in cui è nata e
l’ha venduta ad altri, prima che a me e agli Antenati. E
loro non hanno smesso di
volerla.
La
prima volta che l’aveva baciata, che, nel buio, aveva sfidato
ogni legge sfiorandole
le labbra, lei era impallidita e aveva cercato di scostarlo senza
riuscire,
però, a camuffare il tremito di sorpresa e terrore che
l’aveva scossa. Era rimasta
a fissarlo sgranando gli occhi, eppure nel suo sguardo grigio Loki non
aveva
letto l’ombra del dispetto. Brillava una luce strana,
curiosa, indecifrabile.
“Non
sarò mai la tua schiava,” gli aveva promesso.
Loki si
era esibito in un sorriso scaltro e affascinante. “Allora sii
mia come una
donna libera.”
Sigyn
non era riuscita a rispondergli. Stupita, gli aveva dato
l’occasione per
baciarla ancora nella penombra, per stringere contro il suo quel corpo
sottile
e desiderato – con un braccio le cingeva la vita, con una
mano le stringeva la
nuca affondando le dita nei suoi capelli color dell’oro. Le
aveva ghermito la
bocca assaggiandole le labbra – lambendole, scoprendole,
gustandole – soffocando
i non posso che erano diventati non
possiamo, non dobbiamo, non è
giusto. Chi lo dice? Gli Antenati. Sono morti, Sigyn. Sono polvere nel
vento e
noi siamo vivi. Quando aveva osato risalire dalla vita per
raggiungere il
seno di lei, si era irrigidita e lo aveva scansato con forza. Loki
ricordò di
aver sogghignato – si era aspettato una reazione simile
– e l’ancella, ormai
perduta, lo aveva inchiodato con una frase tremenda, ma vera.
“Questo
è un sacrilegio.”
Per
quella notte si erano fermati.
La
sera in cui si erano illusi di aver vinto, con le labbra che
sapevano di
vino[4],
si erano rintanati nelle sue stanze spogliandosi senza fretta. Lei
aveva curato
ognuna delle sue ammaccature consolandolo con le sue labbra,
mostrandosi a lui
con i capelli sciolti e splendenti sulle spalle esili.
L’aveva cercata con la
stessa urgenza di sempre, maledicendosi per ogni fitta di desiderio che
l’incatenava a lei, scoprendo il piacere nascosto in
un’unione lenta, intensa,
appassionata, non meno disperata di tutte le altre che
l’avevano preceduta e di
quelle che sarebbero venute dopo. Ogni spinta, sospiro, bacio e ansito
doveva
sancire il loro trionfo – anticipava la sconfitta, ma questo
loro non potevano
saperlo. Si ritrovarono esausti uno accanto all’altra e Sigyn
gli si accostò
con la naturalezza che aveva appreso nel tempo. Era preoccupata.
“Sono
la dea della fedeltà e l’ultima scintilla. Come
posso rimanere qui, dove ci sei
anche tu?”
Pensava
al suo ruolo, al destino che avevano sfidato. Loki, steso accanto a
lei, le
aveva accarezzato la pelle morbida e levigata. Ora sapeva che, in quel
momento,
l’aveva già persa.
“Non
abbiamo già pagato abbastanza? Dovresti sacrificarti per chi
ti ha venduta?
Scegli di essere libera, Sigyn,” le aveva detto, ma la
libertà è un’illusione,
un inganno.
“Nostro
padre lo sa?” domandò Thor, riscuotendolo dai
ricordi.
L’ingannatore
annuì, trattenendo dentro di sé la risposta
velenosa che avrebbe voluto dargli,
troppo intento a rispondere alla propria coscienza oscura.
“Hai
un piano?”
Loki
alzò le spalle. “Dovrei?”
Doveva
dimenticarsi di lei, pretesa, cercata, odiata, avuta, persa. Mancava
solo una
parola impronunciabile all’elenco, una che gli sarebbe
rimasta incastrata in
gola e non avrebbe ammesso nemmeno quando, anni dopo, le Norne
avrebbero fatto
oscillare il suo filo.
Ti
ha mentito. Gliene farai una colpa, Loki?
Sì,
maledetta bugiarda. Morirai come dovevi – è il tuo
destino.
L’angolo di
Shilyss
Care Lettrici e
Lettori,
Vi avevo promesso
che la storia doveva da piotta’, che è un modo
asgardian-romano per dire che la
trama doveva andare avanti, ed eccoci qui. Ci sono parecchi, tanti
indizi in
questo capitolo. Come forse (spero) si sia capito, Sigyn ha due
problemi
fondamentali: l’essere la scintilla e l’essere
stata promessa a qualcosa di
oscuro più degli Antenati che avrebbe dovuto servire.
Ovviamente questo
qualcosa probabilmente vi verrà mostrato, eh eh eh.
Loki in questa parte
della trama ancora crede di avere qualche chance col trono e se nella
fine
emerge un suo coinvolgimento… beh, è sempre il
giovane uomo che sta parlando di
una ragazza per cui ha commesso un sacrilegio, una che è
stata la sua amante per
del tempo.
Balder: in
recensione molti mi hanno scritto che è un OC. Non lo
è, appartiene al canone
scaldico e ai comics, dove ha un ruolo molto rilevante.
Ah, la storia citata
è Sapevano
di
vino le tue labbra.
Ah, abbiate pietà:
ho gli occhi fritti e spero di non aver scritto ca**te, domani rileggo
**.
Come sempre, v’assicuro
che tutto torna e tornerà (ho riletto tutte le loro battute
affinché tornasse,
ho gli occhi incrociate). Spero che le mie storie possano
tenervi compagnia
in questi giorni difficili ♥, quanta ne
fate a me quando leggo della
vostra presenza perché vi palesate recensendo o listando.
Per voi un clic può
non essere nulla, ma per un’Autrice significa tantissimo
– e io lo so perché
(sono) stata lettrice, prima che scrittrice. Voi non sapete quanto mi
faccia
piacere.
Per ulteriori info, tante foto di
Loki,
di Sigyn e di Tom e un po’ di divertimento…
c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/. Ah, mi trovate pure su
Twitter e Instagram ;)
Ricordo che Vanheim
e il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è
una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura e vi prego
di essere originali anche per quanto concerne miti, rituali e per
alcune
caratteristiche di Loki che non vengono espletate e/o chiaramente
mostrate nei
film. Il blót esiste, ma gli
darò delle accezioni in più che
considererò
headcanon. Anche l’espressione “Per le
Norne” che compare sempre nei
miei scritti dal 2017 lo è.
Vi informo anche che ho nuove
cose in
cantiere ♥, spero di farvele leggere presto (sa
di minaccia, ma po’ esse
che, non disperate)!
E la settimana prossima? Ah, boh,
non ho
ancora deciso XD
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose,
Shilyss
[1]
Ripetizione voluta, così come più avanti nel
testo.
[2]
Questa cosa delle percezioni “altre” di Loki non
trova riferimento nell’MCU e
lo considero un headcanon.
[3]
Come ricorderete era la scena di chiusura dello scorso capitolo.
Mancano le
lacrime, perché la reazione di Sigyn non c’era,
lì.
[4]
Ehhh sì, una mia storia si intitolava così.