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Autore: wanderingheath    23/04/2020    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 9.
 

Broken Glass.



 
 
«The same tricks that
that once fooled me
they won’t get you anywhere
I’m not the same kid

from your memory.»
 
 
Arcadian – 9:23 a.m.
 
 
 
 
Due colpi sordi sulla porta.
«Avanti.»
La voce limpida e posata aveva fatto da contrappeso all’altra che poco prima, storpiando lievemente il suo nome davanti alla classe, l’aveva pregata – una volta individuatala all’ultimo banco – di alzarsi e di uscire.
E di recarsi all’istante in presidenza.
Un ottimo modo per iniziare la giornata.
Melanie aveva percorso la distanza che la separava dall’ufficio della preside, nell’ampio ingresso bagnato da una strana luce autunnale, sentendo scorrere i propri pensieri lungo un nastro trasportatore, ma senza trattenerne o registrarne alcuno.
Forse un tempo una simile notizia le avrebbe tagliato le gambe, attorcigliato il cuore in una morsa da pitone, svuotato la mente di qualunque altra preoccupazione. Forse, un tempo, rischiare l’espulsione dall’Arcadian avrebbe avuto un significato per lei, ma ormai non era più così.
Lo ricordava, quel tempo, come un fioco, sgualcito lume in fondo al varco della memoria.
Lo ricordava, ma non lo sentiva più addosso; lo trascinava con sé come qualunque altro indumento che le gravava sulle membra.
Mentre camminava lungo quel corridoio infinito, Purgatorio incrostato di dipinti, marmi e bacheche di trofei, oltrepassando aule, porte, finestre e qualche anima in pena che vagava per l’edificio, Mel ragionava sul fatto che la sua convocazione non fosse giunta poi come una sorpresa: dopo gli avvenimenti del giorno prima, si era aspettata un provvedimento disciplinare.
Ciò che veramente la sorprendeva era la totale apatia al riguardo, l’assurda lucidità con cui considerava l’idea dell’espulsione, data ormai quasi per assodata, analizzandola, vivisezionandola senza che un muscolo del viso si contraesse. Possibile che lei fosse fatta così?
Una parte del suo carattere, adattatosi come un elastico al tiraggio della crescita; un piccolo, ma comprensibile difetto: tutto lì.
O c’era qualcosa di più profondo, di meno idillico e compassionevole, sotto?
Melanie non avrebbe saputo dirlo.
L’unica certezza che possedeva era il gran sospiro di sollievo con cui aveva accolto l’opzione di essere espulsa, ormai non così remota.
Aprì l’uscio con disinvoltura, sebbene fosse rimasta per più di un minuto impalata nell’ingresso a chiedersi quale scusa inventare per giustificare un’aggressione fisica. Davanti a lei, la scrivania in mogano della preside ingombrava un terzo della stanza, per il resto affrescata da stampe antiche di planisferi e carte astronomiche. Una pianta a cui non avrebbe saputo dare un nome, troneggiava in un ampio vaso dallo smalto bianco. Gli elementi dell’arredamento, in un’oscillazione forse involontaria tra passato e presente, sembravano cozzare gli uni con gli altri.
Rosamund Packwood sedeva dietro una barriera di lampade, fotografie e attestati incorniciati, con in mano una stilografica rossa e una montatura dello stesso colore adagiata sulla punta del naso.
«Melanie, dico bene? Prego, accomodati pure.»
La studentessa esitò per un istante.
La sedia riservatole era collocata fra due volti familiari: alla sinistra Cindy Butler e alla destra sua zia.
Lo sguardo con cui Lydia Blanton la trapassò, mentre prendeva lentamente posto, fu un duro schiaffo al suo orgoglio: non sarebbe mai uscita illesa da quello scontro. Poteva pure mettersi l’anima in pace e prepararsi ad emigrare. 
«Bene,» la preside esibiva un’aria gioviale, «credo che intuiate da voi il motivo della convocazione».
La signora Butler scattò con un indignato colpo di tacco: «Finalmente, oserei dire. Mia figlia sta subendo le angherie di questa teppista da almeno un mese. Davvero non comprendo tale astio nei confronti di Cindy. Abbiamo tentato di tutto per appianare eventuali tensioni con i Prescott.»
Le dita di Melanie si contrassero attorno al bracciolo, mentre forzava su di sé un silenzio composto. Chiuse gli occhi e pregò solo che l’umiliazione fosse il più breve ed indolore possibile, mentre Lydia Blanton si preparava a controbattere.
«Come si permette di definire mia nipote una teppista?»
Melanie li riaprì di scatto.
Sua zia… la stava difendendo?
Zia Lydia, che non spendeva mai una parola di conforto o di carità nei suoi confronti; Zia Lydia che non aveva mai spezzato una lancia a suo favore, adesso prendeva le sue parti?
Dal modo in cui teneva le caviglie avvoltolate attorno alla gamba della sedia e strizzava il fazzoletto da giorno, era evidente che si stesse caricando, ma lei non aveva la minima intenzione di fermarla.
«Mia nipote ha sempre tenuto un comportamento ottimale, in classe e all’esterno. Mi è impossibile credere ad un’aggressione da parte sua davanti alla palestra.»
La signora Butler rimase più allibita di Melanie. «Beh,» balbettò indignandosi, «ci creda, perché è esattamente quello che è accaduto ieri. Diglielo, ciccina».
Sua figlia, come reagendo ad un comando automatico, azionato dal colpetto sulla schiena, s’impettì e rinforzò la versione della madre. Due ruoli rovesciati; come si era figurata dall’invito alla festa di compleanno, Cindy era una marionetta nelle mani esperte della moglie di un uomo politico.
Melanie sogghignò: voleva vedere fin dove sarebbe stata capace di spingersi, pur di ingarbugliare le fila.
«Sì, è vero. Ero in cortile con le altre ragazze, quando mi ha colpita. Un pugno,» precisò massaggiandosi la mandibola, «proprio qui, vede? È uscito un livido».
La preside si sporse appena, per accordare un briciolo di soddisfazione alla signora Butler, che stava facendo prostrare la figlia sulla scrivania. Dovette convenire che si trattava di un terribile ematoma.
«Questo non dimostra affatto la responsabilità di mia nipote.»
«Signora Blanton,» Arabella Butler sorrideva comprensiva, come se stesse parlando con una persona dura di comprendonio, «c’è un’intera schiera di ragazzine pronte a confermare la versione di Cindy».
L’intera armata Butler, pensò automaticamente Melanie. Che faccia tosta.
«Le ripeto che mia nipote non alzerebbe mai le mani su animale o essere vivente che sia.»
La parola “demordere” era chiaramente scomparsa dal dizionario di Lydia Blanton.
«Vuole forse insinuare che mia figlia è un animale?»
«Sto insinuando che sua figlia sta mentendo.»
«Vi invito a mantenere la calma», le interruppe la preside. «Ci sono degli aspetti della questione che, evidentemente, risultano poco chiari. Cindy, Melanie, potreste scusarci qualche minuto? Dobbiamo discutere tra adulte.»
Le due ragazze lasciarono la stanza senza fiatare e senza poter evitare di chiedersi in che modo le suddette “adulte” avrebbero sbrogliato un conflitto di cui avevano una conoscenza superficiale e nebulosa.  
