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Autore: QueenOfEvil    09/05/2020    1 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Do ut des








Caldo.
Caldo ed un male sordo alla testa.
Queste le prime due cose che Julius sentì, non appena ebbe ripreso conoscenza.
Ancora ad occhi chiusi, riusciva ad intuire davanti a sé la presenza di una fonte di luce, con tutta probabilità proveniente da una finestra: fu questo, insieme all’abitudine ormai acquisita in quell’ultimo periodo, a fargli pensare di essere nella sua camera e di essersi addormentato senza ricordarsi di tirare le tende, troppo sfinito da una giornata particolarmente pesante.
Poi, però, si rese conto che quell’ipotesi era da scartare.
All’epoca, quello che Julius chiamava letto era costituito da una tavola di legno, sopraelevata di una ventina di centimetri dal terreno, un lenzuolo polveroso per materasso e uno straccio sporco per cuscino. Molto diverso dalle sistemazioni, decisamente più lussuose, che avrebbe sperimentato negli anni a venire. Ma comunque, gentili amici, c’era una certa differenza tra quello e la sensazione di essere sdraiato sulla dura pietra.
E, non appena realizzò questo, Julius ricordò, con più angoscia che sollievo, quello che era successo nelle ultime ore.
Le stalle.
La lettera.
La biblioteca.
Il dolore.
Si tirò su di scatto, gli occhi ridotti a fessura per squadrare l’ambiente attorno a sé e i muscoli tesi, nonostante sentisse il proprio corpo tremare: malgrado qualsiasi cosa lo avesse colpito mentre era con la zia si fosse dileguato, la paura era rimasta. E il suo fisico, già esile e sotto sforzo per la mancanza di cibo, di certo non stava reagendo nel migliore dei modi.
Non aveva mai visto prima la stanza dove si trovava. Era piccola, e rettangolare, e traeva tutta la sua illuminazione da una finestra lunga e stretta proprio davanti a lui, affacciata su una distesa incolta di erba alta. A parte la lastra di pietra sulla quale si era svegliato -e che, realizzò, era posta al suo centro esatto-, tutti gli altri mobili erano in legno -una cassettiera con boccette e barattoli alla sua sinistra, un armadio e una sorta di lavabo squadrato alla sua destra- e sembravano, se non in cattivo stato, quantomeno di una qualità molto diversa rispetto a quella di tutti gli altri arredi della casa.
La porta era, invece, sulla parete dirimpetto alla finestra e fu proprio voltandosi verso di essa, in bocca un sapore aspro e la gola secca, che Julius si accorse di non essere solo.
Appollaiato su una sedia, proprio di fianco alla maniglia, con un ginocchio contro il petto e l’altro lasciato pigramente penzoloni, sedeva un ragazzino della sua età, una spruzzata di lentiggini sulle guance e un ciuffo ribelle di capelli biondi ad incorniciargli il viso. Julius aveva l’impressione di averlo già visto, ma era ancora troppo intontito per riuscire a ricordare dove. Stava tenendo gli occhi chiusi, e Julius stava proprio per concludere che dovesse essersi addormentato -aveva il viso rivolto verso i soli… com’era possibile addormentarsi in quella posizione?-, quando egli aprì gli occhi e, una volta messa a fuoco la stanza e realizzato che il suo ospite si era alzato, distese le labbra in uno dei sorrisi più amichevoli che Julius si era mai visto rivolgersi1.
“Ah, ti sei svegliato! Che bello! A mio padre farà un sacco piacere saperlo!”
Fu la voce, più che l’aspetto fisico, ad accendere qualcosa nella sua memoria. D’altronde, anche quando l’aveva conosciuto, gli aveva dedicato poco più di un’occhiata. Era passato un mese dalla sua esperienza in barca, un mese da quando uno sconosciuto sorprendentemente gentile gli aveva regalato quegli strani aggeggi per il mal di mare, e anche se non ricordava quei momenti con piacere, Julius li considerava gli ultimi di vera libertà per chissà quanto tempo. Volente o nolente, vi aveva ripensato spesso.
