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Autore: AleeraRedwoods    18/05/2020    4 recensioni
Dal testo:
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”
(Revisionata e corretta)
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Aragorn, Nuovo personaggio, Thranduil
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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-In bilico-

 
     Miniel si affaccendò contro il proprio cavallo, assicurando i grossi fagotti alla sella con gesti secchi e meccanici. Un folto manipolo di soldati a cavallo la aspettava compostamente vicino a tre grossi carri, sotto il sole di mezzogiorno, e il silenzio della città le pesava sul petto come un macigno.
    Pestò un piede a terra, la fronte premuta contro il collo grigio dell’animale: sapeva che quel momento sarebbe presto arrivato ma lo odiava, lo odiava con tutta sé stessa.
    -Miniel, avanti. Dobbiamo andare.- La incoraggiò con dolcezza la madre, avvolta dal suo mantello argenteo. La Principessa si girò lentamente, per nulla pronta ad affrontare ciò che si sarebbe trovata di fronte: alle porte di Minas Tirith, la sua famiglia e i suoi amici assistevano alla sua imminente partenza, sorridendo come fosse il più lieto degli eventi.
    Un’immagine che, anche dall’immaturità dei suoi quattordici anni, le parve forzata e fuori luogo.
    Prese un respiro profondo, tentando di ricacciare indietro le lacrime e avvicinandosi a Legolas, i pugni serrati: -Non sorridere così. Non c’è niente per cui sorridere.- Lui non diede peso al suo tono offeso e le aggiustò i lacci del mantello, premuroso: -Sono solo sollevato. Sarai al sicuro ed è tutto ciò che conta.-
    -Avevi promesso che mi avresti insegnato a tirare con l’arco.-
Lo accusò comunque lei, sentendo le guance bruciare per lo sforzo di non urlare come una bambina capricciosa. L’elfo le accarezzò la testa con dolcezza: -Lo farò, Miniel.-
    Già, come poteva esserne così sicuro?
    Lei scosse con forza il capo, lanciandogli le braccia sottili al collo: -Promettimelo, per favore!- Legolas la strinse a sé e, nonostante lo sguardo velato dall’apprensione, promise.
    Miniel lo lasciò solo per chinarsi ad abbracciare con altrettanta forza Gimli, lì accanto. Il nano tirò su con il naso, battendole pacche amorevoli sulla schiena: -Su, su, principessina, questo non è un addio! È un arrivederci.- La rassicurò: -Faremo una bella pulizia di quella feccia, non temere!-
    Miniel, che aveva ascoltato le storie delle loro valorose gesta per tutta la vita, sapeva bene che i due erano ottimi combattenti ma la stretta al cuore che provava nel lasciarli indietro, pronti per la guerra, l’atterriva. Asciugò di nascosto una lacrima e si raddrizzò, liberando il nano dall’abbraccio.
    Quando incontrò gli occhi viola della stella, dovette fare appello a tutte le sue forze per non ribellarsi nuovamente a quell’assurda situazione. Sillen aveva il volto scavato, Miniel sapeva che non mangiava abbastanza: ora chi si sarebbe premurato di ricordarglielo? -Fai buon viaggio, Miniel.- Le sorrise, lei. Era un sorriso bellissimo nonostante tutto, pensò la Principessa.
    Prese le mani della stella tra le sue, le labbra tremanti: -Sappi che sono io la più vecchia delle due, dunque la più saggia! Se ti dico che puoi farcela, di sicuro è vero.- La rimbeccò.
    Sillen si morse forte il labbro inferiore e la strinse di slancio, riuscendo a malapena ad articolare le parole: -Grazie, Miniel.- E la giovane ricambiò la stretta, affondando il viso nei setosi capelli neri dell’amica. Non ebbe bisogno di dirle quanto le volesse bene, quanto sarebbe rimasta con lei per aiutarla a curare le ferite del suo animo: era certa che Sillen sapesse già ogni cosa.
