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Autore: QueenOfEvil    02/05/2020    1 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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In vili veste nemo tractatur honeste








Anche ad anni di distanza, e anche con esperienze decisamente più spiacevoli e stressanti alle spalle, Julius avrebbe sempre ripensato a quel primo mese a casa della zia come ai suoi cambi più bui.
Giudizio, questo, che -al contrario di quanto si potrebbe pensare- non dipendeva né dall’ambiente estraneo in cui si trovava, né dalla fatica che lo assaliva al momento di coricarsi -e che non si dissipava mai nelle poche ore di sonno che gli erano concesse-, e neanche dalla nostalgia per la sua casa e la sua familia
La mancanza di sonno e la stanchezza -anche se più mentale e meno fisica- sarebbero state sue compagne per molto tempo, anche nei suoi cambi più felici. E lui non si era mai considerato un tipo particolarmente sentimentale.
No, la sensazione sgradevole che quei ricordi gli procuravano scaturiva dal fatto che, per la prima e forse unica volta in vita sua, -mentre si scorticava le mani lavando i pavimenti delle sale, si ustionava le dita portando piatti quasi incandescenti dalle cucine alla sala da pranzo, e correva sotto i soli di Elai per portare messaggi scritti in una lingua che non comprendeva- Julius non riusciva a pensare.
Da che poteva avere memoria, la sua mente non era mai rimasta ferma sul presente per molto tempo. Non amava i programmi a breve termine, né le competizioni facili. Il futuro, per quanto incerto e poco promettente, come negli ultimi mesi, gli si era sempre presentato come pieno di possibilità e opportunità. Rimanere a lungo senza progetti a cui lavorare, senza obiettivi da raggiungere, gli sembrava soltanto una perdita di tempo.
Ma nella situazione in cui era, con sua zia che evitava accuratamente di menzionare un termine di scadenza per la sua permanenza in casa e niente altro all’orizzonte, a parte l’ennesima mole di lavoro il cambio dopo, c’era ben poco da attendere e ancora meno da sperare.
Aveva considerato, in un momento di particolare sconforto, l’idea di scappare. Raccogliere i suoi pochi averi, uscire mentre tutti dormivano o con la scusa di una commissione e perdersi nella moltitudine di abitanti di Elai. Ma aveva presto realizzato che quella fantasia, per quanto piacevole, era assolutamente irrealizzabile: non aveva soldi né avrebbe saputo dove trovarne, né poteva sperare di tornare a casa, dato che tra lui e ‘Grave c’era il mare. E anche il dialetto liisiano, che si stava sforzando il più possibile di apprendere, gli era ancora in gran parte estraneo.
Atticus conosceva bene suo figlio -sapeva che avrebbe cercato di trovare una via d’uscita- e aveva predisposto le circostanze in modo tale che gli fosse impossibile non obbedire.
Che gli fosse impossibile non stare al suo posto.
E così Julius aveva dovuto adattarsi alle circostanze, con la -poco confortante- consapevolezza di stare comunque facendo qualcosa per la sua familia.
Il suo cambio cominciava ben prima che la padrona di casa si alzasse -anche se, doveva ammetterlo, ella stessa era piuttosto mattiniera-, finiva un’ora dopo che era andata a dormire e le sue mansioni, anche se semplici, erano talmente tante che di rado riusciva a completarle tutte entro i tempi previsti, con il risultato di dover rimanere in piedi quando anche al resto della servitù era stato dato il permesso di coricarsi. Aveva imparato quasi subito, come richiesto, la disposizione delle stanze -aveva una memoria affilata, né suo padre né i suoi precettori avevano mai trovato nulla da ridire su di essa-, ma ancora faticava a distinguere tutti i dipendenti della casa l’uno dall’altro: solo Bert era ben riconoscibile -per via della sua statura e stazza- ed era diventato uno dei pochi punti fissi che il ragazzino avesse in quella casa.
Non si poteva dire che quell’uomo gli piacesse -ed era anche vero che Julius avrebbe sempre faticato a trovare persone che gli piacessero veramente-, ma era una presenza calma e costante in un ambiente estraneo, lento all’ira e privo dell’aria di superiorità che leggeva dei domestici più anziani, quando si rivolgevano a lui, il nuovo arrivato.
Si intendevano meglio, adesso, dato che Julius iniziava a comprendere qualcosina di Liisiano e aveva insegnato all’altro qualche termine elementare in Itreyano: le conversazioni non erano complesse, ma costituivano un qualche tipo di contatto umano che non si basasse solo sul dare e ricevere ordini. 
La zia, dal suo arrivo, non lo aveva più degnato di un’occhiata.
L’unica altra fonte di consolazione che Julius traeva dalla situazione era il libro, impolverato e mezzo mangiato dalle tarme, che aveva trovato in fondo al cassettone in camera sua.
Era scritto in Liisiano, e dunque di difficile lettura, ma, da quel che gli era parso di comprendere, doveva trattarsi di una sorta di bestiario, contente sia animali realmente esistiti che esseri immaginari -o almeno, che lui si augurava vivamente fossero immaginari-: non aveva molto tempo da dedicare al volume -cinque minuti al cambio, se era fortunato-, ma sfogliare quelle pagine, osservarne le figure e cercare di decifrarne le parole, sul suo letto, prima di addormentarsi, gli serviva da ancora per ricordare a se stesso che quella era, doveva essere, una situazione temporanea. 
Che non avrebbe passato i suoi anni strofinando pavimenti in attesa dell’improbabile pagamento di un debito. 
Che sarebbe sgusciato via, sottile e veloce come il serpente dell’illustrazione esattamente a metà del libro, e niente e nessuno sarebbe riuscito ad intrappolarlo di nuovo. 
Che la sorte gli riservava giorni ben più fausti di quelli che stava vivendo.
Doveva solo presentarsi l’occasione giusta

Spesso, grandi eventi vengono messi in moto da altri, infinitamente più piccoli.
Nel caso di Julius, si trattò dell’arrivo di una lettera.


 

❊❊❊



Stava lavorando nelle stalle, quel cambio, cambiando la paglia nei box e cercando di accostarsi il meno possibile ai cavalli. Si era ben presto reso conto, infatti, che quelli provavano nei suoi confronti un’antipatia tutta particolare: nei cambi precedenti, aveva dovuto evitare calci, morsi e pestaggi di piede. Un paio di volte, addirittura, aveva dovuto precipitarsi davanti al cancello per evitare che gli animali scappassero.
All’inizio, pensando di essersi comportato in modo scorretto, aveva provato a chiedere consigli a Bert, ma quello non aveva saputo cosa dirgli: sembrava, infatti, che con tutti gli altri quei ronzini si comportassero in maniera impeccabile. 
La sua unica speranza era sopravvivere alla fine della settimana.
Era quasi giunto alla fine della prima fila di recinti, quando sentì la porta dietro di sé aprirsi: pensando che fosse venuto a prendere il suo posto, si girò e si trovò faccia a faccia con un ragazzo un po’ più grande di lui, capelli rosso fuoco e viso ricoperto di lentiggini, che lo squadrò da sotto in su, storcendo il naso.
Il suo abbigliamento e la sfumatura della sua pelle indicavano che non era di quelle parti e Julius arrossì, consapevole che il suo aspetto era -per usare un eufemismo- poco decoroso: tra i capelli che gli arrivavano ormai a metà del collo, i vestiti sporchi di paglia e il viso rosso per lo sforzo, nulla rimaneva ad indicare la sua passata appartenenza alla nobiltà Itreyana. 
Provò imbarazzo e si detestò per questo.
La sorpresa però prese il posto della vergogna quando l’altro, senza mai modificare la sua espressione di altezzosa superiorità, gli si rivolse chiamandolo per nome, con un accento che non poteva che appartenere a Godsgrave.
“Sei tu Julius Scaeva?” 
Come faceva quel ragazzo a conoscerlo? E perché sapeva dove trovarlo?
Sorpreso e dubbioso insieme, e memore degli insegnamenti del padre, il ragazzino si limitò a fissarlo, senza rispondere.
Il suo interlocutore, però, non sembrava avere voglia di aspettare: “Allora? Che c’è, sei sordo? Ti ho chiesto se sei tu Julius Scaeva. Devo consegnargli una lettera, e non ho tempo da perdere”
L’attenzione del ragazzino si acuì a quell’ultima affermazione: “Una lettera? Da chi?”
“Allora sei tu il destinatario?”
La curiosità -e, insieme ad essa, la speranza- era troppa per non rispondere subito.
Il messaggero, scoprì con sollievo Julius dopo avere ricevuto l’involucro di carta, era già stato pagato e perciò non si trattenne oltre: ci fu solo un ultimo scambio di occhiate tra loro -tra il ragazzino sporco di fango e polvere che teneva stretta quella missiva come se ne andasse della sua vita e il giovane uomo vestito di tutto punto che gliel’aveva recapitata-, ma Julius avrebbe ricordato a lungo la sensazione di quegli occhi sulla sua pelle.
Disgusto. 
Disprezzo.
Forse, un po’ di pietà.
Le ombre, ai suoi piedi, tremarono appena.
Non appena fu di nuovo solo nelle stalle, però, tutto ciò perse importanza di fronte a quello che aveva in mano: buone nuove, di sicuro. Non aveva più ricevuto notizie dal suo arrivo ad Elai e questa doveva essere una lettera di spiegazioni, in cui suo padre lo avrebbe messo al corrente della situazione a casa e gli avrebbe finalmente detto quando e a che condizioni sarebbe potuto tornare.
Il sigillo di cera rossa sulla pergamena bianca simboleggiava tutta la speranza che sentiva sotto pelle, fioca ma persistente, mentre, mordendosi il labbro, si sedeva per terra e si apprestava a leggere.
Click.
Il sigillo andò in frantumi.
E non solo quello.
Dapprima, Julius non riconobbe la scrittura.
Non era di suo padre, quello era certo.
Invece degli svolazzi eleganti e un po’ esagerati con cui Atticus riempiva le pagine -ghirigori così complessi che, per quanto esteticamente piacevoli, rendevano quasi impossibile decifrare il contenuto effettivo del messaggio-, le parole erano tracciate con regolarità, e la calligrafia era minuta e precisa, simile agli esercizi di scrittura che i suoi precettori gli assegnavano quando era piccolo: presentava, però, delle irregolarità, come se la mano che teneva la penna avesse tremato mentre scriveva.
Ma quando l’attenzione di Julius si soffermò sul contenuto, il mittente cessò quasi subito di essere un mistero.
La sua matrigna.
E il motivo per cui era lei a scrivergli, e non suo padre, era che…
Quando arrivò a leggere quella parte -a dispetto dei nostri sforzi, i debiti erano troppi da colmare, soprattutto in così poco tempo: abbiamo fatto il possibile, ma i creditori non hanno voluto sentire ragioni…- il suo cuore sembrò fermarsi: era arrabbiato con Atticus, quello era vero. Dopo avere scoperto la verità sul motivo per cui era stato mandato a Elai si era sentito tradito. Aveva creduto che in nessun caso lo avrebbe perdonato. 
Ma era suo padre.
E mai avrebbe desiderato…
Qualche anno prima, una delle guardie del corpo di un senatore era stata accusata di aver rubato in casa sua. Le voci dicevano che non era vero, che il senatore stesso si era dovuto disfare di oggetti d’arte di provenienza scomoda e aveva poi dovuto giustificare la loro sparizione, ma nessuna di quelle voci si era fatta avanti per difendere l’accusato. Le prove a suo carico non erano molte, ma unite all’influenza dell’uomo contro di lui erano state sufficienti per farlo condannare.
Julius era tra gli spettatori, quando era accaduto. Atticus aveva voluto che vedesse anche quello.
E quindi sì, aveva visto quella montagna, quel gigante muscoloso e inflessibile, il cui volto era rimasto imperturbabile per tutta la durata del processo, cadere in ginocchio davanti al giudice e implorarlo.
“Vi prego! Farò qualsiasi cosa…qualsiasi cosa! Ma non là!”
Il ragazzino si era voltato verso suo padre e aveva visto le rughe sulla sua fronte farsi più pronunciate.
Era stato in quell’occasione, che Julius aveva sentito parlare per la prima volta della Pietra Filosofale.
Lì, nelle stalle, mentre gli veniva recapitata la notizia, scritta nero su bianco, che anche Atticus era stato portato in quel luogo, la sua mente andò a quei momenti. Alle urla. Alla disperazione. A quello che gli era stato raccontato, dopo, tornando alle Costole.
E sentì l’ultimo barlume di fiducia che aveva gelosamente conservato dentro di sé per tutti quei cambi spegnersi di colpo.
La sua permanenza in casa della zia appariva ormai priva di significato.
Anche avesse lavorato per anni, senza mai fermarsi, non sapeva quanto ci sarebbe voluto per ripagare i debiti. Né sapeva quanti e quali creditori suo padre avesse a ‘Grave.
Atticus non avrebbe più rivisto la luce del sole.
E lui non avrebbe mai riavuto indietro la sua vita.
Julius sentì la gola stringersi e la vista farsi sfocata, e lottò per ricacciare indietro le lacrime.
Piangere era una dimostrazione di debolezza, gli era sempre stato insegnato.
Ma cos’altro poteva fare?