Fece per aprire la bocca e interrogare il ragazzino -Dove sono? Cosa è successo? Tu chi sei?-, ma quello si era già rizzato in piedi e stava armeggiando con la maniglia della porta, il sorriso che non gli aveva mai abbandonato le labbra: “Tu resta qui, adesso vado a chiamarlo: sarà qui in meno di un attimo”
E, prima che avesse il tempo di replicare alcunché, Julius si ritrovò di nuovo solo nella stanza.
Il suo primo impulso, dettato dall’inquietudine e dalla confusione, fu quello di aprire la finestra, calarsi giù dal davanzale e scappare di lì. Anche se lo sconosciuto era sembrato amichevole, e la stanza stessa appariva innocua, non poteva fare a meno di ripensare a come anche la zia era sembrata volerlo aiutare, dopo aver letto la lettera.
Poi, però, era arrivato il dolore.
E se c’era una cosa di cui Julius era sicuro, era che non avrebbe mai più sperimentato qualcosa di così atroce in tutta la sua vita.
Mai più2.
Ma Julius non era neanche il tipo di persona da cedere ai propri istinti senza soppesarli accuratamente e si rese conto, dopo qualche secondo di ponderazione, che se avesse agito in quel modo avrebbe commesso un’enorme sciocchezza.
In primo luogo, iniziò, tamburellando con la punta delle dita sulla lastra di pietra, non avrebbe comunque saputo dove andare. Sia che l’avessero portato via dalla casa di sua zia, sia che questa fosse una delle stanze a lui “proibite”, la sua situazione non era cambiata: era un ragazzino di dodici anni in una città che non conosceva e di cui non parlava la lingua, senza soldi o appigli di alcun genere. Era solo e impotente esattamente come quando aveva messo piede ad Elai.
In secondo luogo, quello che gli era successo ore prima necessitava di una spiegazione. Non avrebbe potuto continuare a vivere con tranquillità senza sapere cosa esattamente lo avesse colpito con tanta cattiveria. Non aveva disobbedito o deluso le aspettative della zia nelle settimane in cui aveva lavorato per lei. E il suo principale sospetto, ovverosia che ella avesse voluto vendicarsi su di lui del mancato pagamento del debito, comunque non spiegava il modo in cui ci fosse riuscita. Magia arkemica? Gli sembrava improbabile, vista l’adorazione che Heloise sembrava nutrire per il Semprevigile, ma non era da escludere. E Julius non aveva intenzione di farsi trovare impreparato una seconda volta.
In terzo luogo, e quella era forse la ragione che più di tutte lo spingeva a rimanere, ricordava che il ragazzino, parlando con lui, su quella nave, gli aveva detto che suo padre era un medico. Certo, la professione di medico prevedeva la conoscenza non solo dei metodi per guarire, ma anche di quelli per arrecare danno, e se davvero sua zia voleva punirlo, avrebbe potuto rivolgersi ad un professionista perché svolgesse un lavoro pulito, ma non avrebbe avuto senso ucciderlo, visto che l’unico pagamento che lei avrebbe potuto ricevere da Atticus per il denaro prestatogli consisteva nel suo lavoro. Era più probabile che ella volesse verificare di non averlo danneggiato troppo. Anche suo padre faceva così, quando picchiava i suoi schiavi: erano pur sempre merce di valore. E forse il medico in questione avrebbe potuto spiegargli cosa gli fosse capitato.
Si sentiva distrutto, spaventato e quasi disperato -e sapeva che se avesse pensato a suo padre e alla Pietra Filosofale avrebbe ricominciato subito a piangere-, ma doveva comunque fronteggiare la situazione al meglio delle sue possibilità.
Perciò, quando la porta si aprì con un cigolio appena accennato, impose a se stesso di smettere di tremare -ci riuscì quasi del tutto, ma dovette comunque nascondere le mani dietro la schiena e serrarle a pugno- e raddrizzò la schiena, sforzandosi di guardare dritto negli occhi l’uomo che era appena entrato nella stanza e che, se ne accorse con un sussulto, era lo stesso a cui aveva rischiato di far perdere l’equilibrio sulle scale qualche cambio prima. 