Appena fuori dalla presidenza, Melanie imboccò la strada per il bagno femminile, decisa a non trascorrere un secondo di più in compagnia della Butler Junior. Se erano finite in quel guaio, era soltanto colpa sua e delle sciocche ragazzine che non sapevano fare altro che obbedire all’onnipotente capobranco.
L’adolescenza era un grande squallore.
Trovò la toilette delle ragazze fortunatamente vuota, a differenza del solito.
Un buon quantitativo di acqua gelata avrebbe sostituito la doccia fredda di cui sentiva il bisogno.
Sapeva perfettamente cosa stavano raccontando a sua zia: una caterva di informazioni che lei aveva accuratamente provveduto a tenere nascoste – a zia Lyida, alla madre, all’intero nucleo familiare – una scatola di Pandora che veniva ora fatta scattare.
S’immaginava il volto della parente storpiato in una smorfia d’orrore, mentre apprendeva della media in ribasso, della scarsa partecipazione alle lezioni, della scarica di pugni che aveva assestato a Cindy prima della festa di compleanno e infine della lite del giorno precedente, al termine degli allenamenti.
Osservava un pezzo del proprio sé, un frammento d’identità, senza essere in grado di riconoscerlo: era proprio lei la ragazza che stavano descrivendo come una teppista nell’ufficio della presidenza?
Quel senso di appartenenza, il bisogno di possedere almeno un indizio di chi era stata prima di divenire la sé del presente, la trafiggeva, identico ad una lama nel costato.
Le sembrava di essere scivolata da una condizione serena, stabile, a quel declino in un attimo, ma era ben consapevole che non si trattava affatto di un attimo: quanto era durato in realtà? Mesi? Anni? Un’intera fase della sua vita?
Melanie strinse il bordo marmoreo del lavandino, aggrappandovisi con forza.
Sollevò lentamente il capo finché il suo sguardo non incrociò quello dell’adolescente nello specchio.
Non vi lesse lo smarrimento che si sarebbe aspettata, ma una distaccata pace dei sensi.
Melanie si vide da fuori e capì solo in quell’istante che ad un osservatore esterno sarebbe sempre apparsa identica. Identica ad alcuni anni prima, quando una telefonata a scuola aveva annunciato il tracollo della sua vita privata; identica al volto che aveva incontrato la madre, prima di finire in clinica; identica alla ragazza che aveva spento le proprie quindici candeline nell’immobilità del salotto.
Sollevò un braccio e… un colpo.
Lo specchio inglobò la forma delle sue nocche, mentre un centrino di pieghe concentriche si era allargato tutt’intorno, come se avesse appena spezzato la superficie di uno specchio d’acqua.
Melanie si accorse solo adesso di avere il fiato corto. Guardò stralunata la propria mano, poi di nuovo quella crepatura troppo simile ad un ghigno.
Le luci al neon, uno dei punti forti dell’istituto, ronzavano ritmicamente nel silenzio di lavabi e portasapone.
Il portone antincendio del bagno fu spalancato e si richiuse con un tonfo ovattato, annunciando una nuova presenza.
Camicia stirata, scarpe lucide, boccoli voluminosi: non impiegò più di un istante a riconoscere Daphne Barnett.
«Ti stavo cercando», fu tutto ciò che le disse con naturalezza disarmante.
Melanie avvertì crescere dentro di sé uno strano impeto, un bruciante desiderio, ma le labbra rimasero strette in una linea infinitesimale, mentre il suo respiro tornava regolare. Si sentiva come un animale morente.
Avrebbe voluto confessarle cosa le brulicava in testa, magari anche urlarglielo addosso con la stessa disperazione che la allarmava, scuoteva, essiccava.
Tacque.
«Sei stata convocata in presidenza, vero?»
Daphne non attese una risposta e, come se avesse provato quel monologo almeno una decina di volte, annuì tra sé e sé, aggiungendo: «Anche io».
La tentazione di strascicare il silenzio fino ad otturare, ferire, far esplodere le orecchie di entrambe, fino a che la propria compagna non avesse deciso di riprendere la parola – e il coraggio una volta tanto – le serpeggiava nelle vene, ma Melanie non si fece corrompere. No, quella volta di cose da dire ne aveva in abbondanza, forse un fiume intero.
Non avrebbe permesso all’altra di continuare il discorso preconfezionato.
«Tu? E com’è possibile?»
«La preside mi ha chiamata perché voleva una…»
«Per un premio, sicuramente. Giusto? La studentessa modello. Per quale altro motivo dovresti finire in presidenza?»
Daphne tentò una seconda volta: «No, è stato per via della…»
«Insomma,» la interruppe l’altra, «tu non ti trovi mai in difficoltà. Troppo intelligente, sempre una spanna più avanti degli altri».
Fu allora che la ragazza sollevò gli occhi dalla punta delle scarpe, richiamata dal rumore d’acqua corrente.
Melanie la scrutava con un sorrisetto obliquo, corrosivo.
«Perché dici queste cose?»
Si detestò per la voce lievemente incrinata: era come se avessero scavato a fondo nel suo petto e grattato via lo strato superficiale che teneva insieme un’identità compatta.
Melanie, strofinando le mani con nonchalance sotto al getto gelido, controllava di non essersi guadagnata qualche scheggia nella carne. «Non sono forse vere?»
«No, certo che no.»
Si detestò anche per il balbettio che le era uscito, incapace di tenere testa ad una discussione di così poco spessore. Erano accuse infondate – neppure vere accuse, a dir la verità –  ma Daphne continuava a sentirsi raschiare via pezzi di resistenza e non poteva credere – non voleva accettare – che la propria difesa fosse così debole.
La compagna non fornì altre spiegazioni. Si limitò a sghignazzare malignamente e a scuotere il capo.
«Puoi stare tranquilla, non sei nei guai. Sei troppo maledettamente innocente per finirci.»
Strappata con foga della carta assorbente, si asciugò i palmi, martoriandoseli. Era pronta per il secondo round contro le due Butler congiunte. Poi avrebbe dovuto affrontare sua zia, ma quella era un’altra storia.  
«L’hai fatto tu?»
Daphne sfiorò appena la crepatura del vetro, incredula.
«Tu che ne pensi?»
«Non so cosa pensare», replicò asciutta. «Secondo me non faresti mai una cosa del genere.»
Un altro risolino gorgogliò nella gola della ragazza. «Ne sembri molto sicura.»
«Credo di conoscerti abbastanza bene.»
Melanie gettò via la carta stracciata, per poi mostrarle la fila di nocche rossastre.
«Forse non più così bene.»
E superatala, fece per uscire, ma Daphne la bloccò: «Ma perché ti comporti così? Sto cercando solo aiutarti».
«Ti ho già detto che non sei in debito con me. Vai a giocare alla buona samaritana con qualcun altro.»
«Lo faccio perché voglio aiutarti, non per un dovere.»
Melanie si voltò di scatto e ruggì: «È un po’ troppo tardi per questo, non credi?»
Poi, senza attendere alcuna replica, tornò in presidenza, chiudendo Daphne ed il portone alle proprie spalle.
 
