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Autore: betelgevse    12/05/2020    1 recensioni
[Hiromido/TatsuMido | lievi accenni ad altre coppie]
"Una credenza medievale vuole che alla figura femminile siano associati il male, il peccato, la seduzione lussuriosa, l’incarnazione del demonio tentatore. E gli uomini di allora si sbagliavano, si sbagliavano eccome: il diavolo non era una ragazza leggiadra, una di quelle fanciulle che ispiravano i poeti stilnovistici, e nemmeno una donna voluttuosa, dedita alla frequentazione dei postriboli.
Il demonio era un uomo sui vent’anni con la pelle ambrata, i capelli raccolti, una miriade di lentiggini e gli occhi che riflettevano l’infinito cosmico e tutta la volta celeste. Se gli antichi avessero conosciuto Midorikawa Ryuuji, probabilmente avrebbero descritto Lucifero come una creatura che suonava l’organo di notte seguendo gli spartiti di Mozart, che leggeva solamente opere di autori classici e che alzava il mignolo quando beveva: un’immagine ben distante dall’essere immondo e bruto, simbolo di pura stoltezza e perdita della ragione, a cui veniva associato."
[pubblicata anche su Wattpad sotto il medesimo username]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Isabelle/Reina, Jordan/Ryuuji, Kariya Masaki, Xavier/Hiroto
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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"Papà, possiamo fermarci lì?"
"No"
"E lì?"
"No"
"Uffa, ma io ho fame"

Sono circa venti minuti che siamo chiusi in macchina, il tutto a causa del proverbiale traffico delle otto.
Masaki si sta annoiando parecchio, motivo per il quale ha deciso di tartassare la mia povera anima pia: mi sta chiedendo continuamente di andare a mangiare da qualche parte dall'inizio dell'imbottigliamento. E pensare che ha fatto colazione meno di mezz'ora fa.

"Hai già mangiato e ti sei pure lavato i denti", ci tengo a ricordargli mentre tamburello le dita sul volante, attendendo pazientemente che la colonna di auto proceda, "Potrai prendere qualcosa intorno alle dieci se proprio non riesci ad aspettare fino a mezzogiorno".

"Ma io ho fame adesso", puntualizza Masaki mentre sbatte le mani sulle ginocchia, visibilmente frustrato, "Voglio andare a mangiare".
"Non possiamo, siamo in mezzo alla strada", non credo che se ne sia accorto siccome continua a tenere lo sguardo incollato ai due o tre luoghi di ristoro che, di tanto in tanto, fanno la loro comparsa a lato della strada. E, se non guarda quelli, come minimo starà giocando con il mio telefono.
 
“Voglio la mamma”, sbuffa imbronciato mentre preme insistentemente sullo schermo dell’apparecchio, probabilmente in cerca del suo contatto nella rubrica, “Posso chiamarla?”.
“Va bene, ma non passarmela”, vorrei evitare di perdere punti dalla patente per via del telefono: l’altro giorno sono stato fortunato e non ho incrociato nessun membro della polizia, ma questa volta credo sia improbabile siccome siamo molto vicini al centro abitato.
 
Sorridendomi contento, lo vedo pigiare un’ultima volta qualche tasto per poi accostare il telefono all’orecchio, facendo ciondolare le gambe dal sedile mentre attende pazientemente che qualcuno risponda dall’altro lato. Dopo un paio di squilli ed un cortese -con palese sarcasmo- “Cosa vuoi?”, Reina si fa viva e Masaki la saluta contento.
 
Non me la sento di ascoltare la loro conversazione, specialmente perché mi sembrerebbe di origliare, per cui faccio cenno a Masaki di mettersi gli auricolari per non essere disturbato.
Ogni qualvolta Reina venga a farci visita durante l’estate, non trascorro mai tempo con lei siccome preferisce dedicarsi interamente a Masaki: di conseguenza, è più facile ignorarla piuttosto che interagire con lei. Considerato il suo carattere, poi, è meglio non interagire a prescindere.
 
Dopo diversi minuti, la colonna inizia ad avanzare ed usciamo dalla sopracitata strada, resa sempre più angusta dallo scorrere del tempo.
 
Una volta raggiunto il parcheggio dell’azienda, vedo Masaki guardarmi titubante per poi porgermi il telefono con la chiamata ancora aperta.
”Ha detto che deve dirti qualcosa”, sussurra per non farsi sentire dall’altro lato della linea, guardandomi dispiaciuto nel ricordarsi che gli avevo espressamente chiesto di non passarmela.
 
“Dille di chiamarmi tra una decina di minuti sul telefono dell’ufficio, ok?”, gli faccio cenno di non pensarci, dandogli una carezza delicata sulla testa per poi dedicargli un sorriso, “Coraggio, dobbiamo andare a timbrare il cartellino”.
 
Masaki ricambia il sorriso e torna a parlare con Reina, tenendomi per mano mentre entriamo insieme nella struttura. Saluto un paio di impiegati alla reception e firmo qualche documento all’ingresso, sempre tenendo Masaki al mio fianco per non perderlo tra il via vai mattutino di dipendenti; Suzuno, documenti sottobraccio e ampie falcate anziché passi, mi chiama prima che possiamo salire sull’ascensore.
 
“Signor Kira, ho revisionato personalmente i resoconti del mese scorso e ho stampato più copie per non perdere i dati”, mi comunica con il suo solito tono piatto e serio, da cui riesco però a cogliere una nota di compiacenza, “Questi documenti sono i suoi e questa è la copia da depositare nell’archivio. La prego di firmarli non appena arriverà in ufficio”.
 
Se c’è una caratteristica di Suzuno che non so se apprezzare o meno, credo sia proprio la sua dedizione: in inglese, il termine adatto a descriverlo è, senza alcun dubbio, workaholic. Il problema, però, è che noi altri non siamo ossessionati dal nostro lavoro, per cui è sempre una sorpresa incappare in questi suoi atteggiamenti particolari, se così si possono definire.
 
“Oh, grazie mille, li compilerò subito. Vedo che sei di buon umore oggi, a cosa si deve questa stranezza?”, domando sorridendogli cortesemente mentre prendo i fogli che mi porge, lasciandovi cadere l’occhio con distrazione.
“Oh, nulla di che, mi sarò svegliato con il piede giusto”, scrolla le spalle con noncuranza per poi volgere la sua attenzione verso Masaki, il quale si nasconde dietro alla mia gamba.
 
Non ha mai avuto problemi a parlare con i miei impiegati -con Nagumo, per esempio, resta volentieri-, ma Suzuno l’ha terrorizzato dal loro primo incontro: per la precisione, dal momento in cui gli disse che mangiava bambini a colazione.
 
“Lui cosa ci fa qui? Deve timbrare le carte?”, domanda il mio collega con un sorrisetto, sporgendosi leggermente oltre la mia spalla per cercare di guardare Masaki, che continua a spostarsi per sfuggire ai suoi occhi.
“No, semplicemente non aveva voglia di andare a scuola. Vero, Masaki?”, domando a mio figlio mentre questo affonda il viso contro il mio fianco, bofonchiando un “Sì” quasi inudibile.
“Allora vi lascio andare in ufficio. A più tardi”, con un mezzo inchino di cortesia, Suzuno si congeda per poi avviarsi verso uno degli uffici del piano terra.
“È... è andato via?”, mi domanda Masaki con voce tremante, continuando a premere il viso contro la mia giacca.
“Sì, non ti preoccupare”, gli do una piccola pacca sulla schiena per incoraggiarlo a staccarsi e ci incamminiamo subito dopo verso l’ascensore.
 
Fortunatamente non incontriamo altri impiegati durante il nostro tragitto, fatta eccezione per Saginuma, un caporeparto dei piani alti, che ne approfitta per ricordarmi che non ho ancora controllato tutta la posta inoltrata da lui stesso settimana scorsa. A parte questo incontro, non vi sono altre interruzioni.
 
A pochi passi dalla fine del corridoio, sento delle risate provenire dal mio ufficio e noto che la porta è stata lasciata aperta, il che è strano siccome mi assicuro sempre che sia chiusa prima di uscire.
“Cosa sta succedendo?”, domando confuso una volta entrato nella stanza: vi trovo Nagumo, appoggiato allo stipite della porta con la schiena mentre ride istericamente, e Midorikawa, quest’ultimo al telefono con un’espressione accigliata.
 
“Mh? Ah, buongiorno, Kira”, mi saluta Nagumo tra una risata e l’altra, asciugandosi un occhio con il pollice per poi riprendere a ridere.
Non appena tento di chiedergli spiegazioni, lui mi precede prontamente ed indica il mio segretario con un cenno della testa, facendomi segno di ascoltare mentre cerca di tenere a bada il suo sfogo per non farsi sentire.
 
“Le ho già ripetuto una decina di volte che non può chiamare il numero privato dell’ufficio a nome di un singolo, a maggior ragione senza nemmeno aver prenotato un colloquio né simili”, vedo Midorikawa massaggiarsi le palpebre con l’indice e il pollice, scuotendo la testa con rassegnazione di tanto in tanto mentre cerca di trattenere la calma. A giudicare da ciò che dice, sembra che questa persona sia piuttosto testarda ed abbia già telefonato più volte.
 
Eppure non capisco cosa ci sia di così divertente da causare le risate omeriche di Nagumo. Quest’ultimo, nel notare la mia confusione, si sforza di biascicare un “Ascolta meglio”, e decido di seguire il suo consiglio.
 
A parte quella di Midorikawa, riesco a udire, per quanto possibile, un’altra voce, appartenente al suo interlocutore. Una voce di donna.
 
Non sono in grado di distinguerla appieno, ma ne avverto il timbro e la cadenza.
Una donna dalla voce femminile e decisa, probabilmente sopra gli ottanta decibel, che chiama con insistenza, senza curarsi delle circostanze.
 
“Reina ti ucciderà”, Nagumo si asciuga l’ennesima lacrima per poi darmi un colpo leggero sulla spalla, quasi d’incoraggiamento, per poi rivolgersi a Masaki.
Mentre lascio che parlino, mi avvicino alla scrivania di Midorikawa.
 
Con un cenno della mano, gli faccio capire che non deve insistere oltre, che parlare con Reina è impossibile, e gli sfilo cortesemente il telefono dalla mano, attendendo un attimo di quiete dell’altro lato della linea per poter cercare di farla ragionare.
 
Spendo un quarto d’ora solido nel tentare di chiarire il malinteso. Eventualmente, Reina cede e riattacca dopo essersi congedata.
 
“Scusala, a volte tende ad essere testarda e irascibile, ma non è una cattiva persona. Mi dispiace per il disagio che ti ha causato”, è la prima frase che rivolgo a Midorikawa dopo il termine della chiamata.
 
“Non si preoccupi, è comprensibile”, mi risponde con un piccolo sorriso, annuendo alle mie parole mentre sistema la cornetta del telefono al suo posto.
 
“Solitamente è calma da far paura, quindi questi sfoghi sorprendono anche me”, gli confido con sincerità, approfittandone per lasciare sulla sua scrivania la copia da archivio del documento di Suzuno.
 
“Beh, come si dice: acqua cheta rompe i ponti”, sorride con gentilezza mentre prende tra le mani il foglio, iniziando a leggerlo attentamente.
Non penso di averlo mai notato prima, forse per via della sua carnagione bronzea e della mia mancata attenzione, ma il suo viso è tempestato di una marea di lentiggini fitte, soprattutto sulle guance.
 
Par quasi più giovane di quanto non lo sia anagraficamente, in particolar modo se le macchie vengono unite ai suoi occhi che, per ironia della sorte, sono riempiti dalla condizione delle pupille e ricordano pressappoco quelli di un cerbiatto.
 
Anche i suoi lineamenti sono delicati, quasi femminei: dalla fisionomia alle forme del corpo, trasuda leggiadria e gentilezza. Il suo sguardo è candido proprio come il suo parlato, e le labbra rosee, di un piacevole volume, non tradiscono ciò che pensa.
 
Persino la sua voce è caratterizzata da una soavità modesta, e pare baciare dolcemente l’aria ad ogni sillaba.
 
Distolgo lo sguardo per non essere colto nello scrutare il suo volto, decidendo quindi di accomodarmi alla mia scrivania e ricordare a Nagumo che no, non riceverà la busta paga a fine mese se continua a perdere tempo per giocare con mio figlio.
 
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“Questo cos’è?”
“È una fattura”
“E questo?”
“È un bilancio aggregato”
”E questo?”
”È un evidenziatore”
 
Non so con quale pazienza connaturata Midorikawa stia rispondendo a tutte le domande di Masaki, nate puramente dalla sua indole infantile e curiosa.
Certo, avevamo stabilito delle regole ieri sera, ma io ho osato pronunciare quelle fatidiche parole, per cui lui ha visto subito un varco da cui passare, uno squarcio nella placidità e monotonia della vita d’ufficio che, se superato, gli avrebbe garantito un quantitativo drasticamente inferiore di noia.
 
Suddette parole sono state “Midorikawa, se ha terminato, può pure dedicarsi ad altro”.
 
Masaki, furbo com’è, ne ha approfittato per avvicinarsi alla sua scrivania e iniziare a parlare, in alternativa a chiedergli quale fosse il nome di qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione.
Sono passati circa tre quarti d’ora da quando ha iniziato e non accenna a smettere.
Fortunatamente, il mio segretario non sembra infastidito, anzi, risponde volentieri a tutti i quesiti che gli pone.
 
“Ti va di disegnare un po’, Masaki?”, gli domanda con voce melodica ed un sorriso cordiale, porgendogli nel frattempo un foglio da stampante ed una matita.
Masaki annuisce contento, piegandosi poco dopo con la schiena sul foglio mentre  Midorikawa riprende a scrivere i suoi calcoli sul registro bancario, spostandosi di tanto in tanto qualche ciocca dietro all’orecchio.
 