 

❊❊❊



Non sapeva quanto tempo fosse passato dall’arrivo del ragazzo -quanto tempo fosse rimasto seduto nella paglia, con la lettera in mano e gli occhi gonfi- quando la porta dietro di lui si aprì di nuovo.
Seppe chi era non appena sentì i tacchi delle scarpe ticchettare sul pavimento di legno.
“Bert mi ha detto che ti è stato recapitato un messaggio da Atticus. Mi auguro che siano buone notizie e…” Hëloise si interruppe non appena il suo sguardo incontrò quello di Julius.
“Che ti ha scritto?”
Lui provò ad aprire la bocca per replicare, ma sentì che non sarebbe riuscito a spiegarsi senza che la voce gli tremasse -e no, non sarebbe scoppiato in lacrime davanti a lei, non poteva permetterlo-, perciò quello che fece fu, più semplicemente, tenderle il foglio di carta e lasciare che le parole della matrigna parlassero per lui.
La donna scorse in fretta la lettera e, quando finì, a Julius parve che il cipiglio con cui aveva preso a squadrarlo da quando era arrivato si fosse appena ammorbidito. Ma forse era solo la sua immaginazione che cercava conforto dove non ve ne era alcuno.
Nessuno dei due commentò il contenuto del messaggio, ma, mentre il ragazzino rimaneva zitto perché temeva quello che la zia avrebbe potuto rispondere, quest’ultima sembrava riflettere con attenzione su qualcosa. 
Ponderare una decisone. 
Ricordare.
“Seguimi” disse infine, già girata di schiena, avviandosi verso la porta. Julius, che si aspettava tutt’altra reazione -un accesso d’ira, forse, o una scrollata di spalle e l’ordine di rimettersi al lavoro-, rimase per un attimo interdetto, ma, vedendo che ella non accennava a rallentare e dava per scontato che lui le stesse dietro, non ebbe altra scelta che seguire il suo ordine.
Era difficile, d’altronde, che la situazione potesse peggiorare ancora1.
Rientrati nella domus vera e propria attraverso la porta di servizio attraversarono il corridoio destro e poi salirono la scalinata principale: era il pomeriggio del quinto cambio della settimana, il che voleva dire che i gradini erano stati appena lavati con il sapone, e Julius sapeva, per esperienza, che combinare un pavimento scivoloso e delle scale molto ripide poteva rivelarsi pericoloso. Solo due settimane prima, infatti, aveva percorso quella rampa di corsa senza fare attenzione e, perdendo l’equilibrio, era quasi andato addosso ad un uomo alto e biondo, che non aveva ma visto prima nella casa.
Quell’individuo non sembrava essersela presa troppo, ma non credeva che si sarebbe potuto dire lo stesso di Hëloise, nel caso l’incidente avesse riguardato lei.
Una volta giunti di sopra, non si diressero verso la sezione del piano dove Julius aveva la sua camera -e dove, aveva presto capito, dimorava tutta la servitù2-: la zia, invece, tirò fuori da una tasca del vestito una chiave bronzea, la inserì nella serratura della porta della biblioteca e, con grande stupore del nipote, la fece girare due volte, fino a che non si sentirono gli ingranaggi all’interno scattare.
Quando le ante si spalancarono, a dispetto dell’angoscia che sentiva nel petto, Julius spalancò gli occhi e trattenne il fiato.
La stanza davanti a lui era lunga una cinquantina di metri ed era larga quasi il doppio, di forma perfettamente rettangolare, con un pavimento di marmo colorato a motivi regolari e un soffitto a cassettoni; dirimpetto all’entrata, le onnipresenti finestre occupavano l’integrità del muro frontale, rendendo anche quella stanza l’ennesimo abbacinante tributo alla divinità tanto adorata dalla proprietaria. 