    Con reverenza, Miniel si allontanò da lei e si rivolse agli altri alleati, inchinandosi leggermente: -Namarië, amici miei (addio). Vi affido la mia casa.- Questi si inchinarono a loro volta, una mano sul cuore. La giovane li guardò uno ad uno, imprimendosi nella mente i loro visi così familiari.
    Non solo stava lasciando la sua meravigliosa città, le pigre albe dorate di Gondor, le persone che amava da sempre: stava abbandonando tutto quello che conosceva.
    L’ignoto che si prospettava davanti a lei le dava i brividi e più si soffermava a pensare al futuro, più temeva di sprofondare nell’angoscia e nell’incertezza.
    Si chiese come la sua gentile madre fosse riuscita ad affrontare quelle emozioni senza cedere alla disperazione, anni prima. Quanta forza aveva dimostrato, nell’attendere il suo amato, perché quella le pareva la tortura peggiore che qualcuno potesse subire.
    Infine, con quei tormentati pensieri nella mente, Miniel volse verso suo padre. Elessar, composto e regale com’era sempre stato, non si chinò per asciugarle le pesanti lacrime. Una parte di lui avrebbe voluto stringere quella piccina a sé, per non lasciarla andare mai più, ma quei sentimentalismi non avrebbero trovato spazio, non quel giorno. Sua figlia aveva bisogno della sua forza ora più che mai ed Elessar doveva dimostrarle di essere un Re, non solo il suo amato padre.
    Per quanto fosse difficile, le parlò duramente: -Figlia mia, mia unica erede, tu sei il futuro del Regno degli Uomini. Non mostrarti debole dinanzi a tale onore. Da questo momento, ti affido tua madre e tutto il tuo popolo, che ti sta aspettando a Dol Amroth.- Lei chiuse gli occhi con forza per ricacciare indietro le lacrime e sollevò il mento, con solennità.
    -Non ti deluderò padre.- Esclamò, la voce arrochita dall’emozione. Il Re degli Uomini le posò una mano ruvida sulla spalla: -No, Principessa. Sono io che non voglio deluderti. Ad ogni costo, ti renderò il tuo regno salvo e libero dal male.-
    Lei annuì, le labbra serrate, pronta a raggiungere sua madre. Passò affianco al padre, gli occhi puntati altrove per non incontrare il suo sguardo.
    Elessar la lasciò passare ma, poco prima di allontanarsi, un suono terribile giunse alle sue orecchie e gli straziò il cuore: Miniel stava singhiozzando sommessamente, cercando di tenere il mento tremante in alto per non darlo a vedere. Istintivamente, il Re la trattenne per un braccio, costringendosi però a non guardarla, a non comunicarle il suo dolore attraverso i propri occhi. Prima che potesse ricomporsi, le parole gli sfuggirono dalle labbra come un soffio: -Ti amo più della mia stessa vita, Miniel.-
    La Principessa s’irrigidì all’istante, tremando per la paura. 
    Più della sua stessa vita. 
    Prima che lei potesse voltarsi nuovamente verso di lui, Elessar la spinse con sicurezza verso lo stallone grigio e lei si affrettò a montare, conscia che se non fosse partita all’istante non ci sarebbe mai più riuscita.
    Arwen la imitò, guardando un'ultima volta l’amato, che le fece cenno di incamminarsi senza indugiare oltre. Le due dame di Minas Tirith volsero le cavalcature verso Sud, precedendo i carri che custodivano gli ultimi beni di valore della città, e i soldati si disposero con efficienza dietro di loro.  
    Sotto il fulgido sole d’inizio estate, Miniel strinse le redini tra le dita: -Che i Valar ti proteggano, amato padre mio.- Sussurrò, puntando con decisione lo sguardo dritto davanti a sé.
 
