CAPITOLO TRE
“Ai giorni nostri si
conosce
il prezzo di ogni cosa,
ma il vero valore di
nessuna”.
Oscar Wilde.
“Un uomo può essere sé
stesso
soltanto finché è solo.
Se non ama la
solitudine,
non ama nemmeno la
libertà,
poiché si è liberi
unicamente quando si è
soli”.
Arthur Schopenhauer.
Qualche giorno fa, il visionare casualmente un poster mi ha
cambiato la giornata.
Su quel cartellone, l’immagine di due bambini affiancati
troneggiava indiscussa. La prima cosa che ho notato, tra l’altro. Un bimbo
bianco e uno di colore; il primo bello grassoccio e un biscottino tra le mani,
già portato all’altezza delle labbra ingorde, il secondo denutrito e in preda a
un pianto disperato, con le ossa sporgenti. Sopra le due immagini affiancate,
la scritta; una sola umanità?
Nonostante ormai mi sia abituato alle immagini forti, la
domanda retorica e quell’affiancamento mi hanno lasciato a dir poco turbato.
All’improvviso ho realizzato di nuovo quanto io sia un completo idiota.
Tante volte ho sostenuto di essere sfortunato, ma la sfortuna
è ben altra. Tanti bambini muoiono ancor prima di poter giocare le proprie
carte. Di sete, di fame, abbandonati dai genitori. Non hanno mai avuto
un’occasione.
Morti assieme ai loro sogni; morti assieme al loro futuro.
Giovani che vivono in Stati dove la guerra imperversa da
troppo tempo. Ragazzi e ragazze senza casa né cibo, oppure obbligati tutti a sottostare
a regole che violano i diritti umani solo perché imposte dal tiranno di turno o
da una qualche religione. Gente che non ha più niente, né una casa né un lavoro
né la dignità.
Io invece sono qua, grasso e sempre con lo stomaco pieno. Ho
del lavoro, dei soldi, una macchina, una casa. Mangio quando voglio, esco
quando voglio, faccio quel che voglio, sempre nei limiti della Legge. Posso
parlare con chi voglio e fare le mie scelte.
Sì, sono fortunato, in realtà, proprio perché il Destino mi
ha concesso l’opportunità a molti preclusa; quella di poter scrivere la mia
Storia, vivendo e facendo esperienze in un contesto sociale e umano tutto
sommato tranquillo.
Invece mi lagno perché sono poco sociale, perché nessuno
tiene a me, perché sono uno sfigato… sì, in effetti è tutto vero, ma in questo
caso sono io ad autoimpormelo, in un certo senso. Potrei uscire dal mio guscio
e fare nuove esperienze. Potrei parlare di più, smuovere la mia noiosa vita. Ma
non faccio niente, solo perché cambiare è difficile.
Alla fine mi sono così abituato alla routine da non volerla
nemmeno affrontare a viso aperto. Non un tiranno umano a opprimermi, bensì
l’abitudine.
E il lagnarmi perché amo e non sono corrisposto? Ma che razza
di idiozia, che ragionamento da fallito! Che se mi fermo a pensarci un attimo,
mi rendo conto di quanto sia bello essere innamorati, e di quanto non me ne
farei nulla di una qualche compagnia.
Desidero quel poco che non ho idealizzandolo ed
enfatizzandolo fin troppo, senza rendermi conto che sto sciupando la fortuna
che mi è stata concessa.
Sono apatico e inerte, mi tolgo il pane di bocca da solo.
E mentre sorseggio quel misero caffè del bar, penso a quanto
mi dovrei vergognare e a quanto io sia sbagliato. Perché lo sono, davvero.
Eppure…
Nonostante io sia uno sfigato e un giovane senza amici né
legami forti, ho vissuto. A modo mio, ma ho vissuto. Come tutti voi.
Ed ho anche ascoltato.
Nelle mie limitate esperienze ho sempre impiegato
un’intensità emotiva davvero molto forte, nella speranza di restare unito ai
pochi che mi hanno dato confidenza. È sempre andata a finire male, poiché la
mia vita è la stazione che a sera si ritrova sempre vuota e deserta, però ho
comunque avuto occasione di ascoltare qualche storia narrata da qualcuno di
passaggio.
Sulla mia metaforica panchina, qualche passante si è seduto e
mi ha narrato qualche spunto della sua esistenza. Ed ho scoperto che, in fondo,
non sono poi così diverso dagli altri. Anche se l’ho sempre creduto e un po’ lo
credo tutt’ora.
Gente che si sente sola, proprio come me. Esseri umani che
hanno grandi famiglie, che sembrano dei tuttologi e che appaiono come individui
molto sociali.
La verità è che la solitudine è un male dei nostri giorni, è
una serpe sinuosa che entra nelle vite quotidiane in molteplici forme, ma pur
sempre spietata. Il suo morso velenoso inquina le giornate e alla fine sembra
che non resti mai nulla da dare.
La nostra attenzione è tutta incentrata su quello che non
abbiamo, e poco importa se il resto lo possediamo; ciò passa in secondo piano.