“Il nostro ospite si è svegliato, dunque! Bene, molto bene: devo essere sincero, giovanotto, ero alquanto impaziente di scambiare due parole con voi.”
Messi uno di fianco all’altro, la somiglianza tra padre e figlio era impressionante, sia nell’aspetto che nel portamento: Julius aveva sempre avuto un occhio attento per queste cose e rilevò in loro, con appena una punta di disprezzo, l’atteggiamento di chi non ha mai ricevuto un’educazione aristocratica. Solo il sorriso tracciava una linea di demarcazione tra i due. Se quello del ragazzino, infatti, faceva risplendere tutto il suo viso, quello dell’adulto aveva un che di dolciastro e nauseante. Era finto.
Questo, unito al fatto che gli aveva dato del “voi” -e Julius sapeva benissimo di non essere in una posizione né tantomeno in un’età in cui è appropriato dare sentirsi usare tanta cortesia-, lo fecero indietreggiare impercettibilmente sulla lastra di pietra su cui ancora sedeva.
L’uomo dovette accorgersi di quella sua reticenza perché scosse la testa, in un gesto che inizialmente a Julius parve di rimprovero ma che si rivelò essere di mero divertimento.
“Non dovete avere paura, ve lo assicuro. Non ho intenzione di arrecarvi danno. Credo, invece, di necessitare del vostro aiuto”
“Mi dovete scusare per l’insolenza, mi domine,” disse dunque, esprimendo un dubbio sincero “ma non capisco.”
“Cosa non capite?”
“Nulla di quanto sta accadendo. Non so dove mi trovo, né come io ci sia arrivato, né tantomeno cosa mi sia accaduto che mi abbia portato qui. Potrei quindi avere l’ardire di chiedervi una risposta a tali domande? Non credo che potrò esservi di molto aiuto, altrimenti”
Si pentì di quell’ultima frase, che era risultata forse più dura di quanto avesse desiderato, ma il suo interlocutore non sembrò neanche notarlo, perché continuò a rivolgerglisi con quello stesso -e falso- tono amabile.
“Qual è l’ultima cosa che ricordate?”
“La biblioteca” rispose, dopo un attimo di esitazione “Ero in biblioteca, con mia z… con la mia padrona” Si corresse in fretta: non sapeva a chi sarebbe stata riportata quella conversazione e, per quanto lo irritasse essere considerato proprietà di qualcuno, riconosceva che era in quei termini che la zia gli si rivolgeva. Non certo come a un membro della famiglia. “Siamo saliti su una scala perché ella voleva che io vedessi qualcosa e poi…” corrugò la fronte, facendo finta di concentrarsi, malgrado sapesse benissimo cosa era accaduto dopo “… dolore. Tanto dolore. Non capivo perché.” abbassò gli occhi, quasi senza volerlo “Poi mi sono svegliato qui”
L’uomo annuì, come se stesse prendendo mentalmente nota dei fatti, ma Julius si accorse che nulla di quanto gli diceva sembrava sorprenderlo.
Qualcuno, probabilmente la zia, doveva averglielo già detto.
E poi, subito dopo, rivolgendo un’occhiata di sottecchi al ragazzino di fianco a lui, si ricordò che quando gli aveva parlato di suo padre egli gli aveva detto che lavorava al servizio di una domina Liisiana.
Aveva senso, dopotutto.
“Credo di sapere cosa ti è capitato.” Il suo interlocutore lo squadrò da capo a piedi, senza mai mutare espressione “Ma, per essere sicuro, avrò bisogno di visitarti più approfonditamente. Lucius!” Il figlio si rivolse verso di lui -Julius prese nota del suo nome. E del fatto che esso contraddicesse le loro origini Vaaniane- e inarcò le sopracciglia, occhi spalancati e braccia dritte lungo i fianchi “Va’ a portare quello che ti ho dato prima ai nostri pazienti e di’ loro che oggi non avrò tempo di visitarli tutti. Passerò domani, se tutto va come previsto. Temo che questa faccenda mi darà più da fare del previsto”
Julius vide una scintilla nei suoi occhi e all’improvviso si ritrovò a chiedersi se non avesse fatto male i suoi calcoli.
