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Autore: BabaYagaIsBack    03/05/2020    0 recensioni
Félicienne ha perso qualcosa.
Qualcuno, in realtà.
Un giorno qualunque, di qualche tempo prima, si era decisa a confessare tutto ciò che aveva tenuto segreto per quasi dieci anni. Aveva trovato il coraggio per esporsi, per assumersi le proprie responsabilità, peccato che quello che avrebbe dovuto essere il suo confessore avesse scelto di abbandonarla per sempre. Così, costretta in una vita troppo stretta, in un quartiere di Marsiglia che è diventato ogni giorno più soffocante, Fèlì cresce, lottando contro sé stessa e ciò che non ha potuto dire. Il risentimento e la rabbia non l'abbandonano mai, esattamente come i ricordi e quello che ancora è suo - solo suo.
Il destino però non ama giocare leale e quindi, in qualche modo, ciò che le aveva portato via anni prima le rimette davanti agli occhi, aggredendola con sensazioni molto più vivide e profonde di quelle che lei abbia mai potuto conoscere, emozioni capaci di scavare sia nell'anima sia nella carne di una ragazza all'apparenza fin troppo fragile.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Fèlicienne


 

Con gli occhi rossi di chi anela riposo mi volto verso l'orologio che da sopra la lavagna studia gli studenti, minacciandoli di portargli via tempo prezioso per concludere le ventidue domande di un test preannunciato da settimane ma per cui nessuno si è prodigato fino all'ultimo, nemmeno io. Il ticchettio insistente sembra volermi canzonare: "te ne mancano ancora tre Felì, non ti vergogni? Su, su, nemmeno stavolta prendi trenta" - non che ci abbia mai sperato, in effetti. E mentre lo fisso, e lui lo fa di rimando con me, mi chiedo per quale stupida ragione abbia deciso di iscrivermi alla facoltà di architettura. Da bambina non ho mai sognato di mettere fondamenta, scegliere materiali, studiare spazi - per me un posto valeva l'altro finché stavo bene con le persone che mi erano attorno. Crescendo però, ho sviluppato quell'inspiegabile repulsione per il luogo in cui sono stata costretta a vivere e, alla fine, mi sono ripromessa che non avrei permesso a nessun palazzo fatiscente di terrorizzare o rovinare le giornate di altri mocciosi: c'erano già così tante cose brutte ad aspettarli. 

Nel tempo ho provato a dare alla mia decisione altri significati, però non c'era nulla di più e nulla di meno. Non ero affascinata dai lavori di Le Corbusier, Wright o Mackintosh, non vedevo nulla di soddisfacente nel loro modo di sviluppare forme e arredi, eppure riconoscevo a tutti dell'inventiva, della caparbietà e uno stile unico - per questo ora, mentre guardo le lancette che si muovono sul quadrante bianco, mi domando cosa scrivere riguardo al Vitra Fire Station, l'opera a mio avviso meno esaltante della carriera della povera Hadid. Più ci penso e meno risposte riesco a trovare. Attendo invano l'illuminazione, provando a scongiurare qualche santo di venirmi incontro, ma ciò che arriva alle mie orecchie è solo il vocione baritonale del professore di Storia dell'Architettura Contemporanea.
Consegnate, dice.
E nonostante io possa ostinarmi a restar seduta e guadagnare ancora qualche minuto, come fanno i più, mi alzo raccattando penne e matite, poi m'incammino verso quello che un tempo doveva essere stato uno tra i docenti più affascinanti della facoltà, ma che ora ne è solo il ricordo sbiadito. Chissà quante alunne hanno perso la testa per lui, per il modo che aveva e alle volte ha ancora di raccontare le imprese architettoniche di uomini e donne in cui avrebbe tanto voluto rispecchiarsi. Chissà quante si sono alzate le gonne davanti ai suoi occhi nero pece, o quante bugie deve aver raccontato alla moglie per giustificare i suoi ritardi - perché sono certa, così come lo sono di non prendere trenta, che almeno una volta sia successo; che una scappatella o due siano segretamente successe. A tutti piace il proibito, in passato persino a me.

Ora lui mi guarda, ed io gli sorrido.

