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Autore: Parmandil    08/05/2020    1 recensioni
Abolita la Prima Direttiva per ragioni umanitarie, l’Unione Galattica è sprofondata nel caos. Le civiltà precurvatura abusano delle tecnologie loro donate e un terzo dei sistemi federali è pronto alla secessione, concretando il rischio di una guerra civile.
Dopo un violento attacco alieno, la Keter si reca nel Quadrante Delta, ripercorrendo la rotta della Voyager in cerca di riposte. Qui troverà vecchie conoscenze, come i Krenim e i Vidiiani, che si apprestano a colpire un nemico comune, incautamente risvegliato dalla Voyager secoli prima. I nostri eroi dovranno scegliere con chi schierarsi, in una battaglia che deciderà le sorti del Quadrante. Ma la sfida più ardua tocca a Ladya Mol, già tentata di lasciare la Flotta per riunirsi al suo popolo. Dopo una tragica rivelazione, la dottoressa dovrà lottare contro un morbo spaventoso; la sua dedizione potrebbe richiederle l’estremo sacrificio.
Nel frattempo i Voth, un’antica specie di sauri tecnologicamente evoluti, sono giunti sulla Terra per stabilire una volta per tutte se questo sia il loro mondo d’origine. Sperando d’ingraziarseli, le autorità federali li accolgono in amicizia, senza riflettere sulle conseguenze del ritorno dei “primi, veri terrestri” sul pianeta Terra.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 2: Vecchie conoscenze

 

   La Keter fronteggiava il pianeta Akaali, ormai completamente avvolto dalle polveri, che lo facevano apparire grigio e smorto. Ma questo non era un problema insormontabile, per una nave della Flotta Stellare. «Impulso ionizzante pronto, Capitano» informò Dib dalla sala macchine.

   «Alzare gli scudi» disse Hod, sapendo che la nave doveva fare da parafulmine, assorbendo la scarica di plasma per impedire che si riversasse a terra. «Via con l’impulso» ordinò.

   Anche se non lo dava a vedere, l’Elaysiana era piuttosto tesa. Non le piaceva scommettere con la vita della gente e sapeva che c’era una possibilità, per quanto remota, che la polarità delle nubi s’invertisse. In quel caso il plasma incandescente avrebbe incendiato la superficie del pianeta. Ma se non facevano nulla, quel mondo sarebbe entrato in un’epoca glaciale e gli abitanti sarebbero morti comunque. Al momento la luce solare che giungeva in superficie era solo il 20% del normale: laghi e fiumi avevano cominciato a ghiacciarsi. Non c’era tempo da perdere e d’altra parte il Capitano non voleva contattare la Terra, per timore che la Presidente o anche il Comando di Flotta bocciassero il piano. Così doveva rischiare. Se le cose fossero andate male, sarebbe andata a far compagnia a Juri, lo storico di bordo, che l’anno prima era stato condannato all’ergastolo per infrazione temporale.

   «Impulso lanciato» disse Dib.

   Scaturita dal disco del deflettore, la scarica ionizzante colpì il manto di polveri. Bagliori elettrici si accesero tra le nubi, allargandosi dall’area colpita. I fulmini serpeggiarono, talora scaricandosi a mezz’aria, in altri casi colpendo il suolo. I federali si augurarono che non facessero troppi danni. Poco alla volta le nubi si tinsero di colori caldi, tra il giallo e l’arancione. Era il plasma che si stava formando dalle particelle volatili. Le polveri più pesanti invece si aggregavano, cadendo al suolo come una brutta neve nerastra. Per gli Akaali sarebbe stato un ulteriore fastidio, ma almeno dopo di questo sarebbe tornato a splendere il sole.

   Gli ufficiali di plancia fissarono lo schermo. Il pianeta sembrava ormai una palla incandescente; era difficile credere che sotto le nubi ardenti vivesse una civiltà. «Sì, bene!» disse il dottor Arvid, presente sul ponte di comando. Vedendo la tensione dei colleghi, il climatologo cercò di rassicurarli. «Niente paura, gli Akaali stanno bene. Ma ora dobbiamo avvicinarci, per assorbire la scarica di plasma» raccomandò.

   «Procedo» disse Vrel. Il timoniere sapeva esattamente a che altezza doveva recarsi: 40 km. Era poco, per un’astronave lunga un chilometro e pensata per muoversi nello spazio aperto. Certo, la Keter aveva volato in atmosfere ben peggiori; ma non per questo si poteva abbassare la guardia. Se qualcosa fosse andato storto non potevano atterrare, perché la nave non era dotata di piloni. Perciò fu con grande attenzione che il mezzo Xindi portò giù la Keter, fino all’altezza indicata. Qui la stabilizzò a mezz’aria. Nel frattempo le tre navi ospedale restavano in orbita, a distanza di sicurezza.

   «Ecco, ci siamo» disse Arvid. «Fra pochi secondi il plasma ci verrà contro. Reggetevi, non sarà una passeggiata. Dobbiamo assorbire tutta l’energia dell’atmosfera».

   Le nubi di plasma si arricciarono verso l’alto, formando un massiccio cono che si levò nella stratosfera. Era una scena impressionante. La punta del cono si mosse come una cosa viva, cercando una via per sfogarsi, e trovò la Keter. Subito la colpì. Gli scudi brillarono, assorbendo milioni di terajoules. L’astronave prese a vibrare.

   «Quanto ci vorrà?» chiese Zafreen, un po’ spaventata.

   «Circa venti minuti» rispose Arvid. «Dobbiamo ripulire tutta l’atmosfera, non solo questa zona. Ma non si preoccupi, gli scudi reggeranno». Ciò detto il Risiano si concentrò sulla sua postazione, che si trovava lungo la parete. Analizzò le nubi di plasma, valutandone il potenziale energetico. «Sì, tutto come previsto» confermò. «Il plasma si scarica. Da un momento all’altro ne vedremo gli effetti anche a occhio nudo».

   A confermare le sue parole, le prime chiazze apparvero nel manto nuvoloso, allargandosi progressivamente. Su zone sempre più vaste del pianeta tornò a brillare il sole. Gli ufficiali di plancia cominciavano a rilassarsi e a scambiarsi occhiate di vittoria, quando la nave sussultò.

   «Che fa l’atmosfera?» chiese subito il Capitano, temendo l’inversione di polarità.

   «L’atmosfera è a posto» rispose Norrin, consultando la sua consolle. «Il problema è che qualcuno ci spara dall’alto».

 

   Il Comandante Radek fu il primo a riaversi dallo shock. «Visualizzare gli attaccanti» ordinò.

   Un grosso vascello apparve sullo schermo. Lo scafo scuro aveva forma compatta, giusto un po’ bulbosa a prua e sulle fiancate. Lo accompagnavano sei navicelle più piccole, dallo scafo marroncino, con le gondole di curvatura ai lati. La nave madre martellò gli scudi dorsali della Keter, mentre gli incursori attaccarono le navi ospedale. Queste alzarono gli scudi, ma non avevano armi con cui rispondere al fuoco.

   «E questi chi sono?!» chiese Hod, non riconoscendo gli attaccanti. Ciò che più la stupiva era la marcata differenza stilistica fra la nave madre e gli incursori. Non sembravano neanche appartenere alla stessa specie.

   «Non ci sono riscontri nella banca dati» disse Zafreen, mentre la plancia beccheggiava sempre più forte. «Sembra che sia una specie sconosciuta».

   Gli ufficiali rimasero scioccati. Secoli di esplorazioni avevano rivelato tutti i popoli che circondavano lo spazio federale, per un ampio tratto oltre i confini. Ormai era rarissimo imbattersi in una specie nuova, mai incontrata prima. A Hod non era mai capitato e questo la inquietava. «Li chiami» ordinò. «Trasmetta i messaggi standard di presentazione in tutte le lingue federali».

   «Non sembrano chiacchieroni» commentò l’Orioniana, ma eseguì l’ordine. Intanto due incursori scesero in picchiata nell’atmosfera. Eseguirono un passaggio ravvicinato, colpendo la Keter sul dorso, e tornarono verso l’alto. Poiché la maggior parte delle sue armi era rivolta a prua, la nave federale aveva difficoltà a rispondere.

   «Non possiamo star qui a fare da bersaglio!» esclamò Vrel, temendo per gli scudi. «Dobbiamo disimpegnarci e rispondere al fuoco».

   «No!» gridò Arvid. «Se ci allontaniamo ora, a metà dell’opera, le probabilità d’inversione esotermica salgono al 50%. Il pianeta potrebbe essere incenerito!».