Se, invece che aiutarlo a capire quello che gli era capitato, l’uomo non lo considerasse solo una scocciatura.
Forse, dopotutto, un incontro faccia a faccia, da soli, non era la soluzione migliore.
“Oh, ma non dovete preoccuparvi per me, davvero” replicò, quindi “Qualsiasi cosa mi sia successa, adesso mi sento bene: potrebbe essersi trattato di un malore per il caldo o di una stupidaggine simile” Era di nuovo spaventato: spaventato che il medico considerasse quella visita una perdita di tempo, che si arrabbiasse per questo e, soprattutto, che facesse altro, invece di curarlo. Per quanto si sforzasse, gli risultava sempre più difficile mantenere sotto controllo la paura.
Lucius, questa volta, fu più svelto a parlare del padre: “No, ma figurati! Papà è un ottimo dottore e non si tira mai indietro quando c’è da aiutare qualcuno: è stato lui che ha chiesto alla padrona di farti rimanere nel suo studio un altro po’, invece che svegliarti e rimetterti subito a lavorare. Sono sicuro che è felicissimo di dedicarti un po’ più di attenzione, vero pa’?”
Il sorriso del padre si allargò un po’ di più e la sua voce divenne ancora più densa e simile alla melassa: “Assolutamente. Vedete Julius -posso chiamarvi con il vostro nome, non è vero?-, dovete credermi: prendermi cura di voi non mi crea il benché minimo disturbo”
E Julius gli credette, anche se non si sentì affatto rassicurato.
“Allora io vado!” Lucius era già sulla porta, una mano ad afferrare la maniglia e l’altra a salutare “Torno presto!” Il suo sguardo incrociò quello di Julius ed egli si sentì a sua volta in dovere di ricambiare il saluto con un cenno del capo, malgrado non fosse affatto entusiasta di rimanere da solo con suo padre.
Quando la porta si fu chiusa dietro di loro e non sentirono più neanche il rumore di passi, il medico si girò di nuovo verso di lui e rimase a guardarlo per qualche secondo, senza parlare.
“Devo togliermi la camicia, signore?” chiese allora Julius, memore del modo in cui i medici si erano più volte comportati con suo padre. Non aveva perso il desiderio di ottenere delle risposte. Quello mai. Ma si sentiva inquieto, e faticava a trovare le parole giuste per iniziare la conversazione che più gli premeva. Aveva più l’impressione di doversi preparare ad uno scontro, che ad una visita.
“No, Julius, stai tranquillo. Non ho bisogno che tu faccia assolutamente nulla” 
E Julius lo notò, gentili amici, Julius notò il passaggio dal “voi” al “tu”, coincidente con la scomparsa del figlio dalla stanza.
Ma non fu in grado di capirne il perché, o di fare domande, poiché, non appena il medico ebbe tirato fuori la mano dalla tasca in cui stava frugando, il dolore lo riassalì, implacabile e tremendo come la prima volta.
Emettendo un gemito strozzato di sofferenza e sorpresa, si raggomitolò su se stesso, perdendo l’equilibrio e cadendo sul pavimento di marmo, rovente per la lunga esposizione al sole.
Basta basta basta basta basta
Gli sembrava di soffocare e di venire bruciato vivo allo stesso tempo. 
Avesse avuto abbastanza fiato, avrebbe urlato.
E poi, quando sentiva che stava nuovamente per perdere i sensi, tutto cessò.
Si ritrovò boccheggiante sul suolo, i palmi scottati per il caldo e un senso di nausea talmente forte che, se il suo stomaco non fosse stato vuoto da quasi un giorno intero, avrebbe di sicuro vomitato. Ma stava bene. Non sentiva più nulla.
Il sollievo, però, durò poco e venne rimpiazzato da un senso di profonda inquietudine non appena Julius, alzato lo sguardo, incontrò gli occhi del medico.
E vide che lui sorrideva.
“Bene bene… direi che ci siamo” l’uomo si chinò con una mano tesa e lui istintivamente si ritrasse, cercando di riprendere fiato e di capire cosa stesse succedendo -cosa gli stesse succedendo-, solo per realizzare che l’altro non aveva nessuna intenzione di colpirlo. 
Gli stava tendendo la mano, per invitarlo ad alzarsi.
Julius stava tremando dalla testa ai piedi, era spaventato, sentiva ancora nelle ossa l’eco del dolore provato fino a poco prima, e gli sembrava che la situazione, già orribile, non potesse che peggiorare.
Ma prendere la mano di quell’uomo, dopo che era stato lui, almeno questa seconda volta, a fargli provare quella sofferenza indicibile era fuori discussione.
Non aveva più nulla a parte il proprio orgoglio e non avrebbe mai permesso che quello gli fosse portato via.
Così, malgrado le gambe gli tremassero, fece mostra di ignorare la sua offerta. 
Invece, lentamente, fece presa con una mano sulla lastra di pietra sopra di lui e

con un gemito

si tirò su

da solo.

Si ritrovò così di fronte al medico, la fronte imperlata di sudore che non arrivava neanche a metà del petto dell’altro, e si preparò al peggio, facendosi forza per tenere gli occhi ben fissi in quelli dell’altro.
Fu totalmente preso alla sprovvista, quindi, quando l’altro in risposta iniziò a ridere: “Non hai bisogno di fare quella faccia terrorizzata, sai? Dicevo sul serio quando affermavo di non volerti fare del male: sta’ tranquillo, il tuo segreto con me è perfettamente al sicuro”
Questo non fece altro che confondere Julius, più che tranquillizzarlo: “Di che segreto state parlando?”
“Ma come, di quale segreto! Puoi smettere di fingere, ragazzo: abbiamo visto tutti e due come hai reagito alla semplice vista del simbolo del Semprevigile. Suvvia, non vorrai tenere in piedi questa sceneggiata ancora per molto, no?”
Il simbolo del Semprevigile… 
Quindi quanto era successo era colpa sua?
No, non era possibile: nella casa di sua zia c’erano centinaia -anzi, forse migliaia- di effigi simili e nessuna gli aveva dato il più piccolo fastidio, a parte riflettergli la luce negli occhi quando stava cercando di pulire il pavimento.
Ma a che scopo mentire in quel modo?
“Vuoi che lo dica io? Ti vergogni davvero così tanto? Oppure hai paura… E forse non hai tutti i torti: c’è gente che uscirebbe fuori di testa, se sapesse”
“Se sapesse cosa?”
“Beh, che sei un tenebris” L’uomo aveva detto quella frase come se fosse stata la più grande delle ovvietà, ma Julius sentì la terra sotto di lui che si muoveva. 
Aveva sentito storie, sui tenebris, e nessuna di esse era particolarmente benigna nei loro confronti.
Certo, la maggioranza erano racconti del terrore per spaventare i bambini e convincerli ad andare a dormire -se non ti metti subito a letto un tenebris verrà a rubare la tua anima per mangiarsela e così via- e non ci aveva mai creduto così tanto neanche da piccolo, ma su una cosa tutti i racconti concordavano -e anche lui si sentiva a dare loro ragione-: i tenebris erano esseri malvagi.
Ora, Julius non aveva mai reputato necessario chiedersi troppo a lungo se lui fosse una brava persona o meno. Suo padre gli aveva insegnato bene a farsi pochi scrupoli di coscienza, e tenere quei pochi che ancora si formavano a bada, in modo che non lo intralciassero nelle sue azioni. Ma era anche vero che, a parte qualche piccola disobbedienza tipica dei bambini, lui non aveva mai commesso un’azione veramente riprovevole. E, per quanto predicasse il cinismo imparato dal genitore, non si sentiva disposto in maniera particolare a commetterne una.
Si era chiesto, qualche volta, per testare i suoi rimorsi, se sarebbe mai stato capace di uccidere un uomo.
Non era mai riuscito a darsi una risposta.
Quindi, no, non era un tenebris e fu questo che disse allo stupitissimo uomo davanti a lui, con tutta la convinzione di cui fu capace.
Non poteva esserlo.
Il medico socchiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, con un sospiro: “Questo complica notevolmente le cose” Poi, tornò a guardarlo “Tu ed io dobbiamo fare una bella chiacchierata.”
Quella chiacchierata si rivelò, fortunatamente, più piacevole e proficua di quanto avesse osato sperare.
Oonan, perché era quello il nome dell’uomo, gli spiegò di aver passato la vita ad esercitare una professione che non lo appassionava, esercitando a tempo perso la sua grande vocazione: lo studio delle creature strane. Le cose, come i kraken delle sabbie, la cui esistenza era conosciuta e al contempo ignorata quanto più possibile dalla popolazione, per uno strano miscuglio di paura e ribrezzo.
Tra di esse, ovviamente, i tenebris occupavano un posto speciale.
Si sapeva poco di loro, delle loro abilità, della loro origine, del loro aspetto, eccetto che per le leggende e i racconti popolari, che per quanto riguardava l’accuratezza e il realismo lasciavano alquanto a desirare, ma dopo vent’anni di ricerche egli poteva dire conoscere tutto quello che era umanamente possibile trovare su di loro3.
Aveva sempre voluto incontrare uno di loro -uno di voi, si era poi corretto, facendogli l’occhiolino-, ma sapeva bene che sarebbe potuto risultare pericoloso: per questo era così felice di avere incontrato Julius. Non aggiunse altro, ma il significato dell’affermazione era chiaro: egli di certo non poteva costituire una grande minaccia, piccolo com’era.
Se non fosse stato tanto turbato da quello che gli veniva detto, Julius si sarebbe probabilmente offeso.
Ma come fate a sapere che io sono uno di loro con tanta certezza? gli aveva chiesto, sempre scettico ma senza dubbio incuriosito.
Fu allora che il simbolo di Aa fece di nuovo la sua comparsa nella conversazione.
Oonan disse che il Semprevigile odiava i tenebris, perché erano stati baciati dalla sua consorte rinnegata, Niah, alla loro nascita -immagine che Julius trovò molto poetica e poco esplicativa- e pertanto aveva fatto in modo che la sua rabbia si propagasse attraverso i suoi simboli e li punisse. Quando Heloise lo aveva chiamato perché uno dei suoi servi si era sentito male, e gli aveva descritto cosa fosse successo, e gli aveva mostrato il luogo in questione, aveva capito immediatamente quello che poteva significare. E non si era mai sentito tanto eccitato.
Questo non ha senso. Aveva allora obiettato lui. Sono vissuto a ‘Grave per dodici anni e qui per un mese. Ho visitato case devote ad Aa numerose volte. Mi sarei sicuramente accorto prima di una cosa simile.
E a quel punto Oonan aveva sorriso con sufficienza e aveva aggiunto -con un tono canzonatorio che non gli piacque affatto, perché sembrava che si stesse prendendo gioco di lui- che per essere veramente efficace, un simbolo doveva essere stato benedetto da un seguace con una fede sincera ed ardente, non solo di facciata.
Ed il fatto che tu ti imbatta in uno solo adesso dovrebbe dire molto circa lo spirito religioso degli abitanti di questa terra, vero ragazzo?
Julius però non era ancora convinto.
D’accordo, Aa lo odiava.
Poteva venire a patti con l’astio di una divinità a cui non aveva mai fatto nulla di male.
Se la sua benevolenza era pari a quella dei consoli di ‘Grave, non gli sembrava che ci fosse molto di che stupirsi.
Ma questo non voleva dire che il motivo dietro quella rabbia fosse lo stesso che Oonan indicava.
Era più la sua mente ad opporre resistenza -ad offrire spiegazioni alternative rispetto a quella che si era sentito porgere-, perché dentro di lui, invece, qualcosa gli diceva che l’uomo al suo fianco aveva ragione. Che c’erano stati momenti, c’erano state occasioni, a cui fino ad allora non aveva dato credito, ma che suggerivano che potesse essere qualcosa di diverso da quello che aveva sempre creduto.
Il sussurro confortante che sentiva nel buio, contrapposto allo sfinimento del caldo dei soli, che solo lui sembrava patire così tanto, in famiglia.
Ombre che si agitavano nella sua camera, malgrado la fiamma della candela fosse perfettamente immobile, nei giorni precedenti alla sua partenza per Elai, quando il suo nervosismo era ai massimi livelli.
E quella volta, quell’unica volta, un anno prima, in cui aveva fatto cadere un bambino della sua età -con il pensiero, aveva creduto allora. Stringendo i pugni, realizzava in quel momento- perché lo aveva preso in giro per i suoi vestiti malconci, mancando di rispetto a lui e alla sua familia.
Non bastava, comunque. Aveva bisogno di una prova.
Fissò gli occhi sulle ombre sotto la sedia, a pochi passi da lui, e provò a farle ondeggiare, muovendo piano le dita.
Niente.
Oonan aveva seguito il suo sguardo e osservato i suoi movimenti, ma era rimasto in silenzio, squadrandolo con aspettativa ed impazienza.
Cosa avrebbe fatto, se non avesse ricevuto lo spettacolo che si aspettava?
Perché a quel punto era chiaro che la sua premura verso di lui era stata una mera questione di interessi. Non ne fu stupito: era raro che la gente non chiedesse nulla in cambio, dopo averti fatto un favore.
Che suo figlio lo stesse tenendo d’occhio sin da quel giorno, sulla barca? 
Questo avrebbe spiegato la sua strana disponibilità nel regalargli quei bracciali.
Sentì di nuovo quella scintilla di paura che lo accompagnava, senza lasciarlo mai, ma questa volta venne soffocata in fretta dall’irritazione.
Ripensò ai contatti umani dell’ultimo mese. E a come gli altri lo avevano trattato.
Suo padre, come merce di scambio.
Sua zia, come uno straccio per pulire i vetri.
I servitori suoi compagni, come l’ultimo delle nullità.
E adesso quest’uomo, che non aveva mai visto prima, come un qualche scherzo della natura da analizzare.
Si sentiva come una bambola di pezza lanciata da una parte all’altra.
Privo di libero arbitrio. 
Soggiogato alla volontà altrui.
Iniziava ad averne abbastanza.
E fu proprio sull’onda di quella rabbia che le sue dita si mossero, senza che lui quasi le sentisse, e trovassero un appiglio invisibile in un posto oscuro, di cui fino a poco prima non conoscevano neanche l’esistenza.
Vi si aggrapparono.
Tirarono.
E le ombre si mossero.
Quasi impercettibilmente, sia chiaro.
Ma si mossero.
Oonan ebbe uno scatto quando si accorse di quanto era appena successo. Poi, gli rivolse il sorriso più sincero da quando lo aveva conosciuto e gli passò un braccio sulle spalle.
Julius dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non scrollarselo di dosso.
“Oh, mio caro ragazzo: credo che questo sia l’inizio di una meravigliosa collaborazione”
E lui, ancora una volta, gli credette, senza però esserne affatto rassicurato.





 

 

[1] Non era la prima volta che lo vedeva. Non sarebbe neanche stata l’ultima.
[2] Si sa, però, la vita non va sempre come uno vorrebbe.
[3] Da qualche parte, a centinaia di chilometri di distanza, in una montagna silenziosa e scura come il verobuio, un uomo anziano con un sigaretto al garofano nella sua mano sinistra era intento a disporre con cura alcuni volumi sugli scaffali della biblioteca. Chissà, forse lui avrebbe potuto dissentire con quell’affermazione…






Nota finale: E dunque, direi che questo segna un punto importante nella vita di Julius, anche se forse avrebbe preferito scoprire quanto ha scoperto in un altro modo... Una notazione veloce sui nomi: a parte Lucius -che credo vi possa risultare familiare...- ho avuto un po' di difficolà capire a quale cultura Kristoff si fosse ispirato per la popolazione vaaniana e quella liisiana e, cercando le origini dei pochi nomi a nostra disposizione nel mondo di Nevernight, mi è parso di capire che Alinne abbia origine germaniche, mentre Ashlinn irlandesi, quindi mi sono comportata di conseguenza. Ancora una volta, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto e che tornerete il prossimo sabato!
Grazie come sempre di cuore a chi legge,
QueenOfEvil
   
 
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