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Autore: Nadine_Rose    30/04/2020    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Nella foto, come immagino Davide e Maria.

 

Ho scelto l’immagine della miniserie televisiva “La guerra è finita” che, tratta da una storia vera, racconta il difficile ritorno alla vita di un gruppo di bambini e ragazzi sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.

 

Capitolo 28

 

Un atto di generosità

 

“Un gesto d’amore cuce cielo con cielo, soglia con soglia e vita con vita. Un gesto di violenza cuce solo nero con nero e dentro quel buio non si innesta nessun fiore, nessun colore e nessuna formula di serenità.”

Fabrizio Caramagna

 

Napoli

 

“Non preoccuparti, Hannah. Ho già parlato con il signor Gennaro. La prossima settimana, mi accompagnerai anche tu per l’ultima prova dell’abito”, la rassicurò Sarah, mentre, aiutata dall’amica, ripiegava accuratamente la biancheria del corredo in una delle valigie che, il giorno seguente, avrebbe iniziato a portare nella sua nuova casa.

“Sono felice che tu abbia trovato l’uomo della tua vita”, riprese Hannah e la sua voce assunse un tono più malinconico, “ma, allo stesso tempo, sono triste perché penso che rimarrò da sola.” Fece una pausa e, lasciando emergere il trauma rimosso della separazione dai suoi affetti, aggiunse: “Di nuovo.”

Sarah la guardò negli occhi e vi scorse un velo di smarrimento, lo stesso che ricopriva il suo sguardo nel momento in cui, dopo la guerra, l’aveva ritrovata seduta sui gradini esterni al portone del loro palazzo a Roma, senza più una famiglia, senza più una casa.

Come allora, le prese una mano e gliela strinse forte e, premendo fino ad affondare le loro mani nel letto sul quale erano sedute, disse: “Non rimarrai da sola, Hannah. Io ci sarò sempre per te. Poi continueremo a lavorare insieme, a fare passeggiate e compere insieme.” Sarah sorrise e strappò un lieve sorriso anche all’amica.

In silenzio, ripresero a piegare il corredo e a sistemarlo nella valigia e Sarah iniziò a mettere da parte, sul letto, alcuni capi di biancheria.

“I miei genitori non sono stati previdenti come i tuoi”, intervenne Hannah, dopo un po’ e con una punta di amarezza nella voce, “quando ritornai a casa… Che stupida.” Scosse la testa e, sorridendo tristemente, proseguì: “Pensavo che fosse ancora mia.”

Dopo aver fatto cadere la maschera di ragazza spensierata, ironica e sicura di sé, Hannah sembrava in procinto di aprirsi al racconto del suo passato e Sarah ebbe paura. Sì, perché, se l’amica le avesse raccontato delle sue ferite nascoste e indelebili, come quel numero inciso sulla pelle che, in estate, le aveva impedito di denudare le braccia e prendere il sole in spiaggia indossando soltanto il costume da bagno, lei si sarebbe sentita in dovere di confessarle la verità sulla propria sopravvivenza, della sua torbida relazione con un ufficiale delle SS, uno di quelli che ad Hannah avevano strappato tutto. Era certa che non glielo avrebbe mai perdonato.

“Non potevi saperlo”, ribatté Sarah e tentò di sviare il discorso, anticipando ciò che aveva già intenzione di fare quella sera stessa. “Prendi, Hannah, questi sono tuoi”, disse, mentre, sorridendole con tenerezza, le porgeva i capi di biancheria che aveva messo da parte per lei.

Hannah sgranò gli occhi in un’espressione stupita, sconvolta e, portando in avanti e agitando le mani, dissentì con voce spezzata dalla commozione: “No, Sarah. Non posso accettare. Li ha cuciti tua madre. Sono un suo ricordo.”

“Hannah, tu sei diventata una sorella per me e lei sarà sicuramente contenta nel vederci, da lassù, dividere il corredo.” Sarah biascicò le ultime parole, trattenendo le lacrime; poi, riprendendo un tono più allegro, aggiunse: “Consideralo anche un regalo di buon auspicio.”

Entrambe sorrisero ampiamente e Hannah le si gettò al collo, stringendola forte. “Grazie, Sarah”, esclamò, ingoiando un singhiozzo di gioia.

E, improvvisamente, Sarah si ritrovò ad abbracciare una bambina dai capelli ricci e castani, con il naso e le guance pieni di lentiggini, sul retro della sua baracca a Fossoli, nella nebbiolina di un mattino invernale. Sentì lo stesso freddo sulla pelle, nel petto lo stesso senso di colpa.

 

Campo di Fossoli, 21 febbraio 1944

~ Un giorno alla partenza per Auschwitz ~

 

“Come faremo, se il viaggio sarà lungo? Non avremo nulla da mangiare. Come faremo con i bambini, Davide?” Maria sistemava nella valigia i loro pochi effetti personali ed esprimeva al marito le sue preoccupazioni riguardo all’ignoto che li attendeva.

“Non preoccuparti, cara”, le rispose Davide, avvicinando la fronte alla sua in un tenero gesto di conforto, “oggi proveremo a mettere da parte qualcosa.”

Naso contro naso, occhi negli occhi, i due sposi rimasero fermi in quella posizione a scambiarsi sguardi e respiri per un tempo sospeso che sembrava dilatarsi nell’infinito. Guardandoli da lontano, Sarah percepì il coraggio che riuscivano a trasmettersi l’un l’altra e provò invidia. Nonostante fossero stati colpiti dalla malattia e dalla morte della giovane figlia, dalla persecuzione nazifascista e, adesso, dalla deportazione verso Auschwitz, Maria e Davide erano forti in virtù di quell’amore che nessuno avrebbe potuto strappare loro e che lei – pensava, già rassegnata – non avrebbe mai conosciuto. Ed era bello quell’amore che né il dramma del lutto né la follia dei nazisti avevano saputo far sfiorire, ma che, addirittura, era riuscito a sbocciare facendosi dono per gli altri, per i più piccoli rimasti senza genitori.