   «Se non facciamo qualcosa, noi saremo inceneriti» disse Norrin. «Abbiamo una scarica di plasma di proporzioni planetarie che ci colpisce da sotto e armi nadioniche che ci martellano da sopra».

   «Quanto resisteranno gli scudi?» chiese Hod, reggendosi ai braccioli.

   «Sei, sette minuti al massimo» riferì l’Ufficiale Tattico, che vi aveva già dirottato tutta l’energia disponibile.

   «È quanto basta per assorbire il plasma» disse Arvid. «Capitano, la prego. Ne va della sopravvivenza degli Akaali».

   L’Elaysiana rifletté in fretta. «Okay, manteniamo la posizione» decise. «Massima energia agli scudi. Rispondiamo al fuoco, per quanto possibile. Lanciate le navette e i caccia. Che ingaggino il nemico in orbita, distraendolo da noi. E che proteggano le navi ospedale».

   «Ricevuto» disse Norrin, inviando il segnale ai piloti. Tradizionalmente le navi della Flotta Stellare facevano scarso uso di caccia, ma negli ultimi tempi le cose erano cambiate. I nuovi design, nati dopo la Guerra delle Anomalie, prevedevano grandi hangar e una dotazione di caccia d’assalto. La Keter non faceva eccezione. Quattro navette di classe Hornet, tre navicelle Gryphon e dodici caccia Valkyrie furono prontamente lanciati. Schizzarono verso l’alto e diedero battaglia agli incursori nemici, impedendo loro di fare altri passaggi sulla Keter. Si tennero però a distanza dalla nave madre, che aveva scudi troppo resistenti. Questa continuò a bersagliare dall’orbita.

   «Possibile che non conosciamo questi assalitori?!» protestò Vrel, cercando di mantenere stabile la Keter. «Da qualche parte devono pur venire».

   «Siamo molto addentro lo spazio federale» notò Radek. «Strano che ci abbiano colti così di sorpresa, senza essere intercettati prima. Forse sono arrivati con una catapulta subspaziale o un wormhole».

   «Ricerco» disse Zafreen, sondando lo spazio circostante. «Sì, c’è un tunnel spaziale a 500.000 km da qui. Prima non c’era, ne sono sicura!». Così dicendo lo inquadrò sullo schermo. L’imboccatura del tunnel era di colore arancione e sembrava stabile.

   «Quindi potrebbero venire da qualunque punto della Galassia» notò il Comandante.

   Dietro di lui, Norrin fissò l’estremità del wormhole, frugando nella memoria. «Tenente, cerchi riscontri con le astronavi del Quadrante Delta» suggerì.

   «Okay» disse l’Orioniana, mentre la Keter continuava a scuotersi e gli allarmi indicavano i primi danni. Finalmente trovò qualcosa. «La nave madre somiglia ai vascelli dei Turei, una potente specie incontrata dalla Voyager nel 2376» lesse. «I Turei controllavano una rete di tunnel spaziali naturali, che consentivano loro di viaggiare in tutto il Quadrante e forse anche oltre».

   «Possiamo abolire il “forse”» commentò Radek. «Si vede che col tempo sono diventati più aggressivi».

   «No, i conti non tornano» obiettò il Capitano, leggendo le informazioni dall’oloschermo del bracciolo. «I Turei non potevano spostare l’imboccatura dei tunnel. Quello invece si è aperto pochi minuti fa. C’è qualcosa che ancora non sappiamo».

   «Chiunque siano, stanno abbattendo le nostre difese» avvertì Norrin. «Scudi al 10% in diminuzione».

   «Ancora pochi secondi e il plasma atmosferico sarà dissipato!» insisté Arvid. Il Risiano era chino sulla consolle, per monitorare il processo. «Ecco, ci siamo! Gli Akaali sono salv...».

   In quella un potente raggio della nave Turei abbatté gli scudi della Keter. La consolle del climatologo gli esplose in faccia, facendolo cadere all’indietro, privo di sensi e col viso ustionato.

   «In infermeria, presto!» ordinò il Capitano. Due ufficiali sollevarono il ferito per le spalle e le gambe, deponendolo sulla pedana di teletrasporto. Da lì fu inviato direttamente all’infermeria principale. «Vrel, ci porti via di qui» disse Hod.

   «Volentieri» fece il timoniere, imprimendo alla nave una brusca virata verso l’alto. Accelerò così tanto che per qualche secondo la Keter parve una bizzarra meteora, che saliva invece di precipitare. Finalmente i federali lasciarono l’atmosfera, ormai rischiarata. Erano in orbita, adesso, e davanti a loro si consumava un’impressionante battaglia. Gli incursori nemici affrontavano i caccia della Keter, mentre l’astronave madre colpiva le navi ospedale. Due di esse riuscirono a dileguarsi, ma la terza aveva i motori danneggiati. Alcuni colpi precisi le misero del tutto fuori uso gli scudi. Era inerme, ora, eppure il nemico smise di colpirla.

   «Ci sono dei teletrasporti in corso» disse Zafreen. «I nemici abbordano la nave ospedale».

   «Vorranno razziarla» disse Radek, gli occhi pieni di sdegno. «Inviamo delle squadre per respingerli».

   «Temo che le squadre ci serviranno qui» avvertì l’Orioniana. «Hanno abbordato anche noi. Venti segni vitali alieni sul ponte 9; dirigono verso l’infermeria. Dieci nella stiva di carico 1 e altrettanti nella 2».

   Hod sentì che la situazione le stava sfuggendo di mano. Fortunatamente le zone chiave della Keter – come plancia, sala macchine e infermeria – avevano schermature extra che ostacolavano il teletrasporto nemico. Ma la nave era stata comunque abbordata e questo era grave. «Sgombrate l’infermeria e inviate la Sicurezza a intercettare gli attaccanti» ordinò il Capitano. «Cercate di catturarne qualcuno. Voglio vederli in faccia, questi invasori del Quadrante Delta» aggiunse, scrutando l’astronave nemica che continuava a colpirli.

   «Cercano di metterci fuori uso le armi» avvertì Norrin.

   «Manovre evasive, rispondere al fuoco» ordinò il Capitano. «Facciamogli capire che hanno invaso il Quadrante sbagliato».

   La Keter e il vascello Turei ingaggiarono uno scontro serrato. In circostanze normali la nave federale sarebbe stata più potente, ma la perdita degli scudi era un grosso svantaggio. Per quanto Vrel cercasse di schivare, alcuni raggi nadionici giunsero a bersaglio. Gli incursori alieni dettero manforte alla nave madre, mettendo a segno altri colpi. Lo scafo in neutronio della Keter reggeva, per il momento, ma alcune sue armi furono messe fuori uso e anche gli ugelli dei motori a impulso subirono danni. La nave federale perse sia potenza di fuoco che mobilità. Il nemico – chiunque fosse – continuava ad attaccare, implacabile.

 

   Appena vide il ferito recapitato dalla plancia, Ladya comprese che le sue condizioni erano gravi. «Sul tavolo operatorio, presto» ordinò, indossando guanti e mascherina.

   Gli infermieri trasferirono subito il Risiano nella saletta delle operazioni e lo deposero sul bio-letto. Il neurochirurgo avviò la scansione cerebrale. «Grave trauma al lobo anteriore destro» rilevò. «Frattura cranica con emorragia al livello della corteccia. Si sta formando un ematoma subdurale».

   Il quadro clinico era grave, ma la Vidiiana non si perse d’animo. Aveva già salvato pazienti in condizioni come quella, o anche peggiori. «Fermiamo l’emorragia, prima che la corteccia sia compromessa» disse. «Poi dreneremo l’ematoma e salderemo la frattura».

   I medici si divisero i compiti, ciascuno secondo le sue competenze. Avevano appena iniziato l’operazione che sentirono un allarme. «Breccia nella sicurezza, squadra nemica sul ponte 9. Evacuare immediatamente l’infermeria».

   «Non adesso!» esclamò Ladya. Non poteva spostare un paziente col cervello aperto.

   «Dottoressa, dobbiamo andare» la pressò un collega Andoriano.

   «Portate via gli altri pazienti» ordinò la Vidiiana, continuando a operare. «Io vi raggiungo appena questo sarà fuori pericolo».

   «Ma...».

   «Via, ho detto!» gridò Ladya. Non voleva abbandonare il suo paziente e non si azzardava nemmeno a spostarlo, finché non l’avesse stabilizzato.

