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Autore: Hoel    11/05/2020    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 21.12.2021

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Capitolo Dodicesimo

10 settembre 1511

 

 

 

L’ambasciatore sier Hironimo Donado “dalle Rose” chiuse la finestra, lanciando un’occhiata torva sulla piazza semivuota sottostante. Cadaun giorno a Roma s’apprendeva di nuovi ammalati di febbre, quest’ultima assolutamente equa nel suo contagio e trasportata dai putridi venti ch’ammorbavano l’aria, rendendola irrespirabile, come se la Città Eterna avesse avuto bisogno d’ulteriore lezzo, onde apparire più marcia di quanto già non lo fosse.

Forse era la stanchezza, forse era l’età non più fresca, ma nelle ultime settimane s’era ritrovato molto spesso ad anelare alla sua patria, alla moglie madona Maria Gradenigo Donado e ai loro numerosi figlioli, a sua sorella madona Alba Donado Contarini e a suo fratello sier Andrea Donado, podestà di Treviso, chiedendosi della loro salute, delle loro occupazioni, di quali crucci li stessero tormentando, dei loro progressi e progetti, se avessero ricevuto le sue lettere e quali sentimenti li avevano suscitato. Né la musica né la composizione di poesie in greco ed in latino, grandi sue passioni fin da giovinetto, lo consolavano più; a malapena lo distraevano le conversazioni con il suo segretario, Lorenzo Trivixan.

Talora, tra la veglia e il sonno nella sua abitazione a Campo Marzio, sier Hironimo ripercorreva gli episodi di vita famigliare trascorsi assieme, tra un incarico e l’altro: ripensava al giorno delle sue nozze, ai frizzanti distici latini del suo compare d’anello, Almorò Barbaro, ch’avevano fatto sghignazzare i giovanotti ed arrossire le fanciulle; ai battesimi dei vari nipoti; al primo incontro tra suo figlio Phelipo e il magister Marino Becichemo e di quanto il giovane avesse sprizzato d’orgoglio alla prospettiva di divenire l’allievo d’un uomo sì dotto. Sier Hironimo si rivide alle nozze di sua figlia Ysabeta con sier Faustino Dolfin e anche al secondo matrimonio della sua Luzia con sier Cabriel Moro, dopo averla consolata per la perdita di domino Francesco Martinengo suo primo sposo.

Questa malinconia, questo rivangare il passato inquietava assai l’ambasciatore: sin da giovane aveva viaggiato in lungo ed in largo per l’Italia e per l’Europa, avendo ricoperto ruoli che l’avevano quasi sempre condotto fuori da Venezia, quali oratore in Francia, in Portogallo, a Milano, a Genova, a Lucca e presso l’Imperatore; era stato Duca di Candia; visdomino di Ferrara; podestà a Brescia, Ravenna e Cremona e Roma la conosceva oramai meglio della sua scarsella, avendo in più occasioni rappresentato la Signoria presso la corte papale, delle cui insidie suo padre, il fu sier Antonio “dalle Rose”, ben l’aveva istruito avendo egli stesso ricoperto la medesima carica. Eppure, mai aveva il Donado avvertito tanta nostalgia di casa come in quel momento, mai quella smania di riabbracciare la sua famiglia e d’aggrapparsi al ricordo d’essa per non lasciarsi confondere da una sottile angoscia. Si diceva che soltanto chi era prossimo alla morte s’immergeva nei ricordi del passato; al che, se tale era il suo ineluttabile destino, il “dalle Rose” pregava Iddio e la Vergine di concedergli di concludere prima la sua missione e poi di disporre di lui come meglio credevano.

Sier Hironimo sospirò pesantemente: forse le sue erano le tipiche crisi della vecchiaia, acuite dai soliti acciacchi ai reni. Aveva cinquantaquattro anni e troppi viaggi, troppe missioni delicate alle spalle, ch’avrebbero sfibrato chiunque. Gli ultimi anni, specialmente, gli pesavano alla stregua di macigni, avvertendo come Atlante il pesantissimo fardello affidatogli dalla Signoria: su di lui, infatti, dipendeva la sua salvezza.

Perché mentre i generali e condottieri tenevano impegnato sul campo di battaglia il nemico, la diplomazia veneziana gli scavava il terreno da sotto i piedi. Già nel 1509, dopo la sconfitta dei Collegati sotto le mura di Padova, la Signoria era riuscita ad attaccare economicamente la Lega antiveneziana, stipulando un accordo con la Sublime Porta: i Turchi, infatti, avevano incominciato a boicottare i panni di Firenze, di Ragusa e di Genova, diminuendo i finanziamenti del nemico e rendendo insidiose le rotte marittime. Non meno importante, il coinvolgimento indiretto del Sultano aveva garantito la neutralità del Re d’Ungheria, il quale se all’inizio s’era lasciato sedurre dalle ipotetiche conquiste promessegli dall’Imperatore, aveva poi rinculato per tenersi buoni i Veneziani per non essere invaso dai Turchi.

Il vero obiettivo, però, era e rimaneva il Papa.

Il cardinale Marco Corner del cavalier sier Zorzi aveva riferito alla Signoria come Giulio II, prendendolo in disparte, gli avesse confidato d’aver in realtà sempre amato la Repubblica e di quanto gli dispiacesse veder la rovina dello stato veneziano per mano di quei barbari. Aveva sostenuto d’esser stato costretto ad unirsi alla Lega di Cambrai, poiché sdegnato dalle violazioni dei diritti papali e delle sue terre per mano dei Veneziani.

La realtà, invece, era ben altra: il Papa aveva capito d’aver fatto il passo più lungo della gamba e di trovarsi dinanzi ad un avversario che, per la sua sopravvivenza, non aveva (e non avrebbe) esitato a giocar sporco. Pertanto, aveva cambiato opinione per trarne il maggior profitto. Egli aveva imposto alla Serenissima di riconoscere per giusta la scomunica e di chiedere pubblicamente perdono per essere assolta. In più, l’aveva obbligata a restituire Rimini, Faenza, Cervia e persino Ravenna; a sopprimere il diritto del Doge di designare i vescovi, di prelevare le decime, le imposte sui beni ecclesiastici; le aveva proibito di giudicare in tribunale gli ecclesiastici, a disconoscere il suo dominio nel Golfo e a permettere ai sudditi papalini di navigare liberamente le sue acque.

Sier Hironimo Donado, sier Domenego Trivixan, sier Lunardo Mozenigo, sier Alvixe Malipiero, sier Polo Capelo e sier Polo Pisani il 24 febbraio 1510, nell’atrio della Basilica di San Pietro, avevano recitato la dichiarazione di Venezia di pentimento e di sottomissione dinanzi al Papa e a dodici cardinali. Questi poi, impugnate delle verghe, avevano cantato il Miserere mentre gli ambasciatori avevano ascoltato lividi e rancorosi in ginocchio. Giulio II, trionfo, aveva recitato solenne la formula di assoluzione, ignaro dell’odio e della vendetta ch’animavano le preghiere degli oratori veneziani. I notai avevano letto la lista delle penitenze imposte e poi tutti s’erano recati nella Cappella Sistina per assistere alla Messa, tra squilli di trombe e grandi dimostrazioni, laddove gli ambasciatori avevano pregato Dio e la Madonna di confondere il Papa. E al funerale di sier Polo Pisani, morto di lì a poco, i legati veneziani avevano solennemente giurato sul catafalco del conterraneo d’ingegnarsi in ogni modo per sconfiggere i numerosi nemici.

Così fu: mentre Della Rovere gongolava per la sua vittoria, la Serenissima progettava alla prima occasione di disconoscere ogni capitolo di sottomissione, nel frattanto che sier Hironimo, rimasto a Roma, assieme al cardinale Marco Corner aveva incominciato a tastar il polso ai condottieri da assoldare, incominciando da Renzo di Ceri, Giampaolo Baglioni e Troilo Savelli.

La volontà di potenza di Giulio II era stata tale, inoltre, d’aver peccato di hybris: dopo aver creduto d’aver soggiogato la ribelle Venezia, egli aveva ripreso l’antico progetto dei Borgia, ossia l’assoggettamento della Romagna al diretto controllo di Roma. Così, in barba al fatto che fossero alleati, il Papa aveva dato il terzo scossone alla Lega di Cambrai attaccando il Ducato di Ferrara, dopo aver tentato di sottrarre Genova ai Francesi. Sier Hironimo e i suoi colleghi avevano seguito Giulio II durante l’intera campagna invernale, fino allo zenit dell’assedio di Mirandola. Ciononostante, malgrado il Papa si fosse messo lui di persona a capo dell’esercito, aveva trovato in Alfonso d’Este un avversario altrettanto ostinato, oltre a ben spalleggiato da Francia e Spagna, sicché l’incapacità di Della Rovere di portare a termine la conquista di Genova, Bologna, Ferrara e delle altre terre emiliane e romagnole aveva minato non soltanto la sua immagine di ferocia e imbattibilità, semmai l’aveva indebolito e screditato agli occhi del mondo.

Il tentativo d’accordo a Mantova del marzo del 1511, laddove una Lega visibilmente in difficoltà si era dimostrata disposta a porre fine alla guerra, a patto che Venezia pagasse le spese della pace e riconoscesse l’alta autorità imperiale sul territorio di Terraferma, pagando all’Imperatore un grosso censo, era fallito non soltanto perché la Serenissima aveva fatto intendere a Maximilian cosa gli avrebbe dato di grosso al posto del censo, bensì per l’intemperanza di Giulio II, che non aveva gradito la spocchia del segretario del Re dei Romani, Mathias Lang vescovo di Gurk, che s’atteggiava da trionfo vincitore.

Dulcis in fundo, poco dopo la debacle a Mantova, a Pisa s’era riunito un concilio di natura palesemente scismatica, indetto dal cardinale di Santa Croce Bernardino López de Carvajal, dal Re di Francia, dall’Imperatore, dal cardinale Federico Sanseverino ed altri porporati per eleggere pontefice proprio de Carvajal e ciò allo scopo di punire quella banderuola di Della Rovere. Al che questi, tra una bestemmia e l’altra, aveva giurato su ogni cosa sacra al mondo, che non sarebbe morto prima d’aver interdetto, scomunicato e tagliato a pezzi tutti i sostenitori di Louis XII, laici e religiosi, a partire da quel traditore di Carvajal che s’era prestato a quell’indegna porcheria. Malgrado queste sfuriate, però, il Papa stava perdendo la sua fierezza ed arroganza, non essendosi atteso questa contromossa. Ed ecco, sommo miracolo, che il persecutore era venuto a chiedere consiglio al perseguitato: purtroppo per lui, stavolta Venezia aveva idee e soprattutto richieste ben chiare e sier Hironimo Donado non gli si presentava più supplice al suo cospetto, bensì in veste di negoziatore.

Abbandonando la finestra, sier Hironimo “dalle Rose” si risedette a tavola tra i suoi compatrioti lì presenti: domino Nicolò Lipomano q. sier Thomà, protonotario apostolico; domino Marco Corner di sier Zorzi ed infine il loro anfitrione, domino Domenego Grimani di sier Antonio. Approfittando dell’indisposizione del Papa Giulio II di vedere chicchessia, il cardinale Grimani aveva, tramite accorti messaggi, invitato i tre suoi ospiti ad “ammirare un manoscritto greco assai raro, miniato ad arte, di recente acquistato” nel suo elegante Palazzo di San Marco [1] dai marmi di travertino del Colosseo e del Teatro Marcello, costruito dal loro conterraneo Papa Paolo II quand’era ancora il cardinale Piero Barbo.

Inutile dire quanto nessuno avesse sospettato di un imbroglio: la fama del cardinale d’eccellente filosofo e teologo, di bibliofilo e mecenate s’equiparava a quella di fine politico, ed egli stesso amava raccogliere attorno a sé una piccola corte dei migliori talenti artistici ed intellettuali che transitavano a Roma, come ad esempio Erasmo da Rotterdam, suo graditissimo ospite per l’intero suo soggiorno romano. Sier Hironimo stesso aveva usufruito della sua ricca collezione di libri, manoscritti, breviari, codici, avendogli il Grimani procurato il De Anima d'Alessandro d'Afrodisia, che il “dalle Rose” aveva successivamente tradotto in latino, prima di cederlo al Poliziano. Naturale, quindi, che il cardinale avesse voluto invitare i suoi conterranei, onde ammirare l’ultimo suo acquisto.

L’intero Palazzo di San Marco trasudava del resto di quest’amore di domino Domenego per la cultura e per l’arte, in particolare per i pittori settentrionali, spiccando una robusta raccolta di dipinti di Hans Memling, Hieronymus Bosch ed Albrecht Dürer, ma era la sua biblioteca il suo vero motivo di vanto, arrivando perfino ad acquistare, nel 1498, la collezione intera di Pico della Mirandola. I suoi conterranei giocosamente lo sfottevano, asserendo come amasse più le donne miniate degli incunaboli che quelle in carne ed ossa. Il cardinale ridacchiava, rispondendo altrettanto mordace ch’era proprio così, poiché quelle sui libri si lasciavano sfogliare senza chieder nulla in cambio. Quando non sguinzagliava i suoi agenti in cerca di rarità d’aggiungere alla sua biblioteca, Domenego Grimani aveva inoltre incominciato sei anni addietro robuste opere di restaurazione ed abbellimenti al Palazzo di San Marco, oltre a comprare dei terreni presso il Quirinale dove aveva fatto costruire una magnifica villa privata, sede di feste e divertimenti atti a dimostrare la potenza della sua famiglia e soprattutto a creare utili amicizie per il futuro. Qui vi aveva soggiornato suo padre sier Antonio, libero finalmente d’abbandonare l’isola dalmata dov’era stato confinato dalla Signoria per aver perduto la battaglia di Zonchio del 1499; il cardinale l’aveva accolto senza discutere e a braccia aperte, invitandolo a pazientare e di vivere ritirato, finché alla Serenissima non fosse passata in via definitiva l’arrabbiatura.

A far compagnia al Grimani caduto in disgrazia, c’era stato il fratello di domino Nicolò Lipomano, sier Hironimo Lipomano, riuscito anch’egli dopo anni d’assenza forzosa (o esilio informale a seconda dei punti di vista) a rimpatriare a Venezia, grazie al cospicuo patrimonio lasciatogli dalla sorella Maria, deceduta senza eredi, e manna dal cielo onde ripulire e rilanciare il loro nome a seguito del disastroso fallimento del loro banco [2]. Vero che inserendosi tra le dinastie ecclesiali i fratelli Lipomano erano riusciti a navigare in acque tempestose, ma la nostalgia era stata troppa, specie per sier Hironimo Lipomano cui non garbava quella vita da vagabondo tra Roma e Bologna. Sier Hironimo “dalle Rose” aveva già conosciuto domino Nicolò ai tempi dei suoi studi universitari a Padova, in comune amicizia con il fu domino Sebastian Priuli e sier Marco Dandolo. [3]

Questi dunque erano i commensali ch’animavano quell’informale colazione, uomini lontani dalla madrepatria e di essa nostalgici, pur impiegando ogni loro energia e pensiero per la sua salute.

“Xéo stà on pecà la morte dell’ambasciatore portoghese”, esordì il giovane cardinale Marco Corner, giocherellando coi chicchi del suo melograno, prima di portarseli alla bocca. “Dopo il cardinale Argentino, abbiamo perduto non soltanto un valido alleato, ma anche un gran brav’uomo.”

Sier Hironimo Donado annuì, ricordandosi il fu oratore e di come gli fosse risultato simpatico già al loro primo incontro a Lisbona, anche se ormai si trattava di quasi venticinque anni addietro. 

“Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti e badiamo al futuro”, liquidò invece in fretta le condoglianze domino Domenego Grimani, focalizzandosi sulla spinosa sfida del presente. “Ciò che mi preme, in questo momento, è di sapere se Di la Roare abbia intenzione di vivere o di morire. Un giorno sembra migliorare, mangia persici e olive, sbevaza vino peggio d’un ubriaco in osteria e minaccia d’impiccare chiunque glielo impedisca. Il giorno dopo, però, eccolo in fin di vita, pronto a render l’anima a Missier Domeneddio.”

“Di sicuro la malattia del Papa crea molti disordini e rallenta el tutto”, asserì domino Nicolò Lipomano corrucciato. Inghiottì un sorso di malvasia. “Questa febbre è stata una maledizione per noialtri”, commentò.

“In effetti”, aggiunse sier Hironimo Donado, “anche il cardinale Flisco [4a] e il cardinal d’Ingaltera domino Christofal Bambrize [4b] risultano contagiati. Tuttavia, prima di buttarsi in letto, l’episcopo eboracense m’ha assicurato che il suo signore, il re Errico, v’era etiam. E come lui, anche l’oratore yspano, el segnor Vich [4c], conferma che don Ferrando viene di bone gambe.”

“Credete che ci possiamo fidare del Re Cattolico?”, inquisì Marco Corner.

Sier Hironimo Donado allargò le braccia. “Se non della sua persona, del suo odio giurato nei confronti del Roy di Franza e del suo timore che Maximian, con la scusa della guerra, s’avvicini troppo a re Ludovico, estraniandogli gradualmente il nipote, il Duca di Borgogna [5], ed erede delle corone di Castija ed Aragò. Sapete bene come, per raggiungere i suoi obiettivi, don Ferrando non si fermi davanti a niente: ha perfino dichiarato pazza sua figlia, la regina Zuanna, ed assassinato il di lei marito don Phelipo,  figlio dell’Imperatore.”

Il cardinale Corner arcuò scettico il sopracciglio. “Null’altro che una ciancia, sier Hironimo.”

“Co’ ghe xé na óse, (voce, ndr.) ghe xé na nóse (noce, ndr.), si suol dir”, gli ricordò ambiguo il protonotario Lipomano.

I commensali tacquero un istante all’arrivo del panunto con fichi e lattemelle; licenziati i servitori e congratulato l’anfitrione, sier Hironimo Donado proseguì il discorso di sier Nicolò:

“E la noce è che il Cattolico sta tirando verso il Royssilion ed ha preteso quattro castelli dal re di Navara per segurtà dei suoi confini. Il Roy de Franza dovrebbe fidarsi di don Ferrando come dell’assassino di sua madre. Ricordatevi del Trattato di Bloys: re Ludovico ha ceduto i suoi diritti su Napoli a sua nipote Zermana de Foys, maritata al Cattolico e ora regina d’Aragò. Tuttavia, il patto prevede che se la Reyna non dovesse generare eredi maschi, ogni rivendicazione della corona aragonese su Napoli cadrebbe in perpetuum, tornando indietro il Reame al Roy de Franza. Che io sappia, fino ad oggi, di figli maschi e vivi don Ferrando dalla sua siora mojer ancora non ne ha avuti”, espose l’oratore l’attuale rapporto politico tra re Fernando e re Louis, una corda tesissima di liuto pronta a spezzarsi alla prima incauta pizzicata. “Perciò mi sono preso la libertà d’esporre i miei dubbi al segnor Vich: se Veniexia avesse da cader, chi v’assicura ch’el roy de Franza nol punti  al Royssilion dopo Napoli? E perché non anche alla Cicilia, la quale non mi sembra distare tanto da Napoli? Come già se n’era discusso l’anno addietro, ho ricordato al segnor Vich che ho conosciuto di persona don Ferrando, di cui ne avevo apprezzato la prudenza e la saggezza, e di come fossi certo che anche lui avrebbe ritenuto pericoloso il favorire i disegni francesi di dominio, cedendo lo Stato da Tera all’Imperatore.”

 “E v’ha creduto?”                              

“Era bianco di paura.”

“Come il Papa”, dichiarò Domenego Grimani. “Malgrado le sue minacce, le sue bestemmie ed escandescenze, Di la Roare vive nel timore che a suo danno Franza e Impero affettino l’Italia con piron e cortelo. Ma più del Re dei Romani, cui basta lo Stato da Tera e danari per placare la sua fame, è il Roy de Franza colui che veramente ruba il sonno al Papa.”

“Il Papa, con la Lega, ha creato un mostro che non sa più gestire e che finirà per divorarlo”, puntualizzò sier Hironimo.

“Appunto su questa paura dobbiamo premere e attaccare, senza pietà, finché Julio non s’arrenderà all’evidenza d’essersi estraniato ai suoi previi alleati e, isolato, non gli resterà che ballare alla nostra musica!” e il cardinale Grimani batté sul tavolo ad ogni parola la punta dell’impugnatura del coltello, onde reiterare il concetto.

“Lasciatemi tentare. Con me il Papa s’è sempre dimostrato ben disposto.”

“E chissà perché, reverendissimo sior Marco, la cosa non ci sorprende.”

Il giovane Corner, intuendo l’allusione, arrossì violentemente.

“Il Papa in questo momento naviga nella confusione: più della capitolazione di Mirandola lo scorso gennaio, è stato il Concilio di Pisa indetto da Franza e Impero ad averlo veramente scardinato. Chi potrà mai credere alla sua autorità, quando gli stanno letteralmente togliendo il trono di Sen Piero da sotto le terga, per offrirlo ad un Antipapa?”

“Nessuno”, risposero domino Nicolò e sier Hironimo. 

“Giusto. Nessuno lo temerà, nessuno lo prenderà più sul serio e le sue terre diverranno preda golosa e Di La Roare potrà biasimar soltanto se stesso e la sua cupidigia – vae victis, e il perdente ingoia e tace”, sorrise obliquamente domino Domenego, colui che grazie alla sua pazienza di predatore aveva smussato un poco alla volta, giorno dopo giorno, l’ostilità antiveneziana nell’implacabile pontefice, finché questi non aveva revocato la scomunica alla Serenissima. Di più: a maggio egli aveva cantato la Messa di Pentecoste e niente gli stava impedendo d’imporsi tra i porporati più importanti dell’Urbe.

Dinanzi a tal obiettivo di vitale importanza, il cardinale Grimani e il cardinale Corner erano perfino giunti ad accantonare le rispettive divergenze ed antipatie, non essendosi, a livello personale, mai piaciuti. Domino Marco era d’altronde ricco, ambizioso e generalmente un bel giovane di ventinove anni, fattore da non sottovalutare alla corte edonista di Giulio II. Ma il cinquantenne domino Domenego possedeva maggior esperienza, amicizie e acume politico da sapersi giostrare alla meraviglia nell’insidiosa curia romana. Per amor della Serenissima, i due avevano deciso di lavorare in comune accordo come in mutuae, il Corner sfruttando la beltà del viso suo e la giovinezza tanto gradita al Papa e il Grimani l’acuta scaltrezza d’una vivace intelligenza.

Quanto all’ambasciatore, sier Hironimo necessitava d’ambedue i cardinali per la sua missione: che si beccassero pure peggio dei capponi, se la cosa li dava gusto, però solo alla fine del conflitto, non prima.

“Saria vera sta favoleta?”, fece sardonico il Donado “dalle Rose”, massaggiandosi all’altezza della vescica, là dove ultimamente lo coglievano alcune fitte moleste. “Crederà davvero che Franza e Impero, con l’ausilio dei loro lacchè, abbiano intenzione d’invadere le sue terre una volta spodestatolo?”

“Perché altrimenti scomodarsi ad indire un Concilio, consci del rischio di scomunica? Inoltre, don Alphonso d’Este ci ha fatto un grandissimo regalo, con quel suo maldestro complotto d’avvelenare il Papa. Praticamente, l’ha spinto dritto tra le nostre braccia ed ora in avanti, ciò che noi diremo a Di la Roare, sarà per lui tanto vero quanto il Vanzelo!”, ribatté il cardinal Grimani. E sogghignando: “Siete stato davvero scaltro, sier Hironimo, a suggerirgli di muovere guerra contro il Ducato.”

Il “dalle Rose” fece spallucce: “Gli ho soltanto fatto notare, che Frara apparteneva allo Stato della Chiesa e che l’unico motivo, per il quale il signor Duca faceva la voce grossa e rifiutava sottomissione ed obbedienza alla volontà papale, era perché puttaneggiava a turno con Francia e Spagna. Se poi il Papa ha voluto implementare le mie osservazioni, problemi suoi: anche nella sconfitta noi ci abbiamo comunque guadagnato. Infatti”, sottolineò, “l’attacco agli Estensi primo li ha fatto passare la sbornia di Polesella; secondo, ha sviato l’attenzione dei Collegati da Trevixo, dando alla città tempo e modo di continuare a fortificarsi.”

“Stando alle lettere di vostro fratello sier Andrea, i franco-imperiali stanno nuovamente puntando contro la città”, rimarcò domino Nicolò. “Proprio non demordono dal loro progetto d’assoggettare la Marca!”

“Sì”, ammise un poco preoccupato l’ambasciatore, ripensando ai dispacci del podestà, “ma la Trevixo di adesso non è più quella dell’anno scorso e la presenza di veterani come sier Zuam Paulo Gradenigo, Lorenzo Orsini e Vitello Vitelli hanno di molto tirato su il morale.”

“Anche ad Agnadello avevamo dei veterani a capitanare le nostre milizie”, gli ricordò il Lipomano. “E sappiamo tutti com’è finita.”

A quell’obiezione sier Hironimo non poté controbattere, limitandosi a piegare la bocca in una smorfia amarissima.

“Dobbiamo aver fede sentenziò fiducioso Marco Corner, interrompendo lo scoraggiato silenzio, “Trevixo ha sempre dimostrato d’esser all’occasione una fiera combattente e la sua gente è famosa per scegliere da sé la propria forma di governo, coerente fino alla morte nelle proprie decisioni. Non dimentichiamo, poi, della grandissima protezione di Nostra Donna a quella città, rimasta per due anni illibata da ogni saccheggio. La mia povera siora Amia Catharina – a chi Dio perdoni – per ben due volte è dovuta scappare da Asolo, di cui era signora. E Trevixo, che non dista molto, non è mai stata sfiorata dalle truppe nemiche. Non è umanamente possibile tanta fortuna.”

“La sconfitta dei Francesi e dei Tedeschi sotto le sue mura saranno la prova definitiva del favore di Dio e della Madonna alla nostra causa”, dichiarò grave il cardinal Grimani. “Tuttavia, dobbiamo anche noi dare il nostro contributo: gli eventi dell’anno scorso ci hanno ben indicato il modo in cui possiamo sconfiggere i Collegati”,  disse e scelse dalla cesta d’argento una particolare mela, la più grossa e dura in quanto ancora acerba e impossibile perciò da addentare.

A brigante, brigante mezzo e quanto dissetava la dolce vendetta; se Domenego Grimani non aveva ceduto alla disperazione o alla vergogna, neppure quando Giulio II l’aveva obbligato in concistoro assieme a Marco Corner d’ascoltare muti e in piedi la scomunica della Serenissima, egli facendosi tetragono aveva trovato la forza di reagire grazie al costante pensiero e affetto che nutriva per la Signoria: sto al mondo, aveva confessato al padre sier Antonio Grimani, per servirla ed onorarla.

“Il Papa deve annegare nella paura d’emulare i suoi predecessori avignonesi: solo così ci verrà veramente incontro! Non basta l’aver sciolto formalmente la Lega. Dobbiamo spezzarla in via definitiva!”, concluse il cardinale Domenego e i suoi ascoltatori annuirono solenni in muta approvazione, osservando attenti come il cardinale avesse preso a tagliare la mela in otto parti, il numero esatto dei fautori della Lega di Cambrai. Disposti in linea gli spicchi, una alla volta se li mangiò, finché quella mela, così difficile da mordere, non era svanita dal piatto nell’arco di quale istante.

Nicolò Lipomano si recò allora alla scrivania, abbozzando la prossima lettera al Senato.

In conclusion, l’orator gh’ha manchato de molti avisi e di le cosse de Ingaltera. Item, gh’è stà dal Papa et verba pontificis, qual non xé ben varito et fa desordeni, e l’orator yspano nui gh’ha dito, aver hauto letere di Spagna et mandato amplo di far la liga, e si ’l Papa stesse ben saria conclusa, et v’era etiam Ingaltera; tamen l’orator gh’ha zonto, il papa si acorderà con Franza. Item, fiorentini danno Pisa al concilio, il papa l’à ’uto molto a mal et dicunt, xé stà perlongà a chalende di novembrio dito concilio …

E mentre ancora il protonotario stava scrivendo, il segretario di sier Hironimo Donado bussò discretamente alla posta. “Zelenza. Domino Cajtan dei Conti di Thiene è appena giunto”, comunicò Lorenzo Trivixan sottovoce al suo superiore, che a sua volta scoccò un’occhiata significativa al cardinal Grimani. “Pulito. Conducilo qui. È solo?”

“Peggio d’un cane.”

“L’ha seguito qualcuno?”

“Nessuno, zelenza, ci siamo ben accertati di questo.”

Sier Hironimo espresse la sua soddisfazione, congedando il segretario che scese nell’atrio del Palazzo per far salire il nuovo arrivato.

“Domino Cajtan?”, reclinò il capo il protonotario Nicolò Lipomano, intrigato nel sentir nominato il proprio collega. “Siete riuscito a persuaderlo ad unirsi alla nostra causa?”, domandò leggermente incredulo, non appartenendo infatti il Thiene allo storico patriziato veneziano, la sua famiglia ammessa soltanto in seguito all’annessione di Vicenza alla Serenissima.

L’ambasciatore sier Hironimo negò, arricciando tuttavia furbescamente gli angoli della bocca. “L’ho convinto a porgere i suoi saluti ai reverendissimi domini Domenego e Marco, i quali, gli ho confidato, si sono dimostrati assai volonterosi d’aiutarlo a finanziare le sue opere di carità”, ed ignorando gli sbuffi sarcastici dei diretti interessati per una scusa sì debole, egli continuò: “Sì, sì, sembra banale ma corrisponde al vero: del resto, fonti attendibili mi hanno rivelato che i suoi benefici parrocchiali a Malo e a Bressanvido non gli rendono molto e come potrebbero con la guerra in corso, che ha devastato l’intero agro vicentino? Verrà dunque alla prospettiva di danaro e sarà lì che i reverendissimi cardinali termineranno la mia opera di persuasione. Alla fine, domino Cajtan rimane comunque un uomo di chiesa e ben può schermarsi dietro la religione per rifiutarci il suo aiuto. Voialtri, reverendissimi” ed indicò Grimani e Corner, “siete i soli qui che possono parlargli alla pari.”

I due porporati si scambiarono un’occhiata connivente, gradendo assai il piano del “dalle Rose”.

Lorenzo Trivixan ricomparve poco dopo, camminandogli appresso il protonotario apostolico il quale, dopo le introduzioni ufficiali, s’inginocchiò dinanzi al cardinale Grimani prima e poi al Corner, baciandoli l’anello. 

Cajtan da Thiene era giunto neppure quattro anni addietro a Roma, soggiornando nel palazzo poco distante dalla chiesa di San Simeone ai Coronari ch’apparteneva a domino Giovanni Battista Pallavicino vescovo di Cavaillon, suo esatto coetaneo e nipote del fu cardinale domino Antonio Pallavicino Gentile. Di trentun anni, dalle belle maniere e di pronta intelligenza, Cajtan aveva da ragazzo conseguito a Padova la laurea in utroque iure, scegliendo in seguito contro il parere di sua madre domina Maria da Porto la via del sacerdozio, avendo infatti perduto il giovane, oltre a suo padre il conte Gaspare da Thiene, anche due fratelli e la contessa vedova temeva di conseguenza l’estinzione del ramo diretto del casato. Né le lacrime né le giuste obiezioni materne avevano smosso la determinazione del figlio, il quale aveva ugualmente ricevuto la tonsura dal vescovo di Vicenza domino Piero Dandolo e anzi, a prova della serietà della sua vocazione, a sue spese aveva promosso l’edificazione della chiesa di Santa Maria Maddalena nella tenuta comitale di Rampazzo.

Spinto però dall’energica sete d’esperienze tipiche della gioventù, il Thiene s’era trasferito a Roma e dal Papa Giulio II aveva ottenuto l'incarico di scrittore delle lettere apostoliche, entrando a far parte della sua cerchia personale. Il pontefice, compiaciuto dalla serietà e dedizione del giovane, lo aveva inoltre beneficiato delle chiese di Santa Maria di Malo e di Santa Maria di Bressanvido e a livello personale sempre l’aveva lodato e stimato, appellandolo in pubblico spesso “figlio diletto” e “nostro familiare”. Ed in effetti, aveva appurato sier Hironimo Donado, v’era qualcosa di estremamente limpido nel volto di Cajtan, una freschezza non ancora deturpata dal cinismo ed arrivismo ch’infettava l’animo di ogni componente della Curia Romana. Un giovane di buona volontà, seriamente convinto della propria missione religiosa e determinato nei suoi obiettivi, ma pronto tuttavia a conseguirli onestamente, senza inganni.

Un infiltrato perfetto -  aveva concluso l’ambasciatore, iniziando pian pianino ad avvicinarlo e lavorarselo - l’ultima persona di cui Giulio II avrebbe mai sospettato.

“Carissimo”, pose una mano domino Domenego sul capo del Thiene a mo’ di benedizione. “La vostra visita ci rallegra immensamente. Prego, sedetevi. Avete già colazionato?”

“Vi ringrazio”, prese posto Cajtan da Thiene, sorridendogli, “non necessito di nulla.”

“Suvvia, permettetemi d’adempiere ai miei doveri di padrone di casa. Volete forse ledere la mia reputazione?”, lo rimbrottò giocosamente il Grimani, al che il chierico cedette, richiedendo soltanto un bicchier d’acqua. “No, no. Almeno un biscotto. Li riconoscete?”, inquisì l’uomo, mentre gli porgeva il vassoio d’argento e non gli sfuggì il luccichio nostalgico negli occhi del Thiene, alla vista di quei dolci tipici della sua madrepatria.

“Ancora grazie”, si servì titubante Cajtan di un biscotto, rigirandolo un poco imbarazzato tra le dita. Onde metterlo a suo agio, il porporato offrì il vassoio a domino Marco, che si servì e poi lo passò a domino Nicolò e questi a sier Hironimo, il quale lo cedette per ultimo al suo segretario.

“Non è di vostro gradimento?”, s’informò sornione il cardinal Domenego, notando l’esitazione del vicentino a mordere il biscotto, ch’aveva anzi timidamente appoggiato sul tavolo, mentre gli altri commensali o l’avevano già finito o erano in pieno processo di degustazione. E dinanzi all’espressione colpevole del Thiene, sospirò: “Già. Vedo che vi siete ben abituato agli usi e costumi di questa città. Anche il reverendissimo cardinal domino Zuanne Michiel – a chi Dio perdoni! – m’aveva spiegato, vent’anni fa al mio arrivo da Venezia, quanto l’ospitalità romana potesse rivelarsi agli incauti piuttosto … velenosa”, lasciò ad intendere, spezzando a metà il suo biscotto come l’Ostia benedetta. Ne addentò enfaticamente un pezzo, cedendo il secondo al protonotario apostolico, che stavolta accettò docile. “Eppure voi ben sapete, domino Cajtan, come non sia nostra usanza uccidere di nascosto sia i nemici sia i traditori. Lo facciamo alla luce del sole, anche se ciò significa suscitare l’altrui sdegno.”

Dinanzi a quel velato rimbrotto, il Thiene arrossì, sbatté le palpebre, prese un piccolo morso del dolce a mo’ di scusa, s’impappinò nel tentativo di giustificarsi. “Io … mi dispiace, non è che dubitassi … Io … ecco … in questi giorni sto offrendo i miei digiuni e le mie preghiere a Missier Domeneddio e alla Madonna, in suffragio delle anime dei miei conterranei, vittime di questa guerra …”, mormorò a disagio, masticando un altro pezzettino di biscotto.

“Ciò vi rende onore”, asserì ieratico domino Domenego, socchiudendo un poco gli occhi. “Pregate. Pregate con fervore per quegli infelici. Pregate per i morti quanto per i vivi, domino Cajtan. Pregate per quegli uomini trucidati per la loro lealtà a San Marco; pregate per quelle donne vergognate, indifferentemente dall’età e dalla condizione, esibite a seni nudi alle lerce voglie del nemico. Pregate per i neonati infilzati nelle loro culle, pregate per i bambini torturati ed uccisi o deportati come schiavi in Alemagna. Pregate, domino Cajtan, pregate per quei piccini morti senza battesimo, soffocati nel sangue del grembo materno violato dal ferro e dalla foia del vincitore, piccole anime innocenti destinate al Limbo eterno, che mai contempleranno la gloria di Cristo! Pregate per coloro cui è stata negata una sepoltura da cristiani, gettati in pasto ai cani! Pregate, sì, pregate per questa Rachele che piange i propri figli e che non vuol esser consolata, poiché essi non sono più!”, elencò impietoso l’uomo le crudeltà perpetuate dai Collegati ai danni della popolazione veneta negli ultimi due anni ed appresa dalle missive degli ambasciatori.

Ad ogni atrocità, le spalle di Cajtan s’abbassavano ed egli stesso sussultava, neanche equivalesse ad una frustata alla schiena. Deglutì a fatica, sbattendo le ciglia già inumiditesi di lacrime. “Che altro volete ch’io faccia?”, domandò infine dopo un lungo silenzio, fissando il porporato in un misto tra rassegnato e speranzoso, avendo infatti colto la velata critica in quel discorso. “Non sono un uomo d’arme, altro modo non ho per sostenere la mia gente se non tramite la preghiera …”

“E le opere di carità?”, s’inserì nel discorso Marco Corner. “E’ cosa notanda di come voi usiate i benefici parrocchiali e aspettative per finanziare opere di carità in soccorso dei derelitti, ammalati e convertite qui a Roma …”

“An, riguardo a quello …”

“Di questo appunto vi volevamo parlare. Di danaro e della sua gestione”, interruppe il cardinale Grimani la spiegazione di Cajtan. “Noi siamo più che disponibili a contribuire in pie donazioni, però al contempo vogliamo garanzie di buon uso. Altrimenti, sterco del diavolo rimane.”

Il chierico vicentino fissò interdetto i due porporati e le loro espressioni severe; dopodiché spostò lo sguardo verso gli altri astanti, avvertendo una sgradevole sensazione nelle viscere, parendogli quasi di trovarsi dinanzi ad un tribunale. “Non capisco …”, asserì lentamente. “Dove … dove sarebbe il male nelle mie opere? Si tratta comunque di persone che necessitano d’aiuto …”

“E la vostra gente no?”, obiettò secco il Corner. “Le vostre entrate provengono da parrocchie vicentine, domino Cajtan. Le quali sono al momento occupate da truppe straniere, così come i vostri parrocchiani sono continuamente perseguitati, torturati, uccisi, vergognati! Il denaro che voi usate per rimpinguare questi parassiti romani è macchiato del loro sangue!”

“Nostro Signore ci ha comandato di soccorrere il nostro prossimo, senza badare alla sua nazione e bandiera … Egli si trova in chiunque abbia bisogno d’aiuto”, difese testardo il Thiene le sue posizioni, sebbene sier Hironimo avesse afferrato un leggero nervosismo in lui, dal modo in cui tamburellava le dita sullo sgabello.

Era inquieto, agitato dalle parole dei due cardinali, i quali gli stavano offrendo una prospettiva che il trentunenne o ignorava o di cui non s’era curato finora d’apprendere.

“E il vostro prossimo”, inquisì l’ambasciatore, “non è anche la vostra gente, domino Cajtan? Come potete dormire tranquillo la notte, sapendo che mentre i vostri conterranei soffrono e muoiono, voi sanate e sfamate proprio coloro che hanno voluto la loro rovina?”

“Si tratta soltanto di derelitti ed ammalati …”

“… che potrebbero un giorno arruolarsi nell’esercito”, concluse per lui la frase sier Hironimo. “Sicché ogni uomo ucciso, ogni donna sforzata e ogni puto degolato o rapito peserà sulla vostra coscienza. Perché in Italia, la riconoscenza ha la memoria corta. Credete forse che coloro che avete beneficiato, mostreranno altrettanta clemenza nei confronti della vostra gente? Neanche si ricorderanno del vostro nome, nella frenesia del saccheggio.”

Al che, spazientito e col groppo in gola, il protonotario vicentino balzò in piedi. “Per questo motivo sono stato qui invitato? Per ricevere rimproveri sul mio operato?”

“Al contrario”, replicò placido il cardinal Domenego. “Noi v’ammiriamo per la vostra dedizione. Soltanto … che la troviamo implementata nella direzione sbagliata.”

“Mi state suggerendo di rimpatriare a Vicenza?”

“Non oseremmo chiedervi tale sacrificio, mettendo inutilmente a repentaglio la vostra vita”, l’assicurò su quel punto Grimani. “Tuttavia, pur restando qui a Roma, lo stesso voi potrete aiutare i vostri conterranei.”

“E non solo con preghiere”, puntualizzò Marco Corner. “Ma con opere concrete.”

Cajtan si risedette, ascoltando attento e un poco apprensivo dinanzi a tanta apparente vaghezza.

“Sua Celsitudine vi stima moltissimo”, esordì cauto il cardinal Domenego, “al punto d’avervi incluso nella sua famiglia” e lo guardò significativamente.

“Apprezza il mio lavoro, sì”, confermò il Thiene, confuso.

“Non mettiamo in dubbio, che vi siate guadagnato onestamente la sua fiducia”, chiarì subito il Corner, fugando ogni allusione a doppio senso. “E la sua grande e disinteressata considerazione nei vostri confronti, non è un privilegio da poco qui a Roma.”

“Immagino di sì”, mormorò Cajtan, irrigidendosi poiché incominciava a capire dove i porporati e gli altri suoi conterranei lo stavano pian pianino conducendo.

“In questi momenti d’incertezza sulla sua salute e sulla stessa stabilità del suo potere, Sua Celsitudine non desidera ricevere nessuno, tranne i suoi familiari e di chi si fida ciecamente”, proseguì il Grimani. “Voi incluso.”

“Gli scrivo soltanto le lettere”, si schermì il Thiene. “Non … non siamo in confidenza.”

“Davvero?”, gli domandò sornione il cardinal Domenego. “Mentire è peccato, figliolo.”

“A voi o al Papa?”, ribatté Cajtan, stringendo la bocca in una linea dura. “A chi dovrei mentire?”

“A nessuno”, fece lo gnorri domino Marco.

Il protonotario batté snervato il pugno sulla coscia. “Voi mi state chiedendo di divenire la vostra … la vostra spia”, verbalizzò alla fine i suoi sospetti, ponendo fine a quello stillicidio e obbligando così i presenti a scoprire una volta per tutte le proprie carte e a parlare a viso aperto. “Mi state chiedendo di sfruttare la benevolenza del Papa, per i vostri scopi!”, li accusò sdegnato.

“E se ciò fosse?”, ritorse altrettanto aggressivo domino Nicolò Lipomano. “Vogliamo la salvezza della nostra patria, lo giudicate forse un crimine?”

“Voi avete guadagnato molta più reputazione di me presso Sua Celsitudine!”, rimarcò Cajtan. “Io … io non valgo nulla a confronto! Non sono un politico, in che modo potrei manipolare uno come … come il Papa?”, sbottò esasperato.

“Voi ci riferirete ogni parola del pontefice e voi gli riferirete ogni nostra parola”, gli semplificò la questione l’ambasciatore sier Hironimo. 

“Se n’accorgerà, figurarsi! Mica è nato ieri!”

“Avete studiato giurisprudenza, domino Cajtan, rigirare le parole a vostra convenienza non dovrebbe risultarvi complicato”, non si lasciò commuovere il Donado.

“Avete ricevuto la tonsura, è vero, e dovete lealtà a Cristo e alla Sua Santa Chiesa”, gli concesse più benevolo il cardinal Corner. “Ma siete anche veneto e dovete lealtà alla madre che vi ha generato. Ora questa madre è violentata, umiliata, saccheggiata e le persone che vi hanno nutrito ed allevato disperse, angariate, uccise. Volete voi prolungare il loro martirio? Chi state servendo in realtà? È il vostro orgoglio che vi impedisce di aiutare la vostra madrepatria? O la vostra ambizione?”

“No!”, negò veemente Cajtan, scotendo il capo. “Non è questo! È che mi pare disonesto ripagare la fiducia concessami dal Papa, tramando alle sue spalle! È pur sempre il vicario di Cristo e …”

“… e bestemmia, sodomizza e va di persona alla guerra. In quale aspetto è più santo degli altri cristiani?”

Il Thiene aprì la bocca e boccheggiò qualcosa alla stregua d’un pesce fuor d’acqua, incapace di giustificare l’atteggiamento poco consono di Giulio II alla carica ricoperta. “Il suo essere un peccatore non condona il mio abbassarsi al suo livello”, sentenziò infine. “Soltanto perché lui pecca, non significa che debba farlo anch’io.”

“An, così soccorrere la vostra madrepatria equivale a peccare? Ignoravo questa novità”, asserì implacabile il cardinal Grimani, la fronte aggrottata e un’espressione arcigna in volto, che non suscitava molte speranze di clemenza da parte sua. “Non soltanto si pecca in parole e opere, domino Cajtan, ma anche in omissioni. E voi, ch’avete la possibilità d’aiutarci a vincere questa guerra, vi rifiutate di prender partito e di dare il vostro contributo!”

“Avete preso i voti per vivere senza infamia e senza lode?”, infierì Marco Corner.

“O forse la vostra decisione già l’avete presa e dobbiamo considerarvi nostro nemico?”, insinuò malevolo sier Hironimo.

“No! No, non vi sono nemico!”, protestò scioccato il Thiene. “Non ho mai rinnegato le mie origini!”

“Lo state facendo ora!”, appurò al contrario domino Nicolò Lipomano. “Come tutti i codardi traditori, ora che Veniexia è morente, voi le voltate le spalle!”

“Ma io … non è vero! Non … è che non posso e non voglio né mentire né congiurare, io … io non ho preso i voti per interessi personali o … o per perseguire il male, io …”

“Voi siete figlio d’un conte”, gli ricordò sier Hironimo, “e se proprio non ve ne cale un fico secco della Repubblica e dei suoi cittadini, almanco degli abitanti delle vostre terre dovrebbe importarvene! Dei loro paesi messi a ferro a fuoco! Dei fiumi tinti del loro sangue! Delle stragi, delle morti perpetuate dal furore gallico e teutonico, che non conosce pietà e che giorno dopo giorno si abbatte su povera gente inerme! E invece no, per amor della vostra presunta correttezza anche loro avete abbandonato! E per che cosa? Per chi? Degli accattoni romani, bravi solo a mangiare a sbafo e a grattarsi la panza, senza curarsi di lavorare per vivere? Per un vecchio porco che palpeggia i ragazzini? Per un bordello chiamata Basilica di Sen Piero? Per una cloaca fetente appellata Roma?”

“Conobbi bene vostro padre, il conte Gaspare”, scosse il capo deluso domino Domenego. “Un valent’uomo devoto alla Signoria, pronto al sacrificio per i suoi. A vedere la vostra pavidità si vergognerebbe al punto da maledirvi: costui non è un Thiene, non è figlio di conti veneti: costui del Papa e di Roma è lo schiavo!”, e gli puntò l’indice contro, le sue parole più affilate e dure di una spada di Toledo, che penetrarono nel cuore del chierico vicentino, ammutolendolo.

Alla menzione del padre, la cui venerata memoria Cajtan serbava in cuore, avendolo perduto appena dodicenne e pertanto amandolo al pari d’un beato, egli si sentì morire al solo pensiero che il fu conte Gaspare da Thiene potesse biasimarlo e disconoscerlo dall’oltretomba. L’uomo s’accasciò su se stesso, il capo chino, dilaniato dall’amore cristiano che significava anche pregare per il nemico e la mai sopita fierezza d’appartenere alla Serenissima. Si era sempre considerato troppo insignificante per poter cambiare le sorti della madrepatria, o forse aveva intimamente sperato di non rimanerne coinvolto? Dopotutto, per amor di Cristo aveva rinunciato al mondo, ma esso ora lo chiamava a gran voce, le ombre degli estinti suoi conterranei gridavano giustizia e protezione verso i loro cari sopravvissuti alle angherie dello straniero. Che fare? Zittirle? Rimanere neutrale? Compromettersi per un bene superiore? Davvero tutto sulla terra era vanità? Oppure v’erano dei principi eterni e incontestabili?

“Figlio mio”, gli pose il cardinal Grimani una mano sulla spalla, provocando un lieve sobbalzo nel Thiene, non essendosi reso conto di come il porporato si fosse nel frattanto alzato. “La nostra gente non sta morendo per la fede, per mano d’infedeli a testimonianza del Verbo incarnato. Muore per mano di vili peccatori, per la loro invidia e cupidigia. Preservare i nostri compatrioti dalla morte non macchierà la vostra anima, semmai l’esalterà per la pena che tale scelta le ha inflitto.”

“Avete ragione: tanta doppiezza già per me corrisponde ad uno strazio.”

“Equivalga dunque esso alla vostra penitenza. Non temete, fio mio: Dio capirà il vostro sacrificio e vi perdonerà.”

“Prego sia così, reverendissimo domino, prego ardentemente sia così”, si coprì Cajtan il volto tra le mani, arrendendosi però alle richieste dei suoi conterranei.

 

 

***

 

 

A seguito della visita del cerusico, Leka Busicchio e Zilio Madalo si davano il turno, pur con discrezione, di controllare con maggior frequenza le condizioni di salute del loro capitano e siccome quest’ultimo non poteva protestare, contro i suoi illogici ordini il collega aveva imposto almeno allo scudiero di portare seco la branda e di vegliare in tenda Mercurio, sicché Hironimo e Thomà si videro costretti a rimandare a tempi più tranquilli ogni loro tentativo di liberarsi dai ceppi.

“Sdrissa chea man! No te sè drio arar el campo, ti!”

“A me fan male le dita, patron!”

“Made!”

Pertanto, impossibilitati a dormire a causa di quel costante andirivieni, nonché dai mugugni di Mercurio Bua – oltre che ad agitarsi, adesso pure parlava nel sonno -  i due prigionieri avevano deciso d’impiegare il tempo come potevano e al giovane Miani era balzata in mente l’idea d’insegnare a leggere e a scrivere a Thomà, così da distrarlo dallo stomaco gorgogliante. Il terreno fangoso sotto le stuoie bombe d’acqua si presentava ideale, essendo il limo penetrato ormai ovunque e restituendo anche qualche bastoncino e foglia, credutisi seppelliti dopo averlo battuto per erigervi sopra la tenda. Che importava se sporcavano o, scostando le stuoie decisamente consunte, facevano pervenire l’umidità? Al primo cenno d’attività esterna o interna, si copriva tutto in fretta e furia e d’altronde il padiglione intero, imbevuto da mesi e mesi di pioggia, puzzava di terra e acqua rafferma. La paglia stessa su cui i due prigionieri sedevano, non avendola ancora nessuno cambiata, si presentava anch’essa bagnata, maleodorante e lercia, come incrostate apparivano le loro gambe nude e l’orlo mai asciutto delle rispettive camice.

Così, trascritte le lettere dell’alfabeto, Hironimo aveva ceduto la penna improvvisata al fantolino che malgrado le ore e ore di pratica, ancora s’ostinava d’impugnare il bastoncino dritto nel pugno, invece di inclinarlo limitandosi ad usare le prime tre dita. E mica ci credeva il patrizio trattarsi di stanchezza, anche quando Thomà scrollava la mano con fare tragico, bensì di vera e propria pigrizia da parte sua ché appena rimbeccato, infatti, subito il piccino correggeva la postura e scriveva da cristiano.

“Hai finito di scrivere il tuo nome?”

“Siorsì”, annunciò fiero il bambino e, puntando il dito sporco su cadauna lettera, lesse con esasperante lentezza: “TO-MM-A DI VIET-OR MA-RAN-CON.” Si girò verso Hironimo in speranzosa attesa.

Scorrendo la punta del bastoncino sulla grafia sgangheratissima, il giovane gli indicò laddove il fantolino aveva toppato. “Uhm, allora, qui ci andrebbe la h”, sottolineò, “e l’accento sopra la a. Così. Poi tu dici di chiamarti Thomà, quindi ci va una m de manco. Riscrivi sotto … No! Non cancellare, altrimenti non ti ricordi!” Un fugace sorriso gli illuminò il volto stanco, ripensando alle sue prime scaramucce con la scrittura nonché alle ben più severe punizioni del suo magister, quando messo dinanzi ad errori sì grossolani.

Piegandosi quasi a metà, Thomà riscrisse il suo nome, mormorandolo a mezza voce durante il processo, come se se lo stesse dettando.

“Il nome del tuo sior Pare?”, continuò Hironimo.

“Gera Vetor, chome l’on dil do sancti patroni de Feltre! [6] Anca el sior Pare d’Andrea Trepin se ciamava Vitor!”

“E tu come l’hai scritto?”

Thomà arricciò il naso, leggendo parecchie volte a fior di labbra lo scarabocchio sul fango. Quand’ecco, l’illuminazione. “Oh, la perdonança, patron! Sença la i !”, esclamò, mettendosi subito a correggere. Volendo strafare onde dimostrare la sua diligenza, anticipò Hironimo soggiungendo: “E la g - chea durra -  al posto di la c, m-a-r-a-n-g-o-n!”

Il patrizio annuì compiaciuto. “Ultima cosa: non va bene il di bensì devi usare il quondam riferito a Vetor”, e pronunciò con molto tatto quella parola, specie dopo aver conosciuto l’orrida fine del padre di Thomà e della sua famiglia.

“Che vorave dir cuo-n-diam?”, si grattò invece la testa il fantolino, confuso.

Quondam significa fo” - ché el sior tòo pare nol xélo pì in vida, avrebbe voluto Hironimo aggiungere, ma per delicatezza tacque.

“Che lengua xelà, patron?”

“Latino. Come fai a non riconoscerla? Quando preghi, non reciti Pater Noster e Ave Maria? Ecco, quello è il latino. Varda, così compare il tuo nome negli atti ufficiali: Thomas q. Victoris fabri filius”, scrisse, la differenza di grafia un pugno nell’occhio, lasciando a bocca aperta il fantolino che, affascinato, la calcò con l’unghia sporca e azzardò di leggerla, meditando sul suono bizzarro prodotto, così diverso dalla lingua che parlava quotidianamente.

Poi riprendendosi dal suo stupore: “La siora mea Nona, no me gh’ha mai insegnà el latin, manco per orar. Depo’ perché mi gh’ho da orar en ‘na lengua, che mi nol capisso ni cognosso se no a memoria? A me par falso. Mi a la Madona ghe parlo pulito en veneto de Feltre, perché aliter mi no sapria dirgheLe le cosse che vojo.”

“Lei già conosce ciò di cui hai bisogno, prima ancora che glielo domandi. Come disse Dante: La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre …”, quand’ecco un brivido, mentre recitava quel verso, gli attraversò l’intera lunghezza della schiena, risalendo fino alla radice dei capelli e inspiegabilmente Hironimo si sentì bruciare gli occhi, quasi gli fosse sorto in petto una gran voglia di piangere.

Bizzarro, bizzarro invero che dopo quindici anni di totale aridità e disinteresse spirituale, proprio ora quelle poche letture di tema religioso gli stessero riaffiorando alla mente, turbandolo e punzecchiandolo come il puttino col cadavere di una medusa arenatasi sulla spiaggia.

“Patron?”

Hironimo sbatté le palpebre, arrossendo lievemente per quell’attimo di debolezza. “Dime.”

“Ma ‘sto Dante, l’gera amigo vuostro? Lo gh’avé senpre en bocha.”

Le labbra del giovane Miani si piegarono in una buffa smorfia e Thomà, vendendolo allungare il braccio e paventando l’ennesimo scappellotto, prontamente serrò gli occhi e si preparò all’impatto, sennonché la mano viaggiò oltre la nuca, cingendogli le spalle e trascinandolo contro il petto del più anziano. “Co’ te impari a menadèo l’abezedé  mi te parlarò di Dante.”

Thomà gli mostrò la fila di denti, entusiasta all’idea di conoscere l’amico del suo patron, anche se capiva soltanto la metà delle sue citazioni. Un foresto, sicuramente. S’apprestò quindi a far promettere ad Hironimo, quand’ecco che lo scudiero di Mercurio si pose in piedi, avvertendo l’appropinquarsi di passi al padiglione. Velocemente, i due prigionieri risistemarono la stuoia, nascondendo il tutto ché gli stradioti non misinterpretassero, credendolo un piano di fuga o diosacché di losco.

“Come sta, Niko?”, s’informò subito Leka Busicchio. “S’è agitato molto?”

Lo scudiero annuì. “Solo verso le prime luci dell’alba ha smesso sia di rigirarsi simil diavol nell’acqua santa, sia di parlare nel sonno.”

Leka osservò a lungo la pelle tirata e cinerea del suo collega, le ciglia appoggiate su profonde occhiaie. “E quei due?”, indicò col capo Hironimo e Thomà, divenuti più inespressivi di statue di pietra.

“Immobili al loro posto, sebbene …”

“Cosa?”

“Forse mi sbaglio, però li ho sentiti confabulare ogniqualvolta voi e Zilio uscivate dalla tenda.”

“E tu non sei mai andato a controllare?”, soffiò pericoloso Leka, fissando in cagnesco lo scudiero e torreggiandolo minacciosamente.

“Mi avevate ordinato di vegliare sul capitano ed io questo ho fatto”, si difese il ragazzo, sudando freddo. “Eppoi, dove volete che fuggano, specie il nobiluomo ch’è legato al polso del capitano!”

Busicchio schioccò la lingua pieno di disprezzo, portandosi davanti a Miani, che ricambiò lo sguardo diffidente di lui con un vezzoso reclinare del capo.

“Così ti piace chiacchierare di notte, al posto di dormire, eh?”, esordì il capitano con velenosa ironia. “Di’ un po’, perché non ci rendi partecipi?”

“Ah, ed io anche te le riferisco?”, gli rispose invece Hironimo con magnanima sufficienza. “Ignoravo voi stradioti foste delle tali pettegole!”

Leka grugnì beffardo, accucciandosi all’altezza del patrizio e, fissandolo dritto negli occhi, sibilò: “Al tuo posto, non mi darei tante arie né tirerei la corda, atteggiandomi dal re degli smargiassi. Tu non sei che un ostaggio, anzi, il più inutile degli ostaggi poiché dopo quattordici giorni, ancora nessuna proposta di riscatto né di scambio. Coi due capitani bellunesi, al contrario, abbiamo incassato in neanche due giorni. Silenzio totale dalla Signoria tua. Forse, ai suoi occhi non vali quanto credi. O forse, ha la memoria corta. Magari”, e lentamente estrasse dalla fodera il pugnale, “magari se le spedissimo un tuo dito o un orecchio, forse gliela rinfrescheremmo …”, sogghignò ed Hironimo, pur con la lama a qualche pollice dalla guancia, ricambiò mostrandogli ferino i denti, deciso a non lasciarsi intimidire pur terrorizzato all’idea di quella barbara mutilazione.

“Tagliagli anche un solo capello e alla Signoria spedisco la tua, di testa.”

Hironimo avvertì sopra la sua spalla il gelo di una spada rivolta contro Busicchio che, rialzandosi, optò per rinfoderare il pugnale. “Non ti scaldare, Maurikos, stavo scherzando”, si giustificò ridacchiando. “Noto con piacere come la febbre non t’abbia privato della sua solita prudenza di dormire armato …”

Stringendo l’elsa e digrignando i denti, il greco-albanese berciò al collega: “Ancora malakas non l’ho scritto sulla fronte. Costui”, e il patrizio avvertì il pizzicore della lama sul collo, “sa bene quale ben triste fine l’attende, in caso volesse fregarmi.”

“D’accordo. Tuttavia, dormirei sonni più tranquilli se tu richiamassi in tenda almeno i tuoi famigli”, negoziò Leka. “E non dico perché dubiti della tua capacità di difenderti da questo qua, bensì per la febbre la quale … la quale ne sta falciando perfino ora che stiamo parlando”, sospirò, passandosi una mano sulla fronte. “Negli ultimi giorni non si fa che seppellire morti, ché o si crepa di febbre o impiccati per aver tentato di attraversare la Piave. Si viene alle mani per un tozzo di pane … In ogni modo, il cerusico è stato chiaro: dobbiamo controllare che …”

“Conosco bene, ciò che state aspettando ch’appaia sul mio corpo. San Giorgio sia laudato, tuttora la morte mi schifa”, grugnì affaticato il condottiero, riponendo via l’arma e puntellandosi sui gomiti, intanto che lo scudiero gli sistemava i cuscini dietro la schiena. “Peccato che non ci siano più le epidemie di una volta, m’avrebbe giovato assai gettar terra sopra a qualcheduno dei nostro colleghi comandanti”, mormorò spassionatamente, lanciando un’occhiata significativa a Busicchio. “Quali nuove del maresciallo? Arrivano o no, questi tanto favoleggiati cannoni ferraresi o ci hanno promesso l’araba fenice?”

Lo stradiota prese posto accanto a lui, totalmente dimentico della sua questione con Hironimo. “La Palice dovrebbe giungere o oggi o domani. O anche dopodomani, chissà”, bisbigliò sottovoce. “Purtroppo, stando ad un suo emissario, il fango ha rallentato di molto lo spostamento dell’artiglierie ed i fiumi sono così ingrossati, da impossibilitarne l’attraversamento. Anzi, a Liziera presso Cittadella ne hanno perso uno, cascato come un pero giù in acqua.”

Mercurio mordicchiò pensoso l’unghia del pollice. “Dunque ripiegherà su Bassano e tenterà di passare per il suo ponte”, concluse.

“Sarebbe la scelta più saggia.”

“Saggia? Non ne possiede altre”, contraddisse Mercurio il suo collega. “Cittadella si trova nel raggio d’azione di Padova ergo del provveditore Federico Contarini e delle sue bande. Se La Palice è lì impantanato e non riesce ad attraversare il fiume, per forza dovrà dirigersi a Bassano ch’è più lontana e in apparenza più sicura. Nondimeno, ci scommetto i miei speroni d’oro che i Veneziani qualcosa lì combineranno pur d’intralciarlo. Un dirottamento troppo ovvio da passare inosservato. ”

Leka allargò fatalista le braccia, sconfitto dall’inconfutabile logica del conterraneo.

“Piuttosto, non hai qualcosa di meglio per colazione? Se non la febbre m’ammazza questo pane schifoso, talmente nero che pare l’abbiano bruciato!”, si lagnò Mercurio, cui i giorni di digiuno forzato avevano stimolato un certo appetito.

“Questo passa al convento; da Noale e da Castelfranco arriva sempre meno farina macinata e i saccomanni, colpa lo zelo dei nostri parenti marcheschi, non osano addentrarsi troppo nella Marca, temendo di finire loro prigionieri. Abbiamo inviato una richiesta d’approvvigionamenti sia a Giovanni Gonzaga che ai Conti di Collalto, solo quest’ultimi ci hanno inviato quanto necessario.”

“Tzé, il nostro pane se lo sarà sicuramente mangiato tutto quella grassa giovenca della Marchesana di Mantova”,commentò sardonico Mercurio, annusando accigliato la pagnotta. “Ora come ora, mi domando chi sia veramente l’assediato, qui, se noi o i Veneziani.”

“Quando rientrerà La Palice, questo stallo si sbloccherà di certo. Jean d’Aubigny s’è definitivamente installato a Cividal di Belluno: come avevi previsto, quei furbi di bellunesi hanno dichiarato neutralità e pertanto evitato di pagare il riscatto di 4000 ducati!”

“Maggior ragione per i Tedeschi per disertare in massa verso il Friuli.”

Leka incrociò le braccia al petto. “In tutta onestà, avrebbe senso: è strategico  - pensa soltanto a Gradisca! - e n’avremo in abbondanza per l’inverno. Perché non attaccarlo? E’ indifeso ora, fiaccato dalla rivolta popolare, dal terremoto e dalla pestilenza. In questo modo apriremo un altro fronte per i Veneziani, indebolendoli ulteriormente.”

“Ah beh”, soffiò il Bua, abbandonando disgustato ogni tentativo d’addentare quel pane poco allettante. “Già piango i Tedeschi che invaderanno le terre di Girolamo Savorgnan del Monte e di suo cugino Antonio Savorgnan.”

“E chi soni costoro?”

Il condottiero piegò la bocca in una smorfia complice. “L’incubo di Massimiliano.”

Una nobile famiglia friulana di frontiera, guerriera e ostinata. Mercurio aveva conosciuto personalmente Jacopo Savorgnan a Fornovo, Novara e San Regolo (un diavolo a cavallo!) e non dubitava dei racconti di come Hironimo Savorgnan suo parente avesse fermato con un contingente di cernide [7] l’avanzata delle truppe di Maximilian in Cadore nel 1508, permettendo a Bortolo d’Alviano di tagliar la strada ai tedeschi e di massacrarli nella battaglia di Tai di Cadore in pieno inverno e con la neve alta fino alle ginocchia. Tale era stato lo sdegno della Serenissima per quell’ingiustificata invasione e razzia dei suoi territori da parte dell’Imperatore, da non mostrare alcuna pietà, passando a fil di spada i soldati tedeschi arresisi e invocanti misericordia e coloro che riuscirono a sfuggire ai marciani e agli stradioti, perirono ugualmente per mano della popolazione cadorina, arrabbiata al limite per le ruberie dei tedeschi che li avevano privati delle scorte destinate ai lunghi mesi invernali. Quel giorno le Dolomiti s’erano tinte di rosso e non per l’Enrosadira.

Da quanto Mercurio aveva appreso, Hironimo Savorgnan era stato nominato senatore soprannumerario dalla Signoria, fatto straordinario poiché non appartenente al patriziato veneziano, per ricompensarlo delle sconfitte inflitte a Maximilian sui confini orientali della Repubblica. Inoltre, il condottiero aveva saputo anche del cugino d’Hironimo Savorgnan,  Antonio Savorgnan o Antoni il Sassin, che con un trucco degno di Odisseo, aizzando la popolazione udinese credutati assediata dagli imperiali, aveva fatto da essa massacrare la famiglia rivale dei Della Torre, filo-imperiali e capi riferimento degli Strumieri,  il dì del Giovedì Grasso di quello stesso anno. Molti polsi erano tremati ai racconti di come i contadini avessero indossato gli abiti degli aristocratici uccisi per inscenare una macabra mascherata dove ne imitavano i comportamenti, in pieno spirito del “gioco delle parti” del Carnevale. Dalla città di Udine questa rivolta s’era estesa a tutto il Friuli con massacri, stupri e saccheggi ai danni della nobiltà locale - Crudel Joibe Grasse, il Crudele Giovedì Grasso, l’avevano chiamato.

Adesso il clan dei Savorgnan si trovava però isolato e dai sanguinosi disordini interni tra Strumieri e Zamberlani ne erano usciti indeboliti nonché impopolari, rendendoli facile preda, eppure qualcosa suggeriva al Bua che, anche conquistando la Patria del Friuli, finché i Savorgnan fossero rimasti in vita nessun tedesco avrebbe dormito sonni tranquilli. Era cosa notanda, infatti, il loro secolare vassallaggio a San Marco.

“Il tuo pessimismo mi conforta”, arcuò Leka il sopracciglio.

“Difficile rimanere di buonumore, quando sussiste la possibilità di morire inermi di pestilenza. O di fame”, ribatté seccamente Bua. “Se attaccassimo il Friuli, ci allontaneremmo da Treviso, fornendo ai Veneziani tempo e modo di trasformare la Marca in una frontiera invalicabile, intanto che i cugini Savorgnan e le loro bande ci trasformano in spiedini da bivacco, logorandoci in un’infinita guerra di scaramucce e agguati. No, appena La Palice arriva, dobbiamo levare il campo e sforzare la linea fino a giungere sotto le mura di Treviso e lì porre l’assedio.”

“Come?”

“Nervesa. È fondamentale occuparla: la Piavesella è il collegamento con la Piave che ci serve per trasportare fino al Sile le artiglierie.”

“Non avevi previamente affermato come la città fosse inespugnabile?”

“Le sfide mi stuzzicano.”

“Sta bene. Al suo ritorno, cercherò di persuadere il maresciallo a radunare quanto prima tutti i comandanti per discuterne”, si pose in piedi Busicchio, contento di quel piano e del ritrovato vigore nel collega. “Tu però riguardati, senza di te questo assedio non lo vinciamo.”

Mercurio scrollò le spalle in apparente disdegno di quel complimento, ma dal modo in cui arricciò compiaciuto le labbra tradì il suo intimo gradimento.

Uscito Leka dal padiglione, Mercurio si sistemò seduto, contemplando a malincuore la magra colazione. “Niko”, riferì allo scudiero, sollevando con sospetto la fetta di carne affumicata. “Doveste voi tutti pizzicare i tedeschi o i francesi intenti a scambiare i nostri cavalli per prosciutto, avete il mio permesso d’utilizzarli per carne da spezzatino.” Troppo spesso il greco-albanese aveva assistito a simili episodi di soldati talmente affamati e disperati, da macellare i propri cavalli. Piuttosto di mangiarsi lo strumento essenziale del suo lavoro, il Bua avrebbe preferito, nel peggiore dei casi, cambiar committente e al diavolo l’onore.

“M’han detto esser bue, capitano. Quelli presi ai contadini.”

Il pezzo di carne cadde pesantemente sul piatto. “Quelli destinati a trasportare i carri?”

Lo scudiero annuì velocemente, confermando i timori del condottiero: dai buoi ai cavalli la strada era breve, così male versava l’accampamento?  Maledizione, doveva subito conferire con Molard e Gambara, prima abbandonavano Montebelluna prima avrebbero evitato …

L’uomo si passò una mano tra i capelli sudati, inspirando profondamente, la visione sconvolta da repentine vertigini. Un’ora soltanto di veglia e già si sentiva stanco, anelando a riprendere il sonno interrotto. Si sentiva miracolosamente meglio rispetto al giorno precedente, la febbre abbastanza calata da consentirgli una parlata coerente nonostante però egli seguitasse a dormire da cani, la mente piagata da incubi e il corpo rigido dai muscoli intorpiditi.

Per quanto odiasse ammetterlo, Leka aveva ragione, doveva ritemprare il suo corpo e scrollare la stanchezza della malattia dal suo cervello, impedendogli di coordinare azione e volontà. Era convalescente, non guarito. Inoltre, le febbri e la carestia nel campo avrebbero ridimensionato l’ego di quei pomposi aristocratici, riportandoli a più miti consigli e bisognosi di sostegno e in quel frangente Mercurio avrebbe trovato riscatto e autorità, azzerando la sua figuraccia a Treviso in una piccola e perdonabile defaillance.

Confortato da tali pensieri, il Bua congedò lo scudiero mandandolo a chiamare il cerusico e addentò la carne (schifosissima ma s’era nutrito di cibo ben peggiore), interrotto da un inaspettato e rumoroso gorgoglio di stomaco. Si girò e scovata la fonte, l’uomo si lasciò andare ad un perfido sogghigno.

“Come ci si sente”, stuzzicò il suo prigioniero, “ad ascoltare impotenti i piani d’attacco del tuo nemico, conscio di come saranno la rovina della patria tua?”

Hironimo corrugò la fronte ma non proferì alcuna parola né diede segno d’aver proprio ascoltato.

“Ormai dovresti averlo capito, di come la Signoria stia combattendo una guerra perduta in partenza. I suoi nemici sono troppi e ben uniti nel comune odio contro di lei. Ammirevole la sua resistenza di due anni, almeno si scriverà di come la Serenissima sia capitolata con la spada in mano.”

Il giovane Miani s’ostinò a tacere, registrando tuttavia quell’uso singolare della terza personal plurale al posto della prima, quasi il greco-albanese volesse tenersi fuori dalle beghe e invidie ch’avevano condotto al conflitto.

“Scommetto, che ti piacerà molto ritornare allo status di semplice mercante di una città ridotta ad anonima provincia dell’Impero. No?”

Niente, silenzio.

Mercurio reclinò il capo, deluso da quell’indifferenza. “Cos’è? Il gatto t’ha mangiato la lingua? Non ti degni più di parlarmi?”, sbuffò irritato. Afferrata una fetta di carne, con crudele gusto gliela tirò contro, colpendolo in piena faccia e ungendo la pelle già di suo sporca.

Hironimo ingoiò le labbra, le nari dilatate dalla rabbia. Ciononostante, senza dir nulla raccolse la carne, ci soffiò sopra e datole un morso la cedette poi a Thomà, che l’ingollò in un sol boccone.

“A piacer tuo, pescivendola altezzosa. Non parlarmi – non me cale una cippa. Invece, smettila di giocare al buon samaritano e mangia qualcosa. T’ho già detto che da morto non mi servi!”

“Ed io t’ho già detto”, schioccò annoiato la lingua il giovane patrizio, “che se non mangia il bambino, non mangio neanch’io.”

“Tu fai quello che dico io. O proprio quel cervello moscio non afferra la tua situazione?”

“Io so che si comanda ai soldati e alla moglie e, mi pare, io per te non sono né l’uno né l’altro. Sebbene, il mio signor padre spesso affermava come né al vento né alle donne, specie le mogli, si può imporre alcunché.”

Ripensando a Caterina e sentendosi pigliato in castagna, il greco-albanese dichiarò sprezzante: “Tuo padre era un idiota smidollato.”

Gli occhi nerissimi d’Hironimo assunsero una tinta quasi vermiglia da quanto si dilatarono e per un folle istante, Mercurio percepì un inusuale sconquassare di viscere. “An, non insultare mio padre, altrimenti incomincio col tuo. E ne ho di cose interessanti da dire, credimi”, sibilò aspro, il bel volto ridotto ad una grottesca maschera da Gorgone Medusa.

Bua avvertì il sangue ribollirgli a sua volta nelle vene. Di Pietro Bua Spata conservava vaghissimi ricordi, morto infatti quanto il figlio era appena undicenne. Ciononostante, egli era cresciuto imbevendosi dei racconti dei suoi parenti, anelando ad imitarne il coraggio e il prestigio se non proprio di superarlo. “Mio padre era un uomo da bene!”, ringhiò il condottiere, tirando la catena così da far cadere riverso il giovane Miani che, dimentico della precarietà della sua situazione, altrettanto porporino in faccia dallo sdegno gliela tirò di rimando e per poco Mercurio non cascò dal letto, portandosi allo stesso livello del patrizio che gli soffiò contro:

“Il mio anche!”

“Tuo padre era un suicida!”, infierì Mercurio, sovvenendosi all’improvviso di quel tanto chiacchierato episodio e ricollegando nomi e persone. “Si dice che l’abbiano tirato giù alla stregua d’un criminale alla forca!”