Ma non fu né la luce, né la grandezza a colpirlo.
Perché se una delle pareti era composta solo di vetri, le altre tre erano ricoperte di libri.
Scaffali dieci volte Julius si innalzavano infatti dal pavimento e arrivavano a toccare l’intonaco sopra le loro teste, talmente ricolmi di volumi che egli temette che qualcuno di esse potesse cadere e rovinare al suolo: c’era ordine, però, un ordine quasi maniacale, e, scorrendo con lo sguardo i dorsi dei libri, il ragazzino poté riconoscere molti dei libri su cui aveva studiato, molti di cui aveva sentito solo parlare, e altrettanti che gli erano del tutto sconosciuti.
E le rilegature… Julius era figlio di un midollano pieno di debiti, era vero, ma pur sempre un midollano. 
Sapeva riconoscere la qualità, quando la vedeva.
Neanche a casa, a ‘Grave, aveva mai avuto a disposizione nulla del genere.
Per un attimo, dimenticò i suoi problemi, le sue paure, ogni sentimento negativo provato negli ultimi cambi, e si perse semplicemente nella contemplazione del panorama che aveva davanti a sé.
Venne riscosso dai suoi pensieri dalla voce della zia, che stava armeggiando, se ne rese conto solo in quel momento, con una scala di legno dall’aspetto instabile: 
“Quando ero giovane, ero una miscredente. Credevo che la parola del Semprevigile non fosse nient’altro che -che Aa mi perdoni- un cumulo di frottole per creduloni. Mi credevo al di sopra di quelle sciocche superstizioni.” Mentre parlava, cercava di incastrare la scala in delle scanalature del pavimento e di fissare la sua parte superiore a dei ganci pendenti dal soffitto: Julius si stava giusto chiedendo se non fosse il caso di raggiungerla ed aiutarla, quando i movimenti oscillanti dell’oggetto si stabilizzarono.
“Per fortuna, la Sua mano mi ha guidata, e mi ha fatto capire che l’unica sciocca, lì, ero io”
E, dicendo quelle parole, ella iniziò a salire.
Dopo un momento di esitazione, così fece anche Julius.
Quando furono più o meno a metà della scala, Hëloise ricominciò a parlare: “Anche tuo padre, sono sicura, la pensa allo stesso modo sulla nostra religione. Si ritiene troppo furbo per sottomettersi a un potere invisible. Conosco bene gli uomini della sua risma” Sospirò “E immagino che abbia indottrinato anche te nello stesso modo”
C’era così tanto disprezzo nella sua voce, così poca considerazione per la sua familia, che Julius sentì quel poco di orgoglio che gli era ancora rimasto fare a pugni con il suo buonsenso -Ascolta quanto puoi. Sta’ in silenzio quando devi.-, ma non poteva replicare. La sincerità, in quel frangente, gli era preclusa.
“Ma, fortunatamente, il Semprevigile ascolta anche chi meno lo meriterebbe, se dimostra buona volontà”
A quel punto, Julius si accorse che avevano smesso di salire e, guardando verso l’alto, con sua sorpresa si accorse del perché: malgrado la luminosità e il candore dell’ambiente creassero l’illusione che gli scaffali arrivassero a toccare il soffitto, la realtà era che essi, invece, si fermavano circa due metri prima dell’intonaco, lasciando uno spazio abbastanza alto per permettere ad una persona di media statura di camminare senza chinarsi. Una balaustra, talmente sottile da risultare invisibile dal basso, era stata posizionata lì allo scopo di evitare spiacevoli incidenti.
