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Autore: QueenOfEvil    25/04/2020    1 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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In dubis abstine





 

Nessuno, nella familia Scaeva, era mai stato particolarmente devoto al Semprevigile.
Lo rispettavano, certamente, al pari di come rispettavano le altre istituzioni della Repubblica -sarebbe risultato sconveniente, e pericoloso, fare altrimenti in un momento in cui la Chiesa aveva così tanto potere sullo Stato- e più di una volta il padre aveva ricevuto religiosi e suore nella sua casa. Ma Julius non ricordava di essere mai stato costretto a pregare, o a studiare testi approvati dalle autorità -anzi, Atticus guardava con malcelato disprezzo a chi si affidava agli dei per risolvere i suoi problemi: una dicotomia interessante se si pensa alle leggende che andava raccontando in giro-, e, riflettendo sull’argomento, era giunto alla conclusione che la fede non era qualcosa con cui valeva la pena perdere tempo.
Non era neanche sicuro di credere per davvero alla presenza di un dio nei cieli.
Per questo motivo, quando entrò nella domus della zia, quello che vide lo lasciò senza parole
L’atrio -un’ampia struttura ovoidale, da cui si allungavano due corridoi, ai capi destro e sinistro della stanza- era di un bianco puro, già abbagliante di per se stesso, il cui effetto era peggiorato dalle grandi finestre che si aprivano sulla scalinata di fronte all’ingresso, e che sostituivano quasi interamente il muro. Non vi erano quadri appesi, né stucchi, né le altre decorazioni che Julius era stato abituato a vedere nelle case dei ricchi midollani -quasi la proprietaria avesse paura che l’opulenza potesse offendere colui al quale era tanto devota-, ma, in compenso, su ogni muro erano intagliati, disegnati, incastonati, decine e decine di simboli di Aa: tre cerchi, equivalenti a quelli sul cancello, che si ripetevano all’infinito ovunque si guardasse, talmente tanti da dare la nausea, e che riflettevano ancora di più la luce, rendendo l’effetto complessivo ancora più abbacinante.
Non faceva troppo caldo, non quanto si potrebbe supporre che facesse in una stanza simile, e il servitore che lo aveva accompagnato fin lì sembrava perfettamente a suo agio nell’ambiente circostante, ma Julius sentì comunque un principio di giramento di testa. 
Era da un po’ di tempo, aveva notato, che pativa più del dovuto la luce dei soli.
“Dunque, finalmente sei arrivato”
La voce della padrona di casa ebbe il potere di strapparlo dalle sue considerazioni e fargli alzare gli occhi verso la sommità della scalinata: lì, mani incrociate davanti a sé e schiena talmente dritta da assomigliare ad una statua, stava la moglie del suo defunto zio. Tratti del viso e incarnato non lasciavano dubbi sulla sua appartenenza al popolo liisiano e anche i capelli, seppur striati di bianco, erano dello stesso nero pece che Julius aveva potuto osservare tante volte, sia tra gli abitanti e schiavi di ‘Grave, e poi anche lì, ad Elai; ma, mentre al di fuori di quelle mura i suoi occhi non avevano fatto altro che posarsi su abiti dai colori sgargianti e variopinti, la donna indossava una sorta di tunica a maniche lunghe -malgrado il caldo- e interamente bianca, di un paio di taglie troppo grande. Sembrava, infatti, che qualcosa le avesse aspirato tutto il grasso dal corpo, lasciando solo ossa e spigoli.
Dopo un momento di silenzio, ella scese lentamente le scale1 e gli venne vicino, squadrandolo da capo a piedi con le palpebre socchiuse.
“E così, dunque, tu saresti il giovane Scaeva”
“Sì, Mea Domina, mio padre mi ha mandato da voi perché…”
La sua interlocutrice lo zittì con un gesto della mano: “So benissimo perché Atticus ti ha mandato da me. Ho trovato la sua decisione di non ottimo gusto, ma è anche vero che a mali estremi…” si interruppe per un attimo e la sua espressione, già arcigna, si irrigidì ulteriormente “Hai detto di avere una lettera per me, prima”
Egli lo confermò, ed estrasse l’involucro di carta da sotto la camicia, per poi tenderlo alla donna, che lo prese con due dita, con una smorfia vagamente disgustata. Il sigillo di cera si ruppe con un sonoro click che sembrò risuonare per tutta la stanza e Julius osservò la donna leggere -con quella che a lui sembrò un’esasperante lentezza- il messaggio di Atticus, fronte appena aggrottata ed espressione imperturbabile. Una volta finito, ripiegò il foglio e lo diede al servitore che aveva accompagnato Julius all’interno, che a sua volta lo infilò in una delle tasche della giacca.
“Bert ti farà dove dormirai e le stanze a cui avrai accesso. Mi aspetto che impari in fretta la loro collocazione e sappia raggiungerle senza bisogno di aiuto in poco tempo: non ci sono abbastanza persone qui per stare dietro a chi non sa fare il proprio lavoro” 
Lavoro? 
“Ovviamente, i luoghi che non ti saranno mostrati saranno da considerare del tutto interdetti: non sei a casa tua, e se ho accettato l’offerta di Atticus, già svantaggiosa di suo, è stato solo perché egli stesso mi ha assicurato che sei un ragazzino abbastanza serio da non fare stupidaggini. Ma non pensare che sarò più indulgente con te solo perché, per parentela indiretta, facciamo parte della stessa familia. Tutto chiaro?”
Ancora frastornato da quel discorso e dal lungo viaggio, Julius non poté far altro che annuire: non era tutto chiaro, neanche per sogno, ma aveva la vaga sensazione che chiedere spiegazioni non avrebbe migliorato la sua situazione. Il pensiero di un’accoglienza calorosa, su cui aveva fantasticato a tempo perso durante il viaggio in nave, sembrava già appartenente una di quelle favole che non aveva mai letto.
La domina fece per voltarsi, ma aggiunse ancora una cosa: “Mi aspetto di trovarti qui domani, di buon’ora e in ordine,” strinse le labbra “e, soprattutto, pulito”
Nello stesso momento in cui ella sparì dalla sua vista, nel lungo corridoio di sinistra, Bert, che era rimasto immobile e in attesa durante tutta la conversazione, si avviò verso la parte destra della sala, invitando con i gesti il ragazzino a seguirlo.
Julius, un nodo allo stomaco e le gambe che gli tremavano per la stanchezza, gli ubbidì senza ulteriori commenti.