“Menzogne da carogna!”, gridò spaventoso Hironimo, tanto che Thomà balzò in piedi, guardando vigile i due contendenti. Mercurio s’irrigidì in difesa pronto a parare il pugno che s’aspettava, che l’intera figura tesa in avanti del veneziano tradiva. Ma non arrivò mai, limitandosi quest’ultimo ad avvicinare il viso al suo e di fissarlo rabbioso. “L’hanno ammazzato per invidia e chi sostiene il contrario è una lurida testa di …”

“Stai zitto, ti fa più onore”, tagliò corto arrogantemente il greco-albanese, risistemandosi sulla branda e fingendo interesse per i contenuti del piatto. Si passò una mano sul collo, massaggiando i muscoli indolenzenti e percependo con preoccupazione il calore sospetto dietro l’umidità della pelle.

Miani all’udire ciò proruppe in una gaia risata di scherno. “Signore e signori, dame e cavalieri, ecco a voi Mercurio Bua Spata l’eterno indeciso, che s’arrabbia se gli parlo e altrettanto s’arrabbia se non gli parlo. Insomma, deciditi una buona volta: cosa vuoi da me?”

Preso di contropiede nella sua evidente contraddizione nonché da quel repentino cambiamento d’umore, il Bua aspirò l’aria frustrato, maledicendo il giorno in cui aveva deciso di non chiedere il riscatto anche per quella tarma antropomorfa, dopo aver riscosso quello dei due capitani bellunesi. “Mangia, non mi scocciare”, intimò al suo prigioniero, lanciandogli un altro pezzo di carne che Hironimo addentò con sospettosa docilità.

“A proposito”, si sovvenne quegli, deglutendo con rumorosa teatralità, gli occhi nerissimi brillanti di sinistra malizia, “quest’è carne di cavallo” e gongolò maligno all’afflosciarsi della bocca dello stradiota, da cui cadde il bolo sul piatto.

“Tu menti per la gola!”, trillò scandalizzato e si nettò celere le labbra col dorso della mano, studiando incredulo la poltiglia mezza mangiucchiata.

Hironimo allargò il sorriso, staccando sornione un altro morso di carne per poi cederla definitivamente a Thomà. Povero, povero Mercurio, pensava beffardo, meno male ch’era giaciuto semisvenuto sulla sua branda, così da risparmiarsi gli angosciati nitriti dei cavalli mentre i soldati, data la scarsità di provviste, li inglobavano nella loro nuova dieta.

 

 

***

 

 

Ripresosi dalla fatica del viaggio e la pancia piena dell’ottima trippa preparatagli, Orlando da Bergamo si mise immediatamente al lavoro, convocando assieme ai suoi sottoposti e concittadini Batistin e Zuan Antonio il resto dei bombardieri a Treviso, cinquanta in tutto, una pelliccia pezzata di maestranze da ogni parte dei Domini di Terra e di Mare e anche d’Italia. Ad assistere gli stavano accanto sier Marco Contarini “dai Scrigni” e suo cugino sier Nicolò Donado “dalle Rose”, all’occasione traducendo qualche espressione bergamasca per miglior comprensione e Orlando stesso si sforzava di parlar moscheto [8].

Il presidente delle artiglierie s’era informato sul numero esatto delle bocche di fuoco; sul calibro e tipologia; sulla quantità disponibile di polvere da sparo e di balote; sulle loro attuali postazioni lungo le mura e i bastioni e l’unità operativa ad essi dedicata, di in quanti fossero e dove avessero ubicato i mastri bombardieri.

Le risposte lo lasciarono abbastanza soddisfatto, complimentando (così da rendersi subito benvoluto) i mastri per la saggia collocazione dei cannoni, specialmente quelli sulle porte cittadine e sui bastioni. Invece, era rimasto un po’ perplesso sulla mancanza di un adeguato sfruttamento delle gallerie interne per posizionarvi l’artiglieria e di conseguenza, Orlando aveva annunciato che lì avrebbe implementato dei cambiamenti, anche considerando l’incessanti giornate di pioggia non ideali per la polvere da sparo. Appellatosi alla pazienza e buona volontà dei bombardieri, li aveva chiesto di mostrargli la cinta muraria, sia i camminamenti esterni che le gallerie interne. 

E fu durante questo pellegrinaggio, mentre si dirigevano al Castello, che Orlando s’era fermato all’improvviso, contemplando in estasi il campanile di San Nicolò.

“Sier Marco, sier Nicolò”, aveva esclamato, indicando l’edificio. “Con vostra buna licenza, voj menà icsì el sacro de 6.”

I due cugini levarono in alto gli occhi, sgranandoli tra l’incredulo e lo scettico. Quasi leggendoli i pensieri, Orlando li aveva invitati a salire fin in cima con lui e, una volta dinanzi alla vastità del campo visivo offertogli, l’uomo li aveva spiegato come il campanile fosse perfetto giacché alto a sufficienza per colpire a tutto tondo la batteria nemica, ovunque essa si spostasse, nonché in posizione tale da rendere impossibile ai fuochi nemici di centrarlo. All’obiezione del giovane Contarini, se il bergamasco fosse certo che i franco-imperiali non disponessero d’artiglieria di lunga gettata (memore infatti dell’assedio di Padova dove l’Imperatore aveva portato certe bocche di fuoco il cui rombo s’era udito fino a Venezia) questi rispose con un sogghigno malevolo come i pezzi migliori stessero adesso ospitando sott’acqua i pesci di Liziera.

Sicché, chiamati i robusti bastasi (facchini, ndr.) mandati da Venezia, ci si era rimboccati le maniche per trasportare il sacro sul tetto.

“Porco d’un can! Strénzi ben sto gropo (nodo, ndr.), potta d’un cancaro, situ cascà da picolo di la carega (sedia, ndr.) che gnanca ti te sè bon a far ‘na cossa sì fassile?”

“Mi fazzo el gropo dil’apichato -  mi fazzo; cheo che ti me gh’ha dito -  mi fazzo. Chea vaca putana, cossa me veniu a insolentare, an?”

“Zò, bestie, taselà, no semo à carlevar! Qua gh’avé da laorar et muci!”

“Lesti, ante che scomenzi a piovar!”

Appurato infatti la grande difficoltà di far passare il sacro per lo stretta scala di 242 gradini, s’era deciso d’issare il cannone da fuori mentre la cassa veniva trasportata a mano. I bastasi in quel momento stavano fissando gli ultimi nodi -  quelli dell’impiccato come li appellavano con macabro gusto - da passare sulle estremità del sacro e congiungere le corde al gancio.

“Chigasang! Ferma, maidé maidé!”, bloccò tutti all’improvviso Orlando, sbracciandosi onde fermare i bastasi ch’avevano già iniziato a tirare e sollevato di qualche spanna il sacro. E gridando alla gente rimasta in basso: “Bisogna che quach vergü (qualcuno, ndr.) si sieda in su’l canù e che lo guidi lungo la salita! Sennò, el fà dil dan al campanil!” ed in effetti, oscillando il cannone poteva danneggiare il muro dell’edificio, creando crepe o buchi.

“Mi vago”, s’offrì volontario Marco, sceso nel frattanto onde coordinare i lavori da terra. Dei presenti, era il più giovane e snello a sufficienza da non pesare eccessivamente ai bastasi, anzi, per aiutarli s’era levato quanto più strati di vestiario possibile, rimanendo in braghe e camicia.

“Zerman, siete impazzito?”, gli strillò dall’alto suo cugino Nicolò. “Volete rompervi il collo? Cosa riferirò poi alla vostra siora Mare mia Amia?”

“Un bel niente!”, urlò Marco, venutogli un piccolo e colpevole tuffo al cuore al pensiero di sua madre madona Alba, ammalata a Venezia. L’ultima cosa che le mancava, povera donna, era di leggere come suo figlio salisse per campanili di 88 braccia (60 m.) in groppa ai cannoni. Beh, occhio non vede (o in quel caso, legge), cuore non duole … Se Nicolò avesse fatto la spia, giurò a se stesso il ventiduenne, l’avrebbe affogato di persona nel Cagnan.

“Brào tus (ragazzo, ndr.), coragiùs come il vostro amico Ferigo Contarini!”, si complimentò invece Orlando, orgoglioso. “Adès, drizzé le gambe; come salite su, punté i pé e caminé!”

Il giovane Contarini annuì, rabbrividendo (dal freddo, si giustificò) mentre prendeva posto sul sacro. Come istruitogli, stese in avanti le gambe quanto più possibile, così da toccare il muro con l’intera pianta del piede e guidare l’ascesa del cannone, impedendogli di oscillare e cozzare contro l’edificio.

“Pront?”

“Siorsì!”

“Partiamo allora! E il primo che s’azzarda a tirar giù sante e madóne, lo tiro giù io dal campanil, oh sì!”, rammentò severo il bergamasco ai bastasi d’astenersi da ogni bestemmia, un po’ per superstizione un po’ per genuina fede.

“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Al primo strattone che lo sollevò da terra, Marco velocemente si segnò tre volte, stringendo le corde fin quasi a sbiancare le nocche. Sollevò lo sguardo, concentrandosi sulle facce di Orlando e di Nicolò che da sfuocate macchie di colore si definivano in forme più precise e allo stesso tempo ignorando lo scricchiolio delle corde, nonché il vento dietro la nuca man mano che aumentava di quota o l’aria sotto le gambe che risalendo gli gonfiava la camicia. Il ragazzo sperò inoltre ardentemente che i piccioni stessero a pranzo in quel momento.

“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”

Dopo le prime braccia, però, la sensazione di vuoto scomparve e Marco quasi si divertì, soprattutto quando, affacciandosi dalle finestre o interrompendo per un istante la ronda, una piccola folla aveva incominciato a gridargli incoraggiamenti per poi sciogliersi in fischi e applausi al suo arrivo sul tetto, dove Orlando lo pigliò veloce, aiutandolo a scendere.

“Brào! Brào!”, gli batté la spalla il capo-bombardiere e il patrizio si sciolse in un sorriso un po’ sghembo, incerto se per isteria o sincera contentezza, sicuramente le ginocchia se le sentiva molli come la ricotta e la fronte madida di sudore.

Dirigendosi al Castello dove stava di presidio, attirato dalla cagnara, sier Marco Miani aveva assistito, assieme ad un perplesso sier Alvixe da Canal suo compagno di ronda, all’intrepida scalata. Decisamente capiva adesso perché il giovane Contarini e Momolo fossero così amici, quei due scavezzacolli disobbedienti nati allo scopo d’imbiancare precocemente i capelli dei propri parenti.

 

Nel frattanto, a Palazzo dei Trecento si respirava ben altra aria: in un nervoso andirivieni, il capitano Renzo di Ceri imprecava alla stregua d’un giannizzero, gli occhi fuori dalle orbite e livido in volto sotto lo sguardo confuso di Troilo Orsini e stanco di Vitello Vitelli. L’Orsini degli Anguillara aveva richiesto al podestà sier Andrea Donado un incontro d’emergenza, a seguito dell’arrivo dei rinforzi richiesti a Venezia nonché dei denari.

“Li mortacci sua, ce stà à pijà per culo?”, sbraitò il condottiero, provocando un sobbalzo nel podestà e un arcuamento del sopracciglio da parte di Vitelli. “Chiediamo alla Signoria 1000 fanti, ce ne promettono 500 e poi da Mestre ne arrivano 400 di cui più della metà ammalati?  Ci si garantisce l’arrivo di 10,000 ducati e ne arrivano 3,000? Ma c’abbiamo Giocondo scritto sulla fronte? Voglio tenere o perdere Treviso? A questo punto, arruoliamo donne, vecchi e ragazzini! E Carlo Corso dove diavolo è finito? S’è perso per la laguna?”

Sier Andrea Donado s’attorcigliò le dita, costernato forse più del condottiero e intimamente turbato dalla prospettiva che sì, in mancanza di adeguati mezzi e uomini, la città non avrebbe retto l’assalto delle truppe franco-imperiali. Lamentò assai la mancanza a Palazzo di sier Zuam Paulo Gradenigo e del suo supporto, ma gli ordini del medico erano stati categorici: riposo assoluto, il provveditore – Deo gratias! – era crollato svenuto solamente a causa degli eccessivi strapazzi cui si sottoponeva, lavorando alle mura fino a notte fonda al lume delle torce e riprendendo all’alba. Sicché Gradenigo era rimasto in letto tutto il giorno precedente e quella mattina, venuto a cercarlo, sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo aveva promesso morte e dannazione al temerario ch’avesse avuto l’ardire di venirlo a disturbare.

“Cerchiamo di rimanere obiettivi e razionali”, provò il capitano Vitelli a tranquillizzare il collega, che sbuffando scettico si sedette. “La situazione è lungi dall’essere ottimale, però non dobbiamo lasciarci guidare dal panico o la peggioreremo. Vero, non ci sono arrivati né i fanti né i denari promessi, però i bombardieri e i facchini sì e già stanno lavorando a migliorare la disposizione dell’artiglieria e a rafforzare le mura. Quanto ai ducati, m’era parso di capire che sarebbero stati spezzati in due o tre pagamenti, onde evitare complicazioni durante il trasporto. Purtroppo, l’intero territorio è stato colpito da queste febbri e come se la sono pigliata i nostri soldati, se la sono pigliata anche i franco-imperiali. E a proposito di loro: finché La Palisse non ritorna a Montebelluna non tenteranno niente e quelle dei prigionieri catturati corrispondono a ciance belle e grosse.”

Troilo Orsini aggiunse: “Da Padova c’è giunta notizia come Giovanni Forti di Orte coi suoi cavalleggeri abbia distrutto i mulini dei Collegati da Castelfranco fino a Godego, sottraendoli numerosi sacchi di farina macinata. A stomaco vuoto quei diavoli non combatteranno di certo. Quanto a La Palisse, si trova ora tra Quinto e Liziera …”

“… con 350 lance e 3500 fanti aggiuntivi”, concluse secco Renzo di Ceri. “Come questa possa corrispondere ad una buona notizia, mi sfugge.”

“Perché ora che il maresciallo ritorni e s’accordino sul da farsi – quando mai, tra francesi e tedeschi si collabora in armonia? – noi avremo già completato i lavori di rafforzamento e ricevuto il necessario dalla Signoria”, contro-argomentò Vitelli. “Il signor podestà ve lo può confermare, quanto si stia dannando in continue lettere di sollecitazione al Senato!”

“Un tempo la Serenissima pagava e pretendeva; adesso, non paga ma continua a pretendere!”, puntualizzò snervato Renzo di Ceri.

“Due anni di guerra, capitano Lorenzo, due anni di guerra ininterrotta metterebbero le casse di qualunque Stato sotto pressione.”

L’Orsini degli Anguillara aprì la bocca onde replicare, sennonché entrò all’improvviso sier Lunardo Zustignan, rosso in viso e un’espressione di collera sulfurea da non ammettere contestazioni da parte di chicchessia. Tra le mani teneva accartocciata la missiva appena consegnatali dal povero postiglione, balbettante e trascinato lì suo malgrado.

