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Autore: alessandroago_94    09/05/2020    20 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo tre

CAPITOLO TRE

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ai giorni nostri si conosce

il prezzo di ogni cosa,

ma il vero valore di nessuna”.

Oscar Wilde.

 

“Un uomo può essere sé stesso

soltanto finché è solo.

Se non ama la solitudine,

non ama nemmeno la libertà,

poiché si è liberi

unicamente quando si è soli”.

Arthur Schopenhauer.

 

 

 

 

 

 

 

 

Qualche giorno fa, il visionare casualmente un poster mi ha cambiato la giornata.

Su quel cartellone, l’immagine di due bambini affiancati troneggiava indiscussa. La prima cosa che ho notato, tra l’altro. Un bimbo bianco e uno di colore; il primo bello grassoccio e un biscottino tra le mani, già portato all’altezza delle labbra ingorde, il secondo denutrito e in preda a un pianto disperato, con le ossa sporgenti. Sopra le due immagini affiancate, la scritta; una sola umanità?

Nonostante ormai mi sia abituato alle immagini forti, la domanda retorica e quell’affiancamento mi hanno lasciato a dir poco turbato. All’improvviso ho realizzato di nuovo quanto io sia un completo idiota.

Tante volte ho sostenuto di essere sfortunato, ma la sfortuna è ben altra. Tanti bambini muoiono ancor prima di poter giocare le proprie carte. Di sete, di fame, abbandonati dai genitori. Non hanno mai avuto un’occasione.

Morti assieme ai loro sogni; morti assieme al loro futuro.

Giovani che vivono in Stati dove la guerra imperversa da troppo tempo. Ragazzi e ragazze senza casa né cibo, oppure obbligati tutti a sottostare a regole che violano i diritti umani solo perché imposte dal tiranno di turno o da una qualche religione. Gente che non ha più niente, né una casa né un lavoro né la dignità.

Io invece sono qua, grasso e sempre con lo stomaco pieno. Ho del lavoro, dei soldi, una macchina, una casa. Mangio quando voglio, esco quando voglio, faccio quel che voglio, sempre nei limiti della Legge. Posso parlare con chi voglio e fare le mie scelte.

Sì, sono fortunato, in realtà, proprio perché il Destino mi ha concesso l’opportunità a molti preclusa; quella di poter scrivere la mia Storia, vivendo e facendo esperienze in un contesto sociale e umano tutto sommato tranquillo.

Invece mi lagno perché sono poco sociale, perché nessuno tiene a me, perché sono uno sfigato… sì, in effetti è tutto vero, ma in questo caso sono io ad autoimpormelo, in un certo senso. Potrei uscire dal mio guscio e fare nuove esperienze. Potrei parlare di più, smuovere la mia noiosa vita. Ma non faccio niente, solo perché cambiare è difficile.

Alla fine mi sono così abituato alla routine da non volerla nemmeno affrontare a viso aperto. Non un tiranno umano a opprimermi, bensì l’abitudine.

E il lagnarmi perché amo e non sono corrisposto? Ma che razza di idiozia, che ragionamento da fallito! Che se mi fermo a pensarci un attimo, mi rendo conto di quanto sia bello essere innamorati, e di quanto non me ne farei nulla di una qualche compagnia.

Desidero quel poco che non ho idealizzandolo ed enfatizzandolo fin troppo, senza rendermi conto che sto sciupando la fortuna che mi è stata concessa.

Sono apatico e inerte, mi tolgo il pane di bocca da solo.

E mentre sorseggio quel misero caffè del bar, penso a quanto mi dovrei vergognare e a quanto io sia sbagliato. Perché lo sono, davvero.

Eppure…

 

Nonostante io sia uno sfigato e un giovane senza amici né legami forti, ho vissuto. A modo mio, ma ho vissuto. Come tutti voi.

Ed ho anche ascoltato.

Nelle mie limitate esperienze ho sempre impiegato un’intensità emotiva davvero molto forte, nella speranza di restare unito ai pochi che mi hanno dato confidenza. È sempre andata a finire male, poiché la mia vita è la stazione che a sera si ritrova sempre vuota e deserta, però ho comunque avuto occasione di ascoltare qualche storia narrata da qualcuno di passaggio.

Sulla mia metaforica panchina, qualche passante si è seduto e mi ha narrato qualche spunto della sua esistenza. Ed ho scoperto che, in fondo, non sono poi così diverso dagli altri. Anche se l’ho sempre creduto e un po’ lo credo tutt’ora.

Gente che si sente sola, proprio come me. Esseri umani che hanno grandi famiglie, che sembrano dei tuttologi e che appaiono come individui molto sociali.

La verità è che la solitudine è un male dei nostri giorni, è una serpe sinuosa che entra nelle vite quotidiane in molteplici forme, ma pur sempre spietata. Il suo morso velenoso inquina le giornate e alla fine sembra che non resti mai nulla da dare.

La nostra attenzione è tutta incentrata su quello che non abbiamo, e poco importa se il resto lo possediamo; ciò passa in secondo piano.