 
 
Trovò la situazione un po’ diversa da come l’aveva lasciata.
Zia Lydia era livida in volto, ma si sforzava di mantenere un contegno, mentre Arabella Butler sembrava sul punto di trucidare la figlia prediletta e la preside Packwood sorseggiava un tè caldo.
«Prima di giungere ad una conclusione in merito alla faccenda della rissa di ieri pomeriggio, vorrei sentire il parere di una testimone.»
La signora Butler scattò subito: «Le ho detto che c’è una schiera di testimoni che potrebbero…»
«Si calmi, signora Butler. Sto parlando della persona che ha denunciato il fatto. La sua versione diverge lievemente da quella riportata da sua figlia e dalle amiche.» La preside proseguì il discorso sulla necessità di una fonte imparziale, ma la mente di Melanie vagava altrove.
Si immaginava già fuori da quel posto infido e, senza preoccuparsi eccessivamente del futuro, sentiva una soddisfazione rigogliosa avvilupparla.
Non registrò neppure il dialogo che portò all’entrata in scena di Daphne Barnett.
Aveva gli occhi appena lucidi, ma il volto di sempre, da scolaretta modello.
Un pensiero, freccia veloce che la trapassò con leggerezza, le comunicò che forse anche Daphne appariva e sarebbe apparsa identica a se stessa per tutti gli anni che si trascinava dietro e per quelli a venire.
Lo scacciò con noncuranza.
«Daphne, puoi gentilmente riferire alle presenti quello che hai raccontato alla coach Britts?»
La ragazza annuì e iniziò a narrare, nello stupore immenso di Cindy e quello disgustato di sua madre, di come, di ritorno dalla biblioteca, avesse assistito ad un’aggressione nel cortile. Cinque o sei contro una, schiacciata a terra e percossa. Le avevano causato dei danni ben più profondi e nascosti del livido della Butler. Passato il turbamento iniziale, lei era corsa in palestra dove aveva trovato la coach Britts in compagnia della caposquadra, Alexandra Foster, immediatamente accorse per prestare soccorso e separare le opponenti.
«La coach Britts e Foster hanno già confermato questa versione», decretò la preside, umettandosi le labbra. «Daphne, hai visto chi ha provocato lo scontro?»
Un rapido sguardo in direzione di Melanie. Si stava imponendo un autocontrollo ferreo, torturando un elastico che portava al polso. Sugli zigomi nessun indizio di commozione o gentilezza.
Melanie avrebbe giurato che non si trattava di Daphne Barnett, ma di una specie di clone meccanicizzato.
«No», rivleò infine, «non ero presente. Melanie, comunque, era la persona atterrata. Le altre l’avevano circondata.»
Cindy schizzò in piedi: «Ho dovuto, preside, per autodifesa. Prescott mi stava picchiando».
Rosamund Packwood chiese conferma alle altre due giovani. Se Melanie preferì rimanere in silenzio, Daphne annuì piano: «Melanie stava reagendo».
Davanti a una simile rivelazione, Lydia Blanton dovette intervenire, rimproverando la nipote: un buon cristiano porgeva sempre l’altra guancia. A nessuno dei presenti fu chiaro se vi fosse o meno dell’ironia.
Per fugare qualunque dubbio, la preside proseguì il colloquio ponendo una serie di quesiti a Melanie, sul perché avesse aggredito anche in precedenza la studentessa, su un eventuale trascorso fra le due, sulla consapevolezza della gravità di un simile gesto.
Una mezz’ora dopo, rese nota la propria decisione: sospensione di entrambe le allieve per cinque giorni.
«Vi esenterò dall’inserire questa sospensione nel vostro report annuale, ma vi invito a riflettere, durante questo lasso di tempo, sul peso delle vostre azioni e sulle conseguenze che esse possono avere, anche sul vostro futuro.» Con un’occhiata eloquente ad entrambe, congedò le studentesse, non prima di assicurare loro che la sospensione sarebbe stata accompagnata da qualche lavoro supplementare, in via di definizione.
«Un’ultima cosa», le richiamò indietro. «La sospensione ha validità immediata.»
Osservando Cindy e sua madre allontanarsi a passo spedito verso l’androne dell’istituto, a Melanie sfuggì un sorrisetto di divertimento.
In fin dei conti, una sospensione – condivisa – era molto meglio di quanto avesse potuto immaginare.
Si sentì afferrare per un braccio e il volto ossuto della zia gravitò pericolosamente vicino al suo. Gli occhi erano sul punto di schizzarle fuori dalle orbite, mentre attraverso una gabbia di denti sibilava: «Faremo i conti a casa».
Daphne stava tornando a lezione.
Avrebbe voluto possedere la stessa noncuranza con cui approcciava un miliardo di aspetti della propria esistenza, ma quella volta il rancore le bruciava troppo vivido nelle vene per poterlo spegnere, per ignorare la bocca dello stomaco che reclamava vendetta e desiderava vomitarle addosso bile, bile, bile.
La scolaretta modello, ma certo: avrebbe dovuto capirlo. Una canaglia.
«Certo, zia. Aspettami in macchina, devo raccogliere un paio di cose. Ti raggiungo subito.»
Le si avvicinò in poche falcate e, incurante ormai di chi la sentisse, le gridò dietro: «Ehi, Barnett! Ti hanno dato una medaglia al valore per questo?»
Quella si voltò lentamente, giurando che non avrebbe ceduto, non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno a lei, di abbattere il proprio fortino. Serrò i denti più forte che poté.
«Oppure un trofeo per migliore studentessa dell’Arcadian? Brava, studiosa e adesso anche onesta», Melanie sputava ciascuna parola come la peggiore offesa che potesse immaginare, pesanti più di una scarica di pietre.  Il disgusto sgocciolava dalla lingua, ormai libera da qualunque freno, quasi disarticolando la mandibola. «Ma quanto sei perfetta, eh?»
«Se vuoi prendertela con me solo per aver detto la verità, fai pure», fu la replica secca. «Ho fatto quello che credevo giusto: denunciare un’aggressione.»
Melanie parve esplodere: «E da quando sei la paladina dei più deboli? Eh? Solo quando ti conviene fare una bella figura, se c’è un pubblico davanti a cui recitare. Ma lo sai che sei un’attrice nata? Complimenti. Imbrogli tutti.»
Qualche studente ignaro si era fermato ad osservare, aspettando una replica a simili accuse, ma Daphne rimase di ferro, un pezzo di marmo. Se fosse stato un manufatto, prigioniero di una delle tante teche di vetro alle sue spalle, avrebbe forse mostrato maggiore emotività. L’unico pensiero che gravitava nella sua orbita, mitragliandola da ogni lato, provocandole contrazioni all’addome, era la valanga di sguardi che le grondavano addosso.
Occhi di gufo, occhi rapaci nel buio. Mi sorvegliano. Stupida, stupida, stupi…
«Non inganni me, però. Io lo so che resti solo una vigliacca, una debole».
Con quello, Mel ritenne chiusa la discussione e si spostò in cortile, lanciando una distratta occhiata al punto in cui l’avevano atterrata e umiliata.
A casa, i panni stracciati del giorno prima raccontavano una loro storia di cui forse la preside si sarebbe meravigliata.
Vaffanculo. Fanculo tu e il tuo stupido tè e questo istituto di merda.”
Se aveva fatto anche solo un sforzo, in passato, per rimanervi era stato per i genitori, per la vita che suo padre dedicava allo schifosissimo Paese e per quella che sua madre avrebbe molto volentieri terminato, pochi anni prima.
«Mi hai chiesto cosa pensassi, prima, nel bagno.»
La voce di Daphne la raggiunse e pietrificò, simile ad un dardo avvelenato.
«Beh, sai cosa penso, Melanie? Penso che tu sia ancora più debole; neppure in grado di difenderti da accuse ingiuste, né di essere riconoscente a chi, invece, è disposto a farlo.»
Fu il momento in cui perse la pazienza, il punto di non ritorno. Si era imbarcata su una corsa da cui sarebbe stato impossibile scendere. «Davvero? Ti ritieni così illuminata sul mondo, sulla vita, sulle persone?»
Le si avvicinò, fino a trovarsela ad un palmo dal naso. Anche così, uno o due scalini più in basso, Melanie riusciva a sovrastarla, come da sempre l’aveva dominata in altezza. Poteva giurare che gli occhi dell’altra fossero molto più gonfi e rossi, adesso, ma quel dettaglio non smosse la minima compassione nelle sue viscere; fu anzi il carburante di cui aveva bisogno. «Ti rivelo una cosa, Daphne» le bisbigliò. «Le persone non hanno anime di carta. Non viviamo o muoriamo come accade nei libri.»
Melanie dovette bloccare le mani frementi nelle tasche della giacca, puntando le unghie nella carne.
Sarebbe bastato un gesto, appena un battito, per chiuderle le mani attorno al collo, per spingerla contro il muro dell’Arcadian e vederla smaniare per un goccio d’aria. La studentessa modello che la implorava di lasciarla vivere. «Mi dispiace dover essere io a spiegartelo, ma la bontà d’animo, la riconoscenza e queste altre stronzate cavalleresche esistono solo nei racconti che ingurgiti. Svegliati, perché la vita reale è ben lontana dalla perfezione.»
L’altra era rimasta senza parole. Percepiva le lacrime bruciarle in gola, bloccarle la mascella, ma le trattenne, lasciando che fluissero solo nel sottosuolo, sottopelle.
Tutte le cose che avrebbe voluto dirle per ricominciare daccapo… e quel filo telegrafico era già reciso.
L’unica, flebile affermazione che riuscì a balbettare, dopo un lungo silenzio, fu: «Non sei più la persona che credevo fossi».
Non si dissero più nulla.
Una figura snella emerse dall’entrata dell’Arcadian con una sigaretta accuratamente riposta nella manica della camicetta. Superò Daphne, angustiata. «Melanie, ho sentito della sospensione.»
L’altra si strinse nelle spalle, avviandosi verso la macchina della zia, subito seguita dalla nuova arrivata, che scese la gradinata con degli agili balzi, aggraziata nella gonna a pieghe.
«Ma cos’è successo?»
«Secondo la versione della preside, ho assalito Cindy Butler. Scusa, ma devo andare.»
«Aspetta, possiamo parlare più tardi?»
Melanie ci rifletté un secondo, poi le lasciò il proprio numero, assicurandole che le avrebbe mandato un messaggio nel pomeriggio. «Sei fortunata, Lisa. Si dà il caso che proprio in questi giorni io sia liberissima.»
 