“V’affliggete per i pochi uomini e i pochi denari?”, berciò il nipote del Doge, rivolgendosi ora al capitano delle fanterie ora al Vitelli e Troilo Orsini. “Allora preparatevi a piangere come ai funerali dei vostri padri, ché questa … cosa ci ricopre del fango più schifoso. Voi per primo, signor capitano Lorenzo” e indicò Renzo di Ceri, il quale strabuzzò gli occhi confuso, “ché in questi giorni si discuterà in Senato se confermarvi o meno la condotta.”

Sier Andrea Donado prese coraggio e, impedendo al condottiero una qualsivoglia reazione, inquisì: “Quali notizie da Palazzo Ducale?”

Aperta la lettera, il Zustignan declamò l’impressioni della Signoria circa il rapporto compilato e inviatole da sier Carlo Valier.

In un sol uomo tutti gli astanti si levarono dai rispettivi scranni, puntando come bracchi alla casa dove alloggiava sier Zuam Paulo Gradenigo e se per conferire con lui dovevano fronteggiare l’ira e le urla di sua moglie, ben venga, piuttosto di rischiare di finire come il Carmagnola [9].

Come profetato dal Zustignan, il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo aveva dovuto sorbirsi, prima di rifugiarsi sotto le coperte, una tremenda filippica da competere con quelle leggendarie dell’istessa Santippe, poiché madona Maria Malipiero Gradenigo delle tre virtù muliebri incoraggiate nella Repubblica – chea piasa, chea tasa, chea staga chaxa – di certo fallava in quella del tacere e siccome sier Zuam Paulo aveva ben appreso i classici, non gli era risultato difficile in quel frangente applicare i consigli di Marco Terenzio Varrone, cioè che i difetti della moglie o si raddrizzano o si sopportano e Gradenigo ora, come nei trentadue anni di matrimonio, aveva sempre preferito quest’ultima opzione. Sussistevano peggiori mancanze in una consorte, ragionava, che la sua brutale schiettezza e ciò a onor del vero non lo infastidiva: se la sua Maria parlava, non era mai a vanvera.

Perciò s’era lasciato spogliare e condurre a letto dalla furente donna senza proferire parola, mite come un agnellino anche quando madona Maria gli dava del turco e dell’assassino, rimproverandogli la poca considerazione che aveva della sua salute andando ogni notte a far la ronda e ridurre così le ore del sonno ad appena quattro ore risicate. Gli aveva ricordato la sua non più giovane età nonché gli obblighi che aveva verso Dio, verso la Signoria e infine verso la sua famiglia, ricattandolo con tragici scenari sul destino suo e dei suoi figlioli, della sua crudeltà nell’abbandonarli in sì tremende circostanze e spargendo ulteriormente sale sulla piaga dell’amore paterno grazie alle fosche descrizioni dell’immane dolore, che sier Gradenigo avrebbe di certo causato al loro ultimogenito Zuam, ancora tenerello e tanto bisognoso della ferma guida di suo padre per crescere sano e onesto. Come avrebbe potuto proteggere quel giovinetto, lei, povera vedova indifesa? Come avrebbe fatto lei -  avanti, rispondete voi che sapete tutto! -  piccola fragile donna che non era altro, senza il suo scudo, la sua gruccia, la sua roccia? Voleva che si cavasse il cuore dal petto dallo strazio?

“Mo via, basta!”, aveva infine borbottato a disagio Zuam Paulo, accarezzando la guancia umida della moglie, che cingendogli la mano con le sue più piccoline e delicate, l’aveva baciata affranta. “Lo sapete che non gradisco vedervi piangere”, le aveva confessato un po’ impacciato e, giurandole solennemente di riguardarsi in futuro, l’aveva attirata a sé in modo che lei appoggiasse il capo sul suo petto. I due coniugi stettero così a lungo, le mani intrecciate, finché la nobildonna non aveva udito un lieve russare, segno che il marito s’era finalmente addormentato.

Maria Malipiero Gradenigo, cessato allora il ruolo di donzella indifesa e mater dolorosa, postasi in piedi ne aveva approfittato per passargli con pragmatica delicatezza l’unguento sulla cicatrice tesa e arrossata, piegando all’ingiù la bocca dinanzi agli involontari spasimi del marito. S’era poi sistemata sulla sedia accanto al letto, pigliato il suo tombolo e soffiato a guisa di drago sangiorgesco a chiunque avesse osato bussare alla porta, onde disturbare il dormiente provveditore.

La sua si trattava di una commedia da tempo collaudata, freno necessario per l’eccessiva vitalità e gusto per la sfida, talora doti talora difetti del suo consorte con cui ella aveva dovuto confrontarsi ben prima del loro matrimonio, quando un diciannovenne Zuam Paulo, adocchiatala vicino alla chiesa di san Gironimo mentre lei prendeva il fresco sull’acqua, infatuatosi subitaneamente s’era incaponito che quella fanciulla doveva diventar sua moglie, o lei o nessun’altra. Grazie all’amicizia che legava madona Viena Zane Malipiero a madona Lucchese Dandolo Gradenigo, dopo molto insistere il giovane era riuscito a strappare a sier Jacomo Malipiero il permesso di conversare con la sua figliola, lei al balcone più basso del palazzo e il volto celato dal velo mentre lui poco sotto in gondola, tutto questo in presenza della madre madona Viena. Naturalmente alla quindicenne Maria quella tenace dedizione garbava assaissimo, anzi, il maggior suo diletto consisteva nel tormentare il suo spasimante, mostrandosi ora annoiata, ora triste ora lusingata finché un giorno, gli aveva chiesto di vincere la regata al prossimo fresco ed era rimasta turbata e commossa nel vedere come Zuam Paulo, invece di delegare la disfida ad abili rematori, avesse imbracciato egli stesso il remo, sostituendosi al pope.

Per lui aveva sollevato per un istante il velo da nubile e gli aveva accordato di guardarle il viso e i morbidi boccoli scenderle lungo le guance. Inoltre, adesso che anche lei l’aveva visto ben bene, le risultò gradito quel giovanotto dai capelli in battaglia, scarmigliato e dalle gote rosse dallo sforzo che la guardava sfacciatamente beato e quattro anni dopo, fattosi egli più uomo, le piacque ancor di più.

Anche perché, dopo l’esilio ad Arbe del padre, madona Maria si era considerata ormai una paria, condannata a rimanere sola ed emarginata per sempre, lei e i fratelli minori. Era pertanto rimasta esterrefatta quando Zuam Paulo, suo novizzo, le aveva confermato che sì, l’avrebbe ugualmente sposata, avendo infatti creduto volesse egli  rompere il fidanzamento. “Sono disonorata” - gli aveva confessato in lacrime, dinanzi alla sua caparbia insistenza  - “la mia vergogna diverrà la vostra vergogna. Siete giovane, siete un valent’uomo di cuore, non dovete rovinarvi per una come me.” Al che, infastidito al limite, il ventiduenne patrizio aveva sbottato: “Se le colpe dei padri dovessero ricadere sempre e comunque sui figli, allora in Maggior Consiglio non dovrebbero più sedere né Querini, né Thiepolo, né Badoer! Voi non siete vostro padre e dopo che ci saremo sposati non sarete nemmeno più la sua figliola, bensì mia moglie e così vi presenterete davanti a tutta Venezia,  il vostro onore ristabilito. Certo, bisognerà magari attendere un anno che le acque si calmino, tuttavia …” e più non aveva potuto aggiungere, avendogli Maria circondato il viso e baciatolo d’impeto. “Vi amerò doppiamente, come padre e marito, ché mi avete dato oggi una nuova vita.”

“Ben svejà!”, salutò la Malipiero il marito, notando i primi cenni del risveglio. “Vi siete un poco riposato?”, s’informò, indicando alla fantesca di lasciare il vassoio sul tavolo vicino alla finestra.

“Quanto sono stato in letto?”

“All’incirca due giorni.”

“An? Già s’è fatto sera?”, esclamò basito Gradenigo, balzando giù dal letto e contemplando incredulo le ombre vespertine colorare d’arancione la stanza. “Perché non m’avete svegliato prima?”

“Dasin, dasieto (adagio, adagio, ndr.), avrete tutto domani per brigare a Palazzo”, lo bloccò la nobildonna, intanto però che lo aiutava ad indossare una turchesca di seta azzurra. “Ricordatevi dei consigli del medico: riposo, riposo. Avete proprio ansia di morir, voi!”

“No, no”, la rassicurò il provveditore, captando il sottile tono bellicoso nella voce della moglie mentre si lasciava condurre al tavolo. “Non mi va di poltrire inutilmente, ecco tutto. Non posso dirigere i lavori anche da casa?”

“Uhm …”

“Come sta vostro fratello, sier Andrea?”

“Assa’ mejo. Mi raccontava che quando si sarà completamente rimesso, ritornerà a Padoa da nostro fratello Polo.” A onor del vero, memore delle affrante lettere scrittegli da sier Polo Malipiero, la patrizia avrebbe preferito che il suo fratellastro sier Andrea Griti completasse la convalescenza a Venezia, invece di rischiare una ricaduta a Padova e glielo aveva anche suggerito, ricevendo una vaga risposta arzigogolata (tradotta, no). Che ci voleva fare, se Domine Iddio aveva deciso di circondarla di uomini più testardi di un mulo?

I due coniugi si sedettero a tavola e Maria versò al marito prima da bere, riempiendogli poi il piatto di polentina, carne bollita, soppressa, formaggio e funghi, intanto che gli riassumeva le ultime novità, dagli impegni e la salute dei loro figlioli d’ambo i sessi al proseguimento dei lavori a Treviso. Gradenigo l’ascoltava attento, mangiando in silenzio.

In effetti, ripensava la Malipiero, anche lei un poco s’era preoccupata alla vista del consorte dormire alla stregua d’un morto, valutando se destarlo o meno, in particolare dinanzi alle insistenti ambasciate di sier Andrea Donado in cui si richiedeva d’urgenza la presenza del provveditore a Palazzo. Conscia di peccare forse d’egoismo, certamente non voleva privare la Signoria del suo provveditore ma al contempo, lei non voleva privarsi del marito e Zuam Paulo pur di fibra robusta, non apparteneva agli immortali e Santa Lucia l’assistesse, la povera donna aveva scampato a sua volta un malore nel vederselo trasportare semicosciente da sier Marco Miani e sier Alexandro Michiel.

Tuttavia, spiando di sottecchi il colorito più sano e la voracità dei bocconi di Gradenigo, Maria vi trovò consolazione e giudicò la sua scelta la più adatta e ora poteva allentare le catene della sua muliebre potestà, restituendo il consorte ai suoi doveri di patrizio veneziano.

Neanche a farlo apposta, la fantesca bussò alla porta, annunciando l’arrivo del podestà, dei capitani e di sier Lunardo Zustignan.

Chiusosi sul petto la turchesca e indossate le braghe, il provveditore scese nel salone là dove lo si attendeva in un misto d’ansietà e di sollievo nell’appurare la ritrovata salute.

Senza tanti preamboli, Zustignan gli cedette la missiva ricevuta e Gradenigo vide letteralmente rosso.

“Sanctissimo e Divinissimo Sacramento!”, ruggì al punto che madona Maria s’affacciò all’uscio della porta, impensierita da quel violento sfogo. “El … chome se gh’ha permesso de scribar … scribar ste mingonarie?! (minchionate, ndr.) Ma mi a lu ghe staco i brassi et i ghe meto in man, cussì l’apprendarà a contar busie!”, sbraitò paonazzo in volto, già immaginandosi a giustificarsi dinanzi ai Dieci per l’ennesima volta e sempre ingiustamente a causa delle calunnie di gente incompetente e pusillanime.

“Dobbiamo replicare immediatamente”, propose concitato sier Andrea Donado e sia Vitelli che Orsini annuirono energici, “prima ancora che la Signoria digerisca in totum le obbrobriose bugie di quell’intrigante bugiardo di Carlo Valier!”

“O qui noi si finisce senza condotta e voi sollevati dall’incarico!”, aggiunse Vitello Vitelli, rabbrividendo al pensiero. “Dopodiché se la veda il signor Valiero a riferire ciò ai miei soldati, io di certo me ne lavo le mani!”

“Se ci va bene”, gli ricordò pessimista Renzo di Ceri, il più arrabbiato tra loro in quanto aveva sperato in un supporto in sier Carlo per poi invece ritrovarsi cornuto e pure mazziato. “Se ci va male, tutti sotto processo e poi o alle Orbe o in Piazzetta.”

“Per carità, non esagerate!”, sbiancò il podestà. “Non siamo mica dei Carmagnola, noi! Al massimo … al massimo accadrà come suggerito dal capitano Vitello …”

“Nella lettera si parla esplicitamente di traditori!”, trillò l’Orsini degli Anguillara. “E se la mia testa deve proprio rotolare, che sia in battaglia, grazie mille!”

“La lettera menziona la presenza di un traditore a Treviso, vero, ma non cita nomi e cognomi”, lo calmò sier Lunardo Zustignan. “In ogni modo, Missier il Podestà ha ragione: il nostro silenzio ci condanna, più tempo aspettiamo più le accuse infondate di sier Carlo si solidificheranno e non mancherà la Signoria d’aprire un’indagine su di noi.”

“Moglie mia, per favore, incaricate il mio valletto di correre a chiamare il postiglione”, istruì Gradenigo la consorte che, annuendo anch’ella preoccupata, sgonnellò via a cercare il ragazzo. E invitando i presenti a seguirlo nel suo studio, là dove avrebbero scritto in comune accordo la loro difesa, il provveditore confessò irato a sier Lunardo: “Spero solo di non dover più incrociare per strada o a Palazzo quel turco bugiardo, o giuro al Cielo che l’impicco alla porta di casa!”

[…] El podestà et provedador ebbe na letera di la Signoria, che gh’ha inteso, quelli zenthilomeni fano tuto il zorno custion cum soldadi, et voleno, dove i stanno, se li fazi le spese per forza, la qual letera gh’ha tolto el ben servir di molti, che meteno li danari et la vida per la patria, qual xéla ingrata, et sono obedienti, et si fatichano tutti. Et il podestà et provedador qua respondono humili et divoti a la Signoria in bona forma, et pregando la lhor letera sia lecta in Gran Consejo.

[…]  Chome se gh’ha inteso quello dito da sier Carlo Valier a la Signoria di Trevixo, et che il podestà gh’ha dito publice, non si maraviglia di tal parolle, perché questo inverno el volea condur biave in terra todescha e lui non volse; ben xé vero, li soldadi xéli un pocho licentiozi zercha li alozamenti, et voleno viver cum minaze ma no cum fati, et di questo, al principio, fo qualche turbazion, ma horra le cosse xéle asetate assa’ ben, et non ghe xé pì rechiami per le minaze fatoli; et xé vero, il capetanio voria aver fato apichar qualche d’on.

 Item, che ghe xé confusion tra el provedador e i capi, no xé vero, et tuti sono uniti et maxime cum il provedador et tuti li zenthilomeni.

Item, che l’artelarie non xéle preparade ai so luogi, no dize il vero, perché tuti i cavalieri et bastioni di le porte li sono le sòe artelarie; le altre xéle preparade, et vegnando i nimici a meter campo, dove si alozerano, lì sarano poste, segundo el besogno, et tute quelle di bronzo xéli su li soi cari, et quelle di ferro bona parte, le altre si va compiando e si condurà dove besognerà. Item, si stà cum bon cuor et non dubitemo gnente.

