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Autore: Milich996    03/05/2020    0 recensioni
Il leader di un clan Yautja porta uno dei suoi nipoti (non particolarmente abile nell’arte della caccia) sulla Terra. Lo scopo è di allenarlo, insegnandogli a catturare prede poco impegnative. Il clan non caccia gli esseri umani, salvo venire attaccati deliberatamente da questi ultimi. Sulla terra incontreranno una giovane umana; A differenza del nipote, il Predator più anziano non si fida, e tende a mantenere le distanze. Tuttavia, col tempo, cambia idea: i tre impareranno così a rispettare la loro diversità...e il leader del clan imparerà anche qualcos’altro
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Jar’lath si alzò dal letto brontolando. Ogni minuto che passava, malediceva sempre più l’idea di mettersi in viaggio verso la Terra. Comunque non poteva rimangiarsi la parola data. Mentre si dirigeva stancamente verso lo scanner, si slacciò il panno che teneva allacciato alla vita; poi, come faceva sempre ogni mattina, accese l’apparecchio. Regolò le impostazioni e premette un piccolo tasto alla base del dispositivo. Apparvero così i soliti due ologrammi: il primo era una riproduzione esatta di se stesso, compresi i colori della pelle e tutte le altre caratteristiche; il secondo forniva dei semplici dati sulla sua salute attuale. Si osservò distrattamente. Quella cicatrice enorme era sempre là: gli impediva di andare avanti, di perdonare.
Un segno ampio, memoria di una ferita che gli era quasi risultata fatale. Partiva dal centro della schiena, attraversava il fianco destro e terminava la sua corsa sull’addome. Quasi senza pensarci, sollevò una mano e ripassò la parte finale dello squarcio con l’indice. Naturalmente anche l’ologramma fece lo stesso. Jar’lath rise fra sé e sè, invidiando un po’ quella figura inanimata: niente responsabilità, niente nipoti incapaci, niente viaggi su pianeti di quart’ordine.
“Pauk!” (Fu*k) pensò, ricordando la sua situazione. Spense l’ologramma e appoggiò il palmo della mano sinistra su una porta di metallo situata subito accanto. Dagli stipiti partirono alcuni raggi IR, che riconobbero le sue impronte digitali. La porta si aprì, scorrendo lateralmente in un’incavo, posto all’interno della parete. Entrò in una nuova stanza, dalle dimensioni più ridotte, adibita all’igiene personale.
Era piuttosto spoglia, con una pianta a base quadrata. Alle estremità più distanti dalla porta, si trovavano delle coppie di anelli di metallo, perfettamente simmetrici. Una coppia per lato: un cerchio sul soffitto e uno sul pavimento. Jar’lath raggiunse l’anello sulla destra: si posizionò al suo interno e dopo qualche secondo iniziò iniziò a scendere dell’acqua.
Subito avvertì una piacevole sensazione di fresco lungo i dreads; piccoli rivoli presero a scorrergli lungo il viso, passando sopra un’altra evidente cicatrice... Partendo dalla fronte, solcava la tempia sinistra, a pochi millimetri dall’occhio. Era stato fortunato a conservare la vista. Ma quei due profondi segni rappresentavano un marchio indelebile delle passate imprese; per lui erano motivo di profondo orgoglio.
Finito di bagnarsi, passò al secondo anello, per l’asciugatura. Dall’enorme finestra posta sulla parete laterale, entrava prepotentemente la luce del giorno. Bisognava sbrigarsi, o sarebbe arrivato tardi. Uscì dal bagno, si diresse alla zona di fronte al letto e di nuovo mostrò il palmo di una mano. Gli apparve un grande spazio, pieno di vestiti pregiati. Scelse un panno dai colori vivaci e se lo allacciò in vita. Richiuse la stanza con un semplice comando vocale e si avviò, sospirando, verso l’uscita della camera da letto. Subito si ritrovò in un corridoio; per fortuna il suo spazio personale non finiva lì. L’ampio corridoio passava attraverso numerose stanze, adibite ognuna ad una funzione diversa. C’era quella per mangiare, quando voleva restare solo. C’erano quella delle armi, quella dei trofei e così via. Tutte le sale, naturalmente, erano molto ampie. Jar’lath indugiò per un attimo davanti alla stanza delle armi... valeva davvero la pena attingere alla sua vasta collezione personale, per una missione così stupida? In fondo c’era pur sempre l’Armeria comune, una generosa risorsa extra, messa a disposizione di tutti i guerrieri che lo desideravano. Massì, avrebbe preso da li il necessario per se e per suo nipote.
Sbuffando riprese il cammino, oltrepassando una sorta di porta a vetri. Ecco, ora era entrato negli spazi comuni. Il corridoio proseguiva dritto, ma Jar’lath iniziò a scendere una scalinata alla sua destra: dal primo piano (dove si trovava), raggiunse il pianterreno. Davanti a lui si estendeva, in senso orizzontale, un altro corridoio; da quest’ultimo si dipanavano molti altri passaggi: era così, il Palazzo. Immenso, il nucleo centrale della città. Un dedalo di sale e stanze, collegate fra loro da innumerevoli percorsi. Non mancava nulla in quella struttura; c’era ogni genere di comfort che la tecnologia poteva garantire. Jar’lath si diresse verso l’Atrio: la prima sala in cui ci si imbatteva una volta entrati nel Palazzo. Aveva concordato con suo nipote Yn’gve di trovarsi li, per poi andare assieme all’Armeria.
Naturalmente, nel breve tragitto che lo separava dall’Atrio, non mancarono le seccature. Dovette impartire le ultime direttive e affrontare il Capo del Consiglio. Huw, uno Yautja viscido e senza spina dorsale. Le sue cosiddette “battute di caccia” erano state sempre di scarso rilievo (così come quelle degli altri consiglieri). Ma appartenevano tutti a famiglie importanti, e nel mondo di Jar’lath non bisognava farsi troppi nemici.
Ogni volta si limitava a lasciarli parlare, e poi decideva assieme ai suoi fratelli, Dy’m-fna e Seag’h-dhe.
Huw esordì con voce melliflua “Gkaun-yte (hallo), mio signore. Desolato di interrrompervi a poche ore dalla vostra partenza... Tuttavia vorrei rammentarvi di tornare in tempo per la stagione degli accoppiamenti. Voi più di chiunque altro dovreste capire che la discendenza...”
Il consigliere continuava a parlare, ma ora la sua voce sembrava solo un fastidioso ronzio di sottofondo. Jar’lath non ascoltava, impegnato com’era a cercare di reprimere la rabbia. Quell’essere spregevole proprio non voleva mollare. Avrebbe continuato a perseguitarlo finché non avesse scelto una compagna. O meglio, qualcuna imparentata con lo stesso Huw; era una disgustosa strategia politica, e, tra l’altro, del tutto inutile. Il leader guerriero preferiva restare solo. Una scelta fatta molto tempo prima, quando ancora era giovane. E la ferita sul fianco doveva guarire, ma alla sua compagna di allora, Aib’hilin, non era importato. La sua prima compagna. Jar’lath ricordava perfettamente di come lei gli avesse voltato le spalle senza esitare, scegliendo un altro maschio. Qualcuno forte e coraggioso, in grado di abbattere qualunque preda: Dubh’gh-las, uno dei cugini di Jar’lath. E così il futuro leader, una volta tornato in salute, si era concentrato sulla carriera. Fino a raggiungere la vetta.
No, non si sarebbe impegnato mai più.
Huw stava ancora parlando. Quando ebbe finito, l’altro si limitò ad assentire con un breve movimento del capo e si congedò educatamente. Infine raggiunse l’Atrio, dove il nipote lo stava già aspettando. Senza neanche guardare il giovane Yautja, lo zio gli fece cenno di seguirlo. Con passo svelto, in mezzo alla confusione generale tipica della vita di palazzo, si diressero attraverso una serie di corridoi, che terminavano in una specie di garage. Salirono su una navetta, e Jar’lath si mise alla guida. Attraversarono la città, diretti verso Sud, dalla parte opposta rispetto alle antiche rovine. La loro destinazione si trovava appena oltre la catena montuosa che circondava la vallata: un enorme complesso formato da torri ed altri edifici di altezza variabile. Era una fortezza blindata che fungeva da armeria, conteneva degli hangar per le navi spaziali e anche numerose piste per i decolli e gli atterraggi.
Una volta entrati, fu assegnata loro una navicella adatta alla missione: sembrava piuttosto modesta, ma conteneva tutto il necessario per il viaggio. I due alieni si prepararono in silenzio, caricando a bordo armi, viveri e le rispettive armature. Avrebbero indossato le protezioni una volta sbarcati sul Pianeta Blu. Senza ulteriori indugi, Jar’lath chiuse il portellone della navicella, accese il motore e partì. Mentre lasciavano la loro atmosfera, entrambi gli Yautja si augurarono di non incontrare gli umani.
   
 
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