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Autore: Adeia Di Elferas    30/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quel giorno aveva ripreso a nevischiare. L'Alégre stava pigramente passando in rassegna la colonna di uomini che avrebbero usato come deterrente per la popolazione, in caso di bisogno.

Di fatto, però, quel 18 gennaio ormai segnava la presa di potere definitiva e ufficiale dei francesi su Forlimpopoli. Achille Tiberti si stava facendo consegnare in quel preciso istante le chiavi della città, e presto, tutti lo sapevano, sarebbe stato il turno della rocca.

Avevano aspettato ad attaccare per un motivo di mera convenienza. Il cesenate, infatti, era convinto che a breve il Borja sarebbe arrivato a spalleggiarli, nonché a godersi una facile vittoria, e così aveva fatto con calma.

Quando, però, il Valentino, tramite un suo legato, aveva fatto presente che sarebbe rimasto ancora qualche giorno a Forlì e che intendeva raggiungere Forlimpopoli solo quando fosse stata dichiarata francese e sicura, Tiberti non aveva più potuto temporeggiare.

Così aveva deciso di passare, quel giorno, alla consegna formale della città e, già quella sera all'attacco.

L'Alégre si era detto d'accordo, ma aveva ricordato al cesenate l'importanza di usare immediatamente tutte le loro forze di fuoco.

“Se il fratello assomiglia alla sorella – aveva però commentato Achille, alludendo a Piero Landriani, castellano della rocca – vedrai che non vorrà fare la parte del topo. Combatterà a viso aperto e lo schiacceremo senza bisogno di distruggere un'altra rocca.”

Yves non aveva controbattuto. Sapeva bene cosa pensava Tiberti della distruzione quasi completa di Ravaldino. Anche se quell'uomo avrebbe fatto di tutto, pur di catturare la Leonessa di Romagna, aveva visto come un abominio radere al suolo un edificio difensivo tanto efficiente.

Comprensibile, quindi, che avendo una volta tanto in pugno il bastone del comando volesse agire a modo proprio, cercandosi non solo la vittoria, ma anche un bottino degno di quel nome.

 

Era passata da poco l'alba della domenica del 19 gennaio. Tommaso Dall'Aste, il Vescovo di Forlì, era appena rientrato al vescovato ed era subito corso nella stanza in cui era stato messo a riposare il povero Francesco Roverscio.

Il bolognese era stato ferito al collo in modo molto grave e fin da subito era stato chiaro che la sua vita era appesa a un filo. Con l'aiuto di alcuni conoscenti e del Vescovo stesso, Francesco aveva pagato il riscatto ed era stato definito libero, tuttavia la sua infermità gli impediva non solo di lasciare Forlì, ma addirittura di alzarsi dal letto.

“Ha sanguinato ancora?” chiese Dall'Aste, avvicinandosi al frate che si stava prendendo cura del ferito.

“Non molto...” rispose il religioso, mostrando le ultime pezze cambiate: “Ma ha perso spesso conoscenza, mentre non c'eravate.”

Il Vescovo era stato fuori per un'ora circa, il tempo necessario per incontrare Luffo Numai prima che il Valentino lasciasse la camera che divideva con la Contessa. Dovevano discutere della ristrutturazione del governo che il Borja pareva voler fare.

“Ho saputo che è morto anche Cardella...” sussurrò Tommaso, guardando con aria crucciata Roverscio, in quel momento profondamente addormentato, o forse addirittura privo di sensi: “Ho anche saputo che è stato ucciso Pier Matteo Bonoli.”

Il frate smise per un momento di guardare l'infermo e, con un'espressione sconcertata, fissò il Vescovo.

Questi sollevando un sopracciglio, spiegò: “Dicevano che siccome la Contessa aveva sotto la sua protezione il figlio di un suo parente, per certo lui le era favorevole. Così alcuni soldati del Duca l'hanno preso, l'hanno picchiato e l'hanno trascinato a casa, davanti alla moglie e al figlio. Gli hanno chiesto un riscatto, ma lui gli ha potuto dare poco o nulla, perché gli era stato già rubato tutto durante le scorrerie di dicembre. E così l'hanno ucciso come un cane.”

Il frate stava per commentare l'accaduto, quando Roverscio fece un suono sordo e spalancò gli occhi. Gli mancava l'aria, era pