CAPITOLO CINQUE
“Dubitate di tutto,
ma non dubitate mai di
voi stessi”.
André Gide.
“Nessuno può farti
sentire inferiore
senza il tuo consenso”.
Eleanor Roosevelt.
“Agente speciale James
Barley” rispondo al citofono, per la prima volta attribuendomi quel pizzico di
potere in più che mi è stato affidato solo questa stessa mattina.
Non ho avuto difficoltà
a trovare la villa della figlia dell’ex senatore, che tra l’altro era stata di
suo padre, prima che lo internassero.
Villa Stradford è
circondata da un grande bosco, che la circonda e ne protegge le mura. Tuttavia
la proprietà si nota già da discreta distanza, quando le rade ma ordinate case
della periferia di Columbus all’improvviso si interrompono per lasciare spazio
alla selva.
L’imponente cancello mi
sovrasta e un paio di cervi in bronzo sembrano studiarmi, mentre una vocina
stridula e distante mi invita ad accedere.
Quando i battenti si
spalancano e il cancello si divide in due parti uguali per farmi entrare,
quelle statue non mi sembrano nemmeno più così intimidatorie.
Guido la volante con
sicurezza lungo il tortuoso sentiero ghiaiato che porta a una residenza di
stampo ottocentesco.
Quando giungo al
cospetto della grande villa, un signore vestito da domestico mi attende a mani
incrociate all’altezza del basso ventre proprio di fronte all’ingresso. Ecco,
adesso inizio a sentirmi in soggezione. Non sono mai stato abituato a certi
stili di vita; per carità, ho sempre ben saputo che certi politici vivono in
modo sfarzoso, ma io nella mia umiltà non sono mai venuto a contatto con tali
realtà.
Il signore in mise si
avvicina a me, lentamente, in modo posato. Allunga una mano guantata non appena
lo raggiungo, andandogli incontro.
“Salve, agente” saluta,
rispettoso, “sono il maggiordomo di villa Stradford. La signorina mi ha
ordinato di condurla da lei immediatamente”.
“E’ proprio ciò per cui
sono venuto fin qui. Parlarle, appunto” specifico, un po’ in imbarazzo. Il
maggiordomo allora scioglie il contatto tra le nostre mani e sorride con fare
accomodante.
“Prego, allora; mi
segua”.
Mi fa strada,
conducendomi all’interno della villa. Le pareti del largo corridoio d’ingresso
sono tappezzate da bellissimi quadri, di certo pezzi d’antiquariato, poiché
alcuni sono in uno stile ormai superato. Almeno secondo me.
Visi e volti si
susseguono in queste opere retrò, mi sembra per un istante di essere
all’interno di un film d’altri tempi. Nemmeno mi accorgo quando il maggiordomo
si blocca, quasi gli finisco addosso.
“Prego” dice,
indicandomi una stanza dalla porta spalancata. La padrona di casa evidentemente
ha scelto di ricevermi il più vicino possibile alla porta d’ingresso.
Varco la soglia con un
paio di toc-toc sulla porta, per avvisare il mio accesso, ma qualcuno già mi
attende; la signorina Stradford è in piedi e mi fissa immediatamente con
un’attenzione che mi mette subito in imbarazzo.
A mia volta osservo i
suoi lineamenti dolci, la pelle candida e fresca, senza nemmeno una ruga. Il
volto è contornato da dei bellissimi capelli mossi e biondi, gli occhi castani
ma profondissimi. Dev’essere sui trenta,
massimo trentacinque anni, e mi ricorda molto mia moglie quando era più
giovane.
“Agente speciale James
Barley” mi presento d’istinto, rompendo il ghiaccio.
La donna a sua volta si
scioglie e mi si avvicina, stringendomi la mano.
“Agente, ben saprà chi
sono io, quindi bando ai convenevoli. Non voglio più perdere tempo, mio padre
aspetta che gli venga restituito almeno l’onore” dice lei, categorica. La sua
voce cristallina risuona tutt’attorno, quasi fosse un’eco di alta montagna.
Mi fa cenno di sedermi,
indicandomi le poltroncine che circondano un tavolino antico ma ben restaurato,
poi si siede a sua volta proprio di fronte a me. Solo il mobile a separarci.