Non sappiamo cogliere l’attimo, ci vogliamo sostituire a
nostro modo all’Onnipotente. Tutto mio, niente a te. Egoismo che dilaga, che
dilata i nostri orizzonti.
Non soffriamo più la fame, la sete, la sottomissione, bensì
il culto di noi stessi. E certo che allora siamo soli e ci sentiamo tali;
desideriamo continuamente e non ci concentriamo più sul bello che ci circonda.
Ci sono paesaggi mozzafiato, le nostre famiglie che ci amano,
le soddisfazioni della vita. Niente, esiste solo quello che vorremmo.
Allunghiamo quindi le mani verso l’indefinito e ci pieghiamo,
piangendo come bimbi al cospetto di un giocattolo al di là di una vetrina,
irraggiungibile per le nostre mani.
Siamo nullità complete.
S è un vero rompicazzo. In quella stazione che è la mia vita,
lui arriva regolarmente ogni tot per controllare se c’è qualcosa da prendere
con sé.
Sì, perché S in fondo è come tanti altri; desidera tutto
quello che non ha. E per averlo è disposto a rubare, saccheggiare, riempirsi di
nascosto le tasche nei negozi o a casa degli amici.
Ho sempre pensato che fosse malato, in un certo senso. Resta
il fatto che non appena la gente lo conosce, poi lo allontana. Tira troppo la
corda.
È un accumulatore, ogni cosa che riesce ad arraffare poi
perde significato una volta che l’ha portata a casa. Finisce così subito nel
dimenticatoio, tra una marea di oggetti ammucchiati a caso e abbandonati a loro
stessi.
L’importante è, appunto, mettere in tasca e ottenere. Questa
è la vittoria e la gratificazione.
S torna a trovarmi e mi ritrova come sempre seduto sulla mia
panchina.
“Ehi, vecchio, come butta?”
Mi viene incontro tutto sorridente. So però che ogni suo
sorriso va pagato caro; egli sorride esclusivamente per mostrarsi gentile,
fottendoti qualcosa poco dopo.
Non rispondo al suo sorriso mediocre, non mi va più.
Notando il mio silenzio, l’uomo si siede a mio fianco e mi
percuote piano la spalla destra.
“Cosa ti serve, questa volta?”
E’ il mio turno di interloquire, e lo faccio svogliatamente.
Anche in modo un po’ maleducato e scontroso, ma con gente del genere non
potrebbe essere altrimenti.
S sembra cadere dal pero e mi diverto per un istante a
osservare la sua espressione facciale, che si sforza di dimostrare sorpresa.
“Non dire così, vecchio” e dice sempre vecchio con tono
colloquiale, nonostante l’unico vecchio presente sia proprio lui, “in realtà è
vero, mi servirebbe qualcosa” si affretta poi ad aggiungere. Lo sapevo, è
sempre così.
“Non ho più niente qui, guardati attorno”.
S osserva per qualche istante, poi perde interesse verso ciò
che ci circonda.
“Quella scatola” afferma poi, e mi indica uno scatolone in un
angolo appartato, che solo il suo occhio esperto avrebbe potuto notare con così
grande facilità.
“Puoi prenderla, se vuoi…” mormoro, ormai rassegnato. Tanto
cosa me ne faccio, non l’avevo nemmeno vista. Che se la tenga, anche se ha
rotto il cazzo.
S allora si alza e lesto va a prendere la scatola, poi la
appoggia sulla panchina e la osserva per bene. Sorride, finalmente. Se ne va e
non dice nemmeno grazie.
So bene che quella scatola sarà presto abbandonata chissà
dove, tanto l’importante per un uomo come lui è averla arraffata. Quando sarà a
casa, o forse anche prima, avrà già perso ogni senso e potrà cestinarla o
ammucchiarla tra le altre cose e focalizzare il suo desiderio verso altri
oggetti.
S in effetti è il classico razziatore, o barbaro, dir si
voglia, ovvero facente parte di quella categoria di persone che entrano nella
mia vita solo per arraffare qualcosa o strappare una parte di me. Poi se ne
vanno senza salutare, con in tasca un souvenir di qualche genere.
C’è chi se n’è andato con una parte della mia anima, addirittura
la metà, e non è più tornato.
Dopo il colpo grosso, di solito i barbari non tornano più per
un po’. Sono furbi e sanno che hanno saccheggiato così a fondo che per
parecchio non ce ne sarà per nessuno, nemmeno per me.
Però i barbari più miseri, come il mio caro S, in fondo non
lo fanno con cattiveria, ma obbediscono solo al loro istinto. Razziano poco
alla volta e soprattutto qualcosa di poco conto, quindi ritornano in loco
spesso e volentieri.
Rompendo il cazzo ancora e ancora.
Eppure basta così poco per farli contento, per placarlo…
perché negarglielo?
Abbandono il bar e mi dirigo spedito verso casa.
C’è tanto da camminare e quindi ho tempo per schiarirmi le idee,
quindi anche per lasciare andare la mia fervida immaginazione da scrittore. Da
artista? Eh, nemmeno per scherzo. Più idiota io a credermi scrittore,
addirittura.
