Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 21.12.2021
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Capitolo
Dodicesimo
10
settembre 1511
L’ambasciatore
sier Hironimo Donado
“dalle Rose” chiuse la finestra, lanciando
un’occhiata torva sulla piazza
semivuota sottostante. Cadaun giorno a Roma s’apprendeva di
nuovi ammalati di
febbre, quest’ultima assolutamente equa nel suo contagio e
trasportata dai
putridi venti ch’ammorbavano l’aria, rendendola
irrespirabile, come se la Città
Eterna avesse avuto bisogno d’ulteriore lezzo, onde apparire
più marcia di
quanto già non lo fosse.
Forse era
la stanchezza, forse era
l’età non più fresca, ma nelle ultime
settimane s’era ritrovato molto spesso ad
anelare alla sua patria, alla moglie madona Maria Gradenigo Donado e ai
loro
numerosi figlioli, a sua sorella madona Alba Donado Contarini e a suo
fratello
sier Andrea Donado, podestà di Treviso, chiedendosi della
loro salute, delle
loro occupazioni, di quali crucci li stessero tormentando, dei loro
progressi e
progetti, se avessero ricevuto le sue lettere e quali sentimenti li
avevano
suscitato. Né la musica né la composizione di
poesie in greco ed in latino,
grandi sue passioni fin da giovinetto, lo consolavano più; a
malapena lo
distraevano le conversazioni con il suo segretario, Lorenzo Trivixan.
Talora,
tra la veglia e il sonno nella
sua abitazione a Campo Marzio, sier Hironimo ripercorreva gli episodi
di vita
famigliare trascorsi assieme, tra un incarico e l’altro:
ripensava al giorno
delle sue nozze, ai frizzanti distici latini del suo compare
d’anello, Almorò
Barbaro, ch’avevano fatto sghignazzare i giovanotti ed
arrossire le fanciulle; ai
battesimi dei vari nipoti; al primo incontro tra suo figlio Phelipo e
il
magister Marino Becichemo e di quanto il giovane avesse sprizzato
d’orgoglio
alla prospettiva di divenire l’allievo d’un uomo
sì dotto. Sier Hironimo si
rivide alle nozze di sua figlia Ysabeta con sier Faustino Dolfin e
anche al
secondo matrimonio della sua Luzia con sier Cabriel Moro, dopo averla
consolata
per la perdita di domino Francesco Martinengo suo primo sposo.
Questa
malinconia, questo rivangare il
passato inquietava assai l’ambasciatore: sin da giovane aveva
viaggiato in
lungo ed in largo per l’Italia e per l’Europa,
avendo ricoperto ruoli che
l’avevano quasi sempre condotto fuori da Venezia, quali
oratore in Francia, in
Portogallo, a Milano, a Genova, a Lucca e presso
l’Imperatore; era stato Duca
di Candia; visdomino di Ferrara; podestà a Brescia, Ravenna
e Cremona e Roma la
conosceva oramai meglio della sua scarsella, avendo in più
occasioni
rappresentato la Signoria presso la corte papale, delle cui insidie suo
padre,
il fu sier Antonio “dalle Rose”, ben
l’aveva istruito avendo egli stesso
ricoperto la medesima carica. Eppure, mai aveva il Donado avvertito
tanta
nostalgia di casa come in quel momento, mai quella smania di
riabbracciare la
sua famiglia e d’aggrapparsi al ricordo d’essa per
non lasciarsi confondere da
una sottile angoscia. Si diceva che soltanto chi era prossimo alla
morte s’immergeva
nei ricordi del passato; al che, se tale era il suo ineluttabile
destino, il
“dalle Rose” pregava Iddio e la Vergine di
concedergli di concludere prima la
sua missione e poi di disporre di lui come meglio credevano.
Sier
Hironimo sospirò pesantemente:
forse le sue erano le tipiche crisi della vecchiaia, acuite dai soliti
acciacchi ai reni. Aveva cinquantaquattro anni e troppi viaggi, troppe
missioni
delicate alle spalle, ch’avrebbero sfibrato chiunque. Gli
ultimi anni,
specialmente, gli pesavano alla stregua di macigni, avvertendo come
Atlante il
pesantissimo fardello affidatogli dalla Signoria: su di lui, infatti,
dipendeva
la sua salvezza.
Perché
mentre i generali e condottieri
tenevano impegnato sul campo di battaglia il nemico, la diplomazia
veneziana
gli scavava il terreno da sotto i piedi. Già nel 1509, dopo
la sconfitta dei
Collegati sotto le mura di Padova, la Signoria era riuscita ad
attaccare
economicamente la Lega antiveneziana, stipulando un accordo con la
Sublime
Porta: i Turchi, infatti, avevano incominciato a boicottare i panni di
Firenze,
di Ragusa e di Genova, diminuendo i finanziamenti del nemico e rendendo
insidiose le rotte marittime. Non meno importante, il coinvolgimento
indiretto
del Sultano aveva garantito la neutralità del Re
d’Ungheria, il quale se
all’inizio s’era lasciato sedurre dalle ipotetiche
conquiste promessegli
dall’Imperatore, aveva poi rinculato per tenersi buoni i
Veneziani per non
essere invaso dai Turchi.
Il vero
obiettivo, però, era e rimaneva
il Papa.
Il
cardinale Marco Corner del cavalier
sier Zorzi aveva riferito alla Signoria come Giulio II, prendendolo in
disparte, gli avesse confidato d’aver in realtà
sempre amato la Repubblica e di
quanto gli dispiacesse veder la rovina dello stato veneziano per mano
di quei
barbari. Aveva sostenuto d’esser stato costretto ad unirsi
alla Lega di
Cambrai, poiché sdegnato dalle violazioni dei diritti papali
e delle sue terre
per mano dei Veneziani.
La
realtà, invece, era ben altra: il
Papa aveva capito d’aver fatto il passo più lungo
della gamba e di trovarsi
dinanzi ad un avversario che, per la sua sopravvivenza, non aveva (e
non
avrebbe) esitato a giocar sporco. Pertanto, aveva cambiato opinione per
trarne
il maggior profitto. Egli aveva imposto alla Serenissima di riconoscere
per
giusta la scomunica e di chiedere pubblicamente perdono per essere
assolta. In
più, l’aveva obbligata a restituire Rimini,
Faenza, Cervia e persino Ravenna; a
sopprimere il diritto del Doge di designare i vescovi, di prelevare le
decime,
le imposte sui beni ecclesiastici; le aveva proibito di giudicare in
tribunale
gli ecclesiastici, a disconoscere il suo dominio nel Golfo e a
permettere ai
sudditi papalini di navigare liberamente le sue acque.
Sier
Hironimo Donado, sier Domenego Trivixan,
sier Lunardo Mozenigo, sier Alvixe Malipiero, sier Polo Capelo e sier
Polo
Pisani il 24 febbraio 1510, nell’atrio della Basilica di San
Pietro, avevano
recitato la dichiarazione di Venezia di pentimento e di sottomissione
dinanzi
al Papa e a dodici cardinali. Questi poi, impugnate delle verghe,
avevano cantato
il Miserere mentre gli ambasciatori avevano
ascoltato lividi e rancorosi
in ginocchio. Giulio II, trionfo, aveva recitato solenne la formula di
assoluzione,
ignaro dell’odio e della vendetta ch’animavano le
preghiere degli oratori
veneziani. I notai avevano letto la lista delle penitenze imposte e poi
tutti
s’erano recati nella Cappella Sistina per assistere alla
Messa, tra squilli di
trombe e grandi dimostrazioni, laddove gli ambasciatori avevano pregato
Dio e
la Madonna di confondere il Papa. E al funerale di sier Polo Pisani,
morto di
lì a poco, i legati veneziani avevano solennemente giurato
sul catafalco del conterraneo
d’ingegnarsi in ogni modo per sconfiggere i numerosi nemici.
Così
fu: mentre Della Rovere gongolava
per la sua vittoria, la Serenissima progettava alla prima occasione di
disconoscere ogni capitolo di sottomissione, nel frattanto che sier
Hironimo,
rimasto a Roma, assieme al cardinale Marco Corner aveva incominciato a
tastar
il polso ai condottieri da assoldare, incominciando da Renzo di Ceri,
Giampaolo
Baglioni e Troilo Savelli.
La
volontà di potenza di Giulio II era
stata tale, inoltre, d’aver peccato di hybris: dopo aver
creduto d’aver soggiogato
la ribelle Venezia, egli aveva ripreso l’antico progetto dei
Borgia, ossia
l’assoggettamento della Romagna al diretto controllo di Roma.
Così, in barba al
fatto che fossero alleati, il Papa aveva dato il terzo scossone alla
Lega di
Cambrai attaccando il Ducato di Ferrara, dopo aver tentato di sottrarre
Genova
ai Francesi. Sier Hironimo e i suoi colleghi avevano seguito Giulio II
durante
l’intera campagna invernale, fino allo zenit
dell’assedio di Mirandola.
Ciononostante, malgrado il Papa si fosse messo lui di persona a capo
dell’esercito, aveva trovato in Alfonso d’Este un
avversario altrettanto
ostinato, oltre a ben spalleggiato da Francia e Spagna,
sicché l’incapacità di
Della Rovere di portare a termine la conquista di Genova, Bologna,
Ferrara e
delle altre terre emiliane e romagnole aveva minato non soltanto la sua
immagine di ferocia e imbattibilità, semmai
l’aveva indebolito e screditato agli
occhi del mondo.
Il
tentativo d’accordo a Mantova del
marzo del 1511, laddove una Lega visibilmente in difficoltà
si era dimostrata
disposta a porre fine alla guerra, a patto che Venezia pagasse le spese
della
pace e riconoscesse l’alta autorità imperiale sul
territorio di Terraferma,
pagando all’Imperatore un grosso censo, era fallito non
soltanto perché la
Serenissima aveva fatto intendere a Maximilian cosa gli avrebbe dato di
grosso
al posto del censo, bensì per l’intemperanza di
Giulio II, che non aveva
gradito la spocchia del segretario del Re dei Romani, Mathias Lang vescovo di Gurk, che
s’atteggiava da trionfo
vincitore.
Dulcis in
fundo, poco dopo la debacle a
Mantova, a Pisa s’era riunito un concilio di natura
palesemente scismatica, indetto
dal cardinale di Santa Croce Bernardino López de Carvajal,
dal Re di Francia, dall’Imperatore,
dal cardinale Federico Sanseverino ed altri porporati per eleggere
pontefice proprio
de Carvajal e ciò allo scopo di punire quella banderuola di
Della Rovere. Al
che questi, tra una bestemmia e l’altra, aveva giurato su
ogni cosa sacra al
mondo, che non sarebbe morto prima d’aver interdetto,
scomunicato e tagliato a
pezzi tutti i sostenitori di Louis XII, laici e religiosi, a partire da
quel
traditore di Carvajal che s’era prestato a
quell’indegna porcheria. Malgrado
queste sfuriate, però, il Papa stava perdendo la sua
fierezza ed arroganza, non
essendosi atteso questa contromossa. Ed ecco, sommo miracolo, che il
persecutore era venuto a chiedere consiglio al perseguitato: purtroppo
per lui,
stavolta Venezia aveva idee e soprattutto richieste ben chiare e sier
Hironimo
Donado non gli si presentava più supplice al suo cospetto,
bensì in veste di
negoziatore.
Abbandonando
la finestra, sier Hironimo
“dalle Rose” si risedette a tavola tra i suoi
compatrioti lì presenti: domino
Nicolò Lipomano q. sier Thomà, protonotario
apostolico; domino Marco Corner di sier
Zorzi ed infine il loro anfitrione, domino Domenego Grimani di sier
Antonio. Approfittando
dell’indisposizione del Papa Giulio II di vedere chicchessia,
il cardinale
Grimani aveva, tramite accorti messaggi, invitato i tre suoi ospiti ad
“ammirare
un manoscritto greco assai raro, miniato ad arte, di recente
acquistato” nel
suo elegante Palazzo di San Marco [1] dai marmi di travertino del
Colosseo e
del Teatro Marcello, costruito dal loro conterraneo Papa Paolo II
quand’era
ancora il cardinale Piero Barbo.
Inutile
dire quanto nessuno avesse
sospettato di un imbroglio: la fama del cardinale
d’eccellente filosofo e
teologo, di bibliofilo e mecenate s’equiparava a quella di
fine politico, ed
egli stesso amava raccogliere attorno a sé una piccola corte
dei migliori
talenti artistici ed intellettuali che transitavano a Roma, come ad
esempio
Erasmo da Rotterdam, suo graditissimo ospite per l’intero suo
soggiorno romano.
Sier Hironimo stesso aveva usufruito della sua ricca collezione di
libri,
manoscritti, breviari, codici, avendogli il Grimani procurato il De
Anima
d'Alessandro d'Afrodisia, che il “dalle Rose” aveva
successivamente tradotto in
latino, prima di cederlo al Poliziano. Naturale, quindi, che il
cardinale
avesse voluto invitare i suoi conterranei, onde ammirare
l’ultimo suo acquisto.
L’intero
Palazzo di San Marco trasudava
del resto di quest’amore di domino Domenego per la cultura e
per l’arte, in
particolare per i pittori settentrionali, spiccando una robusta
raccolta di
dipinti di Hans Memling, Hieronymus Bosch ed Albrecht Dürer,
ma era la sua biblioteca
il suo vero motivo di vanto, arrivando perfino ad acquistare, nel 1498,
la collezione
intera di Pico della Mirandola. I suoi conterranei giocosamente lo
sfottevano, asserendo
come amasse più le donne miniate degli incunaboli che quelle
in carne ed ossa.
Il cardinale ridacchiava, rispondendo altrettanto mordace
ch’era proprio così,
poiché quelle sui libri si lasciavano sfogliare senza
chieder nulla in cambio. Quando
non sguinzagliava i suoi agenti in cerca di rarità
d’aggiungere alla sua
biblioteca, Domenego Grimani aveva inoltre incominciato sei anni
addietro
robuste opere di restaurazione ed abbellimenti al Palazzo di San Marco,
oltre a
comprare dei terreni presso il Quirinale dove aveva fatto costruire una
magnifica villa privata, sede di feste e divertimenti atti a dimostrare
la
potenza della sua famiglia e soprattutto a creare utili amicizie per il
futuro.
Qui vi aveva soggiornato suo padre sier Antonio, libero finalmente
d’abbandonare
l’isola dalmata dov’era stato confinato dalla
Signoria per aver perduto la
battaglia di Zonchio del 1499; il cardinale l’aveva accolto
senza discutere e a
braccia aperte, invitandolo a pazientare e di vivere ritirato,
finché alla
Serenissima non fosse passata in via definitiva
l’arrabbiatura.
A far
compagnia al Grimani caduto in
disgrazia, c’era stato il fratello di domino
Nicolò Lipomano, sier Hironimo
Lipomano, riuscito anch’egli dopo anni d’assenza
forzosa (o esilio informale a
seconda dei punti di vista) a rimpatriare a Venezia, grazie al cospicuo
patrimonio lasciatogli dalla sorella Maria, deceduta senza eredi, e
manna dal
cielo onde ripulire e rilanciare il loro nome a seguito del disastroso
fallimento del loro banco [2]. Vero che inserendosi tra le dinastie
ecclesiali
i fratelli Lipomano erano riusciti a navigare in acque tempestose, ma
la
nostalgia era stata troppa, specie per sier Hironimo Lipomano cui non
garbava
quella vita da vagabondo tra Roma e Bologna. Sier Hironimo
“dalle Rose” aveva già
conosciuto domino Nicolò ai tempi dei suoi studi
universitari a Padova, in
comune amicizia con il fu domino Sebastian Priuli e sier Marco Dandolo.
[3]
Questi
dunque erano i commensali
ch’animavano quell’informale colazione, uomini
lontani dalla madrepatria e di
essa nostalgici, pur impiegando ogni loro energia e pensiero per la sua
salute.
“Xéo
stà on pecà la morte
dell’ambasciatore portoghese”, esordì il
giovane cardinale Marco Corner,
giocherellando coi chicchi del suo melograno, prima di portarseli alla
bocca.
“Dopo il cardinale Argentino, abbiamo perduto non soltanto un
valido alleato,
ma anche un gran brav’uomo.”
Sier
Hironimo Donado annuì,
ricordandosi il fu oratore e di come gli fosse risultato simpatico
già al loro
primo incontro a Lisbona, anche se ormai si trattava di quasi
venticinque anni
addietro.
“Lasciamo
che i morti seppelliscano i
loro morti e badiamo al futuro”, liquidò invece in
fretta le condoglianze
domino Domenego Grimani, focalizzandosi sulla spinosa sfida del
presente. “Ciò
che mi preme, in questo momento, è di sapere se Di la Roare
abbia intenzione di
vivere o di morire. Un giorno sembra migliorare, mangia persici e
olive,
sbevaza vino peggio d’un ubriaco in osteria e minaccia
d’impiccare chiunque
glielo impedisca. Il giorno dopo, però, eccolo in fin di
vita, pronto a render
l’anima a Missier Domeneddio.”
“Di
sicuro la malattia del Papa crea
molti disordini e rallenta el tutto”,
asserì domino Nicolò Lipomano
corrucciato. Inghiottì un sorso di malvasia.
“Questa febbre è stata una
maledizione per noialtri”, commentò.
“In
effetti”, aggiunse sier Hironimo
Donado, “anche il cardinale Flisco [4a] e il cardinal
d’Ingaltera domino
Christofal Bambrize [4b] risultano contagiati. Tuttavia, prima di
buttarsi in
letto, l’episcopo eboracense m’ha assicurato che il
suo signore, il re Errico, v’era
etiam. E come lui, anche l’oratore yspano, el
segnor Vich [4c], conferma che
don Ferrando viene di bone gambe.”
“Credete
che ci possiamo fidare del Re
Cattolico?”, inquisì Marco Corner.
Sier
Hironimo Donado allargò le
braccia. “Se non della sua persona, del suo odio giurato nei
confronti del Roy
di Franza e del suo timore che Maximian, con la scusa della guerra,
s’avvicini
troppo a re Ludovico, estraniandogli gradualmente il nipote, il Duca di
Borgogna [5], ed erede delle corone di Castija ed Aragò.
Sapete bene come, per
raggiungere i suoi obiettivi, don Ferrando non si fermi davanti a
niente: ha
perfino dichiarato pazza sua figlia, la regina Zuanna, ed assassinato
il di lei
marito don Phelipo, figlio
dell’Imperatore.”
Il
cardinale Corner arcuò scettico il
sopracciglio. “Null’altro che una ciancia, sier
Hironimo.”
“Co’
ghe xé na óse, (voce, ndr.) ghe xé
na nóse (noce, ndr.), si suol dir”, gli
ricordò ambiguo il protonotario
Lipomano.
I
commensali tacquero un istante
all’arrivo del panunto con fichi e lattemelle; licenziati i
servitori e
congratulato l’anfitrione, sier Hironimo Donado
proseguì il discorso di sier
Nicolò:
“E
la noce è che il Cattolico sta
tirando verso il Royssilion ed ha preteso quattro castelli dal re di
Navara per
segurtà dei suoi confini. Il Roy de
Franza dovrebbe fidarsi di don
Ferrando come dell’assassino di sua madre. Ricordatevi del
Trattato di Bloys:
re Ludovico ha ceduto i suoi diritti su Napoli a sua nipote Zermana de
Foys,
maritata al Cattolico e ora regina d’Aragò.
Tuttavia, il patto prevede che se
la Reyna non dovesse generare eredi maschi, ogni rivendicazione della
corona
aragonese su Napoli cadrebbe in perpetuum, tornando indietro il Reame
al Roy de
Franza. Che io sappia, fino ad oggi, di figli maschi e vivi don
Ferrando dalla
sua siora mojer ancora non ne ha avuti”, espose
l’oratore l’attuale rapporto
politico tra re Fernando e re Louis, una corda tesissima di liuto
pronta a
spezzarsi alla prima incauta pizzicata. “Perciò mi
sono preso la libertà d’esporre
i miei dubbi al segnor Vich: se Veniexia avesse da cader, chi
v’assicura ch’el
roy de Franza nol punti al
Royssilion dopo
Napoli? E perché non anche alla Cicilia, la quale non mi
sembra distare tanto
da Napoli? Come già se n’era discusso
l’anno addietro, ho ricordato al segnor
Vich che ho conosciuto di persona don Ferrando, di cui ne avevo
apprezzato la
prudenza e la saggezza, e di come fossi certo che anche lui avrebbe
ritenuto pericoloso
il favorire i disegni francesi di dominio, cedendo lo Stato da Tera
all’Imperatore.”
“E v’ha
creduto?”
“Era
bianco di paura.”
“Come
il Papa”, dichiarò Domenego
Grimani. “Malgrado le sue minacce, le sue bestemmie ed
escandescenze, Di la
Roare vive nel timore che a suo danno Franza e Impero affettino
l’Italia con
piron e cortelo. Ma più del Re dei Romani, cui basta lo
Stato da Tera e danari
per placare la sua fame, è il Roy de Franza colui che
veramente ruba il sonno
al Papa.”
“Il
Papa, con la Lega, ha creato un
mostro che non sa più gestire e che finirà per
divorarlo”, puntualizzò sier
Hironimo.
“Appunto
su questa paura dobbiamo
premere e attaccare, senza pietà, finché Julio
non s’arrenderà all’evidenza
d’essersi estraniato ai suoi previi alleati e, isolato, non
gli resterà che ballare
alla nostra musica!” e il cardinale Grimani batté
sul tavolo ad ogni parola la
punta dell’impugnatura del coltello, onde reiterare il
concetto.
“Lasciatemi
tentare. Con me il Papa s’è
sempre dimostrato ben disposto.”
“E
chissà perché, reverendissimo sior
Marco, la cosa non ci sorprende.”
Il
giovane Corner, intuendo
l’allusione, arrossì violentemente.
“Il
Papa in questo momento naviga nella
confusione: più della capitolazione di Mirandola lo scorso
gennaio, è stato il
Concilio di Pisa indetto da Franza e Impero ad averlo veramente
scardinato. Chi
potrà mai credere alla sua autorità, quando gli
stanno letteralmente togliendo
il trono di Sen Piero da sotto le terga, per offrirlo ad un
Antipapa?”
“Nessuno”,
risposero domino Nicolò e
sier Hironimo.
“Giusto.
Nessuno lo temerà, nessuno lo
prenderà più sul serio e le sue terre diverranno
preda golosa e Di La Roare
potrà biasimar soltanto se stesso e la sua cupidigia
– vae victis, e il
perdente ingoia e tace”, sorrise obliquamente domino
Domenego, colui che grazie
alla sua pazienza di predatore aveva smussato un poco alla volta,
giorno dopo
giorno, l’ostilità antiveneziana
nell’implacabile pontefice, finché questi non
aveva revocato la scomunica alla Serenissima. Di più: a
maggio egli aveva
cantato la Messa di Pentecoste e niente gli stava impedendo
d’imporsi tra i
porporati più importanti dell’Urbe.
Dinanzi a
tal obiettivo di vitale
importanza, il cardinale Grimani e il cardinale Corner erano perfino
giunti ad
accantonare le rispettive divergenze ed antipatie, non essendosi, a
livello personale,
mai piaciuti. Domino Marco era d’altronde ricco, ambizioso e
generalmente un
bel giovane di ventinove anni, fattore da non sottovalutare alla corte
edonista
di Giulio II. Ma il cinquantenne domino Domenego possedeva maggior
esperienza,
amicizie e acume politico da sapersi giostrare alla meraviglia
nell’insidiosa
curia romana. Per amor della Serenissima, i due avevano deciso di
lavorare in
comune accordo come in mutuae, il Corner sfruttando
la beltà del viso
suo e la giovinezza tanto gradita al Papa e il Grimani
l’acuta scaltrezza d’una
vivace intelligenza.
Quanto
all’ambasciatore, sier Hironimo
necessitava d’ambedue i cardinali per la sua missione: che si
beccassero pure
peggio dei capponi, se la cosa li dava gusto, però solo alla
fine del conflitto,
non prima.
“Saria
vera sta favoleta?”, fece
sardonico il Donado “dalle Rose”, massaggiandosi
all’altezza della vescica, là
dove ultimamente lo coglievano alcune fitte moleste.
“Crederà davvero che
Franza e Impero, con l’ausilio dei loro lacchè,
abbiano intenzione d’invadere
le sue terre una volta spodestatolo?”
“Perché
altrimenti scomodarsi ad indire
un Concilio, consci del rischio di scomunica? Inoltre, don Alphonso
d’Este ci
ha fatto un grandissimo regalo, con quel suo maldestro complotto
d’avvelenare
il Papa. Praticamente, l’ha spinto dritto tra le nostre
braccia ed ora in
avanti, ciò che noi diremo a Di la Roare, sarà
per lui tanto vero quanto il
Vanzelo!”, ribatté il cardinal Grimani. E
sogghignando: “Siete stato davvero
scaltro, sier Hironimo, a suggerirgli di muovere guerra contro il
Ducato.”
Il
“dalle Rose” fece spallucce: “Gli ho
soltanto fatto notare, che Frara apparteneva allo Stato della Chiesa e
che
l’unico motivo, per il quale il signor Duca faceva la voce
grossa e rifiutava
sottomissione ed obbedienza alla volontà papale, era
perché puttaneggiava a
turno con Francia e Spagna. Se poi il Papa ha voluto implementare le
mie
osservazioni, problemi suoi: anche nella sconfitta noi ci abbiamo
comunque
guadagnato. Infatti”, sottolineò,
“l’attacco agli Estensi primo li ha fatto
passare la sbornia di Polesella; secondo, ha sviato
l’attenzione dei Collegati
da Trevixo, dando alla città tempo e modo di continuare a
fortificarsi.”
“Stando
alle lettere di vostro fratello
sier Andrea, i franco-imperiali stanno nuovamente puntando contro la
città”,
rimarcò domino Nicolò. “Proprio non
demordono dal loro progetto d’assoggettare
la Marca!”
“Sì”,
ammise un poco preoccupato
l’ambasciatore, ripensando ai dispacci del
podestà, “ma la Trevixo di adesso
non è più quella dell’anno scorso e la
presenza di veterani come sier Zuam Paulo
Gradenigo, Lorenzo Orsini e Vitello Vitelli hanno di molto tirato su il
morale.”
“Anche
ad Agnadello avevamo dei
veterani a capitanare le nostre milizie”, gli
ricordò il Lipomano. “E sappiamo
tutti com’è finita.”
A
quell’obiezione sier Hironimo non
poté controbattere, limitandosi a piegare la bocca in una
smorfia amarissima.
“Dobbiamo
aver fede” sentenziò
fiducioso Marco Corner, interrompendo lo scoraggiato silenzio,
“Trevixo ha
sempre dimostrato d’esser all’occasione una fiera
combattente e la sua gente è
famosa per scegliere da sé la propria forma di governo,
coerente fino alla
morte nelle proprie decisioni. Non dimentichiamo, poi, della
grandissima
protezione di Nostra Donna a quella città, rimasta per due
anni illibata da
ogni saccheggio. La mia povera siora Amia Catharina – a chi
Dio perdoni – per
ben due volte è dovuta scappare da Asolo, di cui era
signora. E Trevixo, che
non dista molto, non è mai stata sfiorata dalle truppe
nemiche. Non è
umanamente possibile tanta fortuna.”
“La
sconfitta dei Francesi e dei Tedeschi
sotto le sue mura saranno la prova definitiva del favore di Dio e della
Madonna
alla nostra causa”, dichiarò grave il cardinal
Grimani. “Tuttavia, dobbiamo
anche noi dare il nostro contributo: gli eventi dell’anno
scorso ci hanno ben
indicato il modo in cui possiamo sconfiggere i Collegati”, disse e scelse dalla cesta
d’argento una
particolare mela, la più grossa e dura in quanto ancora
acerba e impossibile
perciò da addentare.
A
brigante, brigante mezzo e quanto
dissetava la dolce vendetta; se Domenego Grimani non aveva ceduto alla
disperazione o alla vergogna, neppure quando Giulio II
l’aveva obbligato in
concistoro assieme a Marco Corner d’ascoltare muti e in piedi
la scomunica
della Serenissima, egli facendosi tetragono aveva trovato la forza di
reagire
grazie al costante pensiero e affetto che nutriva per la Signoria: sto
al
mondo, aveva confessato al padre sier Antonio Grimani, per
servirla ed
onorarla.
“Il
Papa deve annegare nella paura
d’emulare i suoi predecessori avignonesi: solo
così ci verrà veramente incontro!
Non basta l’aver sciolto formalmente la Lega. Dobbiamo
spezzarla in via
definitiva!”, concluse il cardinale Domenego e i suoi
ascoltatori annuirono
solenni in muta approvazione, osservando attenti come il cardinale
avesse preso
a tagliare la mela in otto parti, il numero esatto dei fautori della
Lega di
Cambrai. Disposti in linea gli spicchi, una alla volta se li
mangiò, finché
quella mela, così difficile da mordere, non era svanita dal
piatto nell’arco di
quale istante.
Nicolò
Lipomano si recò allora alla
scrivania, abbozzando la prossima lettera al Senato.
“In
conclusion, l’orator gh’ha
manchato de molti avisi e di le cosse de Ingaltera. Item,
gh’è stà dal Papa et
verba pontificis, qual non xé ben varito et fa desordeni, e
l’orator yspano nui
gh’ha dito, aver hauto letere di Spagna et mandato amplo di
far la liga, e si
’l Papa stesse ben saria conclusa, et v’era etiam
Ingaltera; tamen l’orator
gh’ha zonto, il papa si acorderà con Franza. Item,
fiorentini danno Pisa al
concilio, il papa l’à ’uto molto a mal
et dicunt, xé stà perlongà a chalende
di
novembrio dito concilio …”
E mentre
ancora il protonotario stava
scrivendo, il segretario di sier Hironimo Donado bussò
discretamente alla
posta. “Zelenza. Domino Cajtan dei Conti di Thiene
è appena giunto”, comunicò
Lorenzo Trivixan sottovoce al suo superiore, che a sua volta
scoccò un’occhiata
significativa al cardinal Grimani. “Pulito. Conducilo qui.
È solo?”
“Peggio
d’un cane.”
“L’ha
seguito qualcuno?”
“Nessuno,
zelenza, ci siamo ben
accertati di questo.”
Sier
Hironimo espresse la sua
soddisfazione, congedando il segretario che scese nell’atrio
del Palazzo per
far salire il nuovo arrivato.
“Domino
Cajtan?”, reclinò il capo il protonotario
Nicolò Lipomano, intrigato nel sentir nominato il proprio
collega. “Siete
riuscito a persuaderlo ad unirsi alla nostra causa?”,
domandò leggermente
incredulo, non appartenendo infatti il Thiene allo storico patriziato
veneziano, la sua famiglia ammessa soltanto in seguito
all’annessione di
Vicenza alla Serenissima.
L’ambasciatore
sier Hironimo negò, arricciando
tuttavia furbescamente gli angoli della bocca.
“L’ho convinto a porgere i suoi
saluti ai reverendissimi domini Domenego e Marco, i quali, gli ho
confidato, si
sono dimostrati assai volonterosi d’aiutarlo a finanziare le
sue opere di
carità”, ed ignorando gli sbuffi sarcastici dei
diretti interessati per una
scusa sì debole, egli continuò:
“Sì, sì, sembra banale ma corrisponde
al vero:
del resto, fonti attendibili mi hanno rivelato che i suoi benefici
parrocchiali
a Malo e a Bressanvido non gli rendono molto e come potrebbero con la
guerra in
corso, che ha devastato l’intero agro vicentino?
Verrà dunque alla prospettiva
di danaro e sarà lì che i reverendissimi
cardinali termineranno la mia opera di
persuasione. Alla fine, domino Cajtan rimane comunque un uomo di chiesa
e ben
può schermarsi dietro la religione per rifiutarci il suo
aiuto. Voialtri,
reverendissimi” ed indicò Grimani e Corner,
“siete i soli qui che possono parlargli
alla pari.”
I due
porporati si scambiarono
un’occhiata connivente, gradendo assai il piano del
“dalle Rose”.
Lorenzo
Trivixan ricomparve poco dopo,
camminandogli appresso il protonotario apostolico il quale, dopo le
introduzioni ufficiali, s’inginocchiò dinanzi al
cardinale Grimani prima e poi
al Corner, baciandoli l’anello.
Cajtan da
Thiene era giunto neppure
quattro anni addietro a Roma, soggiornando nel palazzo poco distante
dalla
chiesa di San Simeone ai Coronari ch’apparteneva a domino
Giovanni Battista
Pallavicino vescovo di Cavaillon, suo esatto coetaneo e nipote del fu
cardinale
domino Antonio Pallavicino Gentile. Di trentun anni, dalle belle
maniere e di
pronta intelligenza, Cajtan aveva da ragazzo conseguito a Padova la
laurea in
utroque iure, scegliendo in seguito contro il parere di sua madre
domina Maria
da Porto la via del sacerdozio, avendo infatti perduto il giovane,
oltre a suo
padre il conte Gaspare da Thiene, anche due fratelli e la contessa
vedova
temeva di conseguenza l’estinzione del ramo diretto del
casato. Né le lacrime
né le giuste obiezioni materne avevano smosso la
determinazione del figlio, il
quale aveva ugualmente ricevuto la tonsura dal vescovo di Vicenza
domino Piero
Dandolo e anzi, a prova della serietà della sua vocazione, a
sue spese aveva
promosso l’edificazione della chiesa di Santa Maria Maddalena
nella tenuta
comitale di Rampazzo.
Spinto
però dall’energica sete
d’esperienze tipiche della gioventù, il Thiene
s’era trasferito a Roma e dal
Papa Giulio II aveva ottenuto l'incarico di scrittore delle lettere
apostoliche, entrando a far parte della sua cerchia personale. Il
pontefice,
compiaciuto dalla serietà e dedizione del giovane, lo aveva
inoltre beneficiato
delle chiese di Santa Maria di Malo e di Santa Maria di Bressanvido e a
livello
personale sempre l’aveva lodato e stimato, appellandolo in
pubblico spesso
“figlio diletto” e “nostro
familiare”. Ed in effetti, aveva appurato sier
Hironimo Donado, v’era qualcosa di estremamente limpido nel
volto di Cajtan,
una freschezza non ancora deturpata dal cinismo ed arrivismo
ch’infettava
l’animo di ogni componente della Curia Romana. Un giovane di
buona volontà, seriamente
convinto della propria missione religiosa e determinato nei suoi
obiettivi, ma
pronto tuttavia a conseguirli onestamente, senza inganni.
Un
infiltrato perfetto - aveva
concluso l’ambasciatore, iniziando pian
pianino ad avvicinarlo e lavorarselo - l’ultima persona di
cui Giulio II
avrebbe mai sospettato.
“Carissimo”,
pose una mano domino
Domenego sul capo del Thiene a mo’ di benedizione.
“La vostra visita ci
rallegra immensamente. Prego, sedetevi. Avete già
colazionato?”
“Vi
ringrazio”, prese posto Cajtan da
Thiene, sorridendogli, “non necessito di nulla.”
“Suvvia,
permettetemi d’adempiere ai
miei doveri di padrone di casa. Volete forse ledere la mia
reputazione?”, lo
rimbrottò giocosamente il Grimani, al che il chierico
cedette, richiedendo
soltanto un bicchier d’acqua. “No, no. Almeno un
biscotto. Li riconoscete?”,
inquisì l’uomo, mentre gli porgeva il vassoio
d’argento e non gli sfuggì il
luccichio nostalgico negli occhi del Thiene, alla vista di quei dolci
tipici
della sua madrepatria.
“Ancora
grazie”, si servì titubante
Cajtan di un biscotto, rigirandolo un poco imbarazzato tra le dita.
Onde
metterlo a suo agio, il porporato offrì il vassoio a domino
Marco, che si servì
e poi lo passò a domino Nicolò e questi a sier
Hironimo, il quale lo cedette
per ultimo al suo segretario.
“Non
è di vostro gradimento?”,
s’informò sornione il cardinal Domenego, notando
l’esitazione del vicentino a
mordere il biscotto, ch’aveva anzi timidamente appoggiato sul
tavolo, mentre
gli altri commensali o l’avevano già finito o
erano in pieno processo di
degustazione. E dinanzi all’espressione colpevole del Thiene,
sospirò: “Già.
Vedo che vi siete ben abituato agli usi e costumi di questa
città. Anche il
reverendissimo cardinal domino Zuanne Michiel – a chi Dio
perdoni! – m’aveva
spiegato, vent’anni fa al mio arrivo da Venezia, quanto
l’ospitalità romana potesse
rivelarsi agli incauti piuttosto … velenosa”,
lasciò ad intendere, spezzando a
metà il suo biscotto come l’Ostia benedetta. Ne
addentò enfaticamente un pezzo,
cedendo il secondo al protonotario apostolico, che stavolta
accettò docile.
“Eppure voi ben sapete, domino Cajtan, come non sia nostra
usanza uccidere di
nascosto sia i nemici sia i traditori. Lo facciamo alla luce del sole,
anche se
ciò significa suscitare l’altrui sdegno.”
Dinanzi a
quel velato rimbrotto, il
Thiene arrossì, sbatté le palpebre, prese un
piccolo morso del dolce a mo’ di
scusa, s’impappinò nel tentativo di giustificarsi.
“Io … mi dispiace, non è che
dubitassi … Io … ecco … in questi
giorni sto offrendo i miei digiuni e le mie
preghiere a Missier Domeneddio e alla Madonna, in suffragio delle anime
dei
miei conterranei, vittime di questa guerra …”,
mormorò a disagio, masticando un
altro pezzettino di biscotto.
“Ciò
vi rende onore”, asserì ieratico
domino Domenego, socchiudendo un poco gli occhi. “Pregate.
Pregate con fervore per
quegli infelici. Pregate per i morti quanto per i vivi, domino Cajtan.
Pregate
per quegli uomini trucidati per la loro lealtà a San Marco;
pregate per quelle
donne vergognate, indifferentemente dall’età e
dalla condizione, esibite a seni
nudi alle lerce voglie del nemico. Pregate per i neonati infilzati
nelle loro
culle, pregate per i bambini torturati ed uccisi o deportati come
schiavi in
Alemagna. Pregate, domino Cajtan, pregate per quei piccini morti senza
battesimo, soffocati nel sangue del grembo materno violato dal ferro e
dalla
foia del vincitore, piccole anime innocenti destinate al Limbo eterno,
che mai
contempleranno la gloria di Cristo! Pregate per coloro cui è
stata negata una
sepoltura da cristiani, gettati in pasto ai cani! Pregate,
sì, pregate per
questa Rachele che piange i propri figli e che non vuol esser
consolata, poiché
essi non sono più!”, elencò impietoso
l’uomo le crudeltà perpetuate dai
Collegati ai danni della popolazione veneta negli ultimi due anni ed
appresa
dalle missive degli ambasciatori.
Ad ogni
atrocità, le spalle di Cajtan
s’abbassavano ed egli stesso sussultava, neanche equivalesse
ad una frustata
alla schiena. Deglutì a fatica, sbattendo le ciglia
già inumiditesi di lacrime.
“Che altro volete ch’io faccia?”,
domandò infine dopo un lungo silenzio,
fissando il porporato in un misto tra rassegnato e speranzoso, avendo
infatti
colto la velata critica in quel discorso. “Non sono un uomo
d’arme, altro modo
non ho per sostenere la mia gente se non tramite la preghiera
…”
“E
le opere di carità?”,
s’inserì nel
discorso Marco Corner. “E’ cosa notanda di come voi
usiate i benefici parrocchiali
e aspettative per finanziare opere di carità in soccorso dei
derelitti,
ammalati e convertite qui a Roma …”
“An,
riguardo a quello …”
“Di
questo appunto vi volevamo parlare.
Di danaro e della sua gestione”, interruppe il cardinale
Grimani la spiegazione
di Cajtan. “Noi siamo più che disponibili a
contribuire in pie donazioni, però
al contempo vogliamo garanzie di buon uso. Altrimenti, sterco del
diavolo
rimane.”
Il
chierico vicentino fissò interdetto i
due porporati e le loro espressioni severe; dopodiché
spostò lo sguardo verso gli
altri astanti, avvertendo una sgradevole sensazione nelle viscere,
parendogli
quasi di trovarsi dinanzi ad un tribunale. “Non capisco
…”, asserì lentamente.
“Dove … dove sarebbe il male nelle mie opere? Si
tratta comunque di persone che
necessitano d’aiuto …”
“E
la vostra gente no?”, obiettò secco
il Corner. “Le vostre entrate provengono da parrocchie
vicentine, domino
Cajtan. Le quali sono al momento occupate da truppe straniere,
così come i
vostri parrocchiani sono continuamente perseguitati, torturati, uccisi,
vergognati! Il denaro che voi usate per rimpinguare questi parassiti
romani è macchiato del loro sangue!”
“Nostro
Signore ci ha comandato di
soccorrere il nostro prossimo, senza badare alla sua nazione e bandiera
… Egli
si trova in chiunque abbia bisogno d’aiuto”, difese
testardo il Thiene le sue
posizioni, sebbene sier Hironimo avesse afferrato un leggero nervosismo
in lui,
dal modo in cui tamburellava le dita sullo sgabello.
Era
inquieto, agitato dalle parole dei
due cardinali, i quali gli stavano offrendo una prospettiva che il
trentunenne
o ignorava o di cui non s’era curato finora
d’apprendere.
“E
il vostro prossimo”, inquisì
l’ambasciatore, “non è anche la vostra
gente, domino Cajtan? Come potete
dormire tranquillo la notte, sapendo che mentre i vostri conterranei
soffrono e
muoiono, voi sanate e sfamate proprio coloro che hanno voluto la loro
rovina?”
“Si
tratta soltanto di derelitti ed
ammalati …”
“…
che potrebbero un giorno arruolarsi
nell’esercito”, concluse per lui la frase sier
Hironimo. “Sicché ogni uomo
ucciso, ogni donna sforzata e ogni puto degolato o rapito
peserà sulla vostra
coscienza. Perché in Italia, la riconoscenza ha la memoria
corta. Credete forse
che coloro che avete beneficiato, mostreranno altrettanta clemenza nei
confronti della vostra gente? Neanche si ricorderanno del vostro nome,
nella
frenesia del saccheggio.”
Al che,
spazientito e col groppo in
gola, il protonotario vicentino balzò in piedi.
“Per questo motivo sono stato
qui invitato? Per ricevere rimproveri sul mio operato?”
“Al
contrario”, replicò placido il
cardinal Domenego. “Noi v’ammiriamo per la vostra
dedizione. Soltanto … che la
troviamo implementata nella direzione sbagliata.”
“Mi
state suggerendo di rimpatriare a
Vicenza?”
“Non
oseremmo chiedervi tale
sacrificio, mettendo inutilmente a repentaglio la vostra
vita”, l’assicurò su
quel punto Grimani. “Tuttavia, pur restando qui a Roma, lo
stesso voi potrete
aiutare i vostri conterranei.”
“E
non solo con preghiere”, puntualizzò
Marco Corner. “Ma con opere concrete.”
Cajtan si
risedette, ascoltando attento
e un poco apprensivo dinanzi a tanta apparente vaghezza.
“Sua
Celsitudine vi stima moltissimo”, esordì
cauto il cardinal Domenego, “al punto d’avervi
incluso nella sua famiglia”
e lo guardò significativamente.
“Apprezza
il mio lavoro, sì”, confermò
il Thiene, confuso.
“Non
mettiamo in dubbio, che vi siate
guadagnato onestamente la sua fiducia”,
chiarì subito il Corner, fugando
ogni allusione a doppio senso. “E la sua grande e
disinteressata considerazione
nei vostri confronti, non è un privilegio da poco qui a
Roma.”
“Immagino
di sì”, mormorò Cajtan,
irrigidendosi poiché incominciava a capire dove i porporati
e gli altri suoi
conterranei lo stavano pian pianino conducendo.
“In
questi momenti d’incertezza sulla
sua salute e sulla stessa stabilità del suo potere, Sua
Celsitudine non
desidera ricevere nessuno, tranne i suoi familiari e di chi si fida
ciecamente”, proseguì il Grimani. “Voi
incluso.”
“Gli
scrivo soltanto le lettere”, si
schermì il Thiene. “Non … non siamo in
confidenza.”
“Davvero?”,
gli domandò sornione il
cardinal Domenego. “Mentire è peccato,
figliolo.”
“A
voi o al Papa?”, ribatté Cajtan,
stringendo la bocca in una linea dura. “A chi dovrei
mentire?”
“A
nessuno”, fece lo gnorri domino
Marco.
Il
protonotario batté snervato il pugno
sulla coscia. “Voi mi state chiedendo di divenire la vostra
… la vostra spia”,
verbalizzò alla fine i suoi sospetti, ponendo fine a quello
stillicidio e
obbligando così i presenti a scoprire una volta per tutte le
proprie carte e a parlare
a viso aperto. “Mi state chiedendo di sfruttare la
benevolenza del Papa, per i
vostri scopi!”, li accusò sdegnato.
“E
se ciò fosse?”, ritorse altrettanto
aggressivo domino Nicolò Lipomano. “Vogliamo la
salvezza della nostra patria,
lo giudicate forse un crimine?”
“Voi
avete guadagnato molta più
reputazione di me presso Sua Celsitudine!”,
rimarcò Cajtan. “Io … io non valgo
nulla a confronto! Non sono un politico, in che modo potrei manipolare
uno come
… come il Papa?”, sbottò esasperato.
“Voi
ci riferirete ogni parola del
pontefice e voi gli riferirete ogni nostra parola”, gli
semplificò la questione
l’ambasciatore sier Hironimo.
“Se
n’accorgerà, figurarsi! Mica è nato
ieri!”
“Avete
studiato giurisprudenza, domino
Cajtan, rigirare le parole a vostra convenienza non dovrebbe risultarvi
complicato”, non si lasciò commuovere il Donado.
“Avete
ricevuto la tonsura, è vero, e dovete
lealtà a Cristo e alla Sua Santa Chiesa”, gli
concesse più benevolo il cardinal
Corner. “Ma siete anche veneto e dovete lealtà
alla madre che vi ha generato.
Ora questa madre è violentata, umiliata, saccheggiata e le
persone che vi hanno
nutrito ed allevato disperse, angariate, uccise. Volete voi prolungare
il loro
martirio? Chi state servendo in realtà? È il
vostro orgoglio che vi impedisce
di aiutare la vostra madrepatria? O la vostra ambizione?”
“No!”,
negò veemente Cajtan, scotendo
il capo. “Non è questo! È che mi pare
disonesto ripagare la fiducia concessami
dal Papa, tramando alle sue spalle! È pur sempre il vicario
di Cristo e …”
“…
e bestemmia, sodomizza e va di
persona alla guerra. In quale aspetto è più santo
degli altri cristiani?”
Il Thiene
aprì la bocca e boccheggiò
qualcosa alla stregua d’un pesce fuor d’acqua,
incapace di giustificare l’atteggiamento
poco consono di Giulio II alla carica ricoperta. “Il suo
essere un peccatore
non condona il mio abbassarsi al suo livello”,
sentenziò infine. “Soltanto
perché lui pecca, non significa che debba farlo
anch’io.”
“An,
così soccorrere la vostra
madrepatria equivale a peccare? Ignoravo questa
novità”, asserì implacabile il
cardinal Grimani, la fronte aggrottata e un’espressione
arcigna in volto, che
non suscitava molte speranze di clemenza da parte sua. “Non
soltanto si pecca in
parole e opere, domino Cajtan, ma anche in omissioni.
E voi, ch’avete la
possibilità d’aiutarci a vincere questa guerra, vi
rifiutate di prender partito
e di dare il vostro contributo!”
“Avete
preso i voti per vivere senza
infamia e senza lode?”, infierì Marco Corner.
“O
forse la vostra decisione già l’avete
presa e dobbiamo considerarvi nostro nemico?”,
insinuò malevolo sier Hironimo.
“No!
No, non vi sono nemico!”, protestò
scioccato il Thiene. “Non ho mai rinnegato le mie
origini!”
“Lo
state facendo ora!”, appurò al
contrario domino Nicolò Lipomano. “Come tutti i
codardi traditori, ora che
Veniexia è morente, voi le voltate le spalle!”
“Ma
io … non è vero! Non … è
che non
posso e non voglio né mentire né congiurare, io
… io non ho preso i voti per interessi
personali o … o per perseguire il male, io
…”
“Voi
siete figlio d’un conte”, gli
ricordò sier Hironimo, “e se proprio non ve ne
cale un fico secco della
Repubblica e dei suoi cittadini, almanco degli abitanti delle vostre
terre
dovrebbe importarvene! Dei loro paesi messi a ferro a fuoco! Dei fiumi
tinti
del loro sangue! Delle stragi, delle morti perpetuate dal furore
gallico e
teutonico, che non conosce pietà e che giorno dopo giorno si
abbatte su povera
gente inerme! E invece no, per amor della vostra presunta correttezza
anche loro
avete abbandonato! E per che cosa? Per chi? Degli accattoni romani,
bravi solo
a mangiare a sbafo e a grattarsi la panza, senza curarsi di lavorare
per vivere?
Per un vecchio porco che palpeggia i ragazzini? Per un bordello
chiamata
Basilica di Sen Piero? Per una cloaca fetente appellata Roma?”
“Conobbi
bene vostro padre, il conte
Gaspare”, scosse il capo deluso domino Domenego.
“Un valent’uomo devoto alla
Signoria, pronto al sacrificio per i suoi. A vedere la vostra
pavidità si
vergognerebbe al punto da maledirvi: costui non è
un Thiene, non è figlio di
conti veneti: costui del Papa e di Roma è lo schiavo!”,
e gli puntò l’indice
contro, le sue parole più affilate e dure di una spada di
Toledo, che
penetrarono nel cuore del chierico vicentino, ammutolendolo.
Alla
menzione del padre, la cui
venerata memoria Cajtan serbava in cuore, avendolo perduto appena
dodicenne e
pertanto amandolo al pari d’un beato, egli si
sentì morire al solo pensiero che
il fu conte Gaspare da Thiene potesse biasimarlo e disconoscerlo
dall’oltretomba.
L’uomo s’accasciò su se stesso, il capo
chino, dilaniato dall’amore cristiano
che significava anche pregare per il nemico e la mai sopita fierezza
d’appartenere
alla Serenissima. Si era sempre considerato troppo insignificante per
poter
cambiare le sorti della madrepatria, o forse aveva intimamente sperato
di non
rimanerne coinvolto? Dopotutto, per amor di Cristo aveva rinunciato al
mondo,
ma esso ora lo chiamava a gran voce, le ombre degli estinti suoi
conterranei
gridavano giustizia e protezione verso i loro cari sopravvissuti alle
angherie
dello straniero. Che fare? Zittirle? Rimanere neutrale? Compromettersi
per un
bene superiore? Davvero tutto sulla terra era vanità? Oppure
v’erano dei principi
eterni e incontestabili?
“Figlio
mio”, gli pose il cardinal
Grimani una mano sulla spalla, provocando un lieve sobbalzo nel Thiene,
non
essendosi reso conto di come il porporato si fosse nel frattanto
alzato. “La nostra
gente non sta morendo per la fede, per mano d’infedeli a
testimonianza del
Verbo incarnato. Muore per mano di vili peccatori, per la loro invidia
e
cupidigia. Preservare i nostri compatrioti dalla morte non
macchierà la vostra
anima, semmai l’esalterà per la pena che tale
scelta le ha inflitto.”
“Avete
ragione: tanta doppiezza già per
me corrisponde ad uno strazio.”
“Equivalga
dunque esso alla vostra
penitenza. Non temete, fio mio: Dio capirà il vostro
sacrificio e vi perdonerà.”
“Prego
sia così, reverendissimo domino,
prego ardentemente sia così”, si coprì
Cajtan il volto tra le mani,
arrendendosi però alle richieste dei suoi conterranei.
***
A seguito
della visita del cerusico, Leka
Busicchio e Zilio Madalo si davano il turno, pur con discrezione, di
controllare con maggior frequenza le condizioni di salute del loro
capitano e
siccome quest’ultimo non poteva protestare, contro i suoi
illogici ordini il
collega aveva imposto almeno allo scudiero di portare seco la branda e
di
vegliare in tenda Mercurio, sicché Hironimo e
Thomà si videro costretti a
rimandare a tempi più tranquilli ogni loro tentativo di
liberarsi dai ceppi.
“Sdrissa
chea man! No te sè drio arar
el campo, ti!”
“A
me fan male le dita, patron!”
“Made!”
Pertanto,
impossibilitati a dormire a
causa di quel costante andirivieni, nonché dai mugugni di
Mercurio Bua – oltre
che ad agitarsi, adesso pure parlava nel sonno -
i due prigionieri avevano deciso d’impiegare
il tempo come potevano e al giovane Miani era balzata in mente
l’idea
d’insegnare a leggere e a scrivere a Thomà,
così da distrarlo dallo stomaco
gorgogliante. Il terreno fangoso sotto le stuoie bombe
d’acqua si presentava
ideale, essendo il limo penetrato ormai ovunque e restituendo anche
qualche
bastoncino e foglia, credutisi seppelliti dopo averlo battuto per
erigervi
sopra la tenda. Che importava se sporcavano o, scostando le stuoie
decisamente
consunte, facevano pervenire l’umidità? Al primo
cenno d’attività esterna o
interna, si copriva tutto in fretta e furia e d’altronde il
padiglione intero,
imbevuto da mesi e mesi di pioggia, puzzava di terra e acqua rafferma.
La paglia
stessa su cui i due prigionieri sedevano, non avendola ancora nessuno
cambiata,
si presentava anch’essa bagnata, maleodorante e lercia, come
incrostate
apparivano le loro gambe nude e l’orlo mai asciutto delle
rispettive camice.
Così,
trascritte le lettere dell’alfabeto,
Hironimo aveva ceduto la penna improvvisata al fantolino che malgrado
le ore e
ore di pratica, ancora s’ostinava d’impugnare il
bastoncino dritto nel pugno,
invece di inclinarlo limitandosi ad usare le prime tre dita. E mica ci
credeva
il patrizio trattarsi di stanchezza, anche quando Thomà
scrollava la mano con
fare tragico, bensì di vera e propria pigrizia da parte sua
ché appena
rimbeccato, infatti, subito il piccino correggeva la postura e scriveva
da
cristiano.
“Hai
finito di scrivere il tuo nome?”
“Siorsì”,
annunciò fiero il bambino e,
puntando il dito sporco su cadauna lettera, lesse con esasperante
lentezza: “TO-MM-A
DI VIET-OR MA-RAN-CON.” Si girò verso Hironimo in
speranzosa attesa.
Scorrendo
la punta del bastoncino sulla
grafia sgangheratissima, il giovane gli indicò laddove il
fantolino aveva
toppato. “Uhm, allora, qui ci andrebbe la h”,
sottolineò, “e l’accento
sopra la a. Così. Poi tu dici di
chiamarti Thomà, quindi ci va
una m de manco. Riscrivi sotto … No! Non
cancellare, altrimenti non ti
ricordi!” Un fugace sorriso gli illuminò il volto
stanco, ripensando alle sue
prime scaramucce con la scrittura nonché alle ben
più severe punizioni del suo
magister, quando messo dinanzi ad errori sì grossolani.
Piegandosi
quasi a metà, Thomà
riscrisse il suo nome, mormorandolo a mezza voce durante il processo,
come se
se lo stesse dettando.
“Il
nome del tuo sior Pare?”, continuò
Hironimo.
“Gera
Vetor, chome l’on dil do sancti
patroni de Feltre! [6] Anca el sior Pare d’Andrea Trepin se
ciamava Vitor!”
“E
tu come l’hai scritto?”
Thomà
arricciò il naso, leggendo
parecchie volte a fior di labbra lo scarabocchio sul fango.
Quand’ecco,
l’illuminazione. “Oh, la perdonança,
patron! Sença la i !”,
esclamò,
mettendosi subito a correggere. Volendo strafare onde dimostrare la sua
diligenza, anticipò Hironimo soggiungendo: “E la g
- chea durra - al
posto di la c, m-a-r-a-n-g-o-n!”
Il
patrizio annuì compiaciuto. “Ultima cosa:
non va bene il di bensì devi usare il quondam
riferito a Vetor”,
e pronunciò con molto tatto quella parola, specie dopo aver
conosciuto l’orrida
fine del padre di Thomà e della sua famiglia.
“Che
vorave dir cuo-n-diam?”, si grattò
invece la testa il fantolino, confuso.
“Quondam
significa fo” - ché
el sior tòo pare nol xélo pì in vida,
avrebbe voluto Hironimo aggiungere,
ma per delicatezza tacque.
“Che
lengua xelà, patron?”
“Latino.
Come fai a non riconoscerla?
Quando preghi, non reciti Pater Noster e Ave
Maria? Ecco, quello
è il latino. Varda, così compare il tuo nome
negli atti ufficiali: Thomas
q. Victoris fabri filius”, scrisse, la differenza
di grafia un pugno
nell’occhio, lasciando a bocca aperta il fantolino che,
affascinato, la calcò
con l’unghia sporca e azzardò di leggerla,
meditando sul suono bizzarro
prodotto, così diverso dalla lingua che parlava
quotidianamente.
Poi
riprendendosi dal suo stupore: “La
siora mea Nona, no me gh’ha mai insegnà el latin,
manco per orar. Depo’ perché mi
gh’ho da orar en ‘na lengua, che mi nol capisso ni
cognosso se no a memoria? A
me par falso. Mi a la Madona ghe parlo pulito en veneto de Feltre,
perché aliter
mi no sapria dirgheLe le cosse che vojo.”
“Lei
già conosce ciò di cui hai
bisogno, prima ancora che glielo domandi. Come disse Dante: La tua benignità non pur
soccorre a
chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre
…”,
quand’ecco un brivido,
mentre recitava quel verso, gli attraversò
l’intera lunghezza della schiena,
risalendo fino alla radice dei capelli e inspiegabilmente Hironimo si
sentì
bruciare gli occhi, quasi gli fosse sorto in petto una gran voglia di
piangere.
Bizzarro,
bizzarro invero che dopo
quindici anni di totale aridità e disinteresse spirituale,
proprio ora quelle
poche letture di tema religioso gli stessero riaffiorando alla mente,
turbandolo e punzecchiandolo come il puttino col cadavere di una medusa
arenatasi
sulla spiaggia.
“Patron?”
Hironimo
sbatté le palpebre, arrossendo
lievemente per quell’attimo di debolezza.
“Dime.”
“Ma
‘sto Dante, l’gera amigo vuostro?
Lo gh’avé senpre en bocha.”
Le labbra
del giovane Miani si
piegarono in una buffa smorfia e Thomà, vendendolo allungare
il braccio e
paventando l’ennesimo scappellotto, prontamente
serrò gli occhi e si preparò
all’impatto, sennonché la mano viaggiò
oltre la nuca, cingendogli le spalle e
trascinandolo contro il petto del più anziano.
“Co’ te impari a menadèo
l’abezedé mi
te parlarò di Dante.”
Thomà
gli mostrò la fila di denti,
entusiasta all’idea di conoscere l’amico del suo
patron, anche se capiva
soltanto la metà delle sue citazioni. Un foresto,
sicuramente. S’apprestò quindi
a far promettere ad Hironimo, quand’ecco che lo scudiero di
Mercurio si pose in
piedi, avvertendo l’appropinquarsi di passi al padiglione.
Velocemente, i due
prigionieri risistemarono la stuoia, nascondendo il tutto
ché gli stradioti non
misinterpretassero, credendolo un piano di fuga o diosacché
di losco.
“Come
sta, Niko?”, s’informò subito Leka
Busicchio. “S’è agitato molto?”
Lo
scudiero annuì. “Solo verso le prime
luci dell’alba ha smesso sia di rigirarsi simil diavol
nell’acqua santa, sia di
parlare nel sonno.”
Leka
osservò a lungo la pelle tirata e
cinerea del suo collega, le ciglia appoggiate su profonde occhiaie.
“E quei
due?”, indicò col capo Hironimo e
Thomà, divenuti più inespressivi di statue di
pietra.
“Immobili
al loro posto, sebbene …”
“Cosa?”
“Forse
mi sbaglio, però li ho sentiti
confabulare ogniqualvolta voi e Zilio uscivate dalla tenda.”
“E
tu non sei mai andato a
controllare?”, soffiò pericoloso Leka, fissando in
cagnesco lo scudiero e
torreggiandolo minacciosamente.
“Mi
avevate ordinato di vegliare sul
capitano ed io questo ho fatto”, si difese il ragazzo,
sudando freddo. “Eppoi,
dove volete che fuggano, specie il nobiluomo ch’è
legato al polso del capitano!”
Busicchio
schioccò la lingua pieno di
disprezzo, portandosi davanti a Miani, che ricambiò lo
sguardo diffidente di
lui con un vezzoso reclinare del capo.
“Così
ti piace chiacchierare di notte,
al posto di dormire, eh?”, esordì il capitano con
velenosa ironia. “Di’ un po’,
perché non ci rendi partecipi?”
“Ah,
ed io anche te le riferisco?”, gli
rispose invece Hironimo con magnanima sufficienza. “Ignoravo
voi stradioti
foste delle tali pettegole!”
Leka
grugnì beffardo, accucciandosi
all’altezza del patrizio e, fissandolo dritto negli occhi,
sibilò: “Al tuo
posto, non mi darei tante arie né tirerei la corda,
atteggiandomi dal re degli
smargiassi. Tu non sei che un ostaggio, anzi, il più inutile
degli ostaggi
poiché dopo quattordici giorni, ancora nessuna proposta di
riscatto né di
scambio. Coi due capitani bellunesi, al contrario, abbiamo incassato in
neanche
due giorni. Silenzio totale dalla Signoria tua. Forse, ai suoi occhi
non vali
quanto credi. O forse, ha la memoria corta. Magari”, e
lentamente estrasse
dalla fodera il pugnale, “magari se le spedissimo un tuo dito
o un orecchio,
forse gliela rinfrescheremmo …”,
sogghignò ed Hironimo, pur con la lama a
qualche pollice dalla guancia, ricambiò mostrandogli ferino
i denti, deciso a
non lasciarsi intimidire pur terrorizzato all’idea di quella
barbara mutilazione.
“Tagliagli
anche un solo capello e alla
Signoria spedisco la tua, di testa.”
Hironimo
avvertì sopra la sua spalla il
gelo di una spada rivolta contro Busicchio che, rialzandosi,
optò per
rinfoderare il pugnale. “Non ti scaldare, Maurikos, stavo
scherzando”, si
giustificò ridacchiando. “Noto con piacere come la
febbre non t’abbia privato
della sua solita prudenza di dormire armato …”
Stringendo
l’elsa e digrignando i
denti, il greco-albanese berciò al collega:
“Ancora malakas non l’ho
scritto sulla fronte. Costui”, e il patrizio
avvertì il pizzicore della lama
sul collo, “sa bene quale ben triste fine
l’attende, in caso volesse fregarmi.”
“D’accordo.
Tuttavia, dormirei sonni
più tranquilli se tu richiamassi in tenda almeno i tuoi
famigli”, negoziò Leka.
“E non dico perché dubiti della tua
capacità di difenderti da questo qua, bensì
per la febbre la quale … la quale ne sta falciando perfino
ora che stiamo
parlando”, sospirò, passandosi una mano sulla
fronte. “Negli ultimi giorni non
si fa che seppellire morti, ché o si crepa di febbre o
impiccati per aver
tentato di attraversare la Piave. Si viene alle mani per un tozzo di
pane … In
ogni modo, il cerusico è stato chiaro: dobbiamo controllare
che …”
“Conosco
bene, ciò che state aspettando
ch’appaia sul mio corpo. San Giorgio sia laudato, tuttora la
morte mi schifa”,
grugnì affaticato il condottiero, riponendo via
l’arma e puntellandosi sui
gomiti, intanto che lo scudiero gli sistemava i cuscini dietro la
schiena. “Peccato
che non ci siano più le epidemie di una volta,
m’avrebbe giovato assai gettar
terra sopra a qualcheduno dei nostro colleghi comandanti”,
mormorò
spassionatamente, lanciando un’occhiata significativa a
Busicchio. “Quali nuove
del maresciallo? Arrivano o no, questi tanto favoleggiati cannoni
ferraresi o
ci hanno promesso l’araba fenice?”
Lo
stradiota prese posto accanto a lui,
totalmente dimentico della sua questione con Hironimo. “La
Palice dovrebbe
giungere o oggi o domani. O anche dopodomani,
chissà”, bisbigliò sottovoce.
“Purtroppo,
stando ad un suo emissario, il fango ha rallentato di molto lo
spostamento
dell’artiglierie ed i fiumi sono così ingrossati,
da impossibilitarne
l’attraversamento. Anzi, a Liziera presso Cittadella ne hanno
perso uno,
cascato come un pero giù in acqua.”
Mercurio
mordicchiò pensoso l’unghia
del pollice. “Dunque ripiegherà su Bassano e
tenterà di passare per il suo
ponte”, concluse.
“Sarebbe
la scelta più saggia.”
“Saggia?
Non ne possiede altre”,
contraddisse Mercurio il suo collega. “Cittadella si trova
nel raggio d’azione
di Padova ergo del provveditore Federico Contarini e delle sue bande.
Se La Palice
è lì impantanato e non riesce ad attraversare il
fiume, per forza dovrà
dirigersi a Bassano ch’è più lontana e
in apparenza più sicura. Nondimeno, ci
scommetto i miei speroni d’oro che i Veneziani qualcosa
lì combineranno pur d’intralciarlo.
Un dirottamento troppo ovvio da passare inosservato. ”
Leka
allargò fatalista le braccia,
sconfitto dall’inconfutabile logica del conterraneo.
“Piuttosto,
non hai qualcosa di meglio
per colazione? Se non la febbre m’ammazza questo pane
schifoso, talmente nero
che pare l’abbiano bruciato!”, si lagnò
Mercurio, cui i giorni di digiuno
forzato avevano stimolato un certo appetito.
“Questo
passa al convento; da Noale e
da Castelfranco arriva sempre meno farina macinata e i saccomanni,
colpa lo
zelo dei nostri parenti marcheschi, non osano addentrarsi troppo nella
Marca,
temendo di finire loro prigionieri. Abbiamo inviato una richiesta
d’approvvigionamenti sia a Giovanni Gonzaga che ai Conti di
Collalto, solo
quest’ultimi ci hanno inviato quanto necessario.”
“Tzé,
il nostro pane se lo sarà sicuramente
mangiato tutto quella grassa giovenca della Marchesana di
Mantova”,commentò
sardonico Mercurio, annusando accigliato la pagnotta. “Ora
come ora, mi domando
chi sia veramente l’assediato, qui, se noi o i
Veneziani.”
“Quando
rientrerà La Palice, questo
stallo si sbloccherà di certo. Jean d’Aubigny
s’è definitivamente installato a
Cividal di Belluno: come avevi previsto, quei furbi di bellunesi hanno
dichiarato neutralità e pertanto evitato di pagare il
riscatto di 4000 ducati!”
“Maggior
ragione per i Tedeschi per disertare
in massa verso il Friuli.”
Leka
incrociò le braccia al petto. “In
tutta onestà, avrebbe senso: è strategico - pensa soltanto a Gradisca!
- e n’avremo in
abbondanza per l’inverno. Perché non attaccarlo?
E’ indifeso ora, fiaccato dalla
rivolta popolare, dal terremoto e dalla pestilenza. In questo modo
apriremo un
altro fronte per i Veneziani, indebolendoli ulteriormente.”
“Ah
beh”, soffiò il Bua, abbandonando
disgustato ogni tentativo d’addentare quel pane poco
allettante. “Già piango i
Tedeschi che invaderanno le terre di Girolamo Savorgnan del Monte e di
suo
cugino Antonio Savorgnan.”
“E
chi soni costoro?”
Il
condottiero piegò la bocca in una
smorfia complice. “L’incubo di
Massimiliano.”
Una
nobile famiglia friulana di
frontiera, guerriera e ostinata. Mercurio aveva conosciuto
personalmente Jacopo
Savorgnan a Fornovo, Novara e San Regolo (un diavolo a cavallo!) e non
dubitava
dei racconti di come Hironimo Savorgnan suo parente avesse fermato con
un
contingente di cernide [7] l’avanzata delle truppe di
Maximilian in Cadore nel
1508, permettendo a Bortolo d’Alviano di tagliar la strada ai
tedeschi e di
massacrarli nella battaglia di Tai di Cadore in pieno inverno e con la
neve alta
fino alle ginocchia. Tale era stato lo sdegno della Serenissima per
quell’ingiustificata invasione e razzia dei suoi territori da
parte
dell’Imperatore, da non mostrare alcuna pietà,
passando a fil di spada i
soldati tedeschi arresisi e invocanti misericordia e coloro che
riuscirono a
sfuggire ai marciani e agli stradioti, perirono ugualmente per mano
della
popolazione cadorina, arrabbiata al limite per le ruberie dei tedeschi
che li
avevano privati delle scorte destinate ai lunghi mesi invernali. Quel
giorno le
Dolomiti s’erano tinte di rosso e non per
l’Enrosadira.
Da quanto
Mercurio aveva appreso, Hironimo
Savorgnan era stato nominato senatore soprannumerario dalla Signoria,
fatto
straordinario poiché non appartenente al patriziato
veneziano, per
ricompensarlo delle sconfitte inflitte a Maximilian sui confini
orientali della
Repubblica. Inoltre, il condottiero aveva saputo anche del cugino
d’Hironimo
Savorgnan, Antonio
Savorgnan o Antoni il
Sassin, che con un trucco degno di Odisseo, aizzando la popolazione
udinese
credutati assediata dagli imperiali, aveva fatto da essa massacrare la
famiglia
rivale dei Della Torre, filo-imperiali e capi riferimento degli
Strumieri, il
dì del Giovedì Grasso di quello stesso
anno. Molti polsi erano tremati ai racconti di come i contadini
avessero
indossato gli abiti degli aristocratici uccisi per inscenare una
macabra
mascherata dove ne imitavano i comportamenti, in pieno spirito del
“gioco delle
parti” del Carnevale. Dalla città di Udine questa
rivolta s’era estesa a tutto
il Friuli con massacri, stupri e saccheggi ai danni della
nobiltà locale - Crudel
Joibe Grasse, il Crudele Giovedì Grasso,
l’avevano chiamato.
Adesso il
clan dei Savorgnan si trovava
però isolato e dai sanguinosi disordini interni tra
Strumieri e Zamberlani ne
erano usciti indeboliti nonché impopolari, rendendoli facile
preda, eppure
qualcosa suggeriva al Bua che, anche conquistando la Patria del Friuli,
finché i
Savorgnan fossero rimasti in vita nessun tedesco avrebbe dormito sonni
tranquilli. Era cosa notanda, infatti, il loro secolare vassallaggio a
San
Marco.
“Il
tuo pessimismo mi conforta”, arcuò Leka
il sopracciglio.
“Difficile
rimanere di buonumore,
quando sussiste la possibilità di morire inermi di
pestilenza. O di fame”,
ribatté seccamente Bua. “Se attaccassimo il
Friuli, ci allontaneremmo da
Treviso, fornendo ai Veneziani tempo e modo di trasformare la Marca in
una
frontiera invalicabile, intanto che i cugini Savorgnan e le loro bande
ci
trasformano in spiedini da bivacco, logorandoci in
un’infinita guerra di scaramucce
e agguati. No, appena La Palice arriva, dobbiamo levare il campo e
sforzare la
linea fino a giungere sotto le mura di Treviso e lì porre
l’assedio.”
“Come?”
“Nervesa.
È fondamentale occuparla: la
Piavesella è il collegamento con la Piave che ci serve per
trasportare fino al
Sile le artiglierie.”
“Non
avevi previamente affermato come
la città fosse inespugnabile?”
“Le
sfide mi stuzzicano.”
“Sta
bene. Al suo ritorno, cercherò di
persuadere il maresciallo a radunare quanto prima tutti i comandanti
per
discuterne”, si pose in piedi Busicchio, contento di quel
piano e del ritrovato
vigore nel collega. “Tu però riguardati, senza di
te questo assedio non lo
vinciamo.”
Mercurio
scrollò le spalle in apparente
disdegno di quel complimento, ma dal modo in cui arricciò
compiaciuto le labbra
tradì il suo intimo gradimento.
Uscito
Leka dal padiglione, Mercurio si
sistemò seduto, contemplando a malincuore la magra
colazione. “Niko”, riferì
allo scudiero, sollevando con sospetto la fetta di carne affumicata.
“Doveste
voi tutti pizzicare i tedeschi o i francesi intenti a scambiare i
nostri
cavalli per prosciutto, avete il mio permesso d’utilizzarli
per carne da
spezzatino.” Troppo spesso il greco-albanese aveva assistito
a simili episodi
di soldati talmente affamati e disperati, da macellare i propri
cavalli.
Piuttosto di mangiarsi lo strumento essenziale del suo lavoro, il Bua
avrebbe
preferito, nel peggiore dei casi, cambiar committente e al diavolo
l’onore.
“M’han
detto esser bue, capitano.
Quelli presi ai contadini.”
Il pezzo
di carne cadde pesantemente
sul piatto. “Quelli destinati a trasportare i
carri?”
Lo
scudiero annuì velocemente,
confermando i timori del condottiero: dai buoi ai cavalli la strada era
breve,
così male versava l’accampamento?
Maledizione, doveva subito conferire con Molard e Gambara,
prima
abbandonavano Montebelluna prima avrebbero evitato …
L’uomo
si passò una mano tra i capelli
sudati, inspirando profondamente, la visione sconvolta da repentine
vertigini.
Un’ora soltanto di veglia e già si sentiva stanco,
anelando a riprendere il
sonno interrotto. Si sentiva miracolosamente meglio rispetto al giorno
precedente, la febbre abbastanza calata da consentirgli una parlata
coerente
nonostante però egli seguitasse a dormire da cani, la mente
piagata da incubi e
il corpo rigido dai muscoli intorpiditi.
Per
quanto odiasse ammetterlo, Leka
aveva ragione, doveva ritemprare il suo corpo e scrollare la stanchezza
della
malattia dal suo cervello, impedendogli di coordinare azione e
volontà. Era
convalescente, non guarito. Inoltre, le febbri e la carestia nel campo
avrebbero ridimensionato l’ego di quei pomposi aristocratici,
riportandoli a
più miti consigli e bisognosi di sostegno e in quel
frangente Mercurio avrebbe
trovato riscatto e autorità, azzerando la sua figuraccia a
Treviso in una
piccola e perdonabile defaillance.
Confortato
da tali pensieri, il Bua congedò
lo scudiero mandandolo a chiamare il cerusico e addentò la
carne (schifosissima
ma s’era nutrito di cibo ben peggiore), interrotto da un
inaspettato e rumoroso
gorgoglio di stomaco. Si girò e scovata la fonte,
l’uomo si lasciò andare ad un
perfido sogghigno.
“Come
ci si sente”, stuzzicò il suo
prigioniero, “ad ascoltare impotenti i piani
d’attacco del tuo nemico, conscio
di come saranno la rovina della patria tua?”
Hironimo
corrugò la fronte ma non
proferì alcuna parola né diede segno
d’aver proprio ascoltato.
“Ormai
dovresti averlo capito, di come
la Signoria stia combattendo una guerra perduta in partenza. I suoi
nemici sono
troppi e ben uniti nel comune odio contro di lei. Ammirevole la sua
resistenza
di due anni, almeno si scriverà di come la Serenissima sia
capitolata con la
spada in mano.”
Il
giovane Miani s’ostinò a tacere,
registrando tuttavia quell’uso singolare della terza personal
plurale al posto
della prima, quasi il greco-albanese volesse tenersi fuori dalle beghe
e
invidie ch’avevano condotto al conflitto.
“Scommetto,
che ti piacerà molto ritornare
allo status di semplice mercante di una città ridotta ad
anonima provincia
dell’Impero. No?”
Niente,
silenzio.
Mercurio
reclinò il capo, deluso da
quell’indifferenza. “Cos’è? Il
gatto t’ha mangiato la lingua? Non ti degni più
di parlarmi?”, sbuffò irritato. Afferrata una
fetta di carne, con crudele gusto
gliela tirò contro, colpendolo in piena faccia e ungendo la
pelle già di suo
sporca.
Hironimo
ingoiò le labbra, le nari
dilatate dalla rabbia. Ciononostante, senza dir nulla raccolse la
carne, ci
soffiò sopra e datole un morso la cedette poi a
Thomà, che l’ingollò in un sol
boccone.
“A
piacer tuo, pescivendola altezzosa.
Non parlarmi – non me cale una cippa. Invece, smettila di
giocare al buon
samaritano e mangia qualcosa. T’ho già detto che
da morto non mi servi!”
“Ed
io t’ho già detto”, schioccò
annoiato la lingua il giovane patrizio, “che se non mangia il
bambino, non
mangio neanch’io.”
“Tu
fai quello che dico io. O proprio
quel cervello moscio non afferra la tua situazione?”
“Io
so che si comanda ai soldati e alla
moglie e, mi pare, io per te non sono né l’uno
né l’altro. Sebbene, il mio
signor padre spesso affermava come né al vento né
alle donne, specie le mogli,
si può imporre alcunché.”
Ripensando
a Caterina e sentendosi
pigliato in castagna, il greco-albanese dichiarò sprezzante:
“Tuo padre era un
idiota smidollato.”
Gli occhi
nerissimi d’Hironimo
assunsero una tinta quasi vermiglia da quanto si dilatarono e per un
folle
istante, Mercurio percepì un inusuale sconquassare di
viscere. “An, non
insultare mio padre, altrimenti incomincio col tuo. E ne ho di cose
interessanti da dire, credimi”, sibilò aspro, il
bel volto ridotto ad una
grottesca maschera da Gorgone Medusa.
Bua
avvertì il sangue ribollirgli a sua
volta nelle vene. Di Pietro Bua Spata conservava vaghissimi ricordi,
morto
infatti quanto il figlio era appena undicenne. Ciononostante, egli era
cresciuto imbevendosi dei racconti dei suoi parenti, anelando ad
imitarne il
coraggio e il prestigio se non proprio di superarlo. “Mio
padre era un uomo da
bene!”, ringhiò il condottiere, tirando la catena
così da far cadere riverso il
giovane Miani che, dimentico della precarietà della sua
situazione, altrettanto
porporino in faccia dallo sdegno gliela tirò di rimando e
per poco Mercurio non
cascò dal letto, portandosi allo stesso livello del patrizio
che gli soffiò
contro:
“Il
mio anche!”
“Tuo
padre era un suicida!”, infierì
Mercurio, sovvenendosi all’improvviso di quel tanto
chiacchierato episodio e
ricollegando nomi e persone. “Si dice che l’abbiano
tirato giù alla stregua
d’un criminale alla forca!”
“Menzogne
da carogna!”, gridò
spaventoso Hironimo, tanto che Thomà balzò in
piedi, guardando vigile i due
contendenti. Mercurio s’irrigidì in difesa pronto
a parare il pugno che s’aspettava,
che l’intera figura tesa in avanti del veneziano tradiva. Ma
non arrivò mai,
limitandosi quest’ultimo ad avvicinare il viso al suo e di
fissarlo rabbioso.
“L’hanno ammazzato per invidia e chi sostiene il
contrario è una lurida testa
di …”
“Stai
zitto, ti fa più onore”, tagliò
corto arrogantemente il greco-albanese, risistemandosi sulla branda e
fingendo interesse
per i contenuti del piatto. Si passò una mano sul collo,
massaggiando i muscoli
indolenzenti e percependo con preoccupazione il calore sospetto dietro
l’umidità della pelle.
Miani
all’udire ciò proruppe in una
gaia risata di scherno. “Signore e signori, dame e cavalieri,
ecco a voi
Mercurio Bua Spata l’eterno indeciso, che
s’arrabbia se gli parlo e altrettanto
s’arrabbia se non gli parlo. Insomma, deciditi una buona
volta: cosa vuoi da
me?”
Preso di
contropiede nella sua evidente
contraddizione nonché da quel repentino cambiamento
d’umore, il Bua aspirò
l’aria frustrato, maledicendo il giorno in cui aveva deciso
di non chiedere il
riscatto anche per quella tarma antropomorfa, dopo aver riscosso quello
dei due
capitani bellunesi. “Mangia, non mi scocciare”,
intimò al suo prigioniero,
lanciandogli un altro pezzo di carne che Hironimo addentò
con sospettosa
docilità.
“A
proposito”, si sovvenne quegli, deglutendo
con rumorosa teatralità, gli occhi nerissimi brillanti di
sinistra malizia, “quest’è
carne di cavallo” e gongolò maligno
all’afflosciarsi della bocca dello
stradiota, da cui cadde il bolo sul piatto.
“Tu
menti per la gola!”, trillò
scandalizzato e si nettò celere le labbra col dorso della
mano, studiando
incredulo la poltiglia mezza mangiucchiata.
Hironimo
allargò il sorriso, staccando sornione
un altro morso di carne per poi cederla definitivamente a
Thomà. Povero, povero
Mercurio, pensava beffardo, meno male ch’era giaciuto
semisvenuto sulla sua
branda, così da risparmiarsi gli angosciati nitriti dei
cavalli mentre i
soldati, data la scarsità di provviste, li inglobavano nella
loro nuova dieta.
***
Ripresosi
dalla fatica del viaggio e la
pancia piena dell’ottima trippa preparatagli, Orlando da
Bergamo si mise
immediatamente al lavoro, convocando assieme ai suoi sottoposti e
concittadini
Batistin e Zuan Antonio il resto dei bombardieri a Treviso, cinquanta
in tutto,
una pelliccia pezzata di maestranze da ogni parte dei Domini di Terra e
di Mare
e anche d’Italia. Ad assistere gli stavano accanto sier Marco
Contarini “dai
Scrigni” e suo cugino sier Nicolò Donado
“dalle Rose”, all’occasione traducendo
qualche espressione bergamasca per miglior comprensione e Orlando
stesso si
sforzava di parlar moscheto [8].
Il
presidente delle artiglierie s’era
informato sul numero esatto delle bocche di fuoco; sul calibro e
tipologia;
sulla quantità disponibile di polvere da sparo e di balote;
sulle loro attuali
postazioni lungo le mura e i bastioni e l’unità
operativa ad essi dedicata, di
in quanti fossero e dove avessero ubicato i mastri bombardieri.
Le
risposte lo lasciarono abbastanza
soddisfatto, complimentando (così da rendersi subito
benvoluto) i mastri per la
saggia collocazione dei cannoni, specialmente quelli sulle porte
cittadine e
sui bastioni. Invece, era rimasto un po’ perplesso sulla
mancanza di un
adeguato sfruttamento delle gallerie interne per posizionarvi
l’artiglieria e
di conseguenza, Orlando aveva annunciato che lì avrebbe
implementato dei
cambiamenti, anche considerando l’incessanti giornate di
pioggia non ideali per
la polvere da sparo. Appellatosi alla pazienza e buona
volontà dei bombardieri,
li aveva chiesto di mostrargli la cinta muraria, sia i camminamenti
esterni che
le gallerie interne.
E fu
durante questo pellegrinaggio,
mentre si dirigevano al Castello, che Orlando s’era fermato
all’improvviso,
contemplando in estasi il campanile di San Nicolò.
“Sier
Marco, sier Nicolò”, aveva
esclamato, indicando l’edificio. “Con vostra buna
licenza, voj menà icsì el
sacro de 6.”
I due
cugini levarono in alto gli
occhi, sgranandoli tra l’incredulo e lo scettico. Quasi
leggendoli i pensieri,
Orlando li aveva invitati a salire fin in cima con lui e, una volta
dinanzi
alla vastità del campo visivo offertogli, l’uomo
li aveva spiegato come il
campanile fosse perfetto giacché alto a sufficienza per
colpire a tutto tondo
la batteria nemica, ovunque essa si spostasse, nonché in
posizione tale da
rendere impossibile ai fuochi nemici di centrarlo.
All’obiezione del giovane
Contarini, se il bergamasco fosse certo che i franco-imperiali non
disponessero
d’artiglieria di lunga gettata (memore infatti
dell’assedio di Padova dove l’Imperatore
aveva portato certe bocche di fuoco il cui rombo s’era udito
fino a Venezia)
questi rispose con un sogghigno malevolo come i pezzi migliori stessero
adesso
ospitando sott’acqua i pesci di Liziera.
Sicché,
chiamati i robusti bastasi
(facchini, ndr.) mandati da Venezia, ci si era rimboccati le maniche
per
trasportare il sacro sul tetto.
“Porco
d’un can! Strénzi ben sto gropo
(nodo, ndr.), potta d’un cancaro, situ cascà da
picolo di la carega (sedia,
ndr.) che gnanca ti te sè bon a far ‘na cossa
sì fassile?”
“Mi
fazzo el gropo dil’apichato - mi
fazzo; cheo che ti me gh’ha dito -
mi fazzo. Chea vaca putana, cossa me veniu a
insolentare, an?”
“Zò,
bestie, taselà, no semo à
carlevar! Qua
gh’avé da laorar
et muci!”
“Lesti,
ante che scomenzi a piovar!”
Appurato
infatti la grande difficoltà
di far passare il sacro per lo stretta scala di 242 gradini,
s’era deciso
d’issare il cannone da fuori mentre la cassa veniva
trasportata a mano. I
bastasi in quel momento stavano fissando gli ultimi nodi - quelli
dell’impiccato come li appellavano con
macabro gusto - da passare sulle estremità del sacro e
congiungere le corde al
gancio.
“Chigasang!
Ferma, maidé maidé!”, bloccò
tutti all’improvviso Orlando, sbracciandosi onde fermare i
bastasi ch’avevano
già iniziato a tirare e sollevato di qualche spanna il
sacro. E gridando alla
gente rimasta in basso: “Bisogna che quach vergü
(qualcuno, ndr.) si sieda in
su’l canù e che lo guidi lungo la salita!
Sennò, el fà dil dan al campanil!” ed
in effetti, oscillando il cannone poteva danneggiare il muro
dell’edificio, creando
crepe o buchi.
“Mi
vago”, s’offrì volontario Marco,
sceso nel frattanto onde coordinare i lavori da terra. Dei presenti,
era il più
giovane e snello a sufficienza da non pesare eccessivamente ai bastasi,
anzi,
per aiutarli s’era levato quanto più strati di
vestiario possibile, rimanendo
in braghe e camicia.
“Zerman,
siete impazzito?”, gli strillò
dall’alto suo cugino Nicolò. “Volete
rompervi il collo? Cosa riferirò poi alla
vostra siora Mare mia Amia?”
“Un
bel niente!”, urlò Marco, venutogli
un piccolo e colpevole tuffo al cuore al pensiero di sua madre madona
Alba, ammalata
a Venezia. L’ultima cosa che le mancava, povera donna, era di
leggere come suo
figlio salisse per campanili di 88 braccia (60 m.) in groppa ai
cannoni. Beh,
occhio non vede (o in quel caso, legge), cuore non duole …
Se Nicolò avesse
fatto la spia, giurò a se stesso il ventiduenne,
l’avrebbe affogato di persona
nel Cagnan.
“Brào
tus (ragazzo, ndr.), coragiùs come
il vostro amico Ferigo Contarini!”, si
complimentò invece Orlando, orgoglioso. “Adès,
drizzé le gambe; come
salite su, punté i pé e
caminé!”
Il
giovane Contarini annuì,
rabbrividendo (dal freddo, si giustificò) mentre prendeva
posto sul sacro. Come
istruitogli, stese in avanti le gambe quanto più possibile,
così da toccare il
muro con l’intera pianta del piede e guidare
l’ascesa del cannone, impedendogli
di oscillare e cozzare contro l’edificio.
“Pront?”
“Siorsì!”
“Partiamo
allora! E il primo che
s’azzarda a tirar giù sante e madóne,
lo tiro giù io dal campanil, oh sì!”,
rammentò
severo il bergamasco ai bastasi d’astenersi da ogni
bestemmia, un po’ per
superstizione un po’ per genuina fede.
“Oh
… ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”
Al primo
strattone che lo sollevò da
terra, Marco velocemente si segnò tre volte, stringendo le
corde fin quasi a
sbiancare le nocche. Sollevò lo sguardo, concentrandosi
sulle facce di Orlando
e di Nicolò che da sfuocate macchie di colore si definivano
in forme più
precise e allo stesso tempo ignorando lo scricchiolio delle corde,
nonché il
vento dietro la nuca man mano che aumentava di quota o l’aria
sotto le gambe
che risalendo gli gonfiava la camicia. Il ragazzo sperò
inoltre ardentemente
che i piccioni stessero a pranzo in quel momento.
“Oh
… ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”
Dopo le
prime braccia, però, la sensazione
di vuoto scomparve e Marco quasi si divertì, soprattutto
quando, affacciandosi
dalle finestre o interrompendo per un istante la ronda, una piccola
folla aveva
incominciato a gridargli incoraggiamenti per poi sciogliersi in fischi
e
applausi al suo arrivo sul tetto, dove Orlando lo pigliò
veloce, aiutandolo a
scendere.
“Brào!
Brào!”, gli batté la spalla il
capo-bombardiere e il patrizio si sciolse in un sorriso un
po’ sghembo, incerto
se per isteria o sincera contentezza, sicuramente le ginocchia se le
sentiva
molli come la ricotta e la fronte madida di sudore.
Dirigendosi
al Castello dove stava di
presidio, attirato dalla cagnara, sier Marco Miani aveva assistito,
assieme ad
un perplesso sier Alvixe da Canal suo compagno di ronda,
all’intrepida scalata.
Decisamente capiva adesso perché il giovane Contarini e
Momolo fossero così
amici, quei due scavezzacolli disobbedienti nati allo scopo
d’imbiancare
precocemente i capelli dei propri parenti.
Nel
frattanto, a Palazzo dei Trecento
si respirava ben altra aria: in un nervoso andirivieni, il capitano
Renzo di
Ceri imprecava alla stregua d’un giannizzero, gli occhi fuori
dalle orbite e
livido in volto sotto lo sguardo confuso di Troilo Orsini e stanco di
Vitello
Vitelli. L’Orsini degli Anguillara aveva richiesto al
podestà sier Andrea
Donado un incontro d’emergenza, a seguito
dell’arrivo dei rinforzi richiesti a
Venezia nonché dei denari.
“Li
mortacci sua, ce stà à pijà per
culo?”, sbraitò il condottiero, provocando un
sobbalzo nel podestà e un
arcuamento del sopracciglio da parte di Vitelli. “Chiediamo
alla Signoria 1000
fanti, ce ne promettono 500 e poi da Mestre ne arrivano 400 di cui
più della
metà ammalati? Ci
si garantisce l’arrivo
di 10,000 ducati e ne arrivano 3,000? Ma c’abbiamo Giocondo
scritto sulla
fronte? Voglio tenere o perdere Treviso? A questo punto, arruoliamo
donne,
vecchi e ragazzini! E Carlo Corso dove diavolo è finito?
S’è perso per la
laguna?”
Sier
Andrea Donado s’attorcigliò le
dita, costernato forse più del condottiero e intimamente
turbato dalla
prospettiva che sì, in mancanza di adeguati mezzi e uomini,
la città non
avrebbe retto l’assalto delle truppe franco-imperiali.
Lamentò assai la
mancanza a Palazzo di sier Zuam Paulo Gradenigo e del suo supporto, ma
gli
ordini del medico erano stati categorici: riposo assoluto, il
provveditore –
Deo gratias! – era crollato svenuto solamente a causa degli
eccessivi strapazzi
cui si sottoponeva, lavorando alle mura fino a notte fonda al lume
delle torce
e riprendendo all’alba. Sicché Gradenigo era
rimasto in letto tutto il giorno
precedente e quella mattina, venuto a cercarlo, sua moglie madona Maria
Malipiero Gradenigo aveva promesso morte e dannazione al temerario
ch’avesse
avuto l’ardire di venirlo a disturbare.
“Cerchiamo
di rimanere obiettivi e
razionali”, provò il capitano Vitelli a
tranquillizzare il collega, che
sbuffando scettico si sedette. “La situazione è
lungi dall’essere ottimale,
però non dobbiamo lasciarci guidare dal panico o la
peggioreremo. Vero, non ci
sono arrivati né i fanti né i denari promessi,
però i bombardieri e i facchini
sì e già stanno lavorando a migliorare la
disposizione dell’artiglieria e a
rafforzare le mura. Quanto ai ducati, m’era parso di capire
che sarebbero stati
spezzati in due o tre pagamenti, onde evitare complicazioni durante il
trasporto. Purtroppo, l’intero territorio è stato
colpito da queste febbri e
come se la sono pigliata i nostri soldati, se la sono pigliata anche i
franco-imperiali. E a proposito di loro: finché La Palisse
non ritorna a
Montebelluna non tenteranno niente e quelle dei prigionieri catturati
corrispondono a ciance belle e grosse.”
Troilo
Orsini aggiunse: “Da Padova c’è
giunta notizia come Giovanni Forti di Orte coi suoi cavalleggeri abbia
distrutto i mulini dei Collegati da Castelfranco fino a Godego,
sottraendoli
numerosi sacchi di farina macinata. A stomaco vuoto quei diavoli non
combatteranno
di certo. Quanto a La Palisse, si trova ora tra Quinto e Liziera
…”
“…
con 350 lance e 3500 fanti
aggiuntivi”, concluse secco Renzo di Ceri. “Come
questa possa corrispondere ad
una buona notizia, mi sfugge.”
“Perché
ora che il maresciallo ritorni
e s’accordino sul da farsi – quando mai, tra
francesi e tedeschi si collabora
in armonia? – noi avremo già completato i lavori
di rafforzamento e ricevuto il
necessario dalla Signoria”, contro-argomentò
Vitelli. “Il signor podestà ve lo
può confermare, quanto si stia dannando in continue lettere
di sollecitazione
al Senato!”
“Un
tempo la Serenissima pagava e
pretendeva; adesso, non paga ma continua a pretendere!”,
puntualizzò snervato
Renzo di Ceri.
“Due
anni di guerra, capitano Lorenzo,
due anni di guerra ininterrotta metterebbero le casse di qualunque
Stato sotto
pressione.”
L’Orsini
degli Anguillara aprì la bocca
onde replicare, sennonché entrò
all’improvviso sier Lunardo Zustignan, rosso in
viso e un’espressione di collera sulfurea da non ammettere
contestazioni da
parte di chicchessia. Tra le mani teneva accartocciata la missiva
appena
consegnatali dal povero postiglione, balbettante e trascinato
lì suo malgrado.
“V’affliggete
per i pochi uomini e i pochi
denari?”, berciò il nipote del Doge, rivolgendosi ora al
capitano delle fanterie ora
al Vitelli e Troilo Orsini. “Allora preparatevi a piangere
come ai funerali dei
vostri padri, ché questa … cosa
ci ricopre del fango più schifoso. Voi
per primo, signor capitano Lorenzo” e indicò Renzo
di Ceri, il quale strabuzzò
gli occhi confuso, “ché in questi giorni si
discuterà in Senato se confermarvi
o meno la condotta.”
Sier
Andrea Donado prese coraggio e,
impedendo al condottiero una qualsivoglia reazione, inquisì:
“Quali notizie da
Palazzo Ducale?”
Aperta la
lettera, il Zustignan declamò
l’impressioni della Signoria circa il rapporto compilato e
inviatole da sier
Carlo Valier.
In un sol
uomo tutti gli astanti si
levarono dai rispettivi scranni, puntando come bracchi alla casa dove
alloggiava sier Zuam Paulo Gradenigo e se per conferire con lui
dovevano
fronteggiare l’ira e le urla di sua moglie, ben venga,
piuttosto di rischiare
di finire come il Carmagnola [9].
Come
profetato dal Zustignan, il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo aveva dovuto sorbirsi, prima di
rifugiarsi sotto le coperte, una tremenda filippica da competere con
quelle
leggendarie dell’istessa Santippe, poiché madona
Maria Malipiero Gradenigo delle
tre virtù muliebri incoraggiate nella Repubblica –
chea piasa, chea tasa,
chea staga chaxa – di certo fallava in quella del
tacere e siccome sier
Zuam Paulo aveva ben appreso i classici, non gli era risultato
difficile in
quel frangente applicare i consigli di Marco Terenzio Varrone,
cioè che i
difetti della moglie o si raddrizzano o si sopportano e Gradenigo ora,
come nei
trentadue anni di matrimonio, aveva sempre preferito
quest’ultima opzione.
Sussistevano peggiori mancanze in una consorte, ragionava, che la sua
brutale
schiettezza e ciò a onor del vero non lo infastidiva: se la
sua Maria parlava,
non era mai a vanvera.
Perciò
s’era lasciato spogliare e
condurre a letto dalla furente donna senza proferire parola, mite come
un
agnellino anche quando madona Maria gli dava del turco e
dell’assassino,
rimproverandogli la poca considerazione che aveva della sua salute
andando ogni
notte a far la ronda e ridurre così le ore del sonno ad
appena quattro ore
risicate. Gli aveva ricordato la sua non più giovane
età nonché gli obblighi
che aveva verso Dio, verso la Signoria e infine verso la sua famiglia,
ricattandolo con tragici scenari sul destino suo e dei suoi figlioli,
della sua
crudeltà nell’abbandonarli in sì
tremende circostanze e spargendo ulteriormente
sale sulla piaga dell’amore paterno grazie alle fosche
descrizioni dell’immane
dolore, che sier Gradenigo avrebbe di certo causato al loro
ultimogenito Zuam,
ancora tenerello e tanto bisognoso della ferma guida di suo padre per
crescere
sano e onesto. Come avrebbe potuto proteggere quel giovinetto, lei,
povera
vedova indifesa? Come avrebbe fatto lei - avanti,
rispondete voi che sapete tutto!
- piccola fragile
donna che non era
altro, senza il suo scudo, la sua gruccia, la sua roccia? Voleva che si
cavasse
il cuore dal petto dallo strazio?
“Mo
via, basta!”,
aveva infine
borbottato a disagio Zuam Paulo, accarezzando la guancia umida della
moglie,
che cingendogli la mano con le sue più piccoline e delicate,
l’aveva baciata
affranta. “Lo sapete che non gradisco vedervi
piangere”, le aveva
confessato un po’ impacciato e, giurandole solennemente di
riguardarsi in
futuro, l’aveva attirata a sé in modo che lei
appoggiasse il capo sul suo petto.
I due coniugi stettero così a lungo, le mani intrecciate,
finché la nobildonna
non aveva udito un lieve russare, segno che il marito s’era
finalmente
addormentato.
Maria
Malipiero Gradenigo, cessato
allora il ruolo di donzella indifesa e mater dolorosa, postasi in piedi
ne
aveva approfittato per passargli con pragmatica delicatezza
l’unguento sulla
cicatrice tesa e arrossata, piegando all’ingiù la
bocca dinanzi agli
involontari spasimi del marito. S’era poi sistemata sulla
sedia accanto al
letto, pigliato il suo tombolo e soffiato a guisa di drago sangiorgesco
a
chiunque avesse osato bussare alla porta, onde disturbare il dormiente
provveditore.
La sua si
trattava di una commedia da tempo collaudata, freno
necessario per l’eccessiva vitalità e gusto per la
sfida, talora doti talora
difetti del suo consorte con cui ella aveva dovuto confrontarsi ben
prima del
loro matrimonio, quando un diciannovenne Zuam Paulo, adocchiatala
vicino alla
chiesa di san Gironimo mentre lei prendeva il fresco
sull’acqua, infatuatosi
subitaneamente s’era incaponito che quella fanciulla doveva
diventar sua
moglie, o lei o nessun’altra. Grazie all’amicizia
che legava madona Viena Zane Malipiero
a madona Lucchese Dandolo Gradenigo, dopo molto insistere il giovane
era
riuscito a strappare a sier Jacomo Malipiero il permesso di conversare
con la
sua figliola, lei al balcone più basso del palazzo e il
volto celato dal velo
mentre lui poco sotto in gondola, tutto questo in presenza della madre
madona
Viena. Naturalmente alla quindicenne Maria quella tenace dedizione
garbava
assaissimo, anzi, il maggior suo diletto consisteva nel tormentare il
suo
spasimante, mostrandosi ora annoiata, ora triste ora lusingata
finché un
giorno, gli aveva chiesto di vincere la regata al prossimo fresco ed
era
rimasta turbata e commossa nel vedere come Zuam Paulo, invece di
delegare la
disfida ad abili rematori, avesse imbracciato egli stesso il remo,
sostituendosi al pope.
Per lui
aveva sollevato per un istante il velo da nubile e gli
aveva accordato di guardarle il viso e i morbidi boccoli scenderle
lungo le
guance. Inoltre, adesso che anche lei l’aveva visto ben bene,
le risultò
gradito quel giovanotto dai capelli in battaglia, scarmigliato e dalle
gote
rosse dallo sforzo che la guardava sfacciatamente beato e quattro anni
dopo,
fattosi egli più uomo, le piacque ancor di più.
Anche
perché, dopo l’esilio ad Arbe del padre, madona
Maria si era
considerata ormai una paria, condannata a rimanere sola ed emarginata
per
sempre, lei e i fratelli minori. Era pertanto rimasta esterrefatta
quando Zuam
Paulo, suo novizzo, le aveva confermato che sì,
l’avrebbe ugualmente sposata,
avendo infatti creduto volesse egli
rompere il fidanzamento. “Sono
disonorata” - gli aveva confessato in lacrime,
dinanzi alla sua caparbia
insistenza -
“la mia vergogna diverrà
la vostra vergogna. Siete giovane, siete un
valent’uomo di cuore, non dovete rovinarvi per una come
me.” Al che,
infastidito al limite, il ventiduenne patrizio aveva sbottato:
“Se le colpe dei padri dovessero
ricadere
sempre e comunque sui figli, allora in Maggior Consiglio non dovrebbero
più
sedere né Querini, né Thiepolo, né
Badoer! Voi non siete vostro padre e dopo
che ci saremo sposati non sarete nemmeno più la sua
figliola, bensì mia moglie
e così vi presenterete davanti a tutta Venezia, il vostro onore ristabilito.
Certo, bisognerà
magari attendere un anno che le acque si calmino, tuttavia
…” e più non
aveva potuto aggiungere, avendogli Maria circondato il viso e baciatolo
d’impeto. “Vi
amerò doppiamente, come
padre e marito, ché mi avete dato oggi una nuova
vita.”
“Ben
svejà!”, salutò la Malipiero il marito,
notando i primi cenni
del risveglio. “Vi siete un poco riposato?”,
s’informò, indicando alla fantesca
di lasciare il vassoio sul tavolo vicino alla finestra.
“Quanto
sono stato in letto?”
“All’incirca
due giorni.”
“An?
Già s’è fatto sera?”,
esclamò basito Gradenigo, balzando giù
dal letto e contemplando incredulo le ombre vespertine colorare
d’arancione la
stanza. “Perché non m’avete svegliato
prima?”
“Dasin,
dasieto (adagio, adagio, ndr.), avrete tutto domani per
brigare a Palazzo”, lo bloccò la nobildonna,
intanto però che lo aiutava ad
indossare una turchesca di seta azzurra. “Ricordatevi dei
consigli del medico: riposo,
riposo. Avete proprio ansia di morir, voi!”
“No,
no”, la rassicurò il provveditore, captando il
sottile tono
bellicoso nella voce della moglie mentre si lasciava condurre al
tavolo. “Non
mi va di poltrire inutilmente, ecco tutto. Non posso dirigere i lavori
anche da
casa?”
“Uhm
…”
“Come
sta vostro fratello, sier Andrea?”
“Assa’
mejo. Mi raccontava che quando si sarà completamente
rimesso, ritornerà a Padoa da nostro fratello
Polo.” A onor del vero, memore
delle affrante lettere scrittegli da sier Polo Malipiero, la patrizia
avrebbe
preferito che il suo fratellastro sier Andrea Griti completasse la
convalescenza a Venezia, invece di rischiare una ricaduta a Padova e
glielo
aveva anche suggerito, ricevendo una vaga risposta arzigogolata
(tradotta, no).
Che ci voleva fare, se Domine Iddio aveva deciso di circondarla di
uomini più
testardi di un mulo?
I due
coniugi si sedettero a tavola e Maria versò al marito prima
da bere, riempiendogli poi il piatto di polentina, carne bollita,
soppressa,
formaggio e funghi, intanto che gli riassumeva le ultime
novità, dagli impegni e
la salute dei loro figlioli d’ambo i sessi al proseguimento
dei lavori a
Treviso. Gradenigo l’ascoltava attento, mangiando in
silenzio.
In
effetti, ripensava la Malipiero, anche lei un poco s’era
preoccupata alla vista del consorte dormire alla stregua d’un
morto, valutando
se destarlo o meno, in particolare dinanzi alle insistenti ambasciate
di sier
Andrea Donado in cui si richiedeva d’urgenza la presenza del
provveditore a
Palazzo. Conscia di peccare forse d’egoismo, certamente non
voleva privare la
Signoria del suo provveditore ma al contempo, lei non voleva privarsi
del
marito e Zuam Paulo pur di fibra robusta, non apparteneva agli
immortali e
Santa Lucia l’assistesse, la povera donna aveva scampato a
sua volta un malore
nel vederselo trasportare semicosciente da sier Marco Miani e sier
Alexandro
Michiel.
Tuttavia,
spiando di sottecchi il colorito più sano e la
voracità
dei bocconi di Gradenigo, Maria vi trovò consolazione e
giudicò la sua scelta la
più adatta e ora poteva allentare le catene della sua
muliebre potestà,
restituendo il consorte ai suoi doveri di patrizio veneziano.
Neanche a
farlo apposta, la fantesca bussò alla porta, annunciando
l’arrivo del podestà, dei capitani e di sier
Lunardo Zustignan.
Chiusosi
sul petto la turchesca e indossate le braghe, il
provveditore scese nel salone là dove lo si attendeva in un
misto d’ansietà e di
sollievo nell’appurare la ritrovata salute.
Senza
tanti preamboli, Zustignan gli cedette la missiva ricevuta e
Gradenigo vide letteralmente rosso.
“Sanctissimo
e Divinissimo Sacramento!”, ruggì al punto che
madona
Maria s’affacciò all’uscio della porta,
impensierita da quel violento sfogo.
“El … chome se gh’ha permesso de scribar
… scribar ste mingonarie?!
(minchionate, ndr.) Ma mi a lu ghe staco i brassi et i ghe meto in man,
cussì
l’apprendarà a contar busie!”,
sbraitò paonazzo in volto, già immaginandosi a
giustificarsi dinanzi ai Dieci per l’ennesima volta e sempre
ingiustamente a
causa delle calunnie di gente incompetente e pusillanime.
“Dobbiamo
replicare immediatamente”, propose concitato sier Andrea
Donado e sia Vitelli che Orsini annuirono energici, “prima
ancora che la
Signoria digerisca in totum le obbrobriose bugie di
quell’intrigante bugiardo di
Carlo Valier!”
“O
qui noi si finisce senza condotta e voi sollevati
dall’incarico!”, aggiunse Vitello Vitelli,
rabbrividendo al pensiero. “Dopodiché
se la veda il signor Valiero a riferire ciò ai miei soldati,
io di certo me ne
lavo le mani!”
“Se
ci va bene”, gli ricordò pessimista Renzo di Ceri,
il più
arrabbiato tra loro in quanto aveva sperato in un supporto in sier
Carlo per
poi invece ritrovarsi cornuto e pure mazziato. “Se ci va
male, tutti sotto
processo e poi o alle Orbe o in Piazzetta.”
“Per
carità, non esagerate!”, sbiancò il
podestà. “Non siamo mica
dei Carmagnola, noi! Al massimo … al massimo
accadrà come suggerito dal
capitano Vitello …”
“Nella
lettera si parla esplicitamente di traditori!”,
trillò
l’Orsini degli Anguillara. “E se la mia testa deve
proprio rotolare, che sia in
battaglia, grazie mille!”
“La
lettera menziona la presenza di un traditore a Treviso, vero,
ma non cita nomi e cognomi”, lo calmò sier Lunardo
Zustignan. “In ogni modo,
Missier il Podestà ha ragione: il nostro silenzio ci
condanna, più tempo
aspettiamo più le accuse infondate di sier Carlo si
solidificheranno e non
mancherà la Signoria d’aprire
un’indagine su di noi.”
“Moglie
mia, per favore, incaricate il mio valletto di correre a
chiamare il postiglione”, istruì Gradenigo la
consorte che, annuendo anch’ella
preoccupata, sgonnellò via a cercare il ragazzo. E invitando
i presenti a
seguirlo nel suo studio, là dove avrebbero scritto in comune
accordo la loro
difesa, il provveditore confessò irato a sier Lunardo:
“Spero solo di non dover
più incrociare per strada o a Palazzo quel turco bugiardo, o
giuro al Cielo che
l’impicco alla porta di casa!”
“
[…] El podestà et
provedador ebbe na letera di la Signoria, che gh’ha inteso,
quelli zenthilomeni
fano tuto il zorno custion cum soldadi, et voleno, dove i stanno, se li
fazi le
spese per forza, la qual letera gh’ha tolto el ben servir di
molti, che meteno
li danari et la vida per la patria, qual xéla ingrata, et
sono obedienti, et si
fatichano tutti. Et il podestà et provedador qua respondono
humili et divoti a
la Signoria in bona forma, et pregando la lhor letera sia lecta in Gran
Consejo.
[…] Chome
se gh’ha inteso
quello dito da sier Carlo Valier a la Signoria di Trevixo,
et che il podestà
gh’ha dito publice, non
si maraviglia di tal parolle, perché questo inverno el
volea condur biave in terra
todescha e lui
non volse; ben xé vero, li
soldadi xéli un pocho licentiozi zercha li
alozamenti, et voleno viver cum minaze ma no cum fati, et di questo, al principio, fo qualche
turbazion, ma horra
le cosse xéle asetate
assa’ ben, et non ghe xé
pì rechiami per le minaze fatoli; et xé
vero,
il capetanio voria aver fato apichar qualche d’on.
Item,
che ghe xé confusion
tra el provedador e i capi, no xé vero,
et
tuti sono uniti et maxime
cum il provedador
et tuti li zenthilomeni.
Item,
che l’artelarie non
xéle preparade ai so luogi, no dize il vero,
perché tuti
i cavalieri et bastioni di le
porte li sono le sòe artelarie; le altre xéle
preparade, et vegnando i nimici a meter campo, dove si alozerano,
lì sarano poste,
segundo el besogno, et tute quelle di
bronzo xéli su
li soi cari, et quelle di ferro
bona parte, le altre si va compiando e si
condurà dove besognerà. Item,
si
stà cum bon cuor et non dubitemo gnente.