Item, dito sier Carlo Valier si havea fato far capo di contadini da le sue possession e tute quelle ville intorno per letere di la Signoria, et xélo stà alcuni zorni, et per paura de’ inimici dormiva in uno burchielo a mezo il fiume, et quando la intesi, i nimici vien zerto a campo lì xé vegnuo a Veniexia, et va sbaiafando per le piatze et incolpar il provedador e capi etc., qual stanno fina horre una di note su li repari e fabriche fino con le torze, et comenzano a l’alba. El signor Vitello et Orsini mai stanno im paze, et cussì tuto il resto, secondo li exercij datoli. Laudemo depo’ quel Orlando da Bergamo, capo di l’artelaria, arlievo di Latanzio, qual va a far meter l’artelarie dove bisogna […]”

“Soddisferà questo la Signoria?”

“Chi vivrà, vedrà.”

“Non mi consolate, provveditore.”

“Non era mai stata mia intenzione, signor capitano Lorenzo.”

 

 

***

 

 

“Fu mai trovato il colpevole?”

Hironimo si destò dallo strattone che Mercurio Bua, non ricevendo risposta, gli aveva elargito attraverso la catena onde attirare la sua attenzione. La tenda si trovava a malapena illuminata dalla fioca luce della lucerna, il resto avvolto in un nero pece.

Maledizione, pensò il patrizio, proprio nel cuore della notte gli era venuta voglia di discutere? Lo preferiva moribondo, in tutta onestà, almeno se ne stava zitto. Anche delirante, mica parlava con lui, bensì alternandosi in invocazioni a tali Aikaterini e Maria. Grugnendo infastidito, il giovane si girò sul fianco, richiudendo gli occhi e se il greco-albanese voleva un confessore, che andasse a cercarsi un prete.

Un secondo strattone lo pose nolente seduto. “Allora?”, insistette il condottiero, decisamente bello vispo.

“Orco juda maladeto, cosa vuoi da me?”, sbottò frustrato il Miani, stropicciandosi gli occhi pesante e gonfi di sonno.

“Non riesco a dormire.”

“Dunque ti debbo tener compagnia?”

Mercurio s’esibì in un secco svolazzo della mano. “Tuo padre”, chiese, “sostieni che l’abbiano assassinato. Fu mai trovato il colpevole?”

Hironimo reclinò il capo, sospettoso da quell’inusuale interessamento da parte del capitano, specie dopo il diverbio di quella mattina. Se da una parte era prono pensare trattarsi dell’ennesima provocazione, dall’altra incominciava a formularsi la teoria che si trattava di un indiretto tentativo di Mercurio di scusarsi per aver ingiuriato suo padre.

Sì, certo, come no. Fosse stato un altro, ancora poteva credere in tal miracolo, ma da quel turco senzadio era assai improbabile.

“No”, rispose incolore, stendendosi di nuovo sul suo pagliericcio.

“Perché?”

“Non ricordo, avevo dieci anni.”

“Ti manca?”

“Non pormi domande idiote.”

L’ambiente versava forse nella semioscurità, ma l’occhiataccia di Mercurio il veneziano la subì in tutto il suo collerico splendore. Tamburellando le dita e ormai il sonno partito per lidi migliori, Hironimo sospirò, concludendo che forse gli conveniva ricambiare la “cortesia.”

“A te manca tuo padre?”

“Non proprio. Avevo undici anni, di lui ricordo ben poco. Tu?”

“Neanche io quasi niente. Di ch’è morto?”

“Sul suo letto, di vecchiaia, circondato dalla sua famiglia.”

“Una bella morte, insomma.”

“Se l’è meritata.”

“An?”

“Ognuno va incontro alla morte che s’è guadagnato in vita. Agisci bene, muori bene. O almeno così sosteneva mia madre.”

“Le dispiacerà quindi apprendere, la morte da traditore di suo figlio.”

“Prego?”

“Per questo motivo, sotto-sotto non sopporti il conte di Gambara”, proseguì imperterrito Hironimo, “siete banderuole uguali, pronti a cambiar padrone al primo vento contrario e solo per gretto guadagno personale.”

“Nel mio mestiere”, sibilò Mercurio, “se non mi si paga, non mantengo la compagnia e se non mantengo la compagnia, quella mi diserta e se mi diserta, io m’impicco piuttosto di crepar di fame. Pensavo possedessi abbastanza intelletto d’arrivarci!”

“Non c’è onore tra voi condottieri, dunque.”

“Forse non come lo concepite voi signorini cresciuti nella bambagia.”

“O tuo padre.”

“Come?”

“Se non erro, tuo padre guidò la rivolta di Morea. [10] Perfino il sultano Mehmed, dopo averla sedata, non aveva potuto non riconoscere il suo valore e di fatti non guerreggiò mai più contro di lui. Tuo padre era rimasto coerente nella sua causa, anche quando le sorti si erano per lui rovesciate e, pur conscio di una fine orrenda in caso di sconfitta, non cambiò mai fazione e rimase coi suoi fino alla fine. Ammirevole, per conquistare la fiducia e la considerazione dei Turchi, i quali quasi mai rispettano i nemici sconfitti.”

Un sorriso stranamente dolce distese i lineamenti pallidi e tirati di Mercurio. “Tempi passati.”

“Comportarsi con onore e coerenza alla propria causa non si può considerare una moda.”

“Parli per esperienza?”

“Sono in catene perché non ho voluto cedere Castelnuovo di Quero, l’hai scordato?”

“Avresti dovuto, forse.”

“No, sarebbe equivalso al gesto della fica alla gente ch’avevo giurato di proteggere. Si può fallare in molto” ed io ho molto peccato “ma dai propri doveri non si deve scappare. Questo m’insegnò mio padre.”

Silenzio.

“Com’era egli?”, s’informò Mercurio, incuriosito da quell’uomo divenuto oggetto di speculazioni a Venezia per quella sua misteriosa morte e che tuttavia, persino dalla tomba, ancora riusciva a suscitare tali forti emozioni nel figlio. Doveva esser stato un personaggio peculiare, cogitò l’epirota.

Purtroppo per lui, Hironimo deluse ogni sua aspettativa, rispondendogli infatti con una scrollatina di spalle: “Lo ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse …”

“Che differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”

No, non al giovane Miani non bastava e inoltre per lui costituiva un’abissale differenza, giacché non aveva mai voluto un padre-statua da ammirare ed imitare da lontano, bensì una persona vicina in carne ed ossa con cui crescere e da cui imparare.

Ahimè, il destino altro non gli aveva lasciato se non la prima opzione, ovver la fredda arca di sier Anzolo Miani a muto insegnante e sterile esempio da seguire.

E Hironimo, giustamente, s’era rivelato il peggiore degli allievi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ebbene sì, questo Cajtan da Thiene è proprio San Gaetano da Thiene (1480-1547), presbitero italiano, fondatore dell'Ordine dei Chierici regolari teatini; nel 1671 è stato proclamato santo da papa Clemente X ed è conosciuto anche come il “Santo della Provvidenza”. San Gaetano ricoprirà un ruolo importantissimo nella vita del Nostro, tuttavia molto più in là delle vicende qui narrate. Stando alle biografie del Thiene, gli storici gli attribuiscono una certa influenza su Giulio II, aiutando o direttamente o indirettamente la diplomazia veneziana a mitigare l’ostilità del terribile pontefice. Purtroppo, non specificando costoro l’esatto modo, abbiamo un po’ romanzato.

A Treviso, poco distante da Santa Maria Maggiore, l’antica chiesa dei Cavalieri di Malta è stata riconsacrata a devozione di San Gaetano da Thiene, prima della sconsacrazione definitiva (oggi infatti è un museo e un auditorium per concerti).

Ignoriamo come siano riusciti a portare un sacro da 6 fin in cima al campanile di San Nicolò a Treviso; purtroppo, non ci è mai stato permesso salirvi per via dei continui restauri e diosacché altri impedimenti, ma avendo visitato abbastanza campanili di simile stile in giro per l’Italia e l’Europa, supponiamo la scala essere ugualmente angusta e stretta, senza possibilità di grandi manovre da parte dei facchini, a meno che non volessero scalfire il muro.

Se abbiamo fallato, chiediamo venia.

Il “Crudele Giovedì Grasso” fu la più grande rivolta popolare del Rinascimento in Italia e la più sanguinosa: iniziata per ripulire Udine da ogni elemento filo-imperiale, essa scappò di mano e s’estese a tutto il territorio, al punto che il provveditore di Pordenone dovette intervenire in soccorso agli Strumieri. Purtroppo non se ne parla molto sia perché oscurato da un evento più “importante” – la guerra della Lega di Cambrai – sia perché la storia del Friuli non ci pare esser mai stata trattata nel dettagli nei libri di storia nazionale al liceo, a parte nei capitoli sulla fine dell’Ottocento e il Novecento – irredentismo, Prima e Seconda Guerra Mondiale.

 

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

 

[1] Palazzo di San Marco = noto oggigiorno come Palazzo Venezia. Per quanto riguarda la villa del Grimani, gli storici suppongo essersi trovata nell’area dove oggigiorno si trova Palazzo Barberini.

[2] Per farla breve, nel 1499-1500 il banco dei Lippomano fallì rovinosamente e Girolamo Lippomano, data la cifra spaventosa da ripagare, finì in carcere per debiti mentre la famiglia cercava di racimolare i fondi necessari. Nel 1501, però, il Lippomano riuscì a evadere in modo rocambolesco. Il Sanudo racconta come Girolamo, fattosi arrivare dei dolci dai familiari, una volta apertagli la barca coprì la faccia del suo carceriere col mantello e puntatogli un coltello alla gola, gli rubò le chiavi, fuggendo via là dove l’attendevano tre barche armate per partire alla volta di Bologna e poi Roma. Solo nel 1511 riuscì a ritornare a Venezia e non perché la Signoria ce l’avesse particolarmente con lui, anzi pure gli firmò i lasciapassare, più che altro erano i suoi creditori che gliel’avevano giurata.

[3] Sebastiano Priuli fu arcivescovo di Nicosia e Patriarca d’Antiochia, morì il 2 ottobre 1502. Marco Dandolo (1458-1535) fu un diplomatico, politico ed umanista, fino al 1488 zio acquisito di Marco Corner, avendo sposato sua zia Lucia nel 1485.

[4a] cardinal Flisco = Niccolò Fieschi (1456-1524), cardinale e arcivescovo, uno dei più stretti collaboratori di Giulio II e fratello di Santa Caterina Fieschi Adorno, autrice del Trattato del Purgatorio.  [4b] Christofal Bambrize = Christopher Bainbridge (1464-1514), arcivescovo di York (Archiepiscopus Eboracensis in latino), poi cardinale e oratore di Enrico VIII Tudor presso Giulio II. [4c] segnor Vich =  Jeronimo Vich y Valterra (1459-1535), ambasciatore di Ferdinando II il Cattolico. [4d] Antonio Pallavicino Gentile (1441-1507) fu cardinale, datario apostolico, camerlengo ed elettore di Alessandro VI, Pio III e Giulio II. Morì nel 1507 ed è sepolto a Santa Maria del Popolo. Suo nipote Giovanni Battista (1480-1524) diverrà cardinale sotto Leone X e titolare di Sant’Apollinare. Venne seppellito, alla sua morte, nella medesima chiesa dello zio.

[5] Ducha di Borgogna =  Carlo d’Asburgo, figlio dell’Arciduca d’Austria Filippo d’Asburgo, nipote di Massimiliano e futuro Imperatore Carlo V.

[6] San Vittore e Santa Corona (o Stefania nella versione greca), sono i santi patroni di Feltre, le cui reliquie si possono venerare nell’omonima basilica santuario  a 3km dalla città.

[7] cernide = sotto la Serenissima, la cernida indicava una milizia territoriale costituta da contadini addestrati. Il vantaggio rispetto alle truppe mercenarie era la rapidità del reclutamento.

[8] parlar moscheto = linguaggio più alto, cittadino, in contrapposizione con la parlata locale e popolare.

[9] Carmagnola = Francesco Bussone, detto il Carmagnola. Insospettita dai continui rinvii dell’attacco finale da parte del condottiero, malgrado i successi militari finora collezionati, attacco che avrebbe assicurato la sua vittoria contro Milano, la Serenissima aprì un’indagine sul Carmagnola per scoprirne i motivi. Ne risultò come egli si fosse messo d’accordo con Filippo Maria Visconti dalla cui parte aveva in progetto di passare. Arrestato, venne processato e decapitato per alto tradimento. Nel Romanticismo (specie Manzoni e Hayez) la vicenda del Carmagnola venne riletta in chiave innocentista, col Bussone vittima degli intrighi e invidie del Senato veneziano. Revisione errata, giacché la condanna del Carmagnola fu votata pressoché all’unanimità, cosa rarissima e dunque segno che le prove c’erano ed erano schiaccianti. L’atteggiamento ansioso/furente del Visconti dopo l’esecuzione (vedi “Giorgio Corner” nel capitolo precedente) aveva tradito poi una coscienza sporchissima.

[10] Rivolta di Morea = a seguito della caduta di Costantinopoli, Pietro Bua Spata incitò alla rivolta i 30,000 albanesi residenti in Morea (Peloponneso) contro i despoti Tommaso e Demetrio II Paleologi (il primo padre di Zoe Paleologa, poi divenuta granduchessa di Mosca col nome di Sofia Paleologa) a causa dei pesanti tributi che dovevano versare. Temendo il controllo degli Albanesi in Morea, il sultano Mehmed II intervenne per sedare la rivolta in favore dei Paleologi, tuttavia risparmiando lo sconfitto Pietro Bua Spata e riconoscendolo come rappresentante della comunità albanese in Morea. Il sultano inoltre mantenne la promessa di non attaccare i territori non occupati dagli Ottomani, tra cui appunto Napoli di Romania (Nauplia) e le zone veneziane rimaste in Grecia, dove risiedette il Bua e dove nacque Mercurio.

Secondo i nostri calcoli, siccome la rivolta è durata dal 1453 al ‘54, supponendo che Pietro Bua (di cui non si conosce la data di nascita) avesse avuto all’epoca almeno 25 anni, questo significa che morì sessantenne nel 1489, data certa della sua morte in quanto corrisponde al trasferimento di Mercurio a Venezia. Di conseguenza, Pietro avrebbe avuto Mercurio quand’era all’incirca cinquantenne e ciò non sorprende in quanto in data 1511 e trentatreenne, Mercurio aveva già un nipote, Andrea Bua, che militava con lui. Dalla scarnissima genealogia della sua famiglia abbiamo trovato un fratello, Nicolò, morto nel 1500 e molto probabilmente figlio di primo letto, mentre Mercurio e Teodoro (quest’ultimo forse il padre di Prodano Bua, l’altro nipote) erano di secondo letto, quindi i conti tornano (si spera).

Ringrazio Semperinfelix che ci ha aiutato coi vari calcoli, perché due cervelli son meglio di uno!

  
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