   Vedendo che era irremovibile, i colleghi tornarono nella sala principale dell’infermeria. Qui aiutarono i pazienti a lasciare i letti e se ne andarono con loro, tramite la cabina di teletrasporto. Ladya non gli badò, concentrata com’era sull’operazione. Solo dopo qualche minuto si accorse, dal silenzio, che l’evacuazione era stata completata.

   Lavorando più in fretta che poteva, la Vidiiana riuscì a stabilizzare il ferito. C’era ancora molto da fare, ma almeno non era in pericolo immediato di vita. Ora si poneva il problema di trasferirlo. Recatasi a una consolle parietale, la dottoressa cercò di attuare un teletrasporto diretto. Scoprì che la griglia era danneggiata: per trasferirsi serviva una pedana.

   «Oh, no». Fatto un respiro profondo, Ladya cercò di ragionare. Poteva spostare il Risiano su una barella levitante. Dopo di che le bastava arrivare alla cabina di teletrasporto, che si trovava nella sala principale. La cabina era abbastanza larga da accogliere un paziente in barella e poteva portarli in un’infermeria secondaria.

   In quella sentì uno scoppio che veniva dal salone. Seguirono il suono di passi e voci aliene. Gli invasori avevano fatto irruzione. Con il cuore in gola, Ladya preparò un ipospray con un potente sedativo. Era la sua unica difesa, anche se le probabilità di riuscire a iniettarlo erano scarse. Volendo sapere con chi aveva a che fare, la dottoressa raggiunse la porta e sbirciò fuori.

   Erano umanoidi, almeno una decina, di ambo i sessi. Alti e robusti, indossavano delle uniformi brune. Il loro aspetto... per un attimo Ladya li scambiò per Cardassiani. Ma osservandoli meglio dovette ricredersi: erano un’altra specie. Una che non aveva mai visto prima. La loro caratteristica più vistosa era l’ampia membrana di pelle che avvolgeva il collo, dalle clavicole fino alle orecchie senza padiglione, facendoli somigliare a dei cobra. Il cranio era sormontato da una piccola cresta. I capelli, quasi sempre neri, avevano l’attaccatura arretrata ed erano raccolti in una crocchia in cima al capo.

   Data la prima occhiata, la dottoressa si ritrasse per non essere scorta. Non conosceva quegli alieni, ma da come li avevano attaccati erano chiaramente ostili. Non si erano fatti scrupolo a irrompere nella sua infermeria. E poi... c’era qualcosa d’infido in quelle facce da serpente. Per quanto Ladya cercasse di non giudicare dall’aspetto, sentì che non poteva aspettarsi alcuna pietà da loro.

   Dopo qualche secondo la Vidiiana si arrischiò a guardare ancora, per capire cosa facevano gli invasori. Li vide razziare strumenti diagnostici e chirurgici, guanti e mascherine, medicinali... tutto ciò su cui mettevano le mani. Gli oggetti rubati erano gettati sbrigativamente negli zaini militari. Due alieni, inoltre, stavano armeggiando con le consolle. Avevano degli strumenti simili ai d-pad; forse cercavano di scaricare il database medico.

   Ladya si ritrasse di nuovo. Che fare, con così tanti avversari? La cabina di teletrasporto era a pochi metri da lei, ma non l’avrebbe mai raggiunta inosservata con il suo paziente. Poteva tentare di arrivarci lei, nascondendosi dietro le consolle e i bio-letti; ma non voleva abbandonare il suo paziente. La dottoressa stava ancora riflettendo sul da farsi, quando il suo comunicatore si attivò.

   «Dottoressa Mol, è pregata di lasciare subito l’infermeria». Era un messaggio automatico del computer, che si attivava se gli ufficiali non eseguivano l’ordine di evacuazione. Ma era giunto nel momento peggiore. Nella sala principale, i razziatori alzarono la testa di scatto e fissarono l’ingresso della saletta. Il caposquadra dette un ordine e due soldati vi si diressero con le armi in pugno.

 

   La Keter tremava sotto gli attacchi nemici. Man mano che la lista dei danni si allungava, il Capitano Hod vedeva ridursi le opzioni. Se fossero stati soli avrebbe ordinato la ritirata, ma non poteva abbandonare la nave ospedale. Dovevano mantenere la posizione. «Rapporto!» richiese.

   «Abbiamo messo fuori uso quattro incursori. Stanno fuggendo verso il tunnel» disse Norrin, inquadrandoli sullo schermo. Le navicelle erano gravemente danneggiate. Una di esse aveva perso una gondola di curvatura e si lasciava dietro una scia di plasma.

   «Lasciamoli andare, concentriamoci sugli altri» ordinò il Capitano. «E la nave madre?».

   «I suoi scudi reggono» disse l’Hirogeno. «Sto provando vari attacchi, ma...». Sapere che una squadra nemica aveva assalito l’infermeria – dov’era Ladya – lo distraeva.

   «Continui a colpire. Schema d’attacco Kirk Epsilon» consigliò Radek.

   Con un groppo in gola, Norrin eseguì. Avrebbe voluto correre sul ponte 9, dove le squadre della Sicurezza affrontavano gli invasori, ma non poteva lasciare la plancia in un momento del genere. «Avanti, Ladya... vattene da lì» pensò, notando che l’infermeria non era ancora del tutto evacuata. Se conosceva la Vidiiana, se ne sarebbe andata per ultima.

 

   Vistasi scoperta, Ladya arretrò verso il tavolo chirurgico, con il cuore che batteva a mille. «Computer, protocollo epsilon per due» mormorò, premendosi il comunicatore. Quel protocollo serviva a proteggere gli ufficiali in pericolo, teletrasportandoli in una zona sicura della nave. In passato le aveva salvato la vita. Ma stavolta, come temeva, non accadde nulla. I danni al teletrasporto richiedevano che lei e il paziente salissero su una pedana. Sentendo arrivare i nemici, le venne un’altra idea. «Computer, attiva il Medico Olografico d’Emergenza!» ordinò.

   «Precisare la natura dell’emergenza medica» disse l’ologramma, materializzandosi accanto a lei.

   «Il paziente è stabile, ma siamo attaccati da alieni ostili» spiegò frettolosamente Ladya. «Cerca di fermarli!». Così dicendo gli consegnò l’ipospray e si ritirò verso il bio-letto, attivando un campo di forza intorno ad esso.

   «Veramente io non sono programmato per...» cominciò l’ologramma, guardando nervosamente l’ingresso.

   In quella i due alieni serpenteschi varcarono la soglia. Trovandosi davanti l’MOE, non gli intimarono nemmeno la resa: spararono immediatamente. I raggi letali attraversarono il corpo dell’ologramma, che sfarfallò appena, e colpirono il campo di forza alle sue spalle. Vedendo i raggi infrangersi pochi centimetri davanti a sé, la dottoressa si girò e si piegò sul bio-letto, per proteggere fino all’ultimo il suo paziente. Chiuse gli occhi, aspettandosi che i raggi successivi penetrassero il campo di forza e la colpissero alla schiena.

   Gli invasori però erano rimasti paralizzati dallo stupore nel vedere che le loro armi erano inefficaci contro il medico. Uno dei due regolò l’arma, per aumentarne la potenza.

   «Fermo... dev’essere un ologramma» comprese l’altro. «Ci saranno degli emettitori nelle pareti».

   «Sì, ma dove? Non li vedo!» ringhiò il primo, guardandosi attorno.

   Il Medico Olografico approfittò del loro spaesamento. «Signori, questa sala deve restare asettica. Il vostro abbigliamento non soddisfa il regolamento, quindi devo espellervi». Così dicendo si mosse rapidissimo, svuotando l’ipospray nel collo di un alieno. Questi emise una specie di sibilo, mentre una terza palpebra gli velava gli occhi, e si accasciò sul pavimento. L’altro sparò ancora, per istinto, pur sapendo che era inutile. Il Medico Olografico gettò l’ipospray ormai vuoto e gli si avventò contro. Con una mano gli abbassò l’arma, con l’altra eseguì la Presa al Collo vulcaniana. Questa mossa non letale era uno dei pochi strumenti di difesa a disposizione degli MOE di nuova generazione. Efficace contro una vastissima gamma di specie umanoidi, la famigerata presa funzionò anche stavolta: l’alieno scivolò a terra, incosciente.

   Avendo udito i suoni della colluttazione, Ladya girò il capo di 180º – un talento dei Vidiiani – e vide che gli alieni erano a terra. Accanto a loro, l’MOE era incerto su come procedere. «Bravissimo!» esultò la dottoressa. Rigirato il capo, disattivò il campo di forza e gli venne accanto. «Ce ne sono altri, là fuori, quindi sta’ pronto». Così dicendo impugnò l’arma di un alieno e porse l’altra all’ologramma.