**
 

    Poco dopo, senza nemmeno concedersi il tempo di assimilare la penosa situazione, gli alleati si riunirono nello studio del Re di Gondor e di Arnor.
    Faramir incrociò le braccia al petto ampio, scrutando attentamente la mappa davanti a sé: -Sei certa che Pallando non sappia di questa parte del nostro piano?-
    La stella storse la bocca, scocciata: -Non ho detto questo, ho solo riportato quello che ho sentito nell’illusione. “Arrenditi ed io risparmierò la città di Minas Tirith, dove con tanta presunzione credi di resistermi”- Ripeté lei, ricordando con estrema precisione le parole dello stregone.
    Elessar scosse la testa, preoccupato: -Se Alatar ha comunicato a Pallando i nostri piani, allora egli saprà per certo quello che vogliamo fare.- Sillen aveva riflettuto molto su quel dettaglio: -Sì, Pallando ha sempre saputo il momento e il luogo esatto dove io mi sarei trovata, non possiamo rischiare. E comunque, senza Alatar il piano è infattibile.-
    Il Re degli Uomini sbatté con forza una mano sul tavolo di legno, furente: -Maledizione, quello stregone traditore!- Sibilò.
    Sillen tentò con tutta sé stessa di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni e scavò nella propria mente, in cerca di una soluzione.
    Pallando era un abile manipolatore, non avrebbe mai pronunciato una parola semplicemente per caso: -Pallando sa che modificheremo il nostro piano.- Sussurrò. -È inutile cercare di ingannarlo.- Gli uomini la fissarono abbattuti, seguendo in silenzio il suo ragionamento.
    Passarono diversi minuti prima che la muta tensione nella stanza fosse infranta, scuotendo i presenti. -Dannazione, cosa possiamo fare dunque?- Esclamò Éomer, stizzito.
    -Sillen aveva elaborato forse l’unico piano in grado di darci una possibilità. Dobbiamo essere cauti, adesso.- Cercò di placarlo Glorfindel, affiancando la stella: -Per lo meno siamo certi che, se mai riuscissimo a studiare un piano alternativo, questa volta Alatar non ne saprebbe niente.-
    -Giusto! Dobbiamo cambiare strategia ora che Alatar non può sentirci!- Si riprese Faramir, anche se non colse altrettanto entusiasmo nei compagni, che si limitarono a guardarlo, mesti.
Glorfindel si batté un dito contro la guancia affilata, pensieroso.
    -Tuttavia, come abbiamo precisato, modificare il piano è proprio ciò che Pallando si aspetta che noi facciamo.-
    Lo sforzo per districarsi in tutto ciò lasciò Éomer sconvolto:
    -Arrivate al punto!- Ma Elessar lo zittì con un gesto, infastidito.
    -Non c’è un punto, Éomer! Glorfindel ha ragione, non esistono una scelta migliore e una peggiore. Pallando si premunirà di prendere in considerazione qualsiasi nostra azione, che decidiamo di modificare il piano o no.- 
    Oh. Ora che il discorso gli era più chiaro, Éomer si pentì di aver preteso una spiegazione: -Ottimo. Questo vuol dire che siamo fregati. Belli che morti!-
    Sillen posò entrambe le mani sulla scrivania, ragionando più velocemente possibile: -Ripetiamo il nostro piano, un’ultima volta. C’è di sicuro un modo per non rendere tutto vano.-
    Glorfindel mosse velocemente le pedine sulla mappa, concentrato: -Il tuo piano prevedeva che tu rimanessi nella città con gli uomini di Minas Tirith. Nel frattempo, la cavalleria di Rohan, i Nani, gli Elfi e il resto della fanteria, si sarebbero appostati dietro i colli del Pelennor a Nord, nascosti dalle nebbie evocate da Alatar. Quando l’esercito nemico fosse giunto alla città, tentando di assediarla per arrivare a te, l’avreste lasciato entrare e le nostre forze avrebbero attuato l’attacco a sorpresa da Nord, circondandolo e chiudendolo in una morsa. Così facendo, sarebbe stato costretto nella città e allora ci saremmo presi tutto il tempo per decimarlo, fino all’annientamento.-
