Nella foto, come immagino Davide e Maria.
Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La
guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno
alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento
nazisti.
Capitolo 28
Un atto di generosità
“Un gesto d’amore cuce cielo con cielo, soglia con
soglia e vita con vita. Un gesto di violenza cuce solo nero con nero e dentro
quel buio non si innesta nessun fiore, nessun colore e nessuna formula di
serenità.”
Fabrizio Caramagna
Napoli
“Non
preoccuparti, Hannah. Ho già parlato con il signor Gennaro. La prossima
settimana, mi accompagnerai anche tu per l’ultima prova dell’abito”, la
rassicurò Sarah, mentre, aiutata dall’amica, ripiegava accuratamente la
biancheria del corredo in una delle valigie che, il giorno seguente, avrebbe
iniziato a portare nella sua nuova casa.
“Sono
felice che tu abbia trovato l’uomo della tua vita”, riprese Hannah e la sua
voce assunse un tono più malinconico, “ma, allo stesso tempo, sono triste
perché penso che rimarrò da sola.” Fece una pausa e, lasciando emergere il
trauma rimosso della separazione dai suoi affetti, aggiunse: “Di nuovo.”
Sarah
la guardò negli occhi e vi scorse un velo di smarrimento, lo stesso che ricopriva
il suo sguardo nel momento in cui, dopo la guerra, l’aveva ritrovata seduta sui
gradini esterni al portone del loro palazzo a Roma, senza più una famiglia,
senza più una casa.
Come
allora, le prese una mano e gliela strinse forte e, premendo fino ad affondare
le loro mani nel letto sul quale erano sedute, disse: “Non rimarrai da sola,
Hannah. Io ci sarò sempre per te. Poi continueremo a lavorare insieme, a fare
passeggiate e compere insieme.” Sarah sorrise e strappò un lieve sorriso anche
all’amica.
In
silenzio, ripresero a piegare il corredo e a sistemarlo nella valigia e Sarah
iniziò a mettere da parte, sul letto, alcuni capi di biancheria.
“I
miei genitori non sono stati previdenti come i tuoi”, intervenne Hannah, dopo
un po’ e con una punta di amarezza nella voce, “quando ritornai a casa… Che
stupida.” Scosse la testa e, sorridendo tristemente, proseguì: “Pensavo che
fosse ancora mia.”
Dopo
aver fatto cadere la maschera di ragazza spensierata, ironica e sicura di sé,
Hannah sembrava in procinto di aprirsi al racconto del suo passato e Sarah ebbe
paura. Sì, perché, se l’amica le avesse raccontato delle sue ferite nascoste e
indelebili, come quel numero inciso sulla pelle che, in estate, le aveva
impedito di denudare le braccia e prendere il sole in spiaggia indossando
soltanto il costume da bagno, lei si sarebbe sentita in dovere di confessarle
la verità sulla propria sopravvivenza, della sua torbida relazione con un ufficiale
delle SS, uno di quelli che ad Hannah avevano strappato tutto. Era certa che
non glielo avrebbe mai perdonato.
“Non
potevi saperlo”, ribatté Sarah e tentò di sviare il discorso, anticipando ciò
che aveva già intenzione di fare quella sera stessa. “Prendi, Hannah, questi
sono tuoi”, disse, mentre, sorridendole con tenerezza, le porgeva i capi di
biancheria che aveva messo da parte per lei.
Hannah
sgranò gli occhi in un’espressione stupita, sconvolta e, portando in avanti e
agitando le mani, dissentì con voce spezzata dalla commozione: “No, Sarah. Non
posso accettare. Li ha cuciti tua madre. Sono un suo ricordo.”
“Hannah,
tu sei diventata una sorella per me e lei sarà sicuramente contenta nel
vederci, da lassù, dividere il corredo.” Sarah biascicò le ultime parole,
trattenendo le lacrime; poi, riprendendo un tono più allegro, aggiunse:
“Consideralo anche un regalo di buon auspicio.”
Entrambe
sorrisero ampiamente e Hannah le si gettò al collo, stringendola forte.
“Grazie, Sarah”, esclamò, ingoiando un singhiozzo di gioia.
E,
improvvisamente, Sarah si ritrovò ad abbracciare una bambina dai capelli ricci
e castani, con il naso e le guance pieni di lentiggini, sul retro della sua
baracca a Fossoli, nella nebbiolina di un mattino invernale. Sentì lo stesso
freddo sulla pelle, nel petto lo stesso senso di colpa.
Campo di Fossoli, 21 febbraio 1944
~ Un giorno alla partenza per Auschwitz ~
“Come
faremo, se il viaggio sarà lungo? Non avremo nulla da mangiare. Come faremo con
i bambini, Davide?” Maria sistemava nella valigia i loro pochi effetti
personali ed esprimeva al marito le sue preoccupazioni riguardo all’ignoto che
li attendeva.
“Non
preoccuparti, cara”, le rispose Davide, avvicinando la fronte alla sua in un
tenero gesto di conforto, “oggi proveremo a mettere da parte qualcosa.”
Naso
contro naso, occhi negli occhi, i due sposi rimasero fermi in quella posizione
a scambiarsi sguardi e respiri per un tempo sospeso che sembrava dilatarsi
nell’infinito. Guardandoli da lontano, Sarah percepì il coraggio che riuscivano
a trasmettersi l’un l’altra e provò invidia. Nonostante fossero stati colpiti
dalla malattia e dalla morte della giovane figlia, dalla persecuzione
nazifascista e, adesso, dalla deportazione verso Auschwitz, Maria e Davide
erano forti in virtù di quell’amore che nessuno avrebbe potuto strappare loro e
che lei – pensava, già rassegnata – non avrebbe mai conosciuto. Ed era bello
quell’amore che né il dramma del lutto né la follia dei nazisti avevano saputo
far sfiorire, ma che, addirittura, era riuscito a sbocciare facendosi dono per
gli altri, per i più piccoli rimasti senza genitori.