Non sappiamo cogliere l’attimo, ci vogliamo sostituire a nostro modo all’Onnipotente. Tutto mio, niente a te. Egoismo che dilaga, che dilata i nostri orizzonti.

Non soffriamo più la fame, la sete, la sottomissione, bensì il culto di noi stessi. E certo che allora siamo soli e ci sentiamo tali; desideriamo continuamente e non ci concentriamo più sul bello che ci circonda.

Ci sono paesaggi mozzafiato, le nostre famiglie che ci amano, le soddisfazioni della vita. Niente, esiste solo quello che vorremmo.

Allunghiamo quindi le mani verso l’indefinito e ci pieghiamo, piangendo come bimbi al cospetto di un giocattolo al di là di una vetrina, irraggiungibile per le nostre mani.

Siamo nullità complete.

 

S è un vero rompicazzo. In quella stazione che è la mia vita, lui arriva regolarmente ogni tot per controllare se c’è qualcosa da prendere con sé.

Sì, perché S in fondo è come tanti altri; desidera tutto quello che non ha. E per averlo è disposto a rubare, saccheggiare, riempirsi di nascosto le tasche nei negozi o a casa degli amici.

Ho sempre pensato che fosse malato, in un certo senso. Resta il fatto che non appena la gente lo conosce, poi lo allontana. Tira troppo la corda.

È un accumulatore, ogni cosa che riesce ad arraffare poi perde significato una volta che l’ha portata a casa. Finisce così subito nel dimenticatoio, tra una marea di oggetti ammucchiati a caso e abbandonati a loro stessi.

L’importante è, appunto, mettere in tasca e ottenere. Questa è la vittoria e la gratificazione.

S torna a trovarmi e mi ritrova come sempre seduto sulla mia panchina.

“Ehi, vecchio, come butta?”

Mi viene incontro tutto sorridente. So però che ogni suo sorriso va pagato caro; egli sorride esclusivamente per mostrarsi gentile, fottendoti qualcosa poco dopo.

Non rispondo al suo sorriso mediocre, non mi va più.

Notando il mio silenzio, l’uomo si siede a mio fianco e mi percuote piano la spalla destra.

“Cosa ti serve, questa volta?”

E’ il mio turno di interloquire, e lo faccio svogliatamente. Anche in modo un po’ maleducato e scontroso, ma con gente del genere non potrebbe essere altrimenti.

S sembra cadere dal pero e mi diverto per un istante a osservare la sua espressione facciale, che si sforza di dimostrare sorpresa.

“Non dire così, vecchio” e dice sempre vecchio con tono colloquiale, nonostante l’unico vecchio presente sia proprio lui, “in realtà è vero, mi servirebbe qualcosa” si affretta poi ad aggiungere. Lo sapevo, è sempre così.

“Non ho più niente qui, guardati attorno”.

S osserva per qualche istante, poi perde interesse verso ciò che ci circonda.

“Quella scatola” afferma poi, e mi indica uno scatolone in un angolo appartato, che solo il suo occhio esperto avrebbe potuto notare con così grande facilità.

“Puoi prenderla, se vuoi…” mormoro, ormai rassegnato. Tanto cosa me ne faccio, non l’avevo nemmeno vista. Che se la tenga, anche se ha rotto il cazzo.

S allora si alza e lesto va a prendere la scatola, poi la appoggia sulla panchina e la osserva per bene. Sorride, finalmente. Se ne va e non dice nemmeno grazie.

So bene che quella scatola sarà presto abbandonata chissà dove, tanto l’importante per un uomo come lui è averla arraffata. Quando sarà a casa, o forse anche prima, avrà già perso ogni senso e potrà cestinarla o ammucchiarla tra le altre cose e focalizzare il suo desiderio verso altri oggetti.

S in effetti è il classico razziatore, o barbaro, dir si voglia, ovvero facente parte di quella categoria di persone che entrano nella mia vita solo per arraffare qualcosa o strappare una parte di me. Poi se ne vanno senza salutare, con in tasca un souvenir di qualche genere.

C’è chi se n’è andato con una parte della mia anima, addirittura la metà, e non è più tornato.

Dopo il colpo grosso, di solito i barbari non tornano più per un po’. Sono furbi e sanno che hanno saccheggiato così a fondo che per parecchio non ce ne sarà per nessuno, nemmeno per me.

Però i barbari più miseri, come il mio caro S, in fondo non lo fanno con cattiveria, ma obbediscono solo al loro istinto. Razziano poco alla volta e soprattutto qualcosa di poco conto, quindi ritornano in loco spesso e volentieri.

Rompendo il cazzo ancora e ancora.

Eppure basta così poco per farli contento, per placarlo… perché negarglielo?

 

Abbandono il bar e mi dirigo spedito verso casa.

C’è tanto da camminare e quindi ho tempo per schiarirmi le idee, quindi anche per lasciare andare la mia fervida immaginazione da scrittore. Da artista? Eh, nemmeno per scherzo. Più idiota io a credermi scrittore, addirittura.