 
 
 

 

*   *   *
 
 


Gli esercizi di algebra erano lo scoglio peggiore che dovesse affrontare.
A differenza degli altri giorni, però, aveva trovato l’ispirazione quantomeno per provare a risolverne qualcuno, consapevole che avrebbe copiato il resto dal suo compagno di banco.
La professoressa aveva ormai rinunciato a coinvolgerlo nelle lezioni, a chiamarlo per qualche dimostrazione, perché comprendeva meglio di lui che nel futuro di Isaac Barnett la matematica non sarebbe rientrata.
Picchiettava la matita sul foglio a quadretti da almeno mezz’ora, ma per il momento aveva tenuto a bada la tentazione di cercare la soluzione online. Osservava le equazioni, certo che quelle gli restituissero un ghigno malefico, beandosi della propria assoluta ignoranza.
Per quanto potesse sentirsi ispirato, gli eventi legati ad Oliver ancora ondeggiavano nella sua mente, procurandogli un mal di mare non indifferente. Ogni tanto gettava un’occhiata al monitor spento, in attesa di qualunque messaggio dal suo nuovo conoscente.
Dopo il salvataggio miracoloso al Black Market, Oliver lo aveva portato in un pub di sua conoscenza, non troppo distante dal vicolo in cui lui lo aveva sottratto al creditore, per sdebitarsi della duplice generosità.
Isaac non credeva nel destino e tutto ciò che orbitava nella sfera del caso, ma a quanto pareva Oliver era di tutt’altra opinione. L’insistenza, aveva poi scoperto, derivava da pura scaramanzia.
La combriccola riunita attorno al tavolo abituale, lo aveva accolto con diffidenza, fiutando lontano un miglio che era un pesce fuor d’acqua. Qualcuno aveva assestato una spallata ad Oliver, chiedendogli dove avesse trovato un pivellino da spennare, ma la reazione del giovane aveva tacitato qualunque protesta.
Gli aveva offerto più di un giro, incurante di età, documenti e legalità.
La realizzazione di essere seduto ad un tavolo di criminali colpì Isaac come una sciabola tra capo e collo, lasciandolo momentaneamente senza fiato. Al terrore era subentrata l’eccitazione, il terribile brivido di poter forse entrare a far parte di qualcosa di grosso, sebbene losco. Forse, si era detto, tacitando la trepidante impazienza dei suoi sedici anni. Forse un giorno, chissà.
Attendeva un messaggio da quello sconosciuto, perché in fondo alla banda era risultato divertente nelle rare battute che si era concesso oppure era stato giudicato talmente innocuo da considerare tollerabile.
Oliver lo aveva riaccompagnato fin nel proprio quartiere, fischiando di fronte al nome della fermata a cui sarebbe dovuto scendere. «Roba forte», era stato il suo commento. Con la stessa ironia gli aveva strizzato l’occhio, dicendogli: «Sei un tipo strano, Isaac. Eppure sono in duplice debito con te per la mia vita. Almeno un’altra birra dovremo offrirtela».
Da quella serata, però, non si era più fatto vivo.
E più ci ripensava, bloccato a quello stupido tavolino del salotto, ingabbiato in una casa vuota e glaciale – il nido di colomba abbandonato dai coniugi Barnett – più ad Isaac quella storia sembrava assurda; talmente assurda, da non aver trovato il coraggio di confidarla a nessun altro. La teneva per sé, temendo che potesse smaterializzarsi, annullarsi come per incantesimo, nel momento in cui l’avesse profanata nell’atto della confessione.
Che stesse divenendo superstizioso anche lui?
Tornò agli esercizi algebrici, prendendo un sorso di spremuta.
Ad infrangere la sua quiete, il colpo della porta d’ingresso.
Un tonfo sordo accompagnò il tutto, mentre uno zaino, barbaramente gettato in un angolo, frusciava sul pavimento fino a collidere con il muro.
Isaac si sporse appena dalla propria postazione, cercando di sbloccare la vista sull’ingresso. «Daph?»
Altri due tonfi sordi, stavolta direttamente contro la parete.
«Daph, che succede?»
L’urlo inconfondibile della sorella.
«Non ne voglio parlare!»
La sentì salire pesantemente le scale, gradino dopo gradino, come se avesse voluto sfondarle, per poi correre in camera propria. Isaac seguì i passi sopra il proprio capo, fino a quando non udì l’uscio richiudersi violentemente. Qualche istante dopo, a completare la costellazione di cattivi segni, la musica a tutto volume di uno dei peggiori dischi che Daphne avesse nel proprio repertorio musicale: pop e Taylor Swift.
«Oh, no, no, ti prego. Questo no.»
Isaac si stropicciò le meningi, mentre la cantante lanciava degli acuti di un album meno recente. Riusciva a distinguere anche la voce di Daphne, più incrinata e stridula, pronta a rompere la barriera del suono.
Gettò via la matita e si alzò dal tavolo, richiudendo il libro. «D’accordo, ci ho provato.»
Raggiunse il primo piano giusto in tempo per l’inizio di un altro brano. Non riusciva a capacitarsi di quell’ossessione per la musica pop, nonostante avesse provato a convertirla più volte ad altri generi di gran lunga migliori.
«I’m really gonna miss you picking fights and me falling for screaming that I’m right.»
Rinunciando ai convenevoli, spalancò direttamente la porta su uno scenario desolante.
L’armadio, con entrambe le ante aperte, sembrava aver vomitato tutti gli indumenti che conservava, spargendoli alla rinfusa su letto, sedie, poltrone, mobili vari. Contro la finestra andavano a schiantarsi oggetti non meglio definiti – calzini? Libri? Penne? – mentre il vero criminale, lo stereo, strepitava al massimo volume dalla scrivania.
Isaac si affrettò ad abbassare, tappandosi le orecchie. «Vuoi assordarci tutti?»
Si accorse in un secondo momento del corpo di sua sorella, disteso sul tappeto ed intento a stracciare teli, lacerare pagine, strappare fotografie. «Ma che diamine fai?»
«Vuoi lasciarmi in pace?» strepitò l’altra, voltandosi in uno scatto.
Isaac indietreggiò. Gli parve di rivivere una scena da esorcismo: Daphne aveva gli occhi gonfi di rossore, il viso pallido inondato di lacrime.
«You go talk to your friends, talk to my friends, talk to me
Ad ogni micro-pausa, la ragazza distruggeva una fotografia e teatralmente la scagliava in un angolo o sotto il letto. Isaac riconobbe un vecchio peluche, ora eviscerato, che spargeva il resto delle interiora piumate per la camera; una gli atterrò sulla spalla.
«S-sicura di non volerne discutere? Perché questo è chiaramente qualcosa», riprovò. «E di grosso, aggiungerei.»
L’altra esplose in uno scoppio di rabbia, pestando i piedi e percuotendo il pavimento con le braccia, identica ad un’infante. «Lasciami stare!»
«Okay, non ne vuoi parlare.»
Isaac si tirò la porta dietro, docilmente.