Artista? Figuriamoci.
Tuttavia sono strambo assai, devo continuare a farmene una
ragione, anche se quella creatività che ho è definibile malata e tal
definizione è impressa a lettere cubitali nella mia mente.
Mi alzo presto e
affliggo l’apposita targhetta alla mia divisa. Agente James Barley, e sopra una
mia foto ritagliata che mi mostra con un’espressione ebete impressa sul viso.
Smesso di fissarla con
vergogna. Avere la targhetta impressa come nei supermercati e non possedere
alcun distintivo da sfoggiare a destra e manca è qualcosa di umiliante per un
agente della mia età. Ma non importa.
Pare comunque quasi
ridicolo che dopo tanto tempo non mi sia ancora abituato alla nullità che sono.
La mia tenera moglie
dorme ancora, nonostante la promessa che si sarebbe svegliata per darmi il
buongiorno, ma io la amo ugualmente. Mi chino a scoccarle un leggero bacio
sulla fronte poi me ne vado, chiudendo piano la porta d’ingresso al mio
passaggio.
Guido con prudenza e
attenzione fino al Columbus Police Department, dove lavoro. Quando non ho
piccoli casi da risolvere, svolgo mansioni d’ufficio e mi annoio a morte.
Diciamo che è un po’ una sorta di prigione, anche se faccio il poliziotto ho
anche io le mie pene da scontare.
Il caos del più grande
centro abitato dell’Ohio è infernale e i miei colleghi si danno da fare con le
palette anche in prossimità del Department, dove ci sono code e rallentamenti a
causa di alcuni lavori in corso.
Parcheggio e sfrutto
gli ultimi istanti di libertà cercando di inspirare l’aria fresca del mattino e
di farne tesoro; il mio intuito mi suggerisce che non sarà una giornata facile.
Alla fine faccio il mio
accesso passando il badge all’ingresso e facendomi riconoscere dai colleghi
posti al controllo dell’ampia entrata.
“Ehi, Barley” mi saluta
l’agente Taylor, anziano anche lui. Entrambi abbiamo fatto poca carriera.
“Ehilà, buongiorno”
ricambio il saluto con il sorriso sulle labbra.
Vorrei scambiare due
parole ma un furioso Ramsey mi si palesa davanti. Probabilmente mi aspettava in
prossimità dell’ingresso.
“Barley, la stiamo
aspettando, avanti” afferma, affrettato. Si passa una mano tra i capelli radi e
corti e mi fa un cenno nervoso verso il reparto riservato agli uffici.
Taylor scuote le
spalle, ed io non posso far altro che accomiatarmi con un semplice cenno della
testa.
“Sono comunque in netto
anticipo” faccio notare a Ramsay, che cammina davanti a me con un’energia tale
da farmi venire il fiatone. E faccio un errore madornale, poiché mai far notare
qualcosa a un capo reparto così irritabile…
“Sta svolgendo un
servizio pubblico, agente. Deve essere pronto e scattante in ogni momento e a
ogni ora, lei è al servizio dello Stato e del cittadino” poi si volge a
guardarmi, fermandosi un istante, “e cos’è quel fiatone? Non si presenti mai
più in questo modo. Si fermi un attimo e se lo faccia passare, non voglio che
si pensi che i miei colleghi e sottoposti siano tutti ormai fuori forma”.
Mi accoltella così, ma
non fa male. Le sue parole non mi sfiorano nemmeno, so quanto è crudele.
“L’aspetto nel mio
ufficio tra meno di tre minuti” controlla l’orologio, “mi raccomando! Niente
fiatone”. Mi dà le spalle e prosegue spedito verso la sua meta.
Aveva ragione, il mio
intuito; questa si prospetta una giornata da incubo.
Mi appoggio per un
istante con le spalle contro al muro, cercando di isolarmi dalla frenesia che
mi circonda, con agenti in rumoroso movimento in ogni direzione.
Riprendo il fiato ed è
il mio turno per controllare l’orologio da polso, che mi indica che sono
trascorsi già due minuti da quando Ramsay mi ha lasciato indietro. L’ultimo
minuto rimasto a disposizione mi sarà utile per raggiungere il suo ufficio.
So che mi sta
cronometrando, nella sua infinita cattiveria. Ma che ci posso fare? Non ho mai
fatto carriera e tutti ormai sono a pari grado, con i superiori addirittura
piuttosto più giovani di me. Come sempre nella mia misera vita lascio che tutto
scorra, posso fare ben poco per cambiare la realtà. Forse avrei potuto provarci
da più giovane, ma non è mai stato competitivo il mio carattere. Quindi va bene
così.
Chino il capo e mi
affretto verso il fantomatico ufficio, senza fiatone ma con il cuore che mi
batte forte nel petto, non sapendo cosa mi attenda. È uno di quei rari momenti
in cui detesto il mio lavoro e la mia subordinazione.
NOTA DELL’AUTORE
Niente, spero solo che in un qualche modo questo testo sappia
far riflettere.
Grazie ancora ai coraggiosi che stanno leggendo e sostenendo
questo progettino strano ^^