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Autore: Adeia Di Elferas    25/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era la sera del 14 gennaio, e l'oratore estense alla corte milanese, Giovan Giorgio Seregni, aveva appena sentito battere le undici di sera, quando una staffetta gli consegnò una lettera urgentissima da parte del suo signore, Ercole Este.

L'uomo, grattandosi di quando in quanto la fronte un po' stempiata, lesse ogni parola con il cuore in gola. Fin dalle prime parole aveva colto l'importanza di quel messaggio. In fondo, non solo loro, ma tutta l'Italia, per non dire tutta Europa, stava aspettando di vedere come sarebbero andate le cose in Romagna.

Sapere che, infine, la Contessa Sforza era caduta, andava a rimescolare tutte le carte in tavola, sbilanciando gli equilibri che fino a quel momento erano stati in precario bilancio. Il Duca di Ferrara, nella sua missiva, sottolineava l'importanza di informare subito Gian Giacomo da Trivulzio, e così fece Seregni.

Infilandosi in fretta abiti consoni a incontrare il condottiero, lasciò il suo alloggio interno al palazzo di Porta Giovia e corse agli appartamenti privati del Trivulzio.

Bussò due volte, sperando di non aver svegliato Gian Giacomo, e quando si sentì dire di entrare pure, fece un profondo sospiro e, tenendo ancora la lettera del suo signore tra le mani, aprì la porta.

Era da qualche giorno che il Trivulzio non stava molto bene. Continuava a dire che non era nulla di serio, ma di fatto, quella sera, a quella tarda ora, era a letto, con quattro cuscini sotto la schiena, per restare seduto, e il Vescovo di Novara al suo fianco, in atteggiamento estremamente clericale.

“Non volevo interrompere né una sacra confessione – disse Giovan Giorgio, chinando il capo nello scorgere sulla spalle del porporato una stola ufficiale – né una comunione o altro...”

“No, no...” gracchiò Gian Giacomo, agitando la mano: “Vi prego – disse poi con il Vescovo – state pure, ma lasciate che parli con l'oratore...”

Il religioso si mise da parte, senza lasciare la stanza. Un po' a disagio, Seregni fece finta di nulla e si avvicinò al letto. Il volto di Gian Giacomo era tirato, ma a vederlo aggrottare la fronte a quel modo non era difficile dar ragione a quelli che sostenevano che la sua momentanea infermità fosse legata più alla paura di non saper come fare a tenere l'ordine a Milano, che non a un male fisico reale.

Il ferrarese, comunque, spiegò a parole quello che aveva saputo, e poi passò la lettera dell'Este al Trivulzio, che cominciò a leggere con voracità.

“Anche Alessandro Sforza...” borbottò, compiaciuto, mentre faceva scorrere gli occhi da una riga all'altra: “E pure quel figlio di buona donna di Galeazzo da Melzo... Bene, bene...”

Quando ebbe terminato, posò un momento la pagina sulle proprie gambe coperte da una spessa coltre ricamata. Pareva come attonito. Era distante, con il pensiero, e le labbra sottili descrivevano una linea severa che ben si accompagnava alla cupezza dei suoi occhi.

“Che gran viltà – commentò Gian Giacomo, quando ritrovò la voce – di chi era in quel castello, averlo perso così tristemente... Io avrei creduto che per forza non l'avrebbero dovuto avere ancora per parecchi giorni.”

Poi il Trivulzio scosse il capo, come divertito, sollevando l'angolo della bocca. Riprese un momento in mano la lettera e poi, dopo aver borbottato qualcosa da tra sé, diede in una breve risata.

Battendo le mani, sbottò: “Oh, buona Madonna! Ora non ti mancherà da farti fott...”

“Messer Gian Giacomo!” lo zittì il Vescovo, che non ammetteva si usassero parole volgari in sua presenza.

“Ebbene?” ribatté il Trivulzio, acido: “Quella donna aveva già passato in rassegna tutto il suo esercito. Ora può fare altrettanto con quello del Duca Valentino.”