   «La mia programmazione mi vieta di usare armi letali» obiettò l’MOE, arretrando con le mani alzate.

   «Non ti chiedo di ucciderli... non lo farò neanch’io» spiegò la Vidiiana. «Dobbiamo solo sparare qualche colpo in aria, per respingerli».

   «Sembrano soldati professionisti. Che facciamo se non si ritirano?» obiettò l’ologramma.

   «Uhm...». Ladya fissò alternativamente l’uscita della saletta e il suo paziente, ancora disteso sul bio-letto. «Prendilo in braccio» ordinò. «Portalo alla cabina di teletrasporto e da lì nell’infermeria numero 2».

   «Non viene con noi?» chiese l’MOE.

   «Non subito» spiegò Ladya. Gettò una delle due armi nadioniche e imbracciò meglio l’altra, provando il mirino. «Devo darvi copertura».

 

   Notando che i due soldati inviati nella saletta non tornavano né facevano rapporto, il caposquadra li chiamò. Non ebbe risposta. Intanto, fuori dall’infermeria, il resto della squadra contendeva il corridoio ai federali. «Sono troppi, ci hanno accerchiati» riferì uno dei soldati.

   Il caposquadra comprese che era tempo di rientrare. Ma non voleva abbandonare i due dispersi, per timore che venissero meno ai loro doveri e rivelassero qualcosa. Li avrebbe salvati, oppure uccisi; ma non li avrebbe lasciati lì. Così si fece avanti, seguito dai soldati.

   In quella la dottoressa Mol si sporse appena dall’uscio e aprì il fuoco. Anziché agli avversari, mirò a una delle vasche in cui coltivava gli organi per i trapianti. La grossa vasca cilindrica si frantumò, riversando a terra il liquido nutritivo giallastro. Erano decine di litri, che inzupparono gli alieni, distraendoli.

   «Ora!» ordinò la Vidiiana, gettandosi allo scoperto. Sparò a un’altra vasca, sul lato opposto, per inondare ancor più il pavimento. Travolti dal fluido sciropposo, molti soldati scivolarono e gli altri arretrarono di qualche passo, sparando con scarsa precisione. Intanto Ladya corse a nascondersi dietro una consolle, da cui si sporse per colpire ancora le vasche.

   Approfittando della copertura, l’MOE corse verso la cabina, con il ferito in braccio. Riuscì a entrarvi e a comporre l’indirizzo di destinazione. La dottoressa, che lo vedeva con la coda dell’occhio, sperò di riuscire a infilarsi a sua volta, prima che i nemici si riavessero. Ma mentre si sporgeva dal riparo, questi la videro in faccia. Subito furono invasi da una collera inspiegabile. «Vaphorana!» gridò rabbiosamente il caposquadra.

   «Vaphorana!» ripeterono i soldati, scaricandole contro una gragnola di colpi.

   Presa in contropiede, Ladya dovette ripararsi del tutto dietro la consolle. Con un fuoco del genere non sarebbe mai arrivata alla cabina. Girò il capo verso il Medico Olografico che l’attendeva. «Vai!» gridò, per sovrastare il frastuono. Obbedendo all’ordine, l’MOE attivò il teletrasporto. Lui e il paziente si smaterializzarono, per riapparire nell’infermeria 2. Ma la dottoressa era ancora lì, rattrappita dietro la consolle. Non sapeva perché la sua vista avesse fatto infuriare gli invasori, ma era chiaro che non se ne sarebbero andati senza averla eliminata.

 

   Nello spazio la situazione continuava a peggiorare. Priva di scudi e con la manovrabilità ridotta, la Keter era un bersaglio per i vascelli nemici. Quanto alla nave ospedale, era alla deriva e invasa dal nemico. Il Capitano Hod aveva mobilitato tutta la Sicurezza di bordo contro gli invasori, inviando anche squadre in appoggio all’altra nave.

   «Gli invasori hanno lasciato le stive di carico» notò Norrin. «Sono tornati sulla loro nave, con parecchie delle nostre scorte. Ma l’infermeria è ancora occupata. La dottoressa Mol è rimasta bloccata, chiedo il permesso di soccorrerla» disse, con l’urgenza nella voce.

   «Negativo, lei ci serve qui» obiettò Radek, com’era prevedibile. «I suoi ufficiali possono occuparsene. Mandi anche i droni» suggerì.

   Norrin li aveva già spediti. Si augurò che arrivassero in tempo; ma avrebbe voluto andarci di persona. Dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per rimanere alla postazione tattica.

   «Il nemico ci sta sempre addosso» disse Vrel, mentre la nave si scuoteva per i colpi. «Strano... se sono predoni dovrebbero andarsene, ora che hanno ciò che vogliono».

   Nello spazio, il vascello nerastro incombeva sulla Keter, sparando a tutto spiano. Era in vantaggio e non dava il minimo segno di ritirarsi. Ma d’un tratto fu colpito sulla fiancata da un raggio verde. L’impulso fu così potente da trapassare scudi e scafo, uscendo sull’altro lato. Il vascello smise d’inseguire la Keter e si arrestò, sbuffando fiamme dagli squarci.

   «Chi ha sparato?!» chiese Hod, interdetta.

   «Nave in avvicinamento» disse Zafreen. «Anche questa è sconosciuta. Non riesco ad analizzarla, i sensori non penetrano gli scudi».

   Il nuovo vascello si avvicinò a gran velocità. Era immenso: lungo tre chilometri, cioè come un’astronave di classe Universe, ma dalla struttura ben più massiccia. Lo scafo era argenteo, con dettagli verdi e azzurri. Aveva forma triangolare, con due protuberanze laterali a poppa, forse il sistema propulsivo. Le linee curve la rendevano elegante e aggressiva al tempo stesso. Senza indugio, la nave sparò di nuovo da un’arma collocata a prua. Stavolta colpì uno dei due incursori rimanenti, vaporizzandolo. A questo punto la nave Turei e l’ultimo incursore fuggirono verso il tunnel spaziale.

   «Wow... questo significa cantarle chiare» mormorò Vrel, diviso fra il sollievo per il salvataggio e il timore di ciò che potevano volere i nuovi arrivati.

 

   In infermeria, Ladya era ormai a mal partito. I soldati nemici la stavano accerchiando. Si nascondevano dietro lettini e consolle, sporgendosi per fare fuoco di copertura, mentre alcuni dei loro si avvicinavano. La dottoressa sapeva di non poter resistere a lungo. Nella sua disperazione fu tentata di correre verso la cabina di teletrasporto, ma in quella il caposquadra sparò ai comandi, mettendola fuori uso. «Non puoi fuggire, Vaphorana!» gridò l’alieno.

   «Perché mi chiamate così?!» gridò la Vidiiana, terrorizzata. «E perché mi braccate, che male vi ho fatto?».

   In quella gli alieni si portarono una mano all’orecchio destro. Ladya comprese che stavano ricevendo ordini tramite dei piccoli auricolari. Il caposquadra segnalò agli altri di fermarsi, poi la fissò con odio. «Oggi hai avuto fortuna... ma non finisce qui!» sibilò. Lui e gli altri lasciarono rapidamente l’infermeria. Appena furono usciti dalla zona schermata, la loro nave riuscì a teletrasportarli indietro. Gli spari nel corridoio cessarono; lo scontro era finito.

   Ladya si accasciò con la schiena contro il muro. Ora che il pericolo era passato, e con esso il picco d’adrenalina, si sentiva esausta. Lo scontro però le aveva lasciato parecchie domande, dall’identità degli aggressori alla ragione della loro furia.

   Tre ufficiali della Sicurezza entrarono in infermeria, con i fucili phaser spianati. «Sta bene, dottoressa?» chiese quello al centro.

   «Sì, tutto a posto» confermò Ladya. «Ci sono altri feriti?».

   «Alcuni miei colleghi, ma nessuno in pericolo di vita» rispose l’ufficiale. «Le altre infermerie possono occuparsene. Lei dovrebbe riposarsi» consigliò. «È fortunata ad essere viva».

   «Già, fortunata» borbottò la Vidiiana, tirandosi su. Osservò sconfortata l’infermeria semidistrutta e invasa dai liquidi fuoriusciti dalle vasche. Camminando con cautela, per non scivolare, la dottoressa raggiunse un lettino e vi sedette, cercando di riaversi dallo shock. Non dimenticò tuttavia i suoi pazienti. «Mol a infermeria 2, rapporto» disse, premendosi il comunicatore.