Artista? Figuriamoci.

Tuttavia sono strambo assai, devo continuare a farmene una ragione, anche se quella creatività che ho è definibile malata e tal definizione è impressa a lettere cubitali nella mia mente.

 

Mi alzo presto e affliggo l’apposita targhetta alla mia divisa. Agente James Barley, e sopra una mia foto ritagliata che mi mostra con un’espressione ebete impressa sul viso.

Smesso di fissarla con vergogna. Avere la targhetta impressa come nei supermercati e non possedere alcun distintivo da sfoggiare a destra e manca è qualcosa di umiliante per un agente della mia età. Ma non importa.

Pare comunque quasi ridicolo che dopo tanto tempo non mi sia ancora abituato alla nullità che sono.

La mia tenera moglie dorme ancora, nonostante la promessa che si sarebbe svegliata per darmi il buongiorno, ma io la amo ugualmente. Mi chino a scoccarle un leggero bacio sulla fronte poi me ne vado, chiudendo piano la porta d’ingresso al mio passaggio.

Guido con prudenza e attenzione fino al Columbus Police Department, dove lavoro. Quando non ho piccoli casi da risolvere, svolgo mansioni d’ufficio e mi annoio a morte. Diciamo che è un po’ una sorta di prigione, anche se faccio il poliziotto ho anche io le mie pene da scontare.

Il caos del più grande centro abitato dell’Ohio è infernale e i miei colleghi si danno da fare con le palette anche in prossimità del Department, dove ci sono code e rallentamenti a causa di alcuni lavori in corso.

Parcheggio e sfrutto gli ultimi istanti di libertà cercando di inspirare l’aria fresca del mattino e di farne tesoro; il mio intuito mi suggerisce che non sarà una giornata facile.

Alla fine faccio il mio accesso passando il badge all’ingresso e facendomi riconoscere dai colleghi posti al controllo dell’ampia entrata.

“Ehi, Barley” mi saluta l’agente Taylor, anziano anche lui. Entrambi abbiamo fatto poca carriera.

“Ehilà, buongiorno” ricambio il saluto con il sorriso sulle labbra.

Vorrei scambiare due parole ma un furioso Ramsey mi si palesa davanti. Probabilmente mi aspettava in prossimità dell’ingresso.

“Barley, la stiamo aspettando, avanti” afferma, affrettato. Si passa una mano tra i capelli radi e corti e mi fa un cenno nervoso verso il reparto riservato agli uffici.

Taylor scuote le spalle, ed io non posso far altro che accomiatarmi con un semplice cenno della testa.

“Sono comunque in netto anticipo” faccio notare a Ramsay, che cammina davanti a me con un’energia tale da farmi venire il fiatone. E faccio un errore madornale, poiché mai far notare qualcosa a un capo reparto così irritabile…

“Sta svolgendo un servizio pubblico, agente. Deve essere pronto e scattante in ogni momento e a ogni ora, lei è al servizio dello Stato e del cittadino” poi si volge a guardarmi, fermandosi un istante, “e cos’è quel fiatone? Non si presenti mai più in questo modo. Si fermi un attimo e se lo faccia passare, non voglio che si pensi che i miei colleghi e sottoposti siano tutti ormai fuori forma”.

Mi accoltella così, ma non fa male. Le sue parole non mi sfiorano nemmeno, so quanto è crudele.

“L’aspetto nel mio ufficio tra meno di tre minuti” controlla l’orologio, “mi raccomando! Niente fiatone”. Mi dà le spalle e prosegue spedito verso la sua meta.

Aveva ragione, il mio intuito; questa si prospetta una giornata da incubo.

Mi appoggio per un istante con le spalle contro al muro, cercando di isolarmi dalla frenesia che mi circonda, con agenti in rumoroso movimento in ogni direzione.

Riprendo il fiato ed è il mio turno per controllare l’orologio da polso, che mi indica che sono trascorsi già due minuti da quando Ramsay mi ha lasciato indietro. L’ultimo minuto rimasto a disposizione mi sarà utile per raggiungere il suo ufficio.

So che mi sta cronometrando, nella sua infinita cattiveria. Ma che ci posso fare? Non ho mai fatto carriera e tutti ormai sono a pari grado, con i superiori addirittura piuttosto più giovani di me. Come sempre nella mia misera vita lascio che tutto scorra, posso fare ben poco per cambiare la realtà. Forse avrei potuto provarci da più giovane, ma non è mai stato competitivo il mio carattere. Quindi va bene così.

Chino il capo e mi affretto verso il fantomatico ufficio, senza fiatone ma con il cuore che mi batte forte nel petto, non sapendo cosa mi attenda. È uno di quei rari momenti in cui detesto il mio lavoro e la mia subordinazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Niente, spero solo che in un qualche modo questo testo sappia far riflettere.

Grazie ancora ai coraggiosi che stanno leggendo e sostenendo questo progettino strano ^^

   
 
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