    Era davvero un buon piano, doveva ammetterlo.
    La città svuotata, le nebbie, l’attacco a sorpresa, la trappola.
    Sillen osservò le numerose pedine: -Le Aquile non hanno riportato nulla di rilevante dalle ronde, per ora. L’esercito di non morti continua l’avanzata nell’Ithilien come ci aspettavamo e, di questo passo, si troverà dritto davanti alla città, non a Nord per intercettare i nostri. Questo potrebbe significare che Pallando non si aspetta più il nostro attacco a sorpresa, avendo perso la magia di Alatar, ed è convinto che abbiamo già modificato il piano.-
    -Ciò non esclude che i nemici possano virare all’ultimo e allora sarebbe difficile spostare in fretta il nostro esercito e le infermerie.- Sospirò Elessar, scuotendo la testa: -Non possiamo fare niente, Sillen. O manteniamo il piano o ci prepariamo a uno scontro frontale. Il nemico sarà qui tra poco, comunque noi decidiamo di agire.-
    La stella strinse i pugni.
    Che cosa doveva fare, cosa le sfuggiva?
    Dove avrebbe potuto nascondere l’esercito per evitare lo scontro diretto e aggirare il problema dell’inferiorità numerica?
    Poi, un dettaglio catturò il suo sguardo. -Osgiliath.[1]-
    Elessar, subito, non capì, poi seguì lo sguardo della stella, sulla mappa ingiallita e sgranò gli occhi. -Credi che…-
    Anche Glorfindel annuì, curioso: -Potrebbe funzionare. La cavalleria però è difficile da nascondere, senza le nebbie.-
    -Allora qui si nasconderanno fanti e arcieri.-
    Esclamò Sillen, rinvigorita. -Sì, è questo il modo migliore! Disgreghiamo l’esercito, non servirà la nebbia. La cavalleria attaccherà da Nord, gli Uomini e i Nani da Sud-Ovest, dalla città. E gli Elfi da Osgiliath. Ognuno con le priorie risorse. Spingeremo l’esercito nemico a dividersi, per combattere su ogni fronte!-
    -In questo modo copriremmo più direzioni possibili. E, disponendo la cavalleria a Nord, siamo sicuri che questa riuscirà a spostarsi velocemente, nel caso il nemico virasse all’ultimo.-
    Elessar sorrise, stringendo la stella per le spalle, con un braccio: -Non tutto è perduto! Godremo ancora dell’effetto a sorpresa.- Sillen rise, tesa ma rinvigorita.
    L’elfo dorato, accanto a loro, si passò le dita affusolate tra i capelli, guardandoli attraversi le ciglia folte: -Legolas, Elladan ed Elrohir guideranno gli elfi da Osgiliath. Faramir ed Elessar, voi rimarrete alle porte di Minas Tirith, Thorin vi appoggerà poco più a Sud. Éomer, tu e i Rohirrim vi nasconderete dietro ai colli del Pelennor, a Nord.- Piantò gli occhi in quelli ametista della stella, serio: -Io verrò con te. Non sappiamo ancora quanto puoi resistere usando il tuo potere e, in questo caso, temo dovrai farne largo uso. In caso di necessità, io sarei l’unico a poter tentare un’azione contro Pallando.-
    Sillen strinse i pugni e annuì, risoluta: lo scontro che aspettava, la sfida risolutiva tra lei e lo stregone.
    -Seguiremo la battaglia insieme alle aquile. Così sarà più facile individuare e raggiungere Pallando.- Aggiunse Glorfindel.
    Tutti annuirono, approvando il piano, e il Re degli Uomini si diresse velocemente alla porta: -Dobbiamo dirlo a tutti, adesso. Mandate a chiamare gli altri capi dell’esercito, ci riuniremo immediatamente nella Sala del Trono.- Gli altri lo seguirono in fretta, ben più speranzosi di quanto non fossero quella mattina.

 
**
 

    Nel frattempo Legolas, dall’alto del Cortile della Cittadella, aveva osservato il corteo reale delle Signore di Minas Tirith sparire dietro l’orizzonte, i capelli biondi sferzati dal vento tiepido.
    Gimli, rimasto per tutto il tempo accanto a lui, tirò un’altra boccata dalla sua lunga pipa: -Avessi avuto qualche anno in meno, le avrei promesso di rivederla con più fervore. Ora non so nemmeno se supererò la battaglia.- Borbottò, pensieroso. -Temo di essermi arrugginito, in questi anni di pace.-
    L’elfo sorrise appena, senza voltarsi: -Senz’ombra di dubbio sei invecchiato. Ciononostante, non credo combatterai con meno foga.- Il nano rise, accondiscendente: -No, certo che no. Non se ancora devo darmi da fare per dimostrarti chi è il migliore tra noi, orecchie a punta.- Legolas sentì il calore invadergli le guance ma era comunque troppo orgoglioso perché potesse lasciar cadere la provocazione: -Vorrei ricordarti che ho sempre vinto io.-
    L’altro, incredibilmente, non rispose a tono e il giovane Sindar si girò verso di lui incuriosito, un sopracciglio alzato. Incontrò lo sguardo serio di Gimli, già fisso nel suo, e trattenne istintivamente il respiro.
    Il nano lo studiò per qualche secondo, quasi tentasse di risolvere il più intricato degli indovinelli, scritto da qualche parte sul suo viso affilato: -Già, hai sempre vinto tu.- Concluse, la voce tanto bassa che l’elfo quasi non sentì.
    Quasi.
    La gola di Legolas si seccò improvvisamente e, per quanto lui provasse a riacquistare un minimo di contegno, rimase a fissare il nano con le labbra schiuse, in silenzio.
    Gimli distolse rapidamente lo sguardo, sospirando: -Smettila di fare quella faccia sorpresa, stupido elfo. Quando ieri te ne sei andato, io non avevo ancora finito di parlare.-
    Legolas deglutì: giusto, il loro litigio. -Non volevo più ascoltare. Oh certo, me ne farò una colpa, se vuoi, ma non mi piace quando parli di andartene.- Lo accusò con voce secca e l’altro strinse i pugni: -Se tu mi avessi lasciato finire, avresti capito cosa stavo cercando di dire!- A quelle parole, l’elfo arricciò il naso fine e si voltò, offrendo al nano il proprio profilo contrariato: -Non esiste un modo per alleggerire tale notizia. Ma ho già detto che non m’interessa se vuoi andartene. Combatteremo e vinceremo questa guerra, poi potrai fare quello che ti pare.-
    Gimli gli afferrò prepotentemente il polso e l’elfo si voltò verso di lui, furioso. Rimasero parecchio a fissarsi negli occhi, i respiri accelerati e le espressioni dure.
    Prima che uno dei due potesse fare qualsiasi cosa, però, Thorin III Elminpietra si schiarì la voce, facendoli sussultare vistosamente.
    Stava ritto in piedi, poco lontano da loro: -Spero di non aver interrotto niente.- Commentò, squadrando prima le guance arrossate dell’elfo, poi la mano del nano, ancora chiusa sul suo polso sottile. -Per la mia barba, che cosa diamine c’è?- Gli abbaiò contro Gimli, forse con un po’ troppa enfasi, lasciando andare velocemente Legolas.
    Il Re nanico, con le sopracciglia aggrottate, decise saggiamente di far finta di non aver visto nulla e indicò un più che basito Ibûn, rimasto poco indietro: -Sono venuto a consegnare un dono alla Stella dei Valar. Lei dov’è?-
    Legolas si lisciò la casacca verde, facendo un passo avanti per evadere da quell’assurdo stato di confusione in cui era precipitato: -Ti farò strada, mio signore. Sillen si trova nello studio di Re Elessar.- L’altro annuì e l’elfo lo superò, lasciò Gimli accanto al parapetto, senza voltarsi indietro.
    Guidò Thorin e il fabbro dentro il Palazzo reale e subito intercettò Sillen e gli alleati, diretti verso la Sala del Trono.
    -Legolas! Devi venire con noi.- Lo affiancò Elessar quando lo vide, sorridendo: -Abbiamo ottime notizie! Anche tu devi assistere alla riunione, mio signore Thorin.-
    Il nano alzò una mano per interromperlo, deciso a concludere prima la faccenda per cui era giunto lì di persona: -Solo un momento, Re di Gondor. Devo consegnare questo dono alla magnifica stella.-
    Sentendo quelle parole, Sillen si avvicinò velocemente ma tenne lo sguardo basso, ricordando molto bene la sua illuminante conversazione con il mastro fabbro a proposito di corteggiamenti e assurde supposizioni di quel genere. Si sforzò di non guardare Thorin negli occhi, arrossendo leggermente: -Mio signore, Ibûn ha fatto davvero in fretta! Ti sono grata per il tuo aiuto ma ti prego di accettare un pagamento equo per-
    -Mia adorata Sillen, ho già chiarito che questo è un dono, pertanto non voglio nulla in cambio.- Lui le prese la mano con una rude gentilezza che la fece sobbalzare: -Mi basta che tu sia al sicuro durante la battaglia. Dobbiamo uccidere un bel po’ di mostri, non è così?- Esclamò.
    La stella gli sorrise grata, e solo allora l’altro si rivolse a Elessar:
-Non mi tratterrò oltre. Andiamo, Re degli Uomini!- Questi annuì e, prima di procedere, lanciò uno sguardo complice alla stella, adocchiando l’altro nano giunto lì insieme a Thorin: -Vai pure, Sillen. Qui ci penso io, adesso.-
    -Vi raggiungo appena posso.- Gli assicurò lei avvicinandosi a Ibûn, che l’aspettava pazientemente poco più avanti. Non appena lei incontrò il suo sguardo, il nano dalla barba bianca le fece l’occhiolino: -Felice di rivederti, Stella dei Valar.- Si sistemò meglio sulle spalle il grosso sacco che, a giudicare dalla sua posa dolorante, doveva pesare molto.
    Sillen si morse il labbro inferiore, trepidante: non vedeva l’ora di saggiare tra le dita quell’armatura portentosa che l’abile nano aveva forgiato su misura per lei. -Seguimi, così posso provarla!- Lo incitò, allungando il passo e allontanandosi dagli alleati, che si dirigevano alla Sala del Trono dalla parte opposta.
    Solo Glorfindel rimase indietro, senza seguire né il Re, né la stella. Osservò il corteo sparire velocemente e respirò a fondo. Come un’ombra leggera, si ritirò nel piccolo corridoio che sbucava poco più in là.