   «Dottoressa, lieto di sentirla! Eravamo in pensiero per lei» le rispose il collega Andoriano. «Qui la situazione è sotto controllo. Anche il signor Arvid è fuori pericolo».

   «Bene, vi raggiungerò tra poco» disse Ladya, sollevata. «Mol, chiudo». La Vidiiana respirò a fondo; cominciava a riprendersi dallo spavento.

   Intanto quelli della Sicurezza stavano ammanettando i due alieni storditi nella saletta chirurgica. Nel farlo parlottavano fra loro.

   «Chi saranno? Non conosco questa specie».

   «Nemmeno io. Devono venire da lontano».

   Ascoltandoli, un’ipotesi balenò nella mente di Ladya. La dottoressa si recò a una consolle ancora intatta e consultò il database storico.

 

   «Tutti gli assalitori hanno lasciato la Keter, salvo due che sono stati catturati in infermeria» riferì Norrin con sollievo.

   «Bene» disse Hod, osservando le ultime fasi dello scontro. La nave madre nemica aveva quasi raggiunto il tunnel spaziale. Se fosse riuscita a imboccarlo si sarebbe messa in salvo. Ma i misteriosi soccorritori della Keter la tallonavano. Il vascello triangolare sparò di nuovo con la sua arma anteriore. Il potentissimo raggio verde colpì l’astronave Turei a poppa e la trapassò per tutta la sua lunghezza, uscendo dalla prua. Gravemente danneggiato, il vascello sbandò di lato, mancando il tunnel spaziale per un soffio. Esplosioni sempre più grandi ne squarciarono lo scafo, finché il nucleo cedette. Un immane scoppio dilaniò l’astronave, lasciando solo una nuvola di detriti che si disperdevano. L’ultimo incursore, invece, riuscì a infilarsi nel tunnel spaziale. Il vascello inseguitore si avvicinò all’imboccatura, ma questa si chiuse con un lampo arancione. La battaglia era finita.

   «Rapporto danni» chiese Hod. I capi sezione le fornirono il quadro della situazione. La Keter se l’era vista brutta, ma i danni non erano poi così gravi. Pochi giorni di lavori l’avrebbero rimessa in sesto. Sempre che i nuovi arrivati non fossero a loro volta ostili. Hod li aveva visti distruggere senza sforzo – e senza esitazione – il vascello Turei: una nave potente, che di certo ospitava centinaia di persone. Con la Keter senza scudi, doveva assolutamente evitare lo scontro.

   «Ci chiamano» disse Zafreen.

   «Sullo schermo» ordinò Hod, alzandosi e rassettandosi l’uniforme.

   Davanti a lei comparve un alieno rettiloide. Aveva un cranio massiccio, allungato all’indietro in una sorta di cresta tubolare. Gli occhi giallognoli erano infossati, ma in essi brillava un’intelligenza vivissima. La pelle scagliosa era in gran parte verdastra, anche se il volto tendeva più al giallo. L’alieno levò una mano con tre dita artigliate. «Salute a voi» esordì. «Sembra che siamo arrivati appena in tempo per trarvi d’impiccio».

   «A nome del mio equipaggio, grazie per averci salvati» disse l’Elaysiana, riconoscente. «Sono il Capitano Hod, della nave federale Keter. Con chi ho il piacere di parlare?».

   «Ammiraglio Hadron, dell’Autorità Voth» si presentò l’alieno. «Avrete molte domande da farci... come noi ne abbiamo molte da porre a voi. Vedete, abbiamo affrontato un lungo viaggio per trovarvi».

   «Voi... ci stavate cercando?» si meravigliò Hod.

   «Oh, sì» annuì Hadron. «Veniamo dal lato opposto della Galassia, in cerca di questo pianeta» rivelò, mostrando un modellino tridimensionale. «Avete detto di essere federali e anche l’analisi della vostra tecnologia lo conferma. Dunque potete dirci dove si trova?».

   Il Capitano sbiancò. Perché la sferetta che il Voth stringeva delicatamente fra gli artigli era una perfetta riproduzione del pianeta Terra.

 

   Il pianeta Akaali brillava verde e azzurro, non più offuscato dalle nubi radioattive. Le tre navi ospedale erano tornate in orbita. I capitani stavano cercando un accordo con i leader locali, che consentisse alle loro squadre di soccorrere la popolazione. A poca distanza, la Keter e la nave Voth orbitavano affiancate. Sulla nave federale fervevano le riparazioni. Malgrado gli eventi drammatici degli ultimi giorni, l’arrivo dei visitatori dal Quadrante Delta aveva creato grande attesa e curiosità a bordo.

   Il Capitano e gli ufficiali superiori si radunarono in sala teletrasporto, per accogliere la delegazione Voth. Venne anche Ladya, ripresasi dalla brutta avventura in infermeria. «Come stai?» le chiese Norrin appena la vide.

   «Bene» disse lei, anche se la sua espressione era grave. «Dobbiamo parlare dell’attacco. Credo di sapere chi erano quei predoni» mormorò.

   «Anch’io» le sussurrò Norrin all’orecchio. «Ma ne parleremo dopo» aggiunse, accennando al teletrasporto.

   Quattro Voth si materializzarono sulla pedana. C’erano l’Ammiraglio Hadron e due che sembravano ufficiali, mentre la terza era una donna di età molto avanzata. Le sue scaglie color rosa-arancione erano opache, la cute ricadeva in pieghe flaccide sotto al mento, ma gli occhi erano ancora vigili. Camminava lentamente, un po’ ingobbita in avanti. Gli altri Voth la trattavano con deferenza, tanto che i federali pensarono si trattasse di un’autorità politica.

   «Benvenuti sulla Keter» li accolse Hod. «Siamo onorati di avervi a bordo. Questi sono i miei ufficiali superiori: il Comandante Radek, il Tenente Comandante Norrin, l’Ingegnere Capo Dib e il Medico Capo Ladya Mol».

   «Molto lieto» disse Hadron con un cenno del capo. «Le presento Corythos, il mio ufficiale tattico; Lambeos, eminente paleontologo molecolare; e la molto stimata Frola Gegen».

   Man mano che venivano presentati, i Voth scesero dalla pedana. Ai federali sembrò uno strano seguito per l’Ammiraglio. Se l’ufficiale tattico era un logico accompagnatore, il paleontologo molecolare appariva invece una scelta bizzarra. E che dire della vecchietta? Tutti la trattavano rispettosamente, ma era stata presentata senza alcun titolo. Non prese nemmeno la parola; si limitò a guardarsi intorno con interesse, mentre l’Ammiraglio sosteneva la conversazione.

   «Abbiamo molto di cui parlare» disse il Capitano Hod. «Possiamo farlo intorno a un tavolo? Ho fatto preparare una cena».

   «Volentieri» acconsentì Hadron.

   I federali accompagnarono la delegazione Voth alla sala per le cene ufficiali. La tavola era già imbandita e tutti vi si accomodarono. Per riguardo nei confronti degli ospiti, che erano in larga misura erbivori, non c’era carne.

   «Spero che la cucina sia di vostro gradimento» disse Hod. «Sapete, questa non è la prima volta che i nostri popoli s’incontrano. Ci fu un altro contatto, più di due secoli fa. Ne fu protagonista una nostra nave dispersa nel Quadrante Delta...».

   «La Voyager» disse subito Hadron. «Conosciamo quegli eventi nel dettaglio. Sono il motivo che ci ha portati qui. Ma lascio la parola al professor Lambeos».

   «Grazie, Ammiraglio» disse lo scienziato, che stava osservando i federali. Mentre lui parlava, gli altri Voth cominciarono a mangiare. «Dunque, come avete detto il primo contatto risale a due secoli orsono, quando la Voyager attraversò il nostro spazio. E qui fece molto parlare di sé. Vedete, la nostra società è attraversata da profondi dibattiti di natura scientifica e filosofica. Siamo una specie antica... la più antica, secondo la Dottrina. La nostra storia scritta risale a venti milioni di anni fa».

   A queste parole i federali furono assaliti da un senso di vertigine. Venti milioni di anni era un tempo così spropositato che le loro menti non potevano afferrarlo, salvo forse quella super-analitica di Dib. Nessuna specie federale – e nessuna con cui intrattenessero rapporti regolari – si avvicinava neanche lontanamente a quell’antichità. In tutto quel tempo i Voth dovevano aver affinato la loro tecnologia fino a un livello incommensurabile. Non c’era da stupirsi che avessero sconfitto così facilmente i predoni.