Sobbalzò nel ritrovarsi davanti suo padre in carne ed ossa con un borsone da viaggio ancora allacciato in spalla. «Dio, mi hai tolto dieci anni di vita.»
«Che cos’è tutto questo?»
Il ragazzo lanciò un’occhiata dabbasso, dove Hugh aveva abbandonato un mini-trolley beige.
«Questo», spiegò con il pollice rivolto verso la stanza della sorella, «è un perfetto esempio di crisi adolescenziale, che io non ho la più pallida idea di come gestire.»
Poi, indicando direttamente il padre, concluse: «Questo sei tu che torni dopo un weekend di latitanza da un luogo sconosciuto, senza avvertire o preoccuparti di spiegarci che cosa sia avvenuto».
Hugh si pizzicò la fronte tra pollice e indice, sollevando appena gli occhialetti da filosofo fallito.
«D’accordo. Mi aspettavo un rientro più… tranquillo, ecco. Vostra madre?»
Isaac non lo degnò neppure di una risposta. Sapeva benissimo dove si trovasse la moglie, eppure si sentiva in dovere di recitare la parte del genitore impensierito. Davvero, non aveva tempo per quella pantomima.
Rimasero entrambi a fissare il mogano, ma il coraggio di trovare una risoluzione li abbandonò presto.
Forse Emma sarebbe stata più adatta alla situazione, o così voleva sperare Hugh Barnett. Il rapporto con i figli si era sempre basato su un’aperta comunicazione, in cui però di rado rientravano esternazioni sentimentali. Lui si teneva nel suo piccolo mondo delle idee, mentre Isaac e Daphne orbitavano nel loro, fatto di problemi adolescenziali che lui aveva rimosso da un pezzo. Emma aveva una tolleranza più bassa per i capricci e le sfuriate, eppure riusciva in qualche modo a calmarli, almeno a capirli.
Diverse volte era capitato che si mettesse accucciata vicino ad Isaac e gli carezzasse il volto, quei capelli nocciola che lei adorava, nel tentativo di trasmettergli serenità.
Con Daphne era diverso, ma Hugh si augurava che quella volta potesse bastare.
Estratto il cellulare, era sul punto di comporre il numero di Emma, quando Isaac lo bloccò.
«No, ho avuto un’idea migliore.»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
Quando Lisa May apparve sulla banchina, scendendo dal tram con un balzo e atterrando sul posto in una piroetta per non perdere l’equilibrio, a Melanie ricordò un canarino. Si era cambiata l’uniforme e adesso, in un vestito ocra con delle calze color castagna, risucchiava le gradazioni autunnali di cui Lowhood, attorno a lei, scarseggiava. Le venne incontro con un sorriso che Melanie fu sicura avrebbe ricordato anche tra vent’anni: una piccola fossetta, come una virgola, le incrinava l’angolo sinistro delle labbra, innescando al contempo negli occhi un guizzo d’entusiasmo.
Brillante.
Ovunque fosse andata, Lisa May sarebbe sempre apparsa brillante e di una rara eleganza, perfino in un luogo come Lowhood, distante anni luce dalla realtà a cui era abituata.
«Primo pomeriggio di sospensione», osservò, mentre il sorrisetto si ampliava, «come ci si sente a vestire i panni di una criminale?»
Melanie ringraziò il cielo per quell’ondata di frizzante ironia. Non la considerava responsabile dell’accaduto, Lisa, e questo le bastava a sentirsi più leggera. «Incredibilmente bene, devo ammettere.»
S’incamminarono insieme verso il centro pulsante del quartiere, a pochi passi da casa sua. Rivelarle dove abitasse non rientrava nei suoi piani, né credeva che Lisa avrebbe fatto domande al riguardo: era troppo beneducata per permettersi un simile rischio.
Vederle accendere una sigaretta, nell’aria industriale del tardo pomeriggio, le fece uno strano effetto. A volte dimenticava fosse una fumatrice: talmente abituata ad associarla al gruppo di Cindy Butler e delle altre salutiste, rimuoveva del tutto la possibilità che Lisa di tanto in tanto raccogliesse la cascata di capelli in una coda, tenendoli ben lontani dal viso, e si fumasse placidamente una Lucky Strike. A giudicare dal pacchetto vuoto, forse più di tanto in tanto.
«Non c’è bisogno che mi rimproveri ogni volta che ne accendo una», sospirò armeggiando con l’accendino.
«Ma se non ho detto niente!»
«Il tuo sguardo parla da sé.»
Mel voltò appena il capo, per trattenere una risatina nella stoffa della felpa.
«Mi preoccupo per i tuoi bronchi.»
Lisa le scoccò un’occhiata ermetica, prima di scuotere il capo. Le raccontò di come sua madre l’avrebbe uccisa, se avesse scoperto quel piccolo segreto. Era una salutista più accanita dei Butler, che rimanevano il modello di riferimento per l’intera famiglia; obbligava chiunque a praticare dell’attività fisica, volente o nolente.
«A me è toccata la ginnastica ritmica. Sarebbe potuta andare peggio, in fin dei conti.»
Melanie passeggiava con la fronte aggrottata, gli occhi infilzati nell’asfalto. «Se fossi libera di scegliere,» continuò Lisa con aria sognante, «credo che proverei diversi tipi di danza. Così, per togliermi lo sfizio».
«Ma tu sei libera di scegliere.»
Uno sguardo sconcertato: «Come?»
«Hai diciassette anni, sei abbastanza matura per compiere delle scelte», ripeté l’altra. «Soprattutto se riguardano il modo in cui vivi.»
Lisa mugugnò qualcosa tra sé e sé, simile ad un “non lo so”.
«A volte,» riprese dopo un silenzio, «vorrei non sentire il peso delle aspettative».
«Aspettative?»
Lei annuì. «Siamo un branco di conformisti, noi May.»
Melanie ebbe la sensazione che vi fosse dell’altro sotto, ma si chiese se indagare oltre il limite che Lisa aveva deciso di valicare. Da un lato parlare con lei le veniva naturale, come se l’avessero fatto da sempre e quello non fosse il primo autentico scambio fra di loro, ma dall’altro non la conosceva quasi per nulla.
Che il suo alone di mistero si esaurisse tutto lì, dietro allo schermo da brava ragazza intrappolata in una famiglia benestante ed eccessivamente preoccupata con le apparenze?
Per qualche motivo, stentava a convincersene.
«Tu ti distingui.»
Glielo disse in un modo che penetrò l’animo di Lisa May. Se le avesse confessato che la trovava “speciale”, “diversa” o qualunque altro complimento sulla stessa linea di quelli che diversi ragazzi in passato le avevano rivolto, non sarebbe valso ugualmente. Le credette.
«C’è una piccola ribelle, lì sotto.»
«Forse», commentò. «Mai alla tua altezza, genio del crimine.»
«Ah, per quello ci vogliono anni e anni di allenamento. Non sperare di raggiungermi così facilmente», concordò Melanie. Ridacchiarono entrambe. «Serve un talento naturale, della creatività, per beccarsi la sospensione.»
Lisa pareva riflettere sulla delicatezza con cui porre la domanda che serpeggiava tra loro.