“Da quando mio padre è
stato internato, la mia vita è diventata un inferno. Gli affari di famiglia
vanno bene e i soldi non mancano, ma non ho più voglia di fare nulla e tutto
sta andando in malora, pure il giardino” inizia a raccontare senza che io le
abbia chiesto niente, con un modo ferito e quasi rancoroso. Mi sento in dovere
di arginarla, poiché le cose non sono iniziate nel migliore dei modi.
“Signorina, mi conceda”
la interrompo, cercando di essere il più cortese possibile, “di certo ciò non è
accaduto a causa mia. Sono qui infatti per ascoltarla e per esserle d’aiuto,
quindi magari proceda per ordine e mi dia la sua versione dei fatti”.
Lei mi riserva una
mezza occhiataccia, prima di indicare il corposo fascicolo che ho appena
appoggiato sul tavolino.
“Le mie deposizioni le
avete già, quindi non capisco perché devo ripetere tutto dall’inizio. Sono
certa che lei ha letto ciò che i suoi superiori le hanno consegnato”.
Annuisco.
“E allora non ho altro
da dirle, sa? Indaghi e torni con la verità”.
“Rappresento le Forze
dell’Ordine, ora, signorina. Non le concedo di parlami in questo modo, o di
liquidarmi. Lei ha chiesto aiuto, e ciò le è stato offerto; non lo rifiuti
così” mi spiego, cercando di apparire autoritario. È vero quel che Ramsey mi ha
detto qualche ora prima, poiché la mia trentennale esperienza mi sta aiutando
molto.
La Stradford è una persona
distrutta e nervosa, non vuole nessuno tra i piedi. Il mio compito principale è
quello di ascoltarla di nuovo, quindi devo portare una pazienza che forse uno
spocchioso novellino non avrebbe.
“Mio padre è stato
ucciso, cosa dovrei dirle di più?” insiste.
“Me ne parli. Se lei
accusa, avrà i suoi motivi”.
Sospira.
“L’ho già detto e
ripetuto tante volte. Lui era un uomo davvero per bene, con delle idee e dei
valori sani. È stato il mio pilastro. Poi, all’improvviso, una sera non è
tornato a casa; i suoi colleghi senatori hanno dichiarato che ha dato di matto,
ha perso il senno durante un’udienza” si interrompe un attimo per asciugarsi
una lacrima.
“Sarebbe poi svenuto,
per poi essere portato all’ospedale da un’ambulanza. Tutto questo senza che mi
venisse detto niente, ho scoperto questa storia solo dopo le mie personali
ricerche, quando mio padre era già stato internato. Si rende conto, agente? Mio
padre, un onorevole senatore di Stato, anziano e stabile di mente,
all’improvviso dopo un breve ricovero in ospedale viene internato presso un
manicomio di cui nemmeno sapevo l’esistenza”.
Non faccio una piega,
mentre ascolto. Ramsey mi ha avvisato sul fatto che la donna potrebbe avere
ricordi molto confusi, poiché per lei è stato un vero trauma perdere il padre.
In realtà, da quel che
traspare dal fascicolo, a seguito delle primissime indagini svolte dagli agenti
che hanno raccolto gli indizi, pare chiaro che i colleghi del senatore ne
denuncino l’instabilità mentale. Da qualche tempo infatti pareva che l’uomo
fosse irritabile, intrattabile e aggressivo. Poi, la crisi finale l’ha dio
certo spezzato.
Il breve ricovero in
ospedale era durato pochissimo, poiché non appena si era ripreso dallo
svenimento era diventato ingestibile, talmente tanto da richiedere l’aiuto
immediato di personale specializzato. L’anziano senatore era quindi andato
totalmente giù di testa e nessuno poteva più contenerlo, se non una clinica.
Tuttavia era vero che nessuno
si era preso la briga di contattare la figlia, tutti accusando il fatto che non
ci avessero pensato, e che a breve la clinica psichiatrica se ne sarebbe
comunque incaricata.
“Ed è morto in quel
manicomio poco dopo il suo arrivo. Se ne rende conto, agente? Una persona sana,
perfettamente stabile e in forma, che all’improvviso finisce in ospedale, poi
in clinica psichiatrica, e poi muore in modo a mio avviso misterioso. Cosa
dovrei pensare? Che sia tutto a posto?”
Finito il suo sfogo,
non mi faccio spaventare dalle lacrime che solcano il volto ancora giovane
della mia interlocutrice.
“Ha avuto modo di
parlare a suo padre, o anche solo di vederlo, dopo che era giunto in clinica?”
le chiedo. La Stradford scuote il capo.
“No. Non me l’hanno
permesso. Non volevano che vedessi ciò che gli stavano facendo”.
Dalle prime
testimonianze da me lette, invece, risulta che lei l’avesse incontrato in
clinica e che fosse rimasta sconvolta dal suo stato. Resto quindi impassibile
al cospetto delle varie contraddizioni.
“E secondo lei cosa gli
stavano facendo?” vado al punto, glissando sulle prove raccolte, con il solo
scopo di non farla innervosire. Ora si è aperta, sento che può parlare
liberamente. Ma che sia impazzita anche lei?
“Aveva pestato i calli
a qualcuno di grosso. Non me ne ha mai parlato, per non tirarmi in mezzo, ma so
che qualcosa non andava. Ultimamente tornava a casa sempre imbronciato,
qualcosa non stava andando bene”.
“Allora suo padre
mostrava qualche cambiamento caratteriale…”. Non riesco a formulare la domanda
poiché la donna mi interrompe.
“Sì, ma non nel senso
di pazzo. Semplicemente, stava affrontando un periodo particolarmente
stressante, soprattutto per un uomo integerrimo della sua età”.
“Capisco” le concedo,
“credo che per ora abbia sentito abbastanza. Mi recherò presso la clinica per
proseguire sul posto le indagini e raccogliere altre testimonianze”.
“Le mentiranno. È un
covo di vipere, stia attento”.
“So come difendermi”.
Mi alzo dalla
poltroncina e avverto la schiena umida. Non è stata una conversazione
piacevole, la nostra. La signora mi fa impressione, ma anche tenerezza, poiché
la sua estrema sofferenza si nota in modo evidente.
“Allora la prego di far
luce sulla verità. Mi fido di lei, mi ripongo nelle sue mani” mi dice,
finalmente con tono gentile e commosso.
È il mio momento per
sciogliermi.
“Farò il possibile”
rispondo nel modo più professionale.
“Ne sono convinta” poi
mi sorride per la prima volta, “comunque io mi chiamo Angelina. Mi tenga
aggiornata sul caso, se può, la prego”.
Annuisco e torno a
stringerle la mano, prima di accomiatarmi.
Prima di andarmene,
provo a porre qualche domanda al maggiordomo, che mi conduce pazientemente alla
macchina. Tuttavia offre risposte ancora più blande della signorina. Niente che
mi sia utile.
A quanto pare non
parlava mai con il suo anziano datore di lavoro, che rientrava sempre tardi ed
era puntualmente nervoso, desiderando di non essere disturbato in alcun modo. La
servitù doveva essere silenziosa e molto discreta quando era in casa.
Alla luce di tutto ciò,
penso che in fondo potrebbe veramente essere impazzito, questo signore.
Mentre metto in moto
l’auto, per un attimo mi sento osservato, ma credo sia solo la soggezione che
questo posto mi imprime.
Sogno ancora un futuro migliore per l’umanità, ma con la
certezza di non farne parte. Le pecore come me si limitano a belare nei recinti
che la società impone, non fanno nulla per cambiare le cose.
Così come io sono crollato con facilità sotto il peso di un
affascinante ma micidiale G, figuriamoci se riuscirò a fare qualcosa di buono
per tutti. Per il mondo.
Mentre cammino spedito, un ricordo riaffiora nella mia mente;
riguarda un signore che ho conosciuto superficialmente per un po’ di tempo, di
quelli simili a un antico filosofo greco. Della serie barba bianca e fare
sapiente.
Egli una volta mi fece festa, rivedendomi dopo un periodo in
cui le nostre vite non si erano incrociate più. Mi chiese subito come stesse
andando, se era tutto a posto.
Ed io, sorridendo, gli dissi semplicemente; le solite cose.