   Notando le espressioni dei federali, Lambeos sorrise. «Sì, come potete immaginare per noi è un’impresa studiare la nostra stessa storia. Dopo tante ricerche c’è ancora un punto oscuro, intorno a cui i paleontologi continuano ad arrovellarsi. Parlo delle nostre origini». Il Voth emise un lungo sospiro e ingoiò qualche forchettata di verdure, poi riprese.

   «Dovete sapere che gli studiosi come me sono organizzati in circoli scientifici, facenti capo al Ministero della Scienza e dell’Istruzione. Ma il Ministero segue la Dottrina, un insieme di assiomi e precetti che risalgono agli albori della nostra civiltà. Al centro della Dottrina c’è la convinzione d’essere la prima specie senziente evolutasi nella nostra regione di spazio. Da qui il governo ricava tutta la sua autorità politica. La nostra autoctonia ci rende così orgogliosi che agli stranieri che varcano i nostri confini non è riconosciuto alcun diritto. Come potete immaginare, il dissenso contro la Dottrina non è bene accetto. Se uno studioso formula teorie che la mettono in dubbio, è processato con l’accusa di eresia. Qualora l’imputato rifiuti di ritrattare le sue affermazioni, si procede al suo discredito presso i circoli scientifici e alla detenzione in una colonia penale. Se invece accetta di abiurare viene scagionato, anche se la sua carriera può dirsi finita».

   A queste parole il nervosismo serpeggiò fra gli ufficiali della Keter. Quello che il Voth aveva appena descritto era un regime assolutista.

   «Voi siete inquieti» notò Hadron. «Non negatelo! La nostra specie possiede un organo olfattivo molto sviluppato, il lobo di Lito. Posso avvertire la vostra sudorazione... l’aumento di adrenalina e di altri ormoni della paura. Tranne che in lei, signor Dib. Lei è perfettamente calmo» riconobbe.

   «Appartengo a una specie fluida» spiegò il Penumbrano.

   «Il nostro nervosismo, Ammiraglio, dipende da quella che ci appare una certa... rigidità nel vostro pensiero» disse cautamente il Capitano. «Comunque non vogliamo interferire nel vostro sistema di governo. E vi siamo ancora grati per averci salvati dai predoni».

   «Non abbiate paura» disse Hadron. «Noi rispettiamo gli stranieri quando li incontriamo nel loro territorio, come accade ora. In questo caso, poi, abbiamo tutto l’interesse a collaborare con voi. Ma prego, professore, continui» aggiunse, rivolto al suo scienziato.

   «Sì, ecco...» Lambeos si schiarì la voce «... il fatto è che negli ultimi tempi la Dottrina viene sempre più contestata. Nei circoli scientifici, come nel resto della società, si è fatta strada l’idea che non tutti i vecchi insegnamenti siano da prendere alla lettera. Molti vanno interpretati, mentre alcuni... dico alcuni... sarebbero da accantonare». Lo scienziato dette un’occhiata fugace all’Ammiraglio e all’ufficiale tattico, temendo d’essere stato troppo ardito. Ma questi rimasero perfettamente calmi. A vederli, stavano assaporando la cena con gusto.

   «Tutto ciò è molto interessante» intervenne Radek. «Anche tra i popoli federali sono spesso accaduti simili cambiamenti sociali».

   «Ma la nostra società è molto, molto conservatrice» sospirò Lambeos. «E il problema che affrontiamo ora ha profonde ricadute politiche. Vedete, due secoli e mezzo fa un nostro grande scienziato, Forra Gegen, contestò l’assioma fondamentale della Dottrina, ovvero l’autoctonia. Al suo posto egli formulò una nuova teoria, l’Origine Lontana. Secondo questa visione, il nostro popolo migrò da un’altra regione della Galassia, prima di stabilirsi dove si trova ora. Col tempo avremmo dimenticato le nostre vere origini. La Dottrina ci ha dato un orgoglio, un senso d’identità e di coesione, oltre che un’indiscussa autorità sul nostro territorio. Capite che, se la minassimo così alle fondamenta, i contraccolpi scuoterebbero tutta la società. Ad esempio, dovremmo considerare l’eventualità di dare pieni diritti agli alieni che si stabiliscono entro i nostri confini».

   Di nuovo lo scienziato dette un’occhiata all’Ammiraglio e al suo ufficiale, per saggiarne l’umore. Ma loro restavano così tranquilli che osò continuare. «Bisogna ammettere che il quadro fornitoci da Gegen non è completo» disse. «Alcuni punti restano oscuri. Ad esempio, cosa spinse i nostri progenitori ad abbandonare per sempre la patria? Perché si sobbarcarono un viaggio così lungo, anziché fermarsi in un sistema stellare adiacente? A queste domande non c’è ancora risposta. Tuttavia nel corso degli anni l’Origine Lontana è stata corroborata da una quantità sempre maggiore di prove. E questo ci porta alla vostra nave dispersa, la Voyager».

   «Ne ho visionato i diari di bordo, prima che arrivaste» intervenne Hod. «Non ho avuto tempo di leggere tutto, ma qualcosa avevo già studiato in passato. Dai diari risulta che furono i vostri scienziati a trovare la Voyager. Cercavano prove di una parentela genetica fra i Voth e gli Umani».

   «Già, uhm...» fece Lambeos, studiandola con attenzione. Il suo sguardo indugiò sul morbido segno a V sulla fronte del Capitano. «Lei non è Umana, vero?».

   «No, sono Elaysiana» confermò Hod. «Non ci sono Umani tra gli ufficiali superiori di questa nave, ma ve ne sono nel resto dell’equipaggio. E abbiamo anche dei meticci».

   «Uhm, la nostra specie non pratica l’esogamia» disse il Voth, arricciando il naso. «Di solito i matrimoni sono combinati tra le famiglie. Comunque sì, i nostri scienziati cercavano proprio gli Umani, per fare dei raffronti genetici. Purtroppo il dottor Gegen fu abbandonato da quasi tutti i suoi collaboratori, che temevano l’accusa di eresia. Così, invece della grande missione scientifica che sognava, dovette fare quasi tutto da solo. Partì su una piccola nave, in compagnia di un solo collaboratore, Tova Veer. Ma per raccontare di quegli anni, lascio la parola a una testimone d’eccezione: Frola Gegen, figlia di Forra!».

   Così dicendo, lo scienziato accennò all’anziana Voth che gli sedeva accanto. Questa, che fino ad allora era rimasta silente, alzò finalmente lo sguardo dal piatto e osservò i federali. Aveva gli occhi lucidi per l’emozione. Le ci volle un po’ per trovare la voce. Nel frattempo i federali assorbirono la rivelazione. Ecco spiegata la presenza della vecchietta e il rispetto con cui gli altri Voth la trattavano. Il Capitano Hod si emozionò al pensiero che la persona seduta davanti a lei aveva almeno duecentocinquant’anni. In realtà non era un fatto così strano: nell’Unione c’erano specie ancora più longeve, come gli Axanar. Ma era sempre appassionante incontrare un testimone diretto di fatti storici così importanti.

   «Per tutta la sua vita, mio padre fu animato dalla passione per la ricerca scientifica» esordì Frola. La sua voce anziana tremava per l’emozione. «Lui non cercava il prestigio o il guadagno personale. Non ha mai amato la notorietà, se non nella misura in cui lo aiutava a portare avanti i suoi progetti. Ha sempre rispettato le leggi e le tradizioni del nostro popolo. Ma era anche convinto che bisognasse cercare la verità dei fatti, portarla a galla, comunicarla a tutti i Voth. Per quanto ciò possa creare disagio a molti, nel lungo periodo ci renderà migliori. Perché solo la verità... quella scientifica, scevra da ogni laccio ideologico... può renderci davvero liberi» disse con forza. La stessa passione che aveva animato suo padre brillava in lei.

   «Con quest’idea in mente, mio padre raccolse prove su prove» proseguì Frola. «Un giorno trovò uno scheletro umano, scoprendo nel suo DNA ben 47 marcatori genetici identici ai nostri. Ipotizzò che la specie umana si fosse evoluta sul nostro mondo d’origine, molto tempo dopo che lo avevamo lasciato. Così cercò l’astronave da cui proveniva il defunto. Le sue ricerche lo portarono alla Voyager. Ricordo perfettamente com’era emozionato in quei giorni» sospirò. «All’epoca ero una ragazza. Gli facevo da assistente, anche se non comprendevo appieno l’importanza del suo lavoro. Quando fu accusato d’eresia contro la Dottrina, lo scongiurai di lasciar perdere la ricerca e abiurare. Volevo salvarlo. Ma lui non mi ascoltò e non si arrese. Assieme a Tova seguì la Voyager per giorni, restando occultato per studiarla. Volevano mostrarsi, appena si fossero sincerati che l’equipaggio era pacifico. Ma furono incauti: i federali si accorsero della loro presenza e li smascherarono. Purtroppo a quel punto ci fu uno scontro».