Vagando senza una meta, erano giunte al Been and Gone Store. Decisero di entrare per acquistare un paio bibite ghiacciate e dei salatini. Un ragazzo della loro età, smilzo e bassino, faceva lo slalom tra gli scaffali, sorreggendo con difficoltà le casse di rifornimenti. Le braccia scheletriche sembravano sul punto di cedere.
Mentre cercavano un pacchetto di patatine, Melanie, senza neppure guardarla, disse: «Stai per chiedermi se l’ho fatto veramente?»
I grandi occhi cristallini scattarono in alto, recuperando la poca differenza d’altezza che le divideva.
Lisa si addolcì, sentendosi sollevata da un gran carico. «Solo se vuoi.»
A Melanie balenò un’idea malsana, ma la azzardò ugualmente. Lasciata trascorrere una pausa ad effetto, le si accostò e in un sussurro: «Hai mai commesso un furto?»
«Cosa?!»
«Oh, andiamo, conformista. Devi tenerla allenata, quella vocina da ribelle.»
Le stava tendendo un pacchetto di dimensioni moderate, incoraggiandola a nasconderlo sotto il vestito.
Lisa si rigirò il prodotto tra le mani, ma le mancava la determinazione sufficiente per portare ad effetto il furto. Da dietro l’angolo, il giovane commesso aveva occupato la loro corsia e adesso stava trafficando con le scorte di salatini al formaggio.
Melanie le si parò davanti per schermarla, incitandola nuovamente con un’alzata di sopracciglia.
Alla fine, lentamente, la ragazza lasciò scivolare la busta nel proprio decolleté, stringendosi nella giacca pesante che portava sopra, a rinforzare la copertura.
Comportati naturalmente, si ripeteva mentre scivolavano accanto alla cassa.
Le membra, corde di violino, si arricciarono davanti all’offerta di aiuto del commesso, che aveva domandato loro se andasse tutto bene. «Benissimo, grazie» sputò d’istinto tra i denti. Non riusciva a respirare.
Con la coda dell’occhio catturò un risolino di Melanie, che teneva la porta aperta per lei.
Tre metri dopo, la assalirono i sensi di colpa e Lisa propose un dietrofront, per restituire o almeno pagare la merce. La compagna, però, afferratala per le spalle, la costrinse a tenere il viso rivolto verso il Cotton Bridge, che si stagliava all’orizzonte. «Non si torna indietro», le intimò in un sussurro, incerta se parlasse a se stessa o alla sua complice. «Sempre avanti, Lisa May.»
«Ma adesso cosa facciamo? Mi sento terribilmente colpevole, ho una quantità di adrenalina in corpo…»
«Accelera il passo, allora.»
Con una mano premuta sul petto e l’altra pesantissima lungo il fianco, a scandire il ritmo dei suoi passetti, Lisa sembrava una majorette. Percepiva il proprio battito, sotto gli strati di stoffa e pelle, scoppiettare nella gabbia toracica. Il pacchetto rispondeva ad ogni suo movimento, strofinandosi contro la maglia.
Nella mente di Melanie si era incagliato un unico pensiero, che non voleva essere scacciato.
Inutile farsi distrarre dalla folla che passeggiava sul marciapiede, dai fanali delle automobili, dal rumore di binari del tram, distanti. Ciò che le martellava nelle tempie era il bordo ricamato della gonna di Lisa, quel vestito che le lambiva le ginocchia ossute. Aveva delle caviglie perfette, levigate, da danzatrice. 
Smise di opporre resistenza e la diga della sua immaginazione finalmente si sciolse: bruciava d’invidia per quella busta di plastica, ignara del privilegio accordatole.
Chissà di che colore era il reggiseno che indossava quel giorno. Avrebbe detto pesca, conforme all’incarnato leggero, ma sarebbe stata ben contenta di ricredersi.
Le riusciva facile figurarsela a contorcersi nella ginnastica artistica, magari con uno di quei body plissettati, talmente aderenti al corpo da lasciare poco alla fantasia, e le gambe libere di spaziare e spalancarsi ad angolo piatto.
Intanto, Lisa aveva davvero aumentato il passo ed automaticamente avvenne ciò che le era successo molti anni prima, in settimana bianca, quando artigliava lo slittino che scivolava lungo il pendio innevato, incapace di guardare la discesa: aveva lasciato che succedesse e se ne era dimenticata. Un piede davanti all’altro, Lisa prese a camminare a ritmo sostenuto, qualche metro più avanti a saltellare; arrivata al Cotton Bridge stava correndo.
Melanie riuscì a stento a starle dietro. «Lisa! Puoi fermarti ora», le gridò.
L’altra, però, non la sentiva. Correva a perdifiato per il Cotton Bridge, come inseguita da un branco di animali inferociti, avvertendone il latrato sul collo, il respiro alle calcagna.  Lo attraversò in un lampo e, una volta giunta al termine, concluse la prova con una piroetta acrobatica.
Quando Melanie la raggiunse, era intenta a sgranocchiare un salatino. Le tese la busta aperta.
«Non mi avevi detto del tuo passato da maratoneta», la schernì Mel.
Il traffico sotto di loro non accennava a defluire. Lo spazio fra il Mandriano Rosso e quello Blu, la cosiddetta Terra di nessuno, era intasato di automobili. Melanie si aggrappò al parapetto, sospirando.
Sapeva che Lisa la stava studiando, provando ad indovinare cosa le passasse per la testa, ma nel suo Paese delle Meraviglie arrugginito non avrebbe potuto farla entrare. Ripensava a Daphne, al modo in cui l’aveva guardata, quando le aveva dato della vigliacca.
Sapevano entrambe che era la verità, ma non avrebbe dovuto dirlo comunque: così l’aveva concretizzata, coagulando tutti i rimpianti che forse la sua vecchia amica teneva per sé.
A mente fredda, con la lucidità che anche sua zia aveva rinforzato con una sfuriata tempestosa – Melanie aveva temuto che la stesse per cogliere un infarto, le partisse un embolo e tanti saluti zia Lydia – prendeva atto della realtà: Daphne l’aveva difesa.
E con ciò? Lei le aveva salvato la vita al Galaxy Hotel: un pareggio.
Era divenuta così cinica, così calcolatrice, da ragionare in termini di vantaggio e svantaggio? Ma poi chi teneva i punti in quel conflitto infinito?
Infinito… si chiedeva se si sarebbe mai vista una luce alla fine del tunnel o se loro due fossero destinate a rimanere in quel modo, talmente simili da non potersi avvicinare?
Melanie sentì che si era formata una crepa proprio lì, attorno al miocardio.
«Sì,» bisbigliò, «ho picchiato Cindy, ma se lo meritava e non riesco a provare il minimo rimorso per ciò che ho fatto. Mi hanno derisa, umiliata, vessata».
E hanno tirato in ballo mia madre.
Lisa annuì, scegliendo fra un ventaglio di opzioni il silenzio.
Mel si morse un labbro: «Se lo meritavano, tutte».
«E comunque l’ho pagato quello», concluse accennando alle patatine.
«Che cosa?!»
Sul volto di Lisa si condensò del genuino sbalordimento. L’altra si strinse nelle spalle.
«Ci lavoro lì dentro. Ho un conto aperto.»
 