Dopodiché, sentendosi in parte rinfrancato da quella notizia, il condottiero disse che avrebbe passato quel che restava della notte al suo palazzo, in città. Là aveva fatto sistemare la moglie e tutta la famiglia, e preferiva passare quelle ore di giubilo da loro.

Se il festeggiare fosse il vero motivo di quella scelta, Seregni non lo sapeva. Rimase stupito, inoltre, quando il Trivulzio, già intento a vestirsi, gli chiese se fosse dell'idea di accompagnarlo.

“Montare a cavallo di notte non è agevole – ammise Gian Giacomo – ma si tratta di poca strada, e io avrei piacere di parlarvi ancora un po'.”

Così Giovan Giorgio accettò e nel giro di mezz'ora si trovò in sella, accanto al condottiero.

Avevano appena passato il portone del cortile di palazzo di Porta Giovia, che quest'ultimo si mise a parlare di quanto accaduto in Romagna, pontificando su come l'aver mortificato la Sforza con una cattura, oltre che con una sconfitta, potesse dare nuovo lustro anche alla sua missione lì a Milano. In fondo, diceva, Ludovico Sforza era lo zio della Tigre: non poteva restare insensibile a certe notizie, e, magari, avrebbe rallentato la sua discesa verso la Val Tellina.

“Questo – soggiunse dopo qualche minuto di silenzio il condottiero – mi pare piuttosto un giudizio divino, che altro, perché io so che quella rocca e la cittadella erano così forti e ben munite che per forza non avrebbero dovuto cadere così facilmente.”

Seregni avrebbe voluto fargli presente che l'assedio era durato parecchio e che, anzi, la resistenza protratta della Leonessa di Romagna aveva fatto scalpore, tanto che nelle osterie si sentivano cantare versi su di lei e sul coraggio dei suoi soldati. Dallo sguardo annebbiato del suo interlocutore, però, capì che sarebbe stato inutile provare a smontare le sue convinzioni.

Il Trivulzio si fece platealmente il segno della croce, lanciando uno sguardo al cielo scuro della notte milanese, e disse: “Ora so che gli Sforza sono stati spazzati via tutti. Sit nomen Domini benedictum!”

Anche quando arrivarono al palazzo abitato dalla famiglia del Trivulzio, Giovan Giorgio trovò molto strano il comportamento del condottiero. Dapprima, malgrado fosse ormai quasi mezzanotte, l'uomo gli chiese se volesse fermarsi a cena. Quando l'oratore declinò, Gian Giacomo disse che non importava, ma lo pregò di riferire una cosa, nella prossima lettera che avesse mandato al suo signore.

“Scrivetegli – gli fece promettere – che: agebat gratias immortales illustrissime dominationi vestre.”

Seregni annuì, sperando di ricordarsi quella formula precisa, non sapendo se avesse anche per l'Este qualche significato particolare, e poi provò a congedarsi.

“Qualche volta – lo lasciò andare il Trivulzio – venite a mangiare qui da me. Così potremo fare buona cena e godercela assieme.”

L'oratore ringraziò molto, dicendo che l'avrebbe fatto non appena possibile, e, dando un colpetto si fianchi del suo cavallo, ripartì in fretta verso il palazzo di Porta Giovia.

 

Baccino guardò con occhi sgranati la moglie di Luffo Numai: “E non si può far qualcosa per liberarla?” chiese, con la voce rotta.

La donna, che, malgrado fosse già notte, aveva approfittato della scusa di aiutare le serve a portare da mangiare ai prigionieri per andare alla torre, scosse il capo: “Non saprei come... Mio marito mi ha riferito che alcuni tra i comandanti francesi sono insofferenti al Valentino e vogliono trovare il modo di strappargli la Contessa, in modo da dimostrargli che non è lui il vero comandante.”

Il cremonese deglutì e poi si guardò alle spalle. Era stato sistemato assieme a tutte le donne del sedicente seguito di Caterina. Pareva impossibile, ma forse avevano creduto davvero al fatto che lui fosse il coppiere di corte e non l'avevano messo assieme agli altri uomini.

“Ma che le sta facendo, si sa?” chiese, con il cuore in gola, desideroso come non mai di scappare di cella e correre a salvarla.

“Lo si può immaginare.” disse a voce bassa la Paolucci: “Ma nemmeno noi possiamo avvicinarci a lei. Solo le nostre serve ne hanno la possibilità.”

A quelle parole, Baccino guardò le ragazze che avevano seguito la padrona fino lì e, senza bisogno di fare domande ad alta voce, si sentì dire quel che non voleva.

“Madonna è legata al letto – gli spiegò una – e noi possiamo solo portarle un po' d'acqua, di quando in quando...”

“Nel corpo è segnata.” ammise una seconda, che l'aveva assistita giusto quella mattina: “Quando l'ho vista, sanguinava, per... Per colpa del Duca. E la ferita alla gamba le duole ancora molto.”

Il giovane chiuse gli occhi. Non riusciva nemmeno a immaginare la sua amante soggiogata alle voglie violente di un uomo come il Valentino, un comandante che non era nemmeno mai stato in grado di prendere in mano una spada per combattere, un uomo che aveva fatto la sua fortuna partendo solo dal suo nome e dai suoi soldi...

“Ora dobbiamo andare...” disse sbrigativa Caterina Paolucci, sentendo dei rumori inequivocabili vicino alla porta: “Il cibo ve lo abbiamo portato, non possiamo trattenerci oltre...”

Baccino, con la morte nel cuore annuì e poi, appena le donne se ne andarono, si voltò verso Argentina che, come lui, aveva ascoltato ogni parola. Malgrado tutto, però, la serva sembrava molto meno affranta di lui. Nei suoi occhi scuri, nell'ombra umida di quella cella, c'era solo rabbia.

Il cremonese non si trattenne più. Scoppiò in lacrime, senza avere la forza di trattenersi. Non trovando consolazione nella donna che gli stava accanto, si andò a mettere in un angolo, contro al muro freddo. Solo Dianora Valgimigli gli si avvicinò per provare a calmarlo. Tutte le altre erano troppo prese dai propri pensieri, per badare a lui.

Tutte, nessuna esclusa, si chiedevano cosa sarebbe capitato a loro, se si permetteva che una Contessa venisse trattata come una schiava, e le poche che osavano darsi una risposta, si trovavano a desiderare la morte, piuttosto che affrontare una simile tortura.

 

Giovan Giorgio Seregni era da poco rientrato ai suoi alloggi, quando un cavaliere del Vescovo di Como lo andò a cercare, chiedendo che lo seguisse nella casa del suo signore.

Tutti sapevano che Antonio Trivulzio, già rettore del Capitolo della cattedrale di San Donaziano di Bruges, puntava senza sosta al cardinalato, e schierandosi apertamente coi francesi – sfruttando anche la posizione privilegiata del suo parente Gian Giacomo – sperava che fosse proprio re Luigi XII a spingere per la sua prossima nomina.

Seregni, sapendo che tipo di uomo stava andando a trovare, quindi, si sentì come minimo in ansia.

Era vero che la caduta della Sforza andava a favore dei francesi, ma lui stesso, pur essendo un mero oratore, aveva capito che c'era per tutti qualcosa di sinistro nel modo in cui la Tigre era stata fatta capitolare.

Il Vescovo di Como avrebbe compiuto quarantatré anni nel giro di quattro giorni mal contati, ma quella notte aveva un volto scuro e delle occhiaie così profonde che a Giovan Giorgio pareva molto più vecchio.

“Ma è vero quello che ho sentito?” chiese il Trivulzio, non appena fece accomodare l'ospite nel suo salottino privato, illuminato da così tante candele che l'oratore, per qualche istante, ebbe la sensazione di essere in pieno giorno: “Di Madonna Sforza e del fatto che il Valentino l'ha fatta sua?”

Seregni fece del suo meglio per riassumere quanto gli era stato a sua volta riferito dal suo signore, Ercole Este, e poi restò in attesa dei commenti del Vescovo.

L'uomo, battendo le mani in un modo così simile al parente Gian Giacomo da essere quasi ridicolo, scosse lentamente il capo. Era sconvolto. E la cosa che Seregni non capiva, per quanto si sforzasse, era la profonda inquietudine che poteva leggere sul suo volto.

“Oh, Giovan Giorgio...” soffiò il religioso, passandosi una mano sulle magre guance coperte da una fitta barba grigia: “Quanti disegni sono ora rotti... Credi che il signor Ludovico se ne abbia a risentire e contristare?”

“Non può essere altrimenti...” rispose, incerto, Seregni: “Anzi, credo che se il signor Ludovico aveva in animo di far impresa, abbia per questo a ritrarsene.”

“Non saprei...” sussurrò il Vescovo, sempre più teso: “Ma ben so che l'impresa gli sarebbe molto più facile, perché ritirandosi adesso qua quelle genti d'armi...”

Finalmente Giovan Giorgio cominciava a capire il motivo di tanta preoccupazione: in effetti, si sapeva che il Borja avesse intenzione di chiedere il riscatto a molti prigionieri, per poi liberarli. Non era affatto strano pensare che alcuni di loro – per esempio Alessandro Sforza, il Contino di Melzo o Giovanni da Casale – fossero intenzionati a provare un ultimo affondo, affiancando il Moro per riprendersi Milano e avere vendetta.

“Di certo – riprese il Vescovo – se questa povera Madonna avesse potuto difendersi ancora quindici giorni, avrebbe magari avuto soccorso...”

L'uomo si mise a camminare nervosamente per il salottino, in silenzio, come se Seregni non fosse più lì. Solo dopo qualche minuto tornò a dar voce ai propri pensieri.

“Che farà ora il povero Cardinale di San Giorgio, e che sarà della sua buona memoria?” scuotendo il capo, come se fosse davvero preoccupato e dispiaciuto per il Cardinale Sansoni Riario, la cui parentela con la Sforza adesso lo metteva in una posizione ancor più scomoda: “Quanto a lei... Io credo che da farsi fott...”

Mentre il porporato si faceva in fretta il segno della croce, mangiandosi le parole, Giovan Giorgio trovò quasi divertente sentire come avesse scelto esattamente le stesse parole ingiuriose del parente, nel parlare della Tigre.

“Ecco, quello certo ora non le mancherà. E oltre lo stato che ha perso, bisognerà che anche perda tutto quello che ha mandato a Firenze.” riprese il Trivulzio, con severità: “E di certo il re di Francia la vorrà in mano sua, assieme al Conte Alessandro, al Contino e forse anche ad altri.”

Allacciandosi le mani dietro alla schiena, camminando svelto avanti e indietro, come se quel pendolare lo aiutasse a pensare meglio, il Vescovo borbottò qualcosa tra sé e poi parlò di nuovo, ma non rivolgendosi direttamente all'oratore, ma a qualcuno che non era nemmeno in stanza con loro.

“Oh, papa!” sbottò: “Un'latra volta toccherà ai tuoi figli! Quante volte ho dato considerazione a quell'autorità di Cristo che dice de inimicis meis vindicabo inimicos meos? E sempre ho visto essersi avverata... Vedete come son passate le cose del Conte Girolamo! Passarenno anche col tempo così quelle di costui!”

Quel parallelismo un po' oscuro tra il defunto Conte Riario e Cesare Borja inquietò molto Giovan Giorgio. Ancora una volta, non capiva come mai la caduta della Tigre – una lieta notizia, di fatto, per i partigiani francesi – scatenasse così tanta incertezza e quasi paura.