   «Ho letto il rapporto» intervenne Ladya. «So che quelli della Voyager catturarono Tova, che entrò in uno stato d’ibernazione. Invece Gegen catturò il Comandante Chakotay e lo portò sul suo vascello. Per metterlo fuori combattimento, l’assistente gli aveva sparato un artiglio contenente una sostanza paralizzante, è così?».

   «Sì, l’ibernazione e i dardi paralizzanti fanno parte del nostro bagaglio evolutivo» confermò Hadron. «Al giorno d’oggi, però, ce ne serviamo di rado. Il giovane Veer andò nel panico; mi scuso per la sua aggressione al vostro uomo. E vi assicuro che nessuno di noi è qui per sparare artigli» garantì.

   «Non servono scuse, Ammiraglio» disse Hod. «Si trattò di un malinteso. Ma prego, signora Gegen, continui». Pur sapendo com’erano andate le cose, voleva sentire la versione dei Voth, per verificare se c’erano discrepanze.

   «Beh, se avete le vostre fonti non serve che vi racconti tutto» disse Frola. «Cercherò di spiegare cosa comportò quell’incontro per la nostra società. Grazie a Chakotay e agli altri federali, mio padre ottenne più prove di quante sognasse di raccogliere in una vita. La somiglianza genetica fra le nostre specie era innegabile. Ormai gli mancava una sola cosa: raggiungere la Terra per eseguire confronti genetici con la fauna locale. A quel punto nessuno avrebbe più potuto negare che quello è il nostro mondo d’origine. Il viaggio in sé non è difficile: le nostre astronavi a transcurvatura possono attraversare la Galassia in poche settimane. Ciò che mio padre non aveva valutato era la determinazione del Ministero a occultare la verità!» esclamò, lasciando trasparire l’acredine. Il suo viso, solitamente di un rosa salmone, si colorò di rosso.

   Ladya ricordò che, secondo i rapporti della Voyager, i Voth usavano la vasodilatazione dell’epidermide come ulteriore mezzo di comunicazione. Erano una specie affascinante e le sarebbe piaciuto scoprire altro su di loro. Ma alcune caratteristiche della loro società la inquietavano.

   «Il Ministero non voleva creare disordine sociale» intervenne Corythos, parlando per la prima volta. «Capirete che era la nostra autorità nel Quadrante Delta a essere messa in discussione. Ragion per cui il dottor Gegen fu indotto a ritrattare pubblicamente le sue affermazioni».

   «Fu ricattato» corresse Frola, con voce dura. «L’esercito s’impossessò della Voyager. Il Ministro Odala minacciò d’imprigionare a vita tutto l’equipaggio. Mio padre si era molto affezionato ai federali... fu solo per salvarli che accettò di abiurare».

   «In quel momento non c’era altra soluzione» sostenne Corythos. Dopo di che si rivolse ai federali. «Ci spiace per quanto accaduto alla vostra nave. Ma noi Voth non siamo crudeli, infatti dopo l’abiura di Gegen la lasciammo andare. Ci sono discrepanze, tra i rapporti della Voyager e quanto vi abbiamo riferito?».

   «Direi di no» ammise il Capitano. Questo la sollevava, perché voleva dire che i Voth non avevano alterato i fatti. «Quindi il professor Gegen...».

   «Dovette sconfessare le sue ricerche davanti al Circolo dei Paleontologi» disse cupamente Frola. «Io ero lì... non dimenticherò mai la sua umiliazione. Dopo di che fu riassegnato al Circolo dei Chimici. Gli diedero da fare delle analisi metallurgiche!» disse con sdegno. «Ovviamente era un modo per distruggere la sua carriera e togliergli visibilità. Dopo di allora, mio padre non osò più difendere pubblicamente l’Origine Lontana. Temeva che, partita la Voyager, il Ministero usasse qualcun altro per ricattarlo: me» disse, lanciando un’occhiataccia all’Ammiraglio e al suo ufficiale. «Alla fine mio padre si ritirò a vita privata e morì prematuramente. Sono certa che fu la delusione ad abbreviargli la vita».

   «Ma le sue idee gli sono sopravvissute» disse Lambeos, speranzoso. «Molti paleontologi erano stati colpiti dall’Origine Lontana. Alcuni avevano postulato teorie simili in modo indipendente, anche se non osavano divulgarle. Col passare del tempo la teoria trovò nuovi sostenitori. Tova Veer e la signora Gegen misero le prove raccolte da Forra a loro disposizione. Le voci si diffusero fino a interessare il grande pubblico. Intanto altri aspetti della Dottrina – come le nozze combinate – venivano messi in discussione. Insomma, negli ultimi tempi c’è stato un grande cambiamento di sensibilità. Parlare dell’Origine Lontana non è più un tabù. Così, finalmente, il Circolo dei Paleontologi e quello degli Exo-biologi sono riusciti a organizzare una missione di ricerca, col beneplacito del Ministero. Dobbiamo trovare la Terra e analizzare il genoma delle sue specie, per confrontarlo col nostro. In qualità di biologo molecolare, dirigerò la squadra di ricerca. Abbiamo grandi speranze!» si emozionò.

   «Quelli della Voyager ci avevano indicato, grossomodo, la posizione della Federazione» aggiunse Hadron. «Quindi non è stato difficile trovarvi».

   «Chakotay donò a mio padre questo modellino della Terra» aggiunse Frola, levando la sferetta dalla borsa. «L’ho consumato, a forza di tenerlo in mano per osservarlo! Ora che mi avvicino al termine della vita, mi resta un solo desiderio: vedere la Terra con i miei occhi. Aiutatemi a esaudirlo, vi prego!». Il suo appello era così accorato che i federali ne furono commossi.

   «Tra l’altro, se istituissimo comunicazioni stabili fra i nostri popoli, potrebbe essere l’inizio di fruttuosi scambi commerciali» suggerì Hadron. «Non dovete temere repressioni da parte del nostro governo. Ormai abbiamo capito che far luce sul nostro passato non significa privarci di niente, ma semmai aggiungere».

   Hod scambiò una breve occhiata con Radek, che annuì in modo appena percettibile. Il Capitano ragionò: con la loro fantastica tecnologia, i Voth avrebbero comunque trovato la Terra. Potevano chiedere ad altri, o semplicemente intercettare le trasmissioni subspaziali. In ogni caso l’avrebbero scovata, e presto. Tanto valeva scortarli fin lì e informare i vertici dell’Unione, perché prendessero in mano la cosa. Per adesso i Voth sembravano amichevoli; bisognava che lo restassero. Era chiaro altresì che dimostrare l’Origine Lontana – cioè sbugiardare la Dottrina – avrebbe avuto un impatto positivo sulla loro società. Valeva senz’altro la pena di tentare.

   «Saremo onorati di accompagnarvi fino alla Terra» sorrise il Capitano. «Già da ora possiamo fornirvi molte informazioni: geografia, clima, evoluzione delle specie. Così saprete da dove cominciare le analisi».

   «Ottimo! Queste informazioni ci saranno preziosissime» disse Lambeos, estasiato.

   «Uhm, se posso chiedere...» intervenne Norrin.

   «Certo» lo incoraggiò Hadron.

   «... anche a noi gioverebbero notizie sul Quadrante Delta» spiegò l’Hirogeno. «È molto tempo che non lo visitiamo. Le nostre informazioni sono troppo datate per essere affidabili».

   «Che vorreste sapere, esattamente?» chiese Hadron, prudente.

   «Dopo la battaglia di oggi, ci servono informazioni sulla specie che ci ha attaccati» disse Norrin. «Sospetto che sia nativa del Quadrante Delta».

   «Sono i Vaadwaur» intervenne Ladya. La sua voce era remota, come lo sguardo. Nell’udire quel nome, i Voth smisero di mangiare e la fissarono. «Non fatevi ingannare dal fatto che controllassero un’astronave Turei; se ne saranno impossessati con qualche stratagemma» insisté la Vidiiana, rivolta ai colleghi.