 

❊❊❊



In quella che fu l’ora successiva, ma che a Julius, già stremato, sembrò molto di più, gli vennero mostrate le cucine -dove già il cuoco stava preparando un ultimopasto il cui profumo rimase nelle sue narici per lungo tempo dopo essere usciti-, la sala da pranzo, e alcuni salotti più piccoli, probabilmente riservati ad accogliere ospiti, tutto al pianterreno. Poi, percorrendo la lunga scalinata, arrivarono a quello superiore, dove ignorarono del tutto un’enorme porta che, con una breve occhiata dal buco della serratura mentre Bert non stava guardando, Julius comprese portava alla biblioteca: invece, il servitore lo fece passare in camere da letto evidentemente destinate agli ospiti, qualche ambienti dalla non meglio specificata funzione, e poi, finalmente, proprio quando iniziava a pensare che si sarebbe accasciato al suolo da un momento all’altro, la stanza in cui avrebbe dormito. 
Era all’interno di un corridoio piccolo e stretto, bianco come, era ben presto diventato evidente, bianca era l’intera abitazione, che incanalava così tanto calore che perfino Bert, fino ad allora stoico e imperturbabile, aveva iniziato a mostrare varie chiazze di sudore sulla sua uniforme. La porta, una volta aperta, rivelò uno spazio angusto, con a malapena spazio per un letto, un comodino e un piccolo cassettone per i vestiti. L’unica cosa che non mancava, con grande sconforto di Julius, che quando la vide si sentì mancare, era l’enorme e onnipresente finestra, che prendeva quasi tutto il muro frontale. Le tende c’erano -magra consolazione-, ma erano sottili e chiare di colore e sapeva che non avrebbero bloccato neanche metà della luce necessaria ad assicurargli un buon sonno, lui che era abituato all’oscurità calma e dolce dei sotterranei delle Costole. Specialmente non adesso che c’erano due soli in cielo e il terzo stava per fare la sua comparsa.
“Non ho visto sotterranei, qui” provò chiedere -omettendo il punto interrogativo- al suo accompagnatore. Non si faceva illusioni sul fatto di poter cambiare la sua sistemazione -non era in villeggiatura, questo gli era ben chiaro, e non aveva intenzione di fare la figura del moccioso viziato-, ma voleva cercare di capire in che situazione si trovasse. E, da quello che sapeva, i servi erano sempre desiderosi di chiacchierare, se gliene veniva data la possibilità.
Bert gli si rivolse con uno sguardo interrogativo e Julius realizzò con orrore che probabilmente quell’uomo non parlava una parola di Itreyano, malgrado fosse la lingua ufficiale della Repubblica. 
Si chiese, con una punta di curiosità, se avesse anche solo mai ricevuto un’istruzione, e se sì per quanto.
“Giù” provò allora a dire, indicando il pavimento “Letto. Buio”
Il suo interlocutore lo guardò stranito per qualche secondo, poi, però, con suo grande sollievo, sembrò capire, perché scosse la testa, in segno negativo, e disse qualcosa nel mezzo del quale a Julius parve di riconoscere le parole “Aa”, “luce” e “onore”.
Non hanno sotterranei? Pensò, stupito, facendo un confronto con le case di ‘Grave Per il Semprevigile, dove ‘bisso mi ha spedito mio padre?
Bert aggiunse ancora qualche parola incomprensibile e fece per congedarsi, ma, aggiustandosi la giacca, stretta, un angolo della lettera di Atticus fece capolino dalla tasca, ricordando a Julius della sua esistenza.