Sarah mise una mano nella tasca della gonna, ricordandosi della tavoletta di cioccolato e non esitò nella sua decisione di darla a Davide e Maria per i bambini.

“Maria”, esclamò, avanzando verso di loro, separandoli e riportandoli alla realtà circostante, ma la vergogna frenò i suoi passi e il suo intento.

Maria e Davide sapevano benissimo a quale prezzo avesse pagato quel cioccolato e, con molta probabilità, non lo avrebbero nemmeno accettato.

Attirata ormai l’attenzione su di sé, Sarah non poté fare altro che rivolgere loro una domanda di cui conosceva già la risposta: “Vi prenderete cura dei bambini?”

Maria le si avvicinò e, accarezzandole una guancia, le rispose con tenerezza: “Ma certo.” Poi forzò un sorriso e aggiunse più seria: “E tu prenditi cura di te stessa.”

Sarah abbassò tristemente lo sguardo, indietreggiando di un passo, conscia che il dolore che serbava dentro l’avrebbe consumata fino a farla ammalare, e scorse anche Davide chinare la testa, a braccia conserte. L’uomo palesava così il suo disagio per non aver potuto salvarla dalla violenza del tenente.

Allontanatasi da loro, da quel silenzio velato d’imbarazzo e da quegli sguardi che, erroneamente, percepiva di biasimo, Sarah si guardò attorno alla ricerca di Agnese, la ragazzina più grande tra i bambini con i quali era arrivata a Fossoli insieme a don Franco. Data l’ingenuità della sua età, lei non avrebbe sospettato nulla sulla provenienza del cioccolato, non l’avrebbe commiserata, giudicata o condannata e, non trovandola nella baracca, uscì fuori a cercarla.

 

Fu davvero una strana coincidenza che, proprio in quel momento, Hermann si alzasse dalla scrivania per sgranchirsi le gambe e distrarsi un po’ a guardare fuori dalla finestra e la vedesse uscire dalla baracca, guardarsi intorno con fare circospetto e avvicinarsi a una ragazzina con i capelli ricci e castani e il viso pieno di lentiggini. Decise di lasciar perdere le sue scartoffie e accendersi una sigaretta, mentre la guardava parlare alla bambina e porgerle la mano con un’espressione forzatamente sorridente. Con blanda curiosità, seguì con lo sguardo i loro passi fin verso il retro della baracca e, intensamente desideroso di rivederla ancora una volta, attese che Sarah riapparisse.

 

“Agnese, adesso, sei tu la più grande. Quindi, dovrai prenderti cura tu dei più piccoli.” Sarah le parlò con tono tenero e deciso e la ragazzina, risoluta e fiera nell’aver assunto un ruolo di mamma verso i bambini, suoi compagni di un destino ignoto e crudele, con espressione accigliata, ribatté: “Lo sto già facendo.”

“Brava.” Forzò un altro sorriso e tirò fuori dalla tasca della gonna la tavoletta di cioccolato. “Prendi”, le disse, porgendogliela, “puoi dividerla con i bambini, se vi verrà fame durante il viaggio di domani.” E la prima bugia si nascondeva dietro a quel «se».

Con occhi sgranati di stupore, Agnese fissò per alcuni istanti l’incarto del cioccolato sul quale era raffigurata l’aquila nazista; poi, rivolgendole uno sguardo pregno di sospetto, le domandò sottovoce: “L’hai rubato ai soldati?”

Ad esser stata derubata era Sarah, derubata dell’innocenza, dei sogni, della speranza, degli affetti, della vita stessa, ma lei si sentiva come se avesse rubato quella tavoletta di cioccolato a chi, come Agnese, l’indomani e per chissà quanti altri giorni ancora, non avrebbe avuto nulla da mangiare. E, forse, a suggerirle quell’atto di generosità non era stato tanto lo spirito altruistico che da sempre la contraddistingueva, bensì un latente senso di colpa e lo confermò la sensazione di liberazione provata, quando il cioccolato non fu più suo.

“No, no”, rispose, tentando di nascondere il suo agitato imbarazzo dietro a più ampi sorrisi e mentì con la prima cosa che le passò per la testa: “Un soldato mi ha visto piangere e me l’ha regalato.”

“Ah”, fece Agnese, alquanto perplessa. “Allora non sono tutti cattivi?”

“No, non lo sono”, disse, ma, stavolta, Sarah non riuscì a sorriderle, ricordando la violenza e la doppiezza di Hermann e pensando che, forse, ad Auschwitz, Agnese l’avrebbe ricordata come una bugiarda.

La ragazzina sembrò convincersi, rilassò le espressioni del volto e, presa e nascosta la tavoletta di cioccolato nella tasca della giacca, le si gettò tra le braccia, spintonandola con una forza improvvisa che la fece indietreggiare di qualche passo e offrendo la scena del loro abbraccio allo sguardo attento di Hermann.

“Uh”, esclamò Sarah, lasciandosi sfuggire una fioca risata, “piano.”

“Grazie, Sarah”, sussurrò Agnese e la strinse ancor più forte.

 

“Chiedi a te stesso di cambiare,

appellati alla volontà.

Lascia lavorare il tuo cuore,

chiedi che sia amore.”

 

Renato Zero, Chiedi

 

 

   
 
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