Egli rispose al mio sorriso e bonariamente mi disse, lo
ricordo ancora come fosse adesso; ma ragazzo mio, cosa pensi? Che fare qualcosa
sia solo costruire un grattacielo? Oppure essere un supereroe? Sono quelle che
tu definisci le solite cose a rendere grande un uomo, nei valori e nella mente.
Con le solite cose, se corrette verso il prossimo e verso te stesso e il mondo
circostante, puoi seminare il bene ed essere la felicità per i cuori.
Queste parole me le ricordo ancora in maniera chiara perché
mi colpirono molto sul momento e ancora mi fanno riflettere. Io che non mi
sento nessuno, che sono una nullità… perché mio padre dice sempre che non
faccio niente, non sono come i figli degli altri che compiono grandi studi
all’estero e che un giorno faranno grandi cose.
Io, nel mio piccolo, quindi, posso essere alla pari degli
altri? Di coloro che hanno un grande futuro di fronte a sé?
Quell’uomo anziano ha lasciato un seme dentro di me, che
germoglia pian piano. Da quel momento in poi ho sempre saputo dare risposta a
questi miei ultimi interrogativi, poiché… è assolutamente vero, e va ricordato,
che la nostra vita vale sia nelle piccole e sia nelle grandi cose.
Non è una impresa eroica o una rapida e prestigiosa carriera
a rendere un uomo amato ed eterno. Non è lo scalatore sociale l’unico a
lasciare un segno nel mondo. Magari chi più si espone più ha probabilità di
restare impresso nei libri di Storia, ma sono i tanti piccini a creare una
società, a mutarne le forme, i colori, i desideri, e persino le religioni.
Io sarò una pecora e per sempre mangerò in silenzio quel
foraggio che i prestigiosi pastori mi offrono; starò zitto e muto affinché non
mi mandino fuori dal gruppo, per poi essere sbranato dai lupi. La mia vita da
ovino sottomesso quindi mi dovrà bastare in eterno.
Ma, nel mio piccolo, inizio a essere consapevole di essere al
pari degli altri, o per lo meno di tanti altri, non potendolo essere di tutti.
Il mondo dei social mi ha lasciato capire facilmente la mia
diversità.
Sono uno sfigato e un like non me lo merito in alcun modo. Se
accedo e scrivo a qualcuno, manco mi risponde. Perché? Perché sono uno sfigato,
ovvio; non sono nessuno.
La tettona mette la foto con i capezzoli inturgiditi? Wow,
mille like.
L’idiota posta il selfie mentre sniffa? Duemila like subito.
Alex posta una foto intanto che fa il suo lavoro? Viene
cagato zero.
La gnocca di turno ha infinite richieste d’amicizia mentre
Alex se ne fa una lo bloccano, oppure lo accettano per qualche giorno giusto
per frugare nel suo profilo e sfotterlo.
È incredibile come basti fare una cazzata per essere adorato,
oppure avere un corpo bello. È facile per la nostra società materialista essere
superficiali e basarci solo sull’apparenza; ciò che fa figo lo giudichiamo solo
tramite le tendenze dei vip del momento, senza pensare a ciò che conta davvero
nella vita.
Comunque ciao a tutti, sono Alex la pecora, bruco l’erba, sto
zitto, metto mi piace ai fighi e me ne sto solo, consapevole che non valgo una
minchia; e so qual è il colmo… che se anche pubblicassi il post più bello del
mondo, anche solo con una frase profonda e intelligente, non sarebbe cagata lo
stesso.
Viva quindi la materia e la superficialità.
Ma in fondo non è forse questo il motivo per cui i social
esistono, in un certo senso? E allora metto il cuore in pace e continuo
serenamente la mia vita, con un semplice sorriso che non sarà mai immortalato
in una foto da pubblicare, che farebbe schifo a tutti; il mio sorriso, la mia
gioia del momento, le tengo per me.
Solo per me, perché in fondo solo io posso capirmi per
davvero, e credo che sia questo quello che conta alla fine.
NOTA DELL’AUTORE
Niente da aggiungere, questa volta xD Alex è un fiume in
piena…
Grazie a tutti voi per essere qui ^^