“Tu vedrai ancora capitare questo Stato in mano dei veneziani.” profetizzò il Trivulzio.

“Vi credo.” disse piano Seregni: “E credo anche che il re di Francia dovrebbe darvi più importanza.”

Alzando gli occhi in aria, il Vescovo gli rispose solo: “Io mi meraviglio di voi, comunque, che pensate ancora che il re di Francia abbia ancora potere stabile, qui in Italia.”

Ci fu ancora un breve scambio di battute, che accrebbe solo la confusione che già albergava nel cuore del ferrarese. Alla fine, cogliendo al volo un breve silenzio del Vescovo, Giovan Giorgio disse che ormai era tardi, e che lui era stanco, e che se non c'era altro di cui discutere, se ne sarebbe tornato al proprio alloggio.

“Certo, certo...” convenne Antonio, come accorgendosi di aver anche parlato troppo.

Lo accompagnò fino alla porta del salottino e poi, dopo aver citato di sfuggita anche l'Imperatore, il religioso abbozzò un sorriso, scusandosi per aver trattenuto tanto l'oratore.

“Bene, stiamo pur a vedere: che vedremo delle belle cose.” concluse, sollevando un sopracciglio, come a dire che non si aspettava altro che disastri, da quel momento in poi.

Al che, facendo finta di non aver colto, Seregni fece un sorriso serafico e chiese: “Voi sapete come se la passano, in Germania?”

“Sì.” rispose, improvvisamente secco, il porporato: “Pare si stiano preparando. E che a Coria si stia facendo una dieta per questo.”

Sorpreso da quella novità, il ferrarese restò con gli occhi sgranati, incapace di dire altro.

“Buonanotte, messer Seregni. Salutatemi tanto il vostro signore, il Duca Ercole.” tagli corto il Vescovo, improvvisamente molto desideroso di cacciare il suo ospite.

Giovan Giorgio, ancora perplesso, tornò al palazzo e si ritirò in stanza. Prima di coricarsi, per cercare di dormire qualche ora, prese il necessario per scrivere e, mentre aveva ancora in mente l'intera serata, si apprestò a scrivere un dettagliato resoconto al Duca. Era stata una sequela di discorsi così strana, quella a cui aveva preso parte, che trovava necessario sottoporre il tutto all'Este, e vedere se per lui quelle parole potessero significare qualcosa o meno.

'Havendo questa sera circa 23 hore recevute le lettere de vostra Excellentia de heri – cominciò subito a scrivere – spazate con la celerita dela staffetta sopra il caso dela perdita dela rocha et citadella de Furli captura dela Madona Conte Alexandro Sforza, conte de Melzo et altri etc. subito andai al Illustrissimo Signor messer Zohan Iacomo'...

 

Caterina cercava di sollevare un po' la testa per vedere meglio cosa stesse facendo Cesare. Si era seduto sulla poltroncina vicino alla porta. Indossava un paio di brachette da notte e una giubbetto aperto sul petto. Aveva le braccia incrociate sul petto e il capo chino.

Sembrava si fosse assopito. La Sforza provò a tendere un po' le corde che la tenevano ancora legata al letto. Era quasi l'alba. Se non aveva sbagliato i suoi calcoli, era già il 15 gennaio. Era imprigionata da due giorni. Non ne poteva più della posizione fissa a cui era stata costretta, ma non sapeva nemmeno come provare a chiedere al Valentino di lasciarla stare più comoda.

Inoltre, facendo freddo, avrebbe desiderato coprirsi. Il Borja, invece, dopo aver fatto di lei quello che voleva anche quella notte, l'aveva lasciata volutamente scoperta, in modo che avesse anche quel disagio, come se tutto il resto non bastasse.

Se solo avesse potuto liberarsi, avrebbe potuto avvicinarglisi mentre dormiva. L'avrebbe ucciso a mani nude. Sapeva come fare.

Il ventiquattrenne fece un suono gutturale nel sonno, muovendosi appena.