Sarah
mise una mano nella tasca della gonna, ricordandosi della tavoletta di
cioccolato e non esitò nella sua decisione di darla a Davide e Maria per i
bambini.
“Maria”,
esclamò, avanzando verso di loro, separandoli e riportandoli alla realtà
circostante, ma la vergogna frenò i suoi passi e il suo intento.
Maria
e Davide sapevano benissimo a quale prezzo avesse pagato quel cioccolato e, con
molta probabilità, non lo avrebbero nemmeno accettato.
Attirata
ormai l’attenzione su di sé, Sarah non poté fare altro che rivolgere loro una
domanda di cui conosceva già la risposta: “Vi prenderete cura dei bambini?”
Maria
le si avvicinò e, accarezzandole una guancia, le rispose con tenerezza: “Ma
certo.” Poi forzò un sorriso e aggiunse più seria: “E tu prenditi cura di te
stessa.”
Sarah
abbassò tristemente lo sguardo, indietreggiando di un passo, conscia che il
dolore che serbava dentro l’avrebbe consumata fino a farla ammalare, e scorse
anche Davide chinare la testa, a braccia conserte. L’uomo palesava così il suo disagio
per non aver potuto salvarla dalla violenza del tenente.
Allontanatasi
da loro, da quel silenzio velato d’imbarazzo e da quegli sguardi che,
erroneamente, percepiva di biasimo, Sarah si guardò attorno alla ricerca di
Agnese, la ragazzina più grande tra i bambini con i quali era arrivata a
Fossoli insieme a don Franco. Data l’ingenuità della sua età, lei non avrebbe
sospettato nulla sulla provenienza del cioccolato, non l’avrebbe commiserata,
giudicata o condannata e, non trovandola nella baracca, uscì fuori a cercarla.
Fu
davvero una strana coincidenza che, proprio in quel momento, Hermann si alzasse
dalla scrivania per sgranchirsi le gambe e distrarsi un po’ a guardare fuori
dalla finestra e la vedesse uscire dalla baracca, guardarsi intorno con fare
circospetto e avvicinarsi a una ragazzina con i capelli ricci e castani e il
viso pieno di lentiggini. Decise di lasciar perdere le sue scartoffie e
accendersi una sigaretta, mentre la guardava parlare alla bambina e porgerle la
mano con un’espressione forzatamente sorridente. Con blanda curiosità, seguì
con lo sguardo i loro passi fin verso il retro della baracca e, intensamente
desideroso di rivederla ancora una volta, attese che Sarah riapparisse.
“Agnese,
adesso, sei tu la più grande. Quindi, dovrai prenderti cura tu dei più
piccoli.” Sarah le parlò con tono tenero e deciso e la ragazzina, risoluta e
fiera nell’aver assunto un ruolo di mamma verso i bambini, suoi compagni di un
destino ignoto e crudele, con espressione accigliata, ribatté: “Lo sto già
facendo.”
“Brava.”
Forzò un altro sorriso e tirò fuori dalla tasca della gonna la tavoletta di
cioccolato. “Prendi”, le disse, porgendogliela, “puoi dividerla con i bambini,
se vi verrà fame durante il viaggio di domani.” E la prima bugia si nascondeva
dietro a quel «se».
Con occhi sgranati di
stupore, Agnese fissò per alcuni istanti l’incarto del cioccolato sul quale era
raffigurata l’aquila nazista; poi, rivolgendole uno sguardo pregno di sospetto,
le domandò sottovoce: “L’hai rubato ai soldati?”
Ad esser stata derubata
era Sarah, derubata dell’innocenza, dei sogni, della speranza, degli affetti,
della vita stessa, ma lei si sentiva come se avesse rubato quella tavoletta di
cioccolato a chi, come Agnese, l’indomani e per chissà quanti altri giorni
ancora, non avrebbe avuto nulla da mangiare. E, forse, a suggerirle quell’atto
di generosità non era stato tanto lo spirito altruistico che da sempre la
contraddistingueva, bensì un latente senso di colpa e lo confermò la sensazione
di liberazione provata, quando il cioccolato non fu più suo.
“No, no”, rispose,
tentando di nascondere il suo agitato imbarazzo dietro a più ampi sorrisi e
mentì con la prima cosa che le passò per la testa: “Un soldato mi ha visto
piangere e me l’ha regalato.”
“Ah”, fece Agnese, alquanto
perplessa. “Allora non sono tutti cattivi?”
“No, non lo sono”,
disse, ma, stavolta, Sarah non riuscì a sorriderle, ricordando la violenza e la
doppiezza di Hermann e pensando che, forse, ad Auschwitz, Agnese l’avrebbe ricordata come una bugiarda.
La ragazzina sembrò convincersi, rilassò le
espressioni del volto e, presa e nascosta la tavoletta di cioccolato nella
tasca della giacca, le si gettò tra le braccia, spintonandola con una forza
improvvisa che la fece indietreggiare di qualche passo e offrendo la scena del
loro abbraccio allo sguardo attento di Hermann.
“Uh”, esclamò Sarah, lasciandosi sfuggire una fioca
risata, “piano.”
“Grazie, Sarah”, sussurrò Agnese e la strinse ancor
più forte.
“Chiedi a te stesso di cambiare,
appellati alla volontà.
Lascia lavorare il tuo cuore,
chiedi che sia amore.”
Renato Zero, Chiedi