«Quante?» mi domanda, ormai avvezzo alla mia costante incompletezza accademica - specchio riflesso di quella emotiva. Da quando ho iniziato questo corso lui dice di aver visto in me la scintilla degli studenti più promettenti, eppure io riconosco solo la loro pigrizia.

Sorrido di più: «Tre».
«Potevi puntare al trenta».

Mollo la presa sui fogli dell'esame. Come ho detto, lui vede in me ciò che non esiste, la chimera di un futuro brillante in qualche studio di Parigi, o forse la speranza di quella mutandina calata. Alzo le spalle e scrollo la testa, avvertendo già una presenza farsi vicina. Il tempo di dilungarsi in chiacchiere si accorcia a ogni passo che lo studente dietro di me compie, così mi spiccio: «Non sono mai stata brava a ottenere ciò che voglio e dare ciò che si spera» affermo, elencando tra i pensieri la lista di desideri infranti.

A quattro anni un fratellino.
A sei un cane, visto che il fratellino era troppo dispendioso.
A nove un game-boy tutto mio, dato che pure il cane era troppo impegnativo; inoltre tutti i bimbi del palazzo lo avevano e si scambiavano i giochi, passando ore a raccontarsi dei progressi fatti.

A undici anni volevo che Aalina tornasse dall'ospedale, ma poco dopo desiderai semplicemente che la sua assenza non fosse così opprimente.
A quattordici il primo bacio, il suo.
A quindici di essere nel letto oltre la parete di camera mia, al posto di qualsiasi ragazza si trovasse lì nei pomeriggi afosi e in quelli gelidi. Mi domandavo perché non potessi essere io quella che riempiva i suoi vuoti quando il padre era via.
A diciassette volevo che il mio amore fosse ricambiato e a diciotto che lui tornasse.
A diciannove anni pregavo di poter andare via da Marsiglia e dimenticare ogni male.
A venti che la sua carriera andasse a puttane.
A ventiquattro vorrei un trenta e lode senza dover buttare il mio tempo su dei libri di cui in effetti non me ne frega nulla.

Il professore resta fermo, mi fissa. Sento i suoi occhi sulla nuca, arpioni che cercano di fermarmi: «Forse se ti applicassi di più...» ma non gli do tempo di finire. Chiudo la porta dell'aula e senza esitazione mi immetto nella fiumana di gente che cambia stanza, oppure va a pranzo o scappa dall'ennesima lagna. Non ho alcuna voglia di dar spettacolo a chi è rimasto seduto, men che meno di udire la stessa solfa che ogni adulto propina a coloro che ritengono ancora troppo ingenui: "Se ti applicassi di più otterresti risultati migliori". 
Mi sono applicata per giorni, settimane e pure mesi, ma nonostante ciò sono ancora qui. Sempre qui. Sola.
Così sbuffo socchiudendo le palpebre. 

Non ne posso più. 

Dirlo però non aiuta, non porta a cambiamenti - e intrappolata come sono in questa routine che non mi permette di fare nulla più del lamentarmi, la situazione non migliora. Ho una casa che voglio abbandonare, eppure non guadagno abbastanza per poter partire e ricominciare. Ho un lavoro part-time che mi dà solo ciò che serve per pagare le necessità della Kadett e qualche uscita, oltre che mantenere quel brutto vizio delle sigarette, e la laurea che con tanta fatica sto cercando d'acciuffare dovrebbe essere la soluzione a ogni mio male, peccato che mi abbia bloccata per cinque anni in questo schifo, anche se la fine sembra vicina. Qualcuno però, nella consapevolezza di non poter mutare, riesce a trovare pace, si ritaglia il suo spazio e ci si costringe dentro al pari di un contorsionista. Sorride e mette in mostra la sua capacità d'adattamento proprio come il miglior showman, ma io in questa situazione scopro solo frustrazione; le mie articolazioni sono troppo rigide per bloccarmi in una scatola di latta che pare avere la forma di una bara.

Con le dita sposto le ciocche sfuggite alla coda, quelle che fastidiose mi ricadono sul viso, poi mi mordo il labbro ed esco dal gruppo di studenti che non diminuisce mai, obbligandomi insieme ad altri a raggiungere una delle tante sale comuni, il luogo mistico dove gli studenti di tutte le facoltà dell'ateneo si riuniscono per ripassare, chiacchierare o mangiare schifezze - anche perché fuori, nel parco, fa troppo freddo per accamparsi.

Il mio corpo agisce prima che la mente possa mettere insieme un qualsiasi tipo di pensiero, così con lo sguardo inizio a cercare un viso amico - sì, perché seppur ogni cosa intorno a me sia di dubbia piacenza, qualche persona a cui voglio bene c'è e, tra queste, Clèmentine è forse la più importante.

La sua mano si leva in cielo, sventola per indicarmi il tavolo di cui è riuscita a impossessarsi lottando furiosamente con i ragazzi a un passo dal diventare zombie ed io, ammaliata dalla moltitudine di bracciali in legno e ferro che cozzano melodicamente al suo polso, mi faccio condurre a lei come un topo che segue il pifferaio. Avanzo svelta, sempre più - e quando incontro il suo sorriso non posso far altro che ricambiare. 
Finalmente pace.
Finalmente qualcosa di reale.

«Allora?»
«Ne mancavano tre».

Ciò che di Clèmentine ho sempre apprezzato, dal giorno del nostro primo incontro all'asilo ad ora, è la complicità che naturalmente si va a creare tra noi, quel modo semplice e alle volte infantile con cui un commento privo di contesto, o uno sguardo, ci permettono di comunicare. Con lei non ho mai dovuto fingere, men che meno sforzarmi di farlo: sarebbe stato inutile. Persino nei silenzi, anche quelli più prolungati, lei riesce a vedere il problema, a leggere i miei pensieri. Che li capisca è un'altra storia, nemmeno dopo vent'anni ci riesce, eppure a me è sempre andato bene così - non mi serve un simbionte, ciò di cui ho bisogno è solo un sostegno. E lei lo è diventato, passo dopo passo in questo strazio che è diventata la mia vita a Marsiglia.

I suoi occhioni nocciola, circondati dal kajal, si puntano severi su di me, mentre i bracciali tintinnano quando si porta le mani ai fianchi e bofonchia: «Felì, me lo avevi promesso!» Il suo rimprovero però ha una sfumatura fanciullesca, è un suono cristallino che pizzica le orecchie e m'impedisce di prenderla seriamente. Mi pare quasi di aver di fronte una bambina, la sorellina che in un passato lontano ho desiderato ardentemente - invece è la mia migliore amica, forse l'unica che possa realmente definire tale e, sulla carta d'identità, come me, ha superato da un po' la maggiore età.

«Dubito».
Scuote il capo e arriccia le labbra carnose: «Ma non il trenta, sciocchina! A me basta che prendi diciotto...» ora sposta dal viso i ricci ribelli, sbuffa nello stesso modo in cui faceva a otto anni: «Intendevo dire che ci saremmo dovute laureate insieme» ammette poi, forse in parte offesa dalla mia negligenza e riluttanza. Lei dopotutto è una di quelle poche persone che alle promesse dell'infanzia ci crede ancora, non ha capito che crescendo certe frasi diventano solo dolci ricordi vuoti. Clèmentine a differenza mia ha conservato il candore della fiducia, la speranza fragile di aver di fronte persone sincere, leali - nonostante le prove non vuole credere che qualcuno a cui tiene possa deluderla. 
Più volte, durante la nostra frequentazione, l'ho trovata sciocca e in altrettante occasioni le ho urlato contro quanto odiassi la sua ingenuità, eppure siamo ancora qua, una accanto all'altra. Lei accetta la mia insofferenza nei confronti di ogni cosa, io la sua eterna bontà d'animo.

Mi avvicino, poggiandole la testa su una spalla. La sua criniera rossiccia è scudo, coperta soffice in cui nascondersi dai pensieri e dagli sguardi, per questo vi cerco ancora rifugio, ora più di prima, e ne annuso il profumo confortevole cercando di non pensare a quanto la invidio: vorrei trovare anch'io la sua forza.

«Pensi che mi boccerà?»

La sua guancia mi tocca la fronte: «Penso che con te sia ancora difficile avere certezze». Rido, e lei con me.
«Ci laureeremo insieme, tranquilla» ma la mia non è né una promessa né una certezza, solo la flebile speranza di non farmi nuovamente sopraffare dalla pigrizia e rimandare, perché come ogni masochista odio ciò che mi fa male, eppure mi crogiolo nel dolore che mi procura.

 

 
   
 
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