Quel pezzo di carta rappresentava al momento la sua migliore opportunità di capire cosa stesse succedendo senza per forza dovere chiedere spiegazioni alla zia -che dava per scontato che suo padre lo avesse messo al corrente di tutto e non sarebbe stata affatto contenta del contrario- né presentarsi impreparato il cambio dopo e trovarsi di fronte a chissà quali novità.
Ma di certo non poteva richiederla indietro, tanto più che non avrebbe saputo come spiegare ciò che voleva al servitore.
Servitore che se ne sarebbe andato, se non avesse trovato una soluzione.
Lanciò un’occhiata attorno a sé, vide le finestre, e decise che poteva tentare.
“Tende,” disse quindi, indicando i sottili drappi di stoffa che pendevano dal soffitto “Alto” si avvicinò al davanzale e tentò, senza troppa convinzione, di smuoverle per coprire i vetri: come voleva che succedesse, quelle non si mossero. “Aiuto?” chiese poi, e attese la risposta.
Bert, ancora una volta, rimase fermo per qualche istante, perplesso, ma quando comprese quello che l’altro voleva dirgli annuì e gli fece segno di farsi da parte.
Il fatto era, però, che Bert, malgrado fosse un adulto, non era tanto più alto di Julius, e l’operazione risultava piuttosto difficoltosa anche per lui. Tra i soli, il caldo e la fatica, l’uomo iniziò quasi subito a sudare copiosamente, tanto da fermarsi per un attimo e, con gioia di Julius -che non aveva avuto granché fiducia nella riuscita del trucco- gettare la giacca sul cassettone, mentre terminava le manovre.
La lettera fu nelle sue mani, e poi nell’intercapedine tra il cassettone e il muro, in meno di un attimo.
Nel frattempo, Bert aveva finito di assicurare le tende e la stanza caduta in una leggera penombra, meglio di prima, ma neanche lontanamente comparabile a quello a cui Julius era abituato di solito.
In ogni caso, avrebbe dovuto farselo bastare.
Ringraziò con educazione l’uomo2, che, a sua volta, gli rivolse un sorriso, e gli tese la giacca, aspettando a malapena che uscisse e chiudesse la porta dietro di sé prima di infilare nuovamente le dita nella fessura e tirare fuori la lettera.
Con le mani che gli tremavano, si sedette sul cassettone e iniziò a leggere:

 

«Atticus Hëloisei salutem dicit,
spero che questa lettera Vi arrivi il prima possibile, mea domina, e con voi anche il suo portatore. Quando Vi ho scritto la prima missiva, ormai quasi due mesi fa -due mesi fa… Il cuore di Julius fece un balzo leggendo quelle parole- ero cosciente del carattere poco convenzionale della stessa, ed ero ancora più cosciente che altra sarebbe forse dovuta essere la Nostra condotta nei Vostri confronti. 
Eppure, la mia convinzione che la presente soluzione sarebbe stata la più vantaggiosa per entrambe le parti si è rivelata esatta: la mancanza di servitori fidati è, convengo con Voi, da sempre una piaga della nostra società, ma Vi posso garantire che Julius saprà assolvere ai suoi compiti nel migliore dei modi. È giovane, e forse un po’ inesperto, ma ha una mente svelta e impara in fretta. 
E, soprattutto, sa stare al suo posto.
Con la presente lettera ve lo affido, per tutto ciò che riteniate necessario, fino a che non reputiate il Nostro debito con la Vostra familia del tutto estinto.
Certo che la nostra collaborazione non potrà che produrre i risultati augurati da entrambi, 
Che Aa il Semprevigile vegli sempre su di Voi,»