La Leonessa trattenne il fiato. Non voleva svegliarlo. Se si fosse svegliato, forse l'avrebbe voluta di nuovo, e lei non voleva. Gli dava il voltastomaco sentire anche solo l'odore della sua pelle, figurarsi il suo respiro veloce vicino all'orecchio o le sue mani un po' sudate che le allargavano le cosce o le stringevano il seno e il collo.

Mentre ragionava su come fare a scampare a quel tormento, la Leonessa sentì dei passi avvicinarsi alla porta chiusa e poi udì battere dei colpi. Il Valentino si svegliò di colpo, bestemmiando.

Per prima cosa, guardò verso la Sforza con sospetto, quasi pensasse che di quel fracasso fosse colpevole lei, e solo in un secondo momento abbaiò: “Chi è?” raggiungendo l'uscio.

“Mio signore – rispose dall'altra parte una voce che Caterina non riconobbe – devo parlarvi...”

Il figlio del papa, più scontroso del solito, per via della rabbia che covava verso se stesso per essersi addormentato pur essendosi giurato di non farlo, spalancò la porta e gli chiese: “Che succede?”

Quello che era andato a cercare il Borja era poco più di un ragazzo. Dall'armatura che portava Caterina capì che si doveva trattare di un attendente. Dal segno inconfondibile che poteva scorgergli vicino alle labbra, capì che anche lui aveva il mal francese. Da come il Valentino lo guardava e lo trattava, immaginò anche come l'avesse preso.

Deglutendo, guardò altrove, cercando di non pensare che, con buona probabilità, anche lei alla fine si sarebbe ammalata. Non conosceva a fondo quella malattia, ma la sapeva riconoscere nelle sue fasi più attive. Cesare, in quei giorni, sembrava in remissione. Forse, si diceva, con un po' di fortuna, non l'avrebbe contagiata. Certo era che di fortuna lei sapeva di averne poca.

“Vedete, mio signore – cominciò a dire il soldato, faticando a non allungare l'occhio verso la prigioniera, che se ne stava immobile sul letto, quasi fosse lì apposta per farsi guardare – le chiese e il cortile della sagrestia del Duomo sono pieni... Restano ancora molti corpi dei soldati di Forlì, mio signore.”

Il Borja capì subito che intendesse: quelli erano i posti in cui aveva chiesto di far seppellire tutti i morti recuperati alla rocca. Erano così tanti, che i lavori di sepoltura stavano durando da quasi due giorni.

“Io non so che dire...” fece, cercando di pensare lucidamente, ma faticando a risvegliarsi del tutto, dopo una notte passata insonne: “Alla chiesa dei Servi, in quella ancora non ce ne sono. Portateli lì... Quelli che non ci stanno...”

“Gettateli nei campi.” si intromise la Tigre, che fino a quel momento aveva fatto finta di non ascoltare: “Che concimino il grano, ora che non possono più difendere in armi la loro terra.”

“Stai zitta.” rimbeccò il Valentino, che, tuttavia non trovava malvagia l'idea, ma preferì declinare la scelta al Balì di Digione, che si ammantava del diritto di gestire la legge all'interno del campo francese: “Chiedete ad Antonio di Baissay. Fate quello che vi dirà lui.”

L'attendente annuì, poi si scusò per aver disturbato, e infine se ne andò.

“Che ti prende?” chiese Cesare, quando rimase da solo con la sua prigioniera: “Ti metti anche a dare consigli? Impara a stare al tuo posto!”

La Leonessa, ben decisa a non scatenare di nuovo l'ira del suo carceriere, si impose di tacere. Era paradossale, ma il suo silenzio sembrava innervosire ancor di più il Borja, che si faceva insicuro, ai limiti dello spaurirsi.

Proprio per sfuggire agli occhi verdi, silenziosi e accusatori, della donna che aveva battuto, catturato e umiliato, il Valentino cominciò a vestirsi, giustificandosi: “Non si respira qui dentro... Io devo... Devo fare un giro in città.”