Ma cosa ‘bisso poteva esserci di così importante là sopra?
“Solo io ho le chiavi di questa stanza.” La zia era in piedi sul passaggio e impediva a Julius di vedere quello che vi era dietro “È il luogo più tranquillo della casa. È per questo che l’ho scelta come luogo di preghiera”
Anche Julius adesso aveva terminato la salita e stava esattamente di fronte ad Hëloise. I suoi occhi incrociarono quelli di lei, lo scetticismo chiaramente visibile nel suo sguardo.
Mea Domina, non sono sicuro di avere compreso quello che voi volete che io faccia”
Ella aggrottò la fronte: “Io non voglio che tu faccia proprio nulla. Ma le vie del Semprevigile sono infinite. E lui potrebbe decidere di aiutarti, e di aiutare anche tuo padre, se glielo chiederai nel modo giusto. Per questo ti ho portato qui”
Julius fu tentato di chiederle perché non poteva aiutarlo direttamente lei, invece che Aa, eliminando un paio di intermediari e anche tutta l’incertezza di rivolgersi ad una divinità onnipotente -e quasi di sicuro inesistente-, ma non ne ebbe il tempo, perché la zia si mise di lato, indicando con un dito un punto alla fine del camminamento, a una ventina di metri da dove si trovavano loro.
Lui lo sentì, molto prima di vederlo.
Un bruciore così forte che gli sembrava che la sua pelle andasse a fuoco. 
Una sensazione di soffocamento che gli bloccava il petto e gli offuscava gli occhi.
Julius aveva sperimentato il dolore dei lividi, delle ferite e delle ossa rotte. Ma mai, mai in tutta la sua vita, aveva creduto che potesse esistere un male così assoluto. Così devastante. Così insopportabile.3
Le gambe gli cedettero e cadde per terra, mentre terrore e confusione si contendevano quella minuscola parte della sua mente che non si stava contorcendo in agonia.
Cosa mi sta succedendo?
Sentì la zia chiedergli qualcosa, ma le sue parole erano offuscate e, in ogni caso, anche le avesse comprese, non avrebbe potuto rispondere. 
Per favore fallo smettere per favore fallo smettere per favore-
Con uno sforzo estremo, riuscì ancora ad alzare lo sguardo verso Hëloise -il suo volto, ridotto ad una macchia rosa, non sembrava avere espressione- e per un attimo, dietro di lei, vide, attaccato al muro, qualcosa che splendeva con la potenza e la rabbia di una divinità.
Poi, tutto diventò buio.







 

[1] C’è davvero bisogno che io commenti quest’ultima affermazione?
[2]Era la parte più calda della casa, ovviamente.
[3] L’odio, come Julius avrebbe avuto in seguito modo di apprendere, aveva un potere molto simile.




Note finali: E anche questo capitolo è andato. Diciamo che, se vi foste chiesti come e quando Julius avrebbe avuto il suo primo scontro con la Trinità, avete avuto la vostra risposta. Come vedete, questo capitolo è leggermente più lungo dei precedenti e, mano a mano che si entrerà più nel vivo della vicenda, essi si allungherano ulteriormente: mi ero dimenticata di dire, nelle note precedenti, che questa prima parte con Julius ragazzino avrà in tutto 20 capitoli, dei quali 9 sono già scritti e gli altri sono già pianificati, quindi gli aggiornamenti dovrebbero continuare con regolarità. Mi auguro che la storia continui ad interessarvi e che aspetterete un'altra settimana per ulteriori sviluppi,
Un grandissimo grazie, come sempre, anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

   
 
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