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Autore: Lady_Dunmer    24/05/2020    0 recensioni
Più di un secolo è passato dal trionfo del Sangue di Drago sul Divoratore del mondo. Da allora molto è cambiato a Tamriel: l'Impero, un tempo grande e potente, è ora l'ombra di sè stesso. Sul trono si sono alternati sovrani deboli, folli o incapaci, subito spazzati via da intrighi di palazzo senza posa. Solo negli ultimi dieci anni Claudius Lexia è riuscito a restituire una parvenza di pace e stabilità, ma i meccanismi del cambiamento sono entrati in funzione e un fato avverso minaccia nuovamente il Nirn.
Riusciranno un più che eccentrico Dunmer, una Nord con un passato oscuro, una combattiva Arcimaga e una Blade ribelle a sventare la nuova minaccia che incombe su Cyrodill e l'intera Tamriel?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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ARCO I - LA LUNA ROSSA
"L'ORSA E IL CACCIATORE"

Il gelo mi si insinuava fin dentro le ossa, passando attraverso lo spesso strato di cuoio e pelliccia delle mie vesti, mentre i miei passi affondavano muti nelle nevi perenni dei Monti Jerall. Da quanto tempo ero in fuga? Avevo perso il conto dei giorni, nelle corse a perdifiato che mi spaccavano i fianchi e nelle brevi ore di sonno all’addiaccio, con la nuda terra quale solo giaciglio. Il mio cuore avrebbe dovuto trovare pace, adesso che avevo varcato il confine di Skyrim: quale cacciatore sarebbe stato tanto caparbio da seguirmi sino a Cyrodill? Eppure quel brivido dietro la nuca, sotto le scompigliate ciocche brune, non mi aveva abbandonata, ma anzi mi aizzava a proseguire nella mia fuga verso sud, attraverso terre sconosciute.
Chiusi le mani guantate in una coppa, dentro cui espirai generosamente, alla disperata ricerca di una stilla di calore: nonostante il sangue dei Nord mi avesse sino ad allora preservata dall’assideramento, sentivo che anche quell’ultimo bastione cominciava a dare i primi segni di cedimento.

Passai attraverso una schiera di scuri alberi dalle foglie puntute, oltre le cui fronde si profilava un vasto cielo nero, gremito di stelle, con Masserat e Secunda lì sul pulpito, come regine della notte. E mentre mi concedevo qualche istante per godere del suggestivo panorama, fra i cupi bassi dei gufi e il canto di lupi lontani, un sibilo squarciò l’aria, sfiorandomi la guancia. Mi voltai di scatto, notando che dalla neve faceva capolino un sottile fusto di legno, coronato da un ciuffo di piumaggio grigio.
Il mio cuore perse un battito, mentre intorno a me si profilavano ombre avvolte in logore cappe di iuta e armature di ferro, che certo avevano veduto giorni migliori. La paura mi risalì lungo la spina dorsale, coi suoi artigli affilati e quella voce fin troppo famigliare, sino a quel momento sepolta nelle viscere della mia mente.
“Lasciami uscire…”
Trattenni il fiato, per poi emettere un lungo sospiro. La mia corsa ripartì fra gli alberi neri e silenti. Intorno a me le ombre si riscossero, dardi rumoreggiavano lì dove fino ad un attimo prima c’era il mio piede. Potevo sentire il battito del mio cuore stremato risuonarmi sin nelle tempie. Il fiato farsi sempre più corto nella gola occlusa.
“Lasciami uscire.”
“No, non dopo quello che hai fatto… non dopo quello che abbiamo fatto.”
Spiccai un breve balzo  oltre una radice sporgente dal terreno, quando una fitta di dolore mi scavò nella spalla sinistra. Il piede mi cadde in fallo e in un attimo mi ritrovai a ruzzolare giù per alcuni metri, lungo una scarpata scoscesa. Non fosse stato per la neve, con tutta probabilità mi sarei spaccata la testa nella caduta.

Mi tirai a carponi, con la nausea che mi contorceva le budella e la punta di freccia che mi scavava nella carne. Nel frattempo le sagome si erano palesate alla luce delle due lune, sui loro petti baluginavano spille a forma di mano, intagliate nel lucido argento; come d’argento erano anche le loro armi, sguainate con sibili sinistri.
“Lasciami uscire…” scandì la voce, con un certo compiacimento nel tono. Guardai il cerchio di cacciatori chiudersi lentamente intorno a me, ogni via di uscita  negata al mio passaggio. Avevo davvero scelta giunta a questo punto? Sì, avrei potuto sfilare la mia ascia di ferro arrugginito, magari se avessi lottato come si deve, avrei visto aprirmi davanti i cancelli di Sovngarde. Ma conoscevo le storie su quelli come me, e non sarebbe stato Shor né i miei antenati ad accogliermi dall’altro parte… no, non potevo lasciarmi morire adesso, in quella landa dimenticata dagli dei. Espirai, cacciando sino all’ultima stilla d’aria fuori dai miei polmoni, rilassando i muscoli delle spalle.
“Lasciami uscire.”
Aveva vinto lei, ancora una volta…

Un ruglio mi vibrò nelle ossa, mentre ogni consapevolezza umana si assottigliava in un filo a stento visibile nel vortice di odori e sensazioni: l’aroma dolciastro della resina, il fetore salmastro sulle membra di quegli uomini, il profumo del sangue di una carcassa alcuni metri più in là, accostato al puzzo di cenere ed ossa.
Le mie mani si dilatarono in zampe bestiali, mentre dall’iponichio delle unghie in frantumi facevano capolino grigi artigli ricurvi. Le mie spalle si gonfiarono, facendo esplodere in brani di cuoio e pelliccia le mie vesti. Sottopelle mi corse un bruciore vivido, con la carne che si spezzava e si ricomponeva, i tendini che si allungavano sin quasi a sfilacciarsi, mentre i miei lamenti si facevano un uniforme verso gutturale alle soglie di un muso schiacciato, accompagnato ad una bocca irta di zanne giallastre.
Svanita la mia sagoma umana, riemersi nella mia forma ferale.

La mia gola reclamava adesso il sangue! Mi scagliai sui miei aguzzini, schiacciando i loro crani con uno schiocco delle mascelle, scoprendo il compendio dei loro organi con una zampata e liberandoli dal peso delle loro deboli braccia. Pian piano vidi il loro cerchio allargarsi, il loro capitano sbraitava ordini verso i suoi sottoposti, nella mano destra stringeva uno spadone forgiato di quel metallo spregevole: l’argento. Lungo la schiena sentii affondare piccole punte affilate, che mi scavarono nella carne con un sfrigolio; catene dagli anelli squadrati mi si annodarono ai polsi, fiaccando a poco a poco le mie forze. Sentii le gambe cedere sotto il mio stesso peso, il tappeto di neve accogliermi nel suo abbraccio freddo in uno spruzzo di brina.
Avevo così tanto sonno, avrei potuto chiudere gli occhi in quello stesso istante.
La sagoma dell’uomo con lo spadone si fece sempre più vicina, nello spettro sfocato dei miei occhi stanchi.
L’aria si riempì dell’odore di cenere ed ossa.
La lama d’argento si levò, pronta a vibrare il colpo mortale, poi un’ombra sgusciò alla periferia del mio sguardo: lo spadaccino crollò in terra, schiacciato da una figura avvolta in un nero mantello logoro. Udii il fragore di ossa craniche che si spezzavano, sotto il martellare di nocche avvolte dal metallo. Un metallo che il mio naso non seppe riconoscere, con un inconsueto aroma di zolfo ed ozono.
Due piccoli occhi scarlatti si fissarono nei miei, mentre una voce ovattata rumoreggiava nelle mie orecchie.
«Non ti addormentare, non adesso.»
Ma le mie membra erano così stanche, la mia carne ferita e tumefatta. Ero fuggita per così tanto tempo… e ora il freddo non mi sembrava più così sgradevole: era un morbido giaciglio in cui ristorarsi e dimenticare le fatiche della veglia. Venne il buio e poi nulla più.
   
 
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