Anche solo vederli come esterno scaturisce un senso di armonia e dolcezza maternali.

Masaki non è mai stato così tranquillo con qualcuno, nemmeno con me, ma sembra genuinamente più controllato in questo momento, anche se in modo innaturale.
 
Ne approfitto per dare un occhiata all’orario e constato che è ora di pranzo: pochi secondi dopo, infatti, si sente la campanella di ogni piano tintinnare, indicando agli impiegati di interrompere il loro lavoro.
 
“Mh? Si mangia di già?”, domanda confuso Masaki mentre alza il viso dal suo foglio, guardandosi intorno come per cercare appigli e risposte.
”Sì, è mezzogiorno. Non dicevi mica di aver fame, stamattina?”, gli ricordo mentre mi alzo dalla mia scrivania, spegnendo il computer e cacciando un paio di fogli in fondo ai cassetti prima di uscire.
 
“Il tempo vola”, mi risponde con una linguaccia mentre scende dalle gambe di Midorikawa, il quale si alza a sua volta poco dopo.
”Sai già cosa vuoi mangiare, Masaki?”, chiede il mio segretario mentre sistema il suo blazer grigio perlato, camminando a pari passo con mio figlio.
”Uhm...”, Masaki ci pensa sopra mentre ci avviamo verso l’ascensore e incontriamo Nagumo salire le scale, probabilmente per venire a chiamarmi.
 
Mentre il caporeparto ci raggiunge dai gradini, sento Midorikawa picchiettarmi gentilmente nella spalla con l’indice, chiedendomi in maniera implicita di girarmi. Prima di parlare, fa cenno con la testa verso Nagumo e Masaki, i quali, nel frattempo, erano saliti sull’ascensore e ci stavano salutando con la mano. Ricambiamo il gesto poco prima che spariscano ai piani di sotto.
 
“Dovevi dirmi qualcosa?”, gli domando mentre mi volto verso di lui, dedicandogli la mia più completa attenzione. Lo vedo donarmi uno dei suoi soliti sorrisi impossibili da decriptare per poi porgermi un foglio piegato a metà.
A giudicare dalle piegature grezze e imprecise, deve trattarsi del foglio su cui stava disegnando Masaki mentre eravamo in ufficio.
 
“Penso che debba tenerlo tu”, mi dice sorridendo, al che lo prendo tra le mani per poi aprirlo: vi sono ritratte solo due figure, in cui riconosco le fattezze mie e di mio figlio, con diversi fiori intorno.
 
“Non... non ha mai disegnato cose del genere”, mi limito a commentare, continuando a tenere lo sguardo fisso sulle linee calcate che marchiano il foglio.
Solitamente si limita a disegnare animali, oppure oggetti che attirano la sua attenzione, e l’unica volta in cui ha provato a ritrarre la nostra famiglia c’era ancora Reina.
 
Non appena alzo il viso dal disegno, incontro le pupille piene di Midorikawa e questi mi precede prima che possa parlare di nuovo.
“Non è particolarmente affettuoso?”, domanda piegando leggermente di lato la testa, attendendo pazientemente la mia risposta.
”No, nemmeno con sua madre”, non vedo motivo di nasconderglielo siccome dovrò lavorare con lui nello stesso ufficio per più di sei ore al giorno: eventualmente sarebbe emerso l’argomento, ma preferisco che accada il prima possibile. Non mi piace tenere segreti, e poi Midorikawa mi sembra una persona affidabile quanto aurea.
 
“Allora le conviene sfruttare appieno questo periodo finché Masaki è tenero, così non avrà rimpianti”, mi suggerisce con l’ennesimo sorriso indecifrabile, facendomi cenno con il capo di seguirlo verso l’ascensore che, nel frattempo, è tornato al nostro piano.
 
Non si piange sul latte versato”.
 
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Angolino della stella cadente(?):

Oof, un altro capitolo è andato!
Ihih spero non vi dispiaccia una narrazione così “cinematografica” come la mia, ma almeno potrete cogliere tutto dei personaggi, dei loro rapporti, del loro passato e dell’ambiente che li circonda.
Vorrei ringraziare calorosamente i miei beta readers, presenti sul sito o meno, che ritagliano sempre un po’ di tempo per aiutarmi: davvero, il mio è un grazie sentito.
Questo capitolo è un po’ più lungo degli altri, ma poco importa perché non sarà la prima volta in cui sforerò il limite di parole da me imposto.
Se trovate qualche aborto grammaticale, non esitate a farmelo notare, mi raccomando!
Detto questo, ci vediamo nel prossimo capitoloミ✩
 
   
 
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