 
*     *     *
 
 
L’eco del campanello rimbombò per tutta l’abitazione.
La casa a due piani dei Barnett si presentava identica alle altre file di villette bianche, modeste, che pullulavano nel quartiere. Continuavano a spuntare come funghi le famiglie standard che vi dimoravano: ogni anno almeno due nuovi nuclei composti da genitori modello con due, tre ragazzini - al massimo un adolescente – rimuovevano il cartello di vendita e vi si insediavano comodamente.
«Avremmo dovuto comprare dei fiori», ribadì James.
Automaticamente si sollevò un coro di sospiri.
Per tutto il tragitto fino a casa Barnett non aveva fatto altro che esasperarli con la storia del bouquet. Ad ogni minima sosta, al semaforo più vicino, al successivo svincolo ripeteva che gli sembrava la soluzione più opportuna, nel caso in cui si fosse trattato di un lutto familiare, presentarsi muniti di fiori.
«Così, di scorta», insisteva.
«James, non è morto nessuno», lo rassicurò Logan.
«Come fai ad esserne certo? Si parla di “emergenza” per le situazioni gravi e un morto è piuttosto grave.»
A venire in soccorso del gruppo giunse Emma Barnett, che spalancò la porta d’ingresso con un sorriso smagliante. Jason e Travor avevano frequentato poco l’ambiente dei Barnett, eppure non ricordavano una singola volta in cui la padrona di casa non si fosse mostrata cortesissima, affabile.
Li accolse dentro, ringraziandoli di essere venuti così tempestivamente.
«Si figuri, signora Barnett,» fece James, «quando dice “emergenza”, uno non ci pensa due volte».
Si guadagnò un’occhiata glaciale dal resto del gruppo.
Emma li stava scortando al piano superiore, banalizzando la chiamata come una sciocchezza – perché di certo di quello si trattava – ma al tempo stesso ammettendo di essersi trovata con le mani legate nel confrontare sua figlia. «Con noi si rifiuta di aprirsi,» sospirò debolmente, «magari voi avrete più fortuna».
Una risatina amareggiata raspò nella gola di Logan, risuonando fra le pareti.
«Oh, mi creda, lo so
«Faremo del nostro meglio», le assicurò Jason.
Emma Barnett si bloccò sull’ultimo gradino, gesticolando mollemente. «Mi dispiace avervi scomodati, ma vorrei solo assicurarmi che si tratti di un fatto non grave. Insomma, niente di cui debba preoccuparmi. Ho talmente tanti…» Le parole le morirono sulle labbra, mentre la mente vagava altrove. Logan capì all’istante.
Aveva intravisto, in salotto, Isaac in compagnia del padre.
«Ho alcune questioni da risolvere», terminò la signora.
Li accompagnò fin davanti all’uscio, poi vi picchiettò e rimase in attesa di una risposta.
«Daphne? Hai visite.»
Agli altri risultò il tono di chi si sforza di mostrarsi gioviale, sebbene abbia solo una gran voglia di sprofondare in un morbido oblio dei sensi. Mantenne intatto il sorriso di rossetto e socchiuse la porta.
«Entrate pure. Ah, se potete», stava consegnando una manciata di cioccolatini nelle mani di Trevor, «fatele mangiare qualcosa.»
Con le labbra mimò l’ennesima formula di ringraziamento, prima di lasciarli al silenzio della cameretta.
La prima cosa che catturò l’attenzione dell’intera combriccola fu la nevicata di carta lacerata e fotogrammi che aveva seppellito il letto; di questo, solo una minuscola parte era occupata dalla legittima proprietaria, rannicchiata su un fianco, viso al comodino.
Travor rimase ipnotizzato dalle stoffe strappate che ingombravano il pavimento e da alcuni nastri di raso ridotti in stracci. Dalla finestra, ora aperta, deboli folate di vento gonfiavano le tende e facevano volteggiare i brandelli di carta, sospendendoli in un’atmosfera rarefatta.
I quattro ospiti si scambiarono un’occhiata di allarme.
Il primo a reagire, con una specie di scatto a molla, fu James.
Gettatosi sul letto, si sdraiò accanto alla ragazza, scuotendola con delicatezza per un braccio. Mentre Jason circuiva i mobili, attratto da un paio di fotografie d’infanzia, Travor rifletté su una scusa valida per giustificare quell’irruzione. Logan, discosto dagli altri, si accovacciò accanto all’armadio, cercando di ignorare Daphne e i piccoli dettagli – gli occhi ridotti a due fessure, il naso chiuso ed arrossato, un impiastro di muco sulle guance a gravare sul labbro superiore – che rischiavano di distrarlo, comprimendogli il cuore.
In terra frammenti di quelle che erano state fotografie a colori, impossibili ormai da ricostruire, giacevano accanto a pagine di un vecchio diario appallottolate.
Travor si decise a rompere il ghiaccio: «Daffie, che stai ascoltando?»
James le aveva sottratto un auricolare, controllando sul display del telefono il titolo della canzone. «No, no, no», decretò. «Non ci siamo. Questa manda pessime vibrazioni. Cambiamo musica.»
La voce di Isaac li sorprese dalla soglia. «È da oggi pomeriggio che fa così. Non vuole dirci cosa le sia capitato.»
«Ve l’ho detto», mugugnò la ragazza. «Ma voi non ascoltate.»
Si sistemò meglio sul materasso, abbracciando il cuscino. «Non ascoltate mai», aggiunse con la bocca impastata. Tirò su con il naso, reprimendo un singhiozzo.
«Una sciocchezza, d’accordo», acconsentì suo fratello. «Ovviamente non lo è, altrimenti non ti troveresti in questo stato. Iniziamo a preoccupaci, Daph.»
Tra le pagine che provava a spiegare sul pavimento, Logan trovò un disegno: al centro, la stilizzazione di un paio di bambine su di un prato, circondate da margherite e con le mani intrecciate. Alle loro spalle recinti e cartelli con indicati solo due colori, Rosso e Blu. Seguendo le frecce che le sovrastavano, un paio di etichette recitavano: Mel & Daph.
Logan cercò lo sguardo di Daphne, che lo stava già osservando, rosicchiandosi le unghie.
«Okay, un brano più movimentato. Ragazzi, suggerimenti?»
«Sì, roba upbeat.»
«Sono anni che le dico che deve smetterla di sentirsi quei cantanti piagnucoloni, ma lei non mi dà retta.»
«Bravo, Isaac, fai benissimo. Siamo con te in questa crociata.»
Logan si rimise in piedi, riponendo il foglio di carta sul davanzale. Sorpassati gli altri amici, si avviò all’uscita. «Andiamo», disse solo.
Fu Jason a domandargli dove diamine pensava di andare.
«Fuori, a fare un giro. Ho parcheggiato la macchina qui sotto.»
 