 
**

    L’elfo dorato di Imladris scese velocemente le scale, inoltrandosi negli stretti corridoi che conducevano alle segrete di Minas Tirith.
    Giunse all’ingresso, e le quattro guardie di turno lo squadrarono brevemente, stringendo appena le lunghe lance grigie: -Il Re ha ordinato di non far passare nessuno, mio signore.-
    Il Vanyar piantò gli occhi taglienti in quelli dell’uomo, che arretrò automaticamente di un passo: -Sono qui per conto della Stella dei Valar. Fatemi passare.- Ordinò imperioso, i pugni stretti.
    Per quanto i quattro uomini sapevano, quella poteva benissimo essere una menzogna ma si scostarono comunque, obbedienti: nessuno di loro aveva intenzione di tirarsi addosso le ire del nobile elfo, che pareva infuocato sotto alle luci tremolanti delle torce. Inoltre, giacché egli aveva addirittura tirato in causa la Stella, doveva di certo avere un buon motivo per trovarsi lì.
    Glorfindel li superò di gran lena, piantandosi infine davanti alle sbarre della cella più buia e isolata della città.
    Alatar, scompostamente seduto sulla dura branda di legno, nemmeno sollevò lo sguardo ma sentì chiaramente l’energia dell’elfo scuotere l’aria pesante della prigione: -Non mi aspettavo questa piacevole visita.- Commentò e la piccola Lelya trotterellò pigramente sul trespolo accanto, incatenata.
    Non che la situazione fosse nuova, per i due compagni: si erano trovati nella medesima cella poco tempo addietro, giunti per la prima volta a Gondor. Alatar si stava giusto chiedendo se non sarebbe stato meglio rimanerci sin da quel momento, in cella.
    -Piacevole visita? Fosse stato per me, saresti infilzato come un maiale. Sei vivo solo grazie al buon cuore di Sillen.- Ringhiò Glorfindel: -Un cuore che hai fatto sanguinare, Morinehtar. Non la passerai liscia.- Alatar non si scompose e questo irritò ancora di più l’elfo. -Sei sempre stato impulsivo, Glorfindel di Gondolin. Insolito, per uno della tua razza.-
    -Già, penso mi appellerò alla mia impulsività quando ti troveranno morto, stasera. Grazie per il consiglio.-
    Lo stregone scrollò le spalle, curvo su sé stesso come se a malapena riuscisse a sostenere il proprio peso: -Suppongo sia giusto così.- L’elfo lo squadrò a lungo, pensieroso.
    Come sospettava, lo stregone sembrava davvero arreso al suo destino. -È proprio a causa di questo tuo contradditorio modo di fare che mi son sovvenuti dei dubbi, sai?- Lo apostrofò, dopo un po’. Alatar si voltò finalmente verso di lui, le sopracciglia aggrottate: -Dubbi? A proposito di cosa?-
    -A proposito del tuo tradimento.-
    -Sii ragionevole. Io ho tradito Sillen.-
    -No, non credo.- Tagliò corto Glorfindel, piccato. -Almeno, non volontariamente.-
    Lo stregone scosse la testa, ridacchiando sommessamente: -Tu non sai niente, Glorfindel. Se credi di conoscermi perché un tempo viaggiammo insieme, ti sbagli. Non puoi nemmeno immaginare chi io sia e che cosa io abbia fatto da allora.-
    L’elfo si avvicinò alle sbarre, gli occhi dorati stretti in due fessure: -Il mondo non è solo bianco o nero, per quel che mi riguarda.-
    -Dunque tu credi che, se anche non avessi tradito Sillen, sarebbe giusto perdonare tutti i crimini del mio passato? Non funziona così.- Alzò la voce, lo stregone. -E per la cronaca, io ho tradito Sillen. Forse non saranno state le mie labbra a rivelare i vostri segreti a Pallando ma è più che evidente che lui agisce attraverso me. Credimi, se io fossi stato onorevole, non avrei mai nemmeno cercato la stella. E, invece, eccomi qui. Ad aspettare di vedervi cadere uno dopo l’altro.-
    Glorfindel non seppe cosa rispondere, questa volta.
    Quel dannato stregone, gli rendeva le cose difficili: -Dovresti vergognarti. Sillen-
    -Sillen starà molto meglio senza di me.- Abbaiò l’uomo, interrompendolo. Glorfindel vide i suoi occhi brillare, lucidi.
    Ecco i veri sentimenti dello stregone, le sue paure.
    E l’elfo fu infastidito dalla sua arrendevolezza, dai suoi sensi di colpa del tutto fuori luogo.
    Sbatté violentemente un pugno contro le sbarre e Lelya prese ad agitare le ali, spaventata: -Allora marcisci qui. A battaglia conclusa, tornerò a ucciderti con le mie stesse mani.- Lo minacciò, girando poi sui tacchi e lasciandolo solo nel buio.
    Alatar lo guardò andare via, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Sarebbe stata una morte fin troppo giusta, quella, per uno come lui.
    Sussurrò qualche parola per tranquillizzare il piccolo falco, poi si sdraiò sulla rigida brandina, dando le spalle alle sbarre della sua cella.
 

 
**

    A parecchie miglia a Est, Landroval osservava l’orizzonte, planando sulle verdi distese e sui boschi frondosi ai confini del Nord Ithilien. La quiete e il silenzio regnavano sovrani, spettatori della placida discesa del sole estivo oltre la cresta degli Ered Nimrais.
    In testa al gruppo di ricognizione, il grande Re delle Aquile si alzò di quota, sfruttando le correnti. Non appena riuscì a stabilizzarsi nuovamente, tornò a scrutare le terre davanti a sé e fu solo allora che notò del movimento. Aguzzò la vista, mantenendosi il più immobile possibile per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio.
    Subito dopo, spalancò gli enormi occhi gialli, richiamando le altre Aquile al suo fianco.
    Tra una macchia boschiva e l’altra, una lunga striscia nera inspessiva l’orizzonte come una maldestra pennellata di inchiostro, troppo spessa e netta perché appartenesse a quel paesaggio ameno. Landroval sentì l’agitazione scuotergli le penne brune: infine, il nemico era giunto a Gondor.
    Con decisione, il Re delle Aquile si lanciò in quella direzione, e più si avvicinava all’esercito di non morti, più il peso di quell’imminente battaglia gravava inesorabilmente su di lui: i boschi adesso, invece che stagliarsi sulle distese di erba smeraldina, parevano galleggiare su un cupo mare silente, nero come la pece.
    Erano schiere infinite.
    L’esercito nemico inghiottiva il verde come una macchia di liquido putrescente e l’aria diveniva sempre più pregna del suo fetore, fino a renderla insopportabile.
    Le pupille acute del Maia[2] fissarono con attenzione l’avanguardia di quel lento fiume di cadaveri, finché la sua attenzione non venne catturata da una strana figura, che stonava con tutto il resto. Questa cavalcava un enorme mannaro scheletrico, le gambe scompostamente incrociate sull’arcione; il capo e le spalle erano coperti da una mantellina color prugna, che lasciava intravedere lunghe ciocce nere come la notte.
    Nonostante gli sforzi, Landroval non riuscì a mettere a fuoco nessun altro dettaglio. Ciò nonostante, aveva tutta l’impressione che quell’essere fosse… vivo.
    Non ebbe nemmeno il tempo di formulare quell’inquietante pensiero che la figura a cavallo del mannaro voltò il viso pallido verso di loro. L’aquila sentì il suo sguardo penetrargli la carne, come un dardo incandescente.
    Per un secondo, temette di perdere quota.
    Poi, un rombo innaturale riscosse le altre Aquile, che urlarono sconcertate e, dopo un attimo di smarrimento, Landroval riuscì a individuare cosa lo avesse provocato: a diversi passi dall’essere incappucciato, semi nascosto dalle fronde degli alberi e dal sottobosco, era riverso a terra un oggetto di legno e metallo, da cui fuoriusciva un fumo violaceo, denso e bollente.
    Il Re delle Aquile schioccò il becco, seccato: doveva averlo gettato quell’individuo, mentre era distratto.
    Uno dopo l’altro, altri oggetti simili furono lanciati tra gli alberi, per tutta la lunghezza dell’esercito, detonando subito dopo con boati metallici. Ben presto, il fumo viola cominciò a sollevarsi dalle fila nemiche e Landroval, intuendo il loro piano, gridò la propria rabbia all’essere incappucciato in testa alla legione nemica. Prima che il fumo lo nascondesse alla sua vista, all’aquila parve di vedere quell’individuo sorridere.
    Certo, doveva essere un ingenuo se credeva di nascondersi agli occhi acuti delle aquile con banale fumo.
    Landroval raccolse una mezza dozzina dei suoi più veloci compagni e si lanciò in picchiata, deciso a disperdere quella dannata nebbia violacea a suon di colpi d’ala.
    Una delle Aquile, la più veloce, superò i compagni, determinata: non appena questa entrò in contatto con il fumo, però, dal suo becco chiaro si levarono urla terribili. Le altre si arrestarono violentemente, fissando con sgomento il compagno che li aveva preceduti: questo si dimenò nell’aria, gridando e scuotendo la testa, come se tutto il suo corpo avesse preso fuoco.
    Dopo pochi terribili secondi, l’aquila piombò di peso tra quei fumi innaturali. Si udì un tonfo sordo e le sue grida cessarono con un gorgoglio sinistro.
    -Non avvicinatevi! State lontani!- Urlò Landroval, impedendo il passaggio alle altre Aquile che, rabbiose, cercavano di abbattersi come furie sull’esercito al di là del fumo velenoso.
    -Voi due, volate a Minas Tirith! Il nemico è qui!- Impartì, severo.
    Con un colpo d’ali, si alzò nuovamente di quota, mettendo quanta più distanza possibile tra loro e le nebbie mortali.
    Qualcosa lo insospettiva: l’esercito nemico pareva essersi fermato sotto quei miasmi, senza marciare oltre.
    Il sole scomparve e la notte si trascinò all’infinito: le Aquile erano stanche, costrette in volo da ore e sfiancate dalle folate di vento che trasportavano troppo vicino a loro il fumo velenoso.
    L’esercito non pareva essersi più mosso e per parecchio tempo, dall’alto della sua postazione, Landroval non udì nessun rumore.
    Era come se il fumo celasse ciò che aveva al di sotto non solo alla vista ma anche a tutti gli altri sensi.
    Frustrato, il Maia fece il giro intorno all’immenso esercito per molte volte, cercando tracce e sperando di captare suoni che, però, non si presentarono mai.
    Alle prime luci dell’alba, finalmente, il fumo cominciò a diradarsi, rianimando il gruppo di ricognizione.
    Nell’attimo in cui le nebbie violacee lasciarono spazio alle lussureggianti fronde del bosco sottostante, tuttavia, la determinazione abbandonò definitivamente le Aquile: l’enorme, immenso esercito nemico era scomparso, senza lasciare traccia.
 