La Sforza non ribatté, aspettando che l'uomo finisse di vestirsi e poi, arida, gli fece presente: “Tu, almeno, puoi vestirti.”

Il Duca le lanciò una lunga occhiata e poi, schiarendosi la voce, concesse: “Magari ti farò fare un vestito. Si vedrà.”

“Quindi hai intenzione di farmi uscire di qui, prima o poi?” indagò lei, attenta a cogliere ogni sfumatura nella risposta del suo aguzzino.

“Non dipende solo da me.” ribatté lui, con più sincerità di quanto volesse.

Dopodiché, senza dire altro, l'uomo lasciò la stanza e per Caterina cominciò un'altra lunga attesa.

Era da sola da quasi due ore, quando sentì la porta aprirsi. Erano due delle serve che si curavano di lei.

“Dobbiamo parlare a voce molto bassa – le disse una di loro, indicando con un cenno la porta rimasta mezza aperta – o le guardie capiranno.”

La Sforza annuì, senza nemmeno parlare, rimanendo in ascolto, sperando che le due donne avessero qualcosa di importante da riferirle.

“Avevate chiesto al nostro padrone di farvi avere notizie sui vivi e sui morti.” soffiò l'altra serva, mentre le liberava momentaneamente le braccia: “E ora sappiamo dirvi qualcosa.”

Le fecero un elenco degli uomini che Luffo sapeva uccisi per certo, compresi quelli che la Tigre aveva visto di persona morti. Tra loro c'erano anche Battista e Bartolomeo Codiferro, Vincenzo figlio di Bruno, e Pier Matteo Bonoli, prima ferito e poi ucciso dopo avergli estorto un riscatto non adeguato, secondo i francesi, al suo rango.

Le dissero che Giovanni Testadoro era gravemente ferito e che non si sapeva se sarebbe sopravvissuto. Spiegarono di essere state dalle donne e da Baccino, alla torre, e di aver trovato tutti incolumi e in attesa di eventi. Le riferirono che Pretone da Modigliana era prigioniero assieme a Scipione e Paolo Riario, ai suoi fratelli – specificarono che Alessandro era ferito alla testa, ma che sembrava stare abbastanza bene – Michele Marulli e Bernardino da Cremona. Quando arrivarono a parlarle di Giovanni da Casale, però, la Leonessa fece una smorfia di insofferenza.

“Non mi interessa di lui.” le zittì, con un'ostinazione che portò a tacere.

“Allora?! Avete finito?” una delle guardie che stavano sempre vicino alla porta si affacciò un momento.

“Sì.” annuì una delle due serve, e poi, appena il soldato fu tornato al suo posto, sussurrò in fretta alla Sforza: “Vi informeremo su tutto, Contessa. Su tutto. Restate in forze. Sopportate. Alla fine uscirete da qui, e per il mondo la vincitrice sarete voi. Tutti vi guardano. Tutti aspettano di vedere come uscirete da questa stanza. Non date al Valentino la soddisfazione di farvi vedere vinta.”

Caterina la guardò con riconoscenza: le stava infondendo forza, con le sue parole, una forza che non sapeva di avere.

“Grazie.” bisbigliò e poi, docile, si lasciò di nuovo legare e dispose l'animo a resistere e sopportare, sperando di avere davvero una personale vittoria, nel giorno in cui il mondo l'avesse vista uscire da lì viva e vincente, in barba a tutti quelli che l'avevano sempre ostacolata e a quelli che l'avevano tradita, Giovanni da Casale in primis.

 

Giovanni da Casale era piegato su se stesso, gli occhi pesti e le guance coperte di lacrime e di barba ingarbugliata. Lo stavano interrogando da quelli che gli sembravano anni.