Seguivano, subito sotto, saluti formali e la firma di suo padre.
Per qualche secondo, Julius rimase immobile, labbra strette e occhi fissi sulle parole davanti a lui. Dalla porta, chiusa, non arrivavano rumori, né da parte della servitù né di altri eventuali ospiti. L’aria e il tempo stessi sembravano essersi fermati. 
Forse, se qualcuno avesse guardato dal buco della serratura, in quel momento, avrebbe potuto intravedere ombre scure che danzavano ai piedi del ragazzino, gonfiandosi e sgonfiandosi al ritmo del suo respiro, sfumate e indistinte nella penombra creata dai tendaggi.
Ma nessuno c’era, e nessuno lo notò.
E il diretto interessato, che aveva sempre ritenuto di essere un ottimo osservatore, aveva ben altri pensieri per la testa.
Per tutta la sua -breve- vita, suo padre non aveva fatto altro che ripetergli quanto il mondo fosse duro. Ingiusto. Egoista. Glielo aveva spiegato, e poi glielo aveva mostrato nei fatti, portandolo in luoghi e facendogli vedere cose che lo avevano impressionato più di quanto egli stesso avesse realizzato.
Julius sapeva, aveva sempre saputo, che la propria salvezza si sarebbe dovuta basare unicamente sui mezzi che avrebbe saputo adoperare, e che rifiutarsi di usarne alcuni lo avrebbe esposto al rischio di venire usato a sua volta. 
Ma, in fondo, Julius era anche un ragazzino di dodici anni. E dentro di lui, a sua stessa insaputa, aveva covato la convinzione, come tutti i bambini della sua età, che per quanto il mondo fosse un posto orribile e disperato, per quanto gli individui all’esterno potessero essere opportunisti ed arrivisti, avrebbe sempre trovato un posto sicuro vicino alla sua familia. Vicino alle persone a cui sentiva di appartenere.
Quindi, sì, egli poteva dire di conoscere, teoricamente, il concetto di abbandono, ma non l’aveva mai testato, provato davvero sulla sua pelle.
Almeno, fino a quell’istante.
E in quella camera piccola, con la luce dei soli che filtrava debolmente dalle tende, seduto su un cassone di legno, a centinaia di miglia da casa, in una terra di cui non conosceva né lingua né costumi, né facce amiche, con in mano una lettera che in pratica lo vendeva ad un’estranea per un lasso di tempo indeterminato, senza speranza di riscatto, Julius imparò la prima grande lezione della sua vita:

Poco contano i legami, anche i più stretti, di fronte alla necessità di sopravvivere.

 






 

[1] Con forse più malizia del dovuto, Julius si chiese se ella si fosse affrettata a risalire la scalinata dopo aver risposto alla porta solo per dare rilevanza a quel momento.
[2] L’abitudine di ringraziare i servitori non gli era stata trasmessa dal padre, che li considerava con lo stesso riguardo degli stracci per pulire il pavimento, ma dalla matrigna, sciocca e superficiale, forse, ma mai scortese. Julius aveva osservato entrambi i comportamenti, notato che i loro dipendenti si adeguavano molto più volentieri ai capricci della domina che a quelli del marito, e tratto la conclusione che fingere un qualche tipo di considerazione nei loro confronti potesse avere anche dei vantaggi.


Che c’è? Pensavate che il suo comportamento fosse dettato dal puro buon cuore? 
Amateurs.





Nota finale: E così, sappiamo perché Julius è stato spedito da sua zia. Devo dire che nessuno, nel mondo di Nevernight, potrebbe vincere il premio come genitore dell'anno... o quello, o gli standard sono molto molto bassi (considerando che Scaeva è stato un genitore quantomeno decente per Jonnen e aveva tentato di annegare Mia...). Comunque sia, mi auguro che la storia continui ad interssarvi e che vorrete aspettare il prossimo sabato per un nuovo capitolo. Questi primi sono leggermente più corti di quelli che ci saranno quando si entrarà nel vivo della narrazione, ma spero gradirete lo stesso ;)
Ancora grazie anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

   
 
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