 
Tre quarti d’ora e diversi chilometri più tardi, si erano tutti e sei spostati nel campetto di basket dimesso, dietro casa di Travor. Ci andavano a giocare da piccoli, specialmente in estate, con il quartiere deserto, le scuole chiuse e troppo tempo libero da occupare, senza rischiare di evaporare sotto il sole bollente.
La schermatura di querce che ne costeggiava il perimetro, lo rendeva il posto adatto per una partita con ridotte emissioni di sudore.
Adesso vi si rifugiavano per i più svariati motivi, principalmente quando troppo svogliati per inventarsi qualcosa di più articolato; ci andavano per fare due tiri a canestro, in maniera disimpegnata, perché nessuno di loro era una cima nel basket.
Travor distribuì l’ultima lattina di birra e si lasciò cadere sul campo da gioco, accanto a Jason.
«Quella non dovresti berla» osservò Daphne.
Stava fissando suo fratello, intento a stappare la propria bibita.
Nella macchina di Logan c’era finito anche lui, che pur di sfuggire alla seratina con i coniugi Barnett avrebbe fatto carte false. Gli amici della maggiore gli sembravano tipi a posto, tutto sommato, e se doveva rinunciare alla compagnia di Oliver e degli altri, avrebbe accettato quell’unica occasione per sfuggire dalla tempesta che si preparava in salotto.
«Come se fosse la prima che bevo.»
«Ma io dovrei essere quella che ti impedisce di fare scemenze, non che ti incoraggia.»
Daphne si passò entrambe le mani tra i capelli, poi sul volto, esasperata. Al contrario, i suoi amici sembravano in pace con l’universo: ottenuti un paio di panini e delle patatine d’asporto, si stavano cimentando in una prova di abilità. La sfida, lanciata da James, consisteva nel tenere in equilibrio le patatine sul naso per il maggior tempo possibile.
Se la stavano cavando tutti piuttosto male.
E in quella miriade di risate, gomitate, pacchetti di cibo d’asporto, Daphne ebbe solo voglia di abbassare le palpebre, inspirare a fondo il freddo pungente ed espirare lentamente il fuoco che le chiudeva i polmoni.
«Qualcosa non va, Dee-Dee?»
Lei scosse il capo, gli occhi ancora serrati. «È solo…»
Risucchiò quell’effimero sussurro che le era uscito.
Una schiarita di voce.
«È che non capisco perché vogliate essere amici di una come me.»
Travor si tirò a sedere di scatto, imitato da Jason.
«Una come te?»
«Sì, una piagnucolona. Una debole, vigliacca.»
Ecco, lo aveva ammesso. Finalmente aveva vivificato e realizzato la profezia di Melanie.
E si sentiva più leggera. Molto, molto più leggera.
Come se metà del suo peso corporeo fosse stato scaricato e trasportato altrove, gettato in un fossato e ormai ricoperto sotto strati di terriccio. Poteva essere dimenticato, adesso.
«Non faccio altro che mettervi in imbarazzo, qualunque cosa decidiate di fare. E poi mi compiango. Sto a piangermi addosso nella speranza di…di…»
«Di essere capita?»
Lo sguardo di Logan, con un singolo sopracciglio inarcato, fu eloquente. L’altra annuì, rilasciando un sospiro che le parve durare un secolo. Era come se le avessero bucato lo stomaco e si stesse lentamente sgonfiando. Tra qualche secondo, avrebbe preso il volo.
«Beh, la buona notizia,» le comunicò suo fratello, «è che sei umana.»
Jason gli diede man forte: «Iniziavamo a dubitarne».
Una risata scrosciante accompagnò quell’affermazione. Volò qualche patatina in direzione del responsabile, colpendolo in fronte. Travor concordò sul fatto che fosse normale sentirsi così, di tanto in tanto: arrabbiati con il mondo intero, tanto da volerlo infiammare.
«No, quella si chiama piromania, Travor», lo interruppe James, ancora sghignazzando. «Ne abbiamo già parlato.»
Isaac riprese il filo del proprio discorso: «La cattiva notizia... è che nessuno ci capisce mai del tutto».
«Ma non importa. Non è un requisito fondamentale per adorarti, Daffie.»
Era stato proprio James a pronunciare quella frase. Aggiunse che le sarebbero stati grati se avesse delucidato tutti sulla questione che la stava affliggendo, così da mettere termine alla sua sfuriata da teenager angustiata e potersi godere le stelle – che si cominciavano ad intravedere tra i comignoli – insieme al cibo spazzatura.
Quella, però era decisa a non sbottonarsi sulla questione.
«D’accordo,» fece Logan, «ho una proposta.»
Ciascuno, a turno, avrebbe confessato un segreto - non necessariamente un fatto scabroso, ma qualcosa di cui provavano troppa vergogna oppure che portavano dentro da parecchio, per mancanza di coraggio, di occasione, di ascoltatore a cui confidarla. La proposta fu accolta con una serie di fischi d’approvazione, mentre tutti i presenti formavano un cerchio, gambe acciambellate e birra alla mano. La chitarra che Logan portava sempre nel portabagagli giaceva nella propria custodia, sotto ad un canestro.
«D’accordo, inizio io.»
Jason si sfregò le mani come un roditore, pronto a sorprenderli con la propria storia. Già la premessa suscitò un’onda di disapprovazione: «Non è una cosa di cui vado fiero, ragazzi».
Qualcuno lo rassicurò con un ghigno sul fatto che sua madre ne sarebbe rimasta all’oscuro.
La storia riguardava sia lui che Travor. Lontana giornata invernale del loro ultimo anno di scuola media. Un freddo glaciale, probabilmente era poco prima delle vacanze natalizie. Se ne stavano entrambi annoiati al secondo piano a fingere di studiare nel corridoio, durante l’ora di musica.
Un ragazzino, che non doveva avere più di dieci o undici anni, aveva chiesto indicazioni per il bagno, perché il solito era guasto. I due, senza un attimo di esitazione, lo avevano spedito alla toilette dei professori, all’ultimo piano, dove sapevano per certo che avrebbe trovato l’unica docente che se ne serviva: la Rackett.
Poi, si erano rinchiusi nell’aula di musica, sparendo dalla circolazione. Qualche giorno dopo, la notizia di un primino che sorprendeva la Rackett sulla tazza del gabinetto e veniva sospeso, aveva fatto il giro della scuola.
Daphne scuoteva la testa: «Che bastardi».
«Geniali, davvero geniali», si complimentò James, stringendo la mano ad entrambi.
Travor, dal canto suo, si stava lamentando per essere stato coinvolto contro la propria volontà. Quell’episodio copriva automaticamente anche il suo turno, per quanto si sentiva in colpa.
«D’accordo, chi è il prossimo?» domandò Logan.
Subito, la mano di James scattò in aria e poco dopo il ragazzo si era alzato in piedi, per rendere meglio la scena. Il grande segreto consisteva nel suo semi-arresto, la scorsa estate, quando, completamente ubriaco, aveva deciso di liberare la vescica contro un muro, in un luogo pubblico poco distante dalla spiaggia. Era sicurissimo che il delatore fosse stato qualche anziano, che l’aveva spiato e probabilmente invidiato.
«Perché, voglio dire», ammiccò. «Chi non sarebbe invidioso?»
Ignorati gli sbuffi del suo pubblico, proseguì il siparietto. «Insomma, stavo con il mio gingillo in bella vista, quando sono arrivati due poliziotti…»
Era scappato. Semplicemente aveva preso a correre, nella speranza di seminarli. Alla fine, avevano desistito.
«Mi sa tanto di cazzata, Jay», bofonchiò Logan.
«E hai ragione, perché la verità è che mi sono gettato dietro un groviglio di rovi, nel primo parchetto che ho trovato, e loro hanno creduto che fossi sparito.»
L’amico obiettò che probabilmente avevano solo provato pena per un adolescente ubriaco, che, esclusi gli atti osceni in luogo pubblico, appariva inoffensivo. James si portò le mani sui fianchi, irritato.
«Va bene, sentiamo che hai in serbo tu, Logster.» Detto ciò, andò a recuperare la chitarra, così da suonare qualcosa intanto, per ingannare il tempo.
Logan si concesse qualche minuto di riflessione. Scandagliando nella memoria, ne avrebbe avute di storie imbarazzanti da raccontare o di strane avventure che nessuno, a parte suo nonno che ne era stato coprotagonista, conosceva. Addentò il filo della collanina che portava sempre con sé: un gesto abituale, nei momenti di concentrazione.
Alla fine, scelse qualcosa di completamente differente.
«Qualche giorno fa, mentre stavo cercando delle canzoni da far suonare alle audizioni per la band, mi sono messo a provarne qualcuna sulla chitarra.» Era un po’ che non suonava in camera, con tutta la casa a disposizione per sé, e sentirsi da solo nel cuore di un quartiere quieto, con solo un latrato in lontananza, gli aveva smosso qualcosa. Anzi, di più: aveva permesso ad un pensiero nello scantinato della sua infanzia di riaffiorare. Da quando era riapparso, non riusciva a liberarsene.
«È solo un’ipotesi, non parlo seriamente», avvertì gli altri. «Ma mi piacerebbe suonare anche in futuro.»  
Il gruppo accolse quell’informazione in silenzio. Sentì il bisogno di specificare che intendeva un futuro vicino ed uno distante: avrebbe voluto continuare a suonare per tutta la vita.
«Non me l’hai mai detto», bisbigliò Daphne.
L’altro scrollò le spalle. «Ripeto, è un’ipotesi.»
«No, si tratta di più. È un sogno.»
Dal momento che nessuno osava aggiungere altro e James aveva iniziato a pizzicare lo strumento a corda, Travor effettuò un ultimo tentativo: «Tanto per capire, Daffie, il tuo segreto è qualcosa di illegale?»
Lei scosse il capo, stropicciandosi di nuovo gli occhi. Sentiva due palle da biliardo al posto delle orbite oculari. No, gli disse che non aveva commesso alcuna azione riprovevole.
«E allora cos’è?»
Era…
Era sentire una parte di sé che si staccava da tutto il resto; una scheggia del proprio io che prendeva una strada separata, schizzava via come impazzita, provocando però un gigantesco crollo. Un tracollo effettivo ed affettivo. Era la certezza di non aver fatto abbastanza per impedire che una persona a cui teneva più di ogni altra cosa al mondo, forse perfino più del sangue del suo sangue, andasse alla deriva.
Era il rovello che la svegliava ogni mattina, da troppi anni, per instillarle un unico dubbio, due paroline fatali: “e”, “se”.
E se avesse reagito diversamente, il giorno del ricovero di Sophie Prescott?
E se avesse trovato il coraggio di credere a Melanie piuttosto che al resto del mondo?
E se fosse stata più tempestiva, più decisa, nel prendere le sue difese e scagliarsi contro la valanga di insulti che le avevano vomitato addosso?
«È che sento di aver compiuto una giusta azione, ma al momento sbagliato.»
Le corde della chitarra, tornata in braccio al suo legittimo proprietario, risposero al tocco soffice di dita incallitesi con anni di pratica autodidattica.
«Abbiamo fatto tutti qualche cazzata e chissà quante ne compiremo ancora», le disse Isaac. «Se ci incastrassimo nella retina del passato, non andremmo mai avanti. No?»
Le mancarono parole adatte a controbattere. La meravigliò solo che quel lato di Isaac emergesse di rado, celando agli altri un bacio di saggezza niente male. «E la corrente ci spinge sempre avanti.»
James la invitò ad unirsi al loro canto: era una canzone che avrebbe messo d’accordo i gusti di tutti, perfino quello snob del fratellino. Il folk pop degli OneRepublic venne generato come d’incanto, mentre Jason e Travor ricreavano delle percussioni amatoriali, battendo le mani o scuotendo il cartoccio del panino.
«Ti sentirai meglio» le assicurò. «Una bella cantatina può fare miracoli.»
Le voci dei due amici si levarono all’unisono, alta e cristallina quella di James, di qualche tono più in basso quella calda di Logan.
«I’ll find the places where you hide, I’ll be the dawn on your worst night.»
Daphne si rannicchiò contro il corpo di Isaac, posandogli il mento sulla spalla; cominciarono ad ondeggiare sul posto, l’una propaggine dell’altro.
Come al solito, non sarebbe stata una performance se James non si fosse messo a dare spettacolo e, scattato in piedi, aveva preso a interagire con un paio di anziani affacciati alla finestra di fronte. Attratti dalla chitarra e dalle risate, risposero con un timido cenno di saluto.
Logan, invece, rimase inginocchiato sul campetto, un mezzo sorriso ad incrinargli le labbra in una smorfia scaltra, nell’incontrare lo sguardo di Daphne.
 «Yeah, I would kill for you, that’s right.»
Lei affondò il viso nel giubbino di Isaac.
«È per via di Melanie…»
«Lo so.» Isaac le soffiò un bacio sulla tempia. «Adesso lo so.»
 
 
 
 
   
 
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