Era in una cella buia, isolata, che rimbombava in modo agghiacciante ogni volta in cui l'aguzzino muoveva i propri ferri. Eppure – e questo incuriosiva, oltre che infastidire molto, colui che stava conducendo l'interrogatorio – Pirovano pareva più spaventato da qualcuno che non era lì presente, piuttosto che dal carceriere che gli mostrava i tizzoni arroventati e la frusta.

“Io non l'ho tradita!” piagnucolava, inginocchiato e a pezzi, singhiozzandolo: “Vi prego, ditelo anche a lei! Non l'ho tradita! L'ho solo vista in pericolo! Io l'ho sempre amata! L'ho servita! Io la amo e non la tradirei mai!”

“Ricomponetevi!” gridò il soldato che lo stava interrogando: “Se siete intenzionato, infine a sottoscrivere la vostra confessione, vi porteremo il necessario...”

Era così stanco di vederlo piangere e lagnarsi, che avrebbe fatto di tutto, pur di far smettere quell'orrendo spettacolo. Giovanni da Casale gli era sempre stato descritto come un guerriero impavido, forte e sicuro di sé. Vederlo ridotto a una larva, sconfitto più da se stesso che dal nemico, era avvilente perfino per il carceriere.

Il milanese, alla richiesta esplicita dell'interrogatore, annuì: “Sì. Sì! Voglio scrivere tutto! Che lei sappia... Che lei sappia che ho fatto tutto per lei, tutto!”

Ancor più sconcertato dal comportamento del suo prigioniero, il carceriere sospirò e, lasciandosi finalmente alle spalle la cella umidiccia in cui aveva trascorso l'intera nottata, diede ordine che si portasse a Giovanni da Casale una panchetta, un tavolinetto e il necessario per scrivere.

“Fate pure con calma.” gli disse, mettendogli davanti il foglio e accedendogli una candela.

Pirovano ringraziò, tirando su con il naso. Fece mente locale e poi si decise a mettere nero su bianco tutto quello che sentiva di dover chiarire.

Sapeva che Caterina sarebbe sopravvissuta a tutto. Non era certo una donna che un uomo come il Borja potesse piegare. Anzi, poteva quasi vederla, mentre lo seduceva, plasmandolo a suo uso e consumo, facendogli fare tutto quello che voleva lei. Alla fine, da Forlì, sarebbe ripartita una regina e non un principe: a vincere sarebbe stata lei, come sempre.

E siccome la Tigre non era solita scordare chi a suo dire le avesse fatto un torto, lo avrebbe cercato e gliela avrebbe fatta pagare. Ma Giovanni doveva provare a spiegare di non aver avuto mancanze, nei confronti di lei, di aver agito per stupidità e per troppa prudenza, non certo perché era un traditore.

Così, con un respiro molto profondo, intinse la punta della penna nell'inchiostro e poi, grattando un po' sulla pagina, iniziò a scrivere: 'Justifichacione di Me, Joanni da Caxalle. Como ne le pratiche se fecero verso Milano, Madonna sa cum quale studio et diligentia furono li andamenti mei.'.

Dopo quasi due ore, chiamò la guardia e consegnò il documento: “Tutto quello che posso dire e tutto quello che so.” spiegò.

La confessione venne portata immantinente nelle mani del Borja. La lesse tutta d'un fiato: nessun cenno ai figli della Tigre, e quasi nulla nemmeno sui suoi averi più preziosi. Sembrava più tutta una grande scusa rivolta alla Sforza, che non una dichiarazione fornita a un nemico. E la cosa peggiore, nell'ottica di Cesare, era che lasciava intendere che più di quello, da lui, non avrebbe cavato altro.

E dunque, se non poteva sfruttare le delazioni di Pirovano, doveva trovare il modo di usarlo in un altro modo. Tutto stava nel capire come.

“Non potevo certo aspettarmi – commentò secco il Valentino, tornando ad addentare la carne arrosto che stava mangiando per pranzo – che quella meretrice si scegliesse un amante intelligente, oltre che muscoloso...”

 

 
   
 
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