[1] Osgiliath: (in Sindarin Fortezza della Moltitudine di Stelle) Cittadina fortificata posta sul fiume Anduin.
 
[2] Maia: singolare di Maiar, spiriti divini (in questo caso, sotto forma di animale). Sono Ainur, seppur di grado minore rispetto ai Valar . Moltissimi di loro scelsero di camminare sulle terre di Arda, dopo la sua creazione.

 



N.D.A

Ciao a tutti! Bentrovati :D


Che dire, questa volta la mia assenza è stata del tutto non voluta! E sono anche parecchio contrariata T-T” Sono stata colta di sorpresa (cosa che mi potevo evitare, dati i precedenti) dalla fantastica organizzazione della mia università e ho dovuto mollare qualsiasi cosa per mettermi in pari con gli esami che ci hanno prontamente buttato lì, a distanza di poche settimane dall’avviso. In questo meraviglioso momento poi, dove già tutti abbiamo a che fare con affari ben poco piacevoli :(
Ma torniamo al capitolo! Ci ho rimuginato sopra un bel po’, lo ammetto. Mi sembra sempre di rimandare questa fatidica battaglia -lo so che è così, non fatemelo notare sennò piango- ma proprio non potevo tagliare via queste parti. Sì, è una specie di collage di situazioni ma presto troveranno ognuna la propria strada, fidatevi di meee!
Okay, ho parlato fin troppo in queste note XD Ringrazio sempre tantissimo chi è arrivato sin qui, chi ha recensito (vi adoroo) e chi ha seguito la storia! Siete fantastici! Vi aspetto nel prossimo capitolo,


Mille abbracci -e visto che sono virtuali ignoriamo il metro e mezzo di distanza <3-
Aleera


P.S Comunque fatemi sapere cosa ne pensate! Bacii
   
 
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