Item,
dito sier Carlo Valier si havea fato far capo
di contadini da le sue
possession e tute quelle ville
intorno per letere di
la Signoria, et xélo stà
alcuni zorni, et per paura de’ inimici dormiva
in uno burchielo a mezo il fiume, et quando la intesi, i nimici
vien zerto a campo
lì xé vegnuo a Veniexia, et va
sbaiafando per
le piatze et incolpar il
provedador e capi etc., qual
stanno fina horre una
di note su li repari e
fabriche fino con le torze, et comenzano a l’alba.
El signor Vitello et Orsini mai stanno im paze, et cussì
tuto il resto, secondo
li exercij datoli. Laudemo
depo’ quel Orlando da
Bergamo, capo di l’artelaria, arlievo di Latanzio, qual va a
far meter
l’artelarie dove bisogna […]”
“Soddisferà
questo la Signoria?”
“Chi
vivrà, vedrà.”
“Non
mi consolate, provveditore.”
“Non
era mai stata mia intenzione, signor capitano Lorenzo.”
***
“Fu
mai trovato il colpevole?”
Hironimo
si destò dallo strattone che Mercurio Bua, non ricevendo
risposta, gli aveva elargito attraverso la catena onde attirare la sua
attenzione. La tenda si trovava a malapena illuminata dalla fioca luce
della
lucerna, il resto avvolto in un nero pece.
Maledizione,
pensò il patrizio, proprio nel cuore della notte gli
era venuta voglia di discutere? Lo preferiva moribondo, in tutta
onestà, almeno
se ne stava zitto. Anche delirante, mica parlava con lui,
bensì alternandosi in
invocazioni a tali Aikaterini e Maria. Grugnendo infastidito, il
giovane si
girò sul fianco, richiudendo gli occhi e se il
greco-albanese voleva un
confessore, che andasse a cercarsi un prete.
Un
secondo strattone lo pose nolente seduto.
“Allora?”, insistette
il condottiero, decisamente bello vispo.
“Orco
juda maladeto, cosa vuoi da me?”, sbottò frustrato
il Miani,
stropicciandosi gli occhi pesante e gonfi di sonno.
“Non
riesco a dormire.”
“Dunque
ti debbo tener compagnia?”
Mercurio
s’esibì in un secco svolazzo della mano.
“Tuo padre”,
chiese, “sostieni che l’abbiano assassinato. Fu mai
trovato il colpevole?”
Hironimo
reclinò il capo, sospettoso da quell’inusuale
interessamento da parte del capitano, specie dopo il diverbio di quella
mattina. Se da una parte era prono pensare trattarsi
dell’ennesima
provocazione, dall’altra incominciava a formularsi la teoria
che si trattava di
un indiretto tentativo di Mercurio di scusarsi per aver ingiuriato suo
padre.
Sì,
certo, come no. Fosse stato un altro, ancora poteva credere in
tal miracolo, ma da quel turco senzadio era assai improbabile.
“No”,
rispose incolore, stendendosi di nuovo sul suo pagliericcio.
“Perché?”
“Non
ricordo, avevo dieci anni.”
“Ti
manca?”
“Non
pormi domande idiote.”
L’ambiente
versava forse nella semioscurità, ma
l’occhiataccia di
Mercurio il veneziano la subì in tutto il suo collerico
splendore.
Tamburellando le dita e ormai il sonno partito per lidi migliori,
Hironimo
sospirò, concludendo che forse gli conveniva ricambiare la
“cortesia.”
“A
te manca tuo padre?”
“Non
proprio. Avevo undici anni, di lui ricordo ben poco. Tu?”
“Neanche
io quasi niente. Di ch’è morto?”
“Sul
suo letto, di vecchiaia, circondato dalla sua famiglia.”
“Una
bella morte, insomma.”
“Se
l’è meritata.”
“An?”
“Ognuno
va incontro alla morte che s’è guadagnato in vita.
Agisci
bene, muori bene. O almeno così sosteneva mia
madre.”
“Le
dispiacerà quindi apprendere, la morte da traditore di suo
figlio.”
“Prego?”
“Per
questo motivo, sotto-sotto non sopporti il conte di Gambara”,
proseguì imperterrito Hironimo, “siete banderuole
uguali, pronti a cambiar
padrone al primo vento contrario e solo per gretto guadagno
personale.”
“Nel
mio mestiere”, sibilò Mercurio, “se non
mi si paga, non
mantengo la compagnia e se non mantengo la compagnia, quella mi diserta
e se mi
diserta, io m’impicco piuttosto di crepar di fame. Pensavo
possedessi
abbastanza intelletto d’arrivarci!”
“Non
c’è onore tra voi condottieri, dunque.”
“Forse
non come lo concepite voi signorini cresciuti nella
bambagia.”
“O
tuo padre.”
“Come?”
“Se
non erro, tuo padre guidò la rivolta di Morea. [10] Perfino
il
sultano Mehmed, dopo averla sedata, non aveva potuto non riconoscere il
suo
valore e di fatti non guerreggiò mai più contro
di lui. Tuo padre era rimasto
coerente nella sua causa, anche quando le sorti si erano per lui
rovesciate e, pur
conscio di una fine orrenda in caso di sconfitta, non cambiò
mai fazione e
rimase coi suoi fino alla fine. Ammirevole, per conquistare la fiducia
e la
considerazione dei Turchi, i quali quasi mai rispettano i nemici
sconfitti.”
Un
sorriso stranamente dolce distese i lineamenti pallidi e tirati
di Mercurio. “Tempi passati.”
“Comportarsi
con onore e coerenza alla propria causa non si può
considerare una moda.”
“Parli
per esperienza?”
“Sono
in catene perché non ho voluto cedere Castelnuovo di Quero,
l’hai
scordato?”
“Avresti
dovuto, forse.”
“No,
sarebbe equivalso al gesto della fica alla gente ch’avevo
giurato di proteggere. Si può fallare in molto” ed io ho molto peccato “ma dai
propri doveri non si deve scappare.
Questo m’insegnò mio padre.”
Silenzio.
“Com’era
egli?”, s’informò Mercurio, incuriosito
da quell’uomo
divenuto oggetto di speculazioni a Venezia per quella sua misteriosa
morte e
che tuttavia, persino dalla tomba, ancora riusciva a suscitare tali
forti
emozioni nel figlio. Doveva esser stato un personaggio peculiare,
cogitò l’epirota.
Purtroppo
per lui, Hironimo deluse ogni sua aspettativa,
rispondendogli infatti con una scrollatina di spalle: “Lo
ignoro. Cioè, conosco
a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona
… io non ho mai
capito chi fosse …”
“Che
differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”
No, non
al giovane Miani non bastava e inoltre per lui costituiva
un’abissale
differenza, giacché non aveva mai voluto un padre-statua da
ammirare ed imitare
da lontano, bensì una persona vicina in carne ed ossa con
cui crescere e da cui
imparare.
Ahimè,
il destino altro non gli aveva lasciato se non la prima
opzione, ovver la fredda arca di sier Anzolo Miani a muto insegnante e
sterile
esempio da seguire.
E
Hironimo, giustamente, s’era rivelato il peggiore degli
allievi.
Continua
…
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Ebbene
sì, questo Cajtan da Thiene è proprio San Gaetano
da Thiene
(1480-1547), presbitero italiano, fondatore dell'Ordine dei Chierici
regolari
teatini; nel 1671 è stato proclamato santo da papa Clemente
X ed è conosciuto
anche come il “Santo della Provvidenza”. San
Gaetano ricoprirà un ruolo
importantissimo nella vita del Nostro, tuttavia molto più in
là delle vicende
qui narrate. Stando alle biografie del Thiene, gli storici gli
attribuiscono
una certa influenza su Giulio II, aiutando o direttamente o
indirettamente la
diplomazia veneziana a mitigare l’ostilità del
terribile pontefice. Purtroppo,
non specificando costoro l’esatto modo, abbiamo un
po’ romanzato.
A
Treviso, poco distante da Santa Maria Maggiore, l’antica
chiesa
dei Cavalieri di Malta è stata riconsacrata a devozione di
San Gaetano da
Thiene, prima della sconsacrazione definitiva (oggi infatti
è un museo e un
auditorium per concerti).
Ignoriamo
come siano riusciti a portare un sacro da 6 fin in cima
al campanile di San Nicolò a Treviso; purtroppo, non ci
è mai stato permesso
salirvi per via dei continui restauri e diosacché altri
impedimenti, ma avendo
visitato abbastanza campanili di simile stile in giro per
l’Italia e l’Europa,
supponiamo la scala essere ugualmente angusta e stretta, senza
possibilità di
grandi manovre da parte dei facchini, a meno che non volessero scalfire
il
muro.
Se
abbiamo fallato, chiediamo venia.
Il
“Crudele Giovedì Grasso” fu la
più grande rivolta popolare del
Rinascimento in Italia e la più sanguinosa: iniziata per
ripulire Udine da ogni
elemento filo-imperiale, essa scappò di mano e
s’estese a tutto il territorio,
al punto che il provveditore di Pordenone dovette intervenire in
soccorso agli
Strumieri. Purtroppo non se ne parla molto sia perché
oscurato da un evento più
“importante” – la guerra della Lega di
Cambrai – sia perché la storia del
Friuli non ci pare esser mai stata trattata nel dettagli nei libri di
storia nazionale
al liceo, a parte nei capitoli sulla fine dell’Ottocento e il
Novecento –
irredentismo, Prima e Seconda Guerra Mondiale.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Palazzo di San
Marco =
noto oggigiorno come Palazzo Venezia. Per quanto riguarda la villa
del Grimani, gli storici suppongo essersi trovata nell’area
dove oggigiorno si
trova Palazzo Barberini.
[2]
Per farla
breve, nel 1499-1500 il banco dei Lippomano fallì
rovinosamente e Girolamo
Lippomano, data la cifra spaventosa da ripagare, finì in
carcere per debiti
mentre la famiglia cercava di racimolare i fondi necessari. Nel 1501,
però, il
Lippomano riuscì a evadere in modo rocambolesco. Il Sanudo
racconta come
Girolamo, fattosi arrivare dei dolci dai familiari, una volta apertagli
la
barca coprì la faccia del suo carceriere col mantello e
puntatogli un coltello
alla gola, gli rubò le chiavi, fuggendo via là
dove l’attendevano tre barche
armate per partire alla volta di Bologna e poi Roma. Solo nel 1511
riuscì a
ritornare a Venezia e non perché la Signoria ce
l’avesse particolarmente con
lui, anzi pure gli firmò i lasciapassare, più che
altro erano i suoi creditori
che gliel’avevano giurata.
[3] Sebastiano
Priuli fu arcivescovo di Nicosia e Patriarca d’Antiochia,
morì il 2 ottobre
1502. Marco Dandolo (1458-1535) fu un diplomatico, politico ed
umanista, fino
al 1488 zio acquisito di Marco Corner, avendo sposato sua zia Lucia nel
1485.
[4a] cardinal Flisco = Niccolò Fieschi
(1456-1524), cardinale e arcivescovo, uno dei più stretti
collaboratori di
Giulio II e fratello di Santa Caterina Fieschi Adorno, autrice del
Trattato del
Purgatorio. [4b] Christofal Bambrize = Christopher
Bainbridge (1464-1514),
arcivescovo di York (Archiepiscopus Eboracensis in latino), poi
cardinale e oratore
di Enrico VIII Tudor presso Giulio II. [4c]
segnor Vich = Jeronimo
Vich y
Valterra (1459-1535), ambasciatore di Ferdinando II il Cattolico. [4d] Antonio Pallavicino Gentile
(1441-1507) fu cardinale, datario apostolico, camerlengo ed elettore di
Alessandro VI, Pio III e Giulio II. Morì nel 1507 ed
è sepolto a Santa Maria
del Popolo. Suo nipote Giovanni Battista (1480-1524) diverrà
cardinale sotto
Leone X e titolare di Sant’Apollinare. Venne seppellito, alla
sua morte, nella
medesima chiesa dello zio.
[5] Ducha di Borgogna = Carlo
d’Asburgo, figlio dell’Arciduca
d’Austria Filippo d’Asburgo, nipote di Massimiliano
e futuro Imperatore Carlo V.
[6]
San
Vittore e Santa Corona (o Stefania nella versione greca), sono i santi
patroni
di Feltre, le cui reliquie si possono venerare nell’omonima
basilica
santuario a 3km
dalla città.
[7]
cernide = sotto la Serenissima, la cernida indicava una
milizia
territoriale costituta da contadini addestrati. Il vantaggio rispetto
alle
truppe mercenarie era la rapidità del reclutamento.
[8] parlar moscheto = linguaggio più
alto, cittadino, in contrapposizione con la parlata locale e popolare.
[9] Carmagnola = Francesco
Bussone, detto il Carmagnola. Insospettita dai continui rinvii
dell’attacco
finale da parte del condottiero, malgrado i successi militari finora
collezionati, attacco che avrebbe assicurato la sua vittoria contro
Milano, la
Serenissima aprì un’indagine sul Carmagnola per
scoprirne i motivi. Ne risultò
come egli si fosse messo d’accordo con Filippo Maria Visconti
dalla cui parte
aveva in progetto di passare. Arrestato, venne processato e decapitato
per alto
tradimento. Nel Romanticismo (specie Manzoni e Hayez) la vicenda del
Carmagnola
venne riletta in chiave innocentista, col Bussone vittima degli
intrighi e
invidie del Senato veneziano. Revisione errata, giacché la
condanna del
Carmagnola fu votata pressoché
all’unanimità, cosa rarissima e dunque segno che
le prove c’erano ed erano schiaccianti.
L’atteggiamento ansioso/furente del
Visconti dopo l’esecuzione (vedi “Giorgio
Corner” nel capitolo precedente)
aveva tradito poi una coscienza sporchissima.
[10] Rivolta di Morea = a seguito
della caduta di Costantinopoli, Pietro Bua Spata incitò alla
rivolta i 30,000
albanesi residenti in Morea (Peloponneso) contro i despoti Tommaso e
Demetrio
II Paleologi (il primo padre di Zoe Paleologa, poi divenuta
granduchessa di
Mosca col nome di Sofia Paleologa) a causa dei pesanti tributi che
dovevano
versare. Temendo il controllo degli Albanesi in Morea, il sultano
Mehmed II intervenne
per sedare la rivolta in favore dei Paleologi, tuttavia risparmiando lo
sconfitto Pietro Bua Spata e riconoscendolo come rappresentante della
comunità
albanese in Morea. Il sultano inoltre mantenne la promessa di non
attaccare i
territori non occupati dagli Ottomani, tra cui appunto Napoli di
Romania
(Nauplia) e le zone veneziane rimaste in Grecia, dove risiedette il Bua
e dove
nacque Mercurio.
Secondo i
nostri calcoli, siccome la
rivolta è durata dal 1453 al ‘54, supponendo che
Pietro Bua (di cui non si
conosce la data di nascita) avesse avuto all’epoca almeno 25
anni, questo
significa che morì sessantenne nel 1489, data certa della
sua morte in quanto
corrisponde al trasferimento di Mercurio a Venezia. Di conseguenza,
Pietro
avrebbe avuto Mercurio quand’era all’incirca
cinquantenne e ciò non sorprende
in quanto in data 1511 e trentatreenne, Mercurio aveva già
un nipote, Andrea
Bua, che militava con lui. Dalla scarnissima genealogia della sua
famiglia
abbiamo trovato un fratello, Nicolò, morto nel 1500 e molto
probabilmente figlio
di primo letto, mentre Mercurio e Teodoro (quest’ultimo forse
il padre di
Prodano Bua, l’altro nipote) erano di secondo letto, quindi i
conti tornano (si
spera).
Ringrazio
Semperinfelix che ci ha aiutato coi
vari calcoli, perché due
cervelli son meglio di uno!