   «Lei ha ragione, dottoressa» confermò Hadron. «Quegli esseri infidi e violenti si chiamano Vaadwaur. Credevamo di averli sconfitti più di mille anni fa. Ma due secoli orsono alcuni di loro, che si erano ibernati in luoghi nascosti, si sono risvegliati. Si sono impadroniti di nuove astronavi, nuove tecnologie, e hanno ricominciato a flagellare il Quadrante. Lei li conosce?».

   «Sì e no» spiegò Ladya. «Vedete, io sono Vidiiana. Le nostre leggende parlano di predoni dal volto di serpente che apparivano dal nulla per uccidere e saccheggiare: i Vaadwaur. Quando ci hanno attaccati, non li ho riconosciuti subito. Ma a un certo punto mi hanno chiamata “Vaphorana”. Era l’antico nome della mia specie, mille anni fa, prima che la lingua cambiasse». La dottoressa fece una pausa, per riordinare le idee. «Però non capisco perché la mia vista li abbia fatti infuriare tanto. Non saranno in guerra contro la mia gente?» chiese con ansia.

   Hadron e Corythos si scambiarono un’occhiata perplessa. «Vi forniremo notizie aggiornate sui Vaadwaur» promise l’Ammiraglio. «Per quanto ne so, quelle canaglie hanno attaccato molti popoli del Quadrante, quindi potrebbero aver colpito anche il suo. Ma non sono al corrente di un conflitto aperto. Il fatto è che i Vaadwaur sono pochi e sparpagliati, quindi preferiscono lanciare attacchi mordi e fuggi».

   «Ma il mio popolo sta bene?» insisté Ladya, protendendosi sul tavolo. «Vede, io provengo da una piccola colonia che ha perso i contatti con la madrepatria. Quando lasciammo il nostro mondo, due secoli fa, era assediato dai nemici. In tutto questo tempo non abbiamo più avuto notizie. Perciò ci chiediamo che ne è stato della nostra gente. Ho quasi paura a chiederlo... ma devo sapere».

   Il Capitano avrebbe preferito che la dottoressa non tempestasse i Voth di domande, ma non se la sentì di trattenerla. Ladya era sua amica e confidente. Hod sapeva quanto si struggesse al pensiero del suo mondo, anche se non lo dava spesso a vedere, quindi la lasciò fare.

   «Uhm... se devo essere onesto, la sua specie non gode di buona fama» disse Hadron, squadrando severamente la Vidiiana. «Anche voi avete depredato i vostri vicini per secoli; dovevate prevedere che si sarebbero coalizzati contro di voi. Comunque, la nostalgia che lei prova per la sua patria lontana mi ricorda ciò che proviamo noi, cercando la Terra. Quindi le risponderò. Sì, la sua specie è sopravvissuta. Non conosco i dettagli, perché Vidiia è piuttosto lontano dal nostro spazio. Ma so per certo che voi non siete gli unici Vidiiani rimasti. Il vostro popolo vi attende, dall’altra parte della Galassia» rivelò, accompagnandosi con un ampio gesto.

   «Oh, grazie!» esclamò Ladya, illuminandosi in volto. «Grazie infinite... sapeste che significa per me!». La dottoressa tornò a sedere composta, ma non vedeva più la tavola e i commensali. La sua mente correva lontano, al suo pianeta d’origine. Un mondo ferito dalla malattia e dai conflitti, eppure ancora vivo. I suoi simili vivevano lì: chissà se erano riusciti a ricostruirlo? Ricordando le vecchie olografie che aveva visto da bambina, Ladya fu nuovamente assalita dalla nostalgia. Voleva ammirare Vidiia con i suoi occhi, calcarne le strade, respirarne l’aria. Voleva incontrare gli abitanti, per sapere dalla loro voce tutto ciò che era accaduto durante la lunga separazione. Fino ad allora non sarebbe mai stata in pace.

 

   I due Vaadwaur catturati sedevano nella loro cella, zitti e immobili, fissando il pavimento. Norrin li osservò, prima di avvicinarsi. Si era documentato sulla loro specie leggendo i diari della Voyager, e qualcosa ricordava anche dalle vecchie storie del suo clan. Sapeva che i Vaadwaur erano infidi e pericolosi. Quei due, poi, avevano quasi ucciso Ladya, e ciò lo mandava su tutte le furie. Ma doveva mantenere il controllo. «Hanno detto qualcosa, da quando sono qui?» chiese al carceriere.

   «Non una parola» rispose questi, un Tiburoniano dalla pelle gialla e le orecchie stropicciate. «Vuole interrogarli separatamente?».

   «Dopo» disse Norrin, avvicinandosi. Quando fu a dieci passi dalla parete trasparente della cella, i due Vaadwaur alzarono gli occhi su di lui. Non dissero nulla, ma continuarono a fissarlo.

   «Comodi?» chiese l’Hirogeno, quando fu davanti a loro.

   I prigionieri si alzarono a fronteggiarlo. «Non mi aspettavo di trovare uno della tua razza qui» disse uno dei due.

   «Credevamo foste tutti Cacciatori» aggiunse l’altro. «Tu invece vesti l’uniforme dei federali» aggiunse con un sibilo di disgusto.

   «Già. Buffa la Galassia, vero?» fece Norrin. «Allora, ragazzi, questa è la situazione. Avete abbordato una nave della Flotta, senza alcuna provocazione, assalendo l’equipaggio. Col vostro attacco avete anche messo a rischio una delicata operazione d’ingegneria planetaria. Sono accuse gravi, sapete?».

   «Se credi di spaventarci per indurci a parlare, ti sbagli» disse il primo alieno, fissandolo con aria di sfida. «Noi Vaadwaur non temiamo la morte, anzi! Fin da piccoli ci alleniamo a pensare ogni sera a un diverso modo di morire. Questo l’ho pensato la vigilia del mio decimo compleanno».

   «Questo cosa? Non sai ancora cosa vogliamo farti» obiettò Norrin. In realtà gli alieni non rischiavano la pena capitale, che era praticamente scomparsa dal codice penale dell’Unione. Solo i pirati temporali rischiavano di vedersela comminare.

   «Ma so cosa voglio fare io» ribatté il Vaadwaur, con sguardo assassino. Dopo di che scambiò una breve occhiata con il suo commilitone.

   Allarmato dal loro atteggiamento, l’Ufficiale Tattico arretrò di un passo. Il fiuto da Cacciatore gli diceva che quei due stavano macchinando qualcosa di estremo. «Norrin a plancia» disse, premendosi il comunicatore. «Richiedo una scansione dei prigionieri, per confermare che sono disarm...».

   In quella il Vaadwaur che aveva parlato per primo fece uno strano movimento con la bocca, come se si fosse morsicato l’interno della guancia. L’attimo dopo sputò una sostanza verde contro la parete di trasparacciaio della cella. La lastra fumigò e prese a fondersi. Nello stesso momento anche il Vaadwaur si accasciò, in preda all’agonia. La metà inferiore della sua faccia si stava sciogliendo.

   «Acido molecolare» comprese Norrin, indietreggiando precipitosamente. L’alieno doveva essersi rotto una capsula dentale per liberarlo. Quella mossa suicida non era esclusiva dei Vaadwaur. Anche certe spie romulane ne avevano fatto uso, in passato.

   «Frell!» imprecò il carceriere, estraendo il phaser.

   In pochi secondi l’acido aveva sciolto una porzione della parete. Il secondo Vaadwaur ne approfittò per liberarsi: saltò attraverso il foro, rotolò sul pavimento e si rialzò davanti ai federali, sibilando come un serpente. Il carceriere, che era più vicino, gli sparò per stordirlo. Colpito alla spalla, il Vaadwaur riuscì comunque a rompersi la capsula dentale. Con le ultime forze, gli sputò addosso.

   Norrin arretrò ancora di più, mentre davanti ai suoi occhi si consumava una scena raccapricciante. Il Tiburoniano gridava, mentre il potentissimo acido gli consumava le carni, che cadevano semiliquefatte, mettendo a nudo le ossa. Ma anche il Vaadwaur si contorceva nell’agonia. Prima che potessero giungere i medici, erano morti entrambi.

   Rimasto solo nella sala di guardia, Norrin si coprì il naso e la bocca, per non respirare i fumi tossici dell’acido. Fuggì dalla stanza, sigillando la porta con un codice di comando. «Norrin a plancia, breccia nella sicurezza» disse, scosso dall’accaduto. «Abbiamo una vittima. Questi Vaadwaur sono ancora più pericolosi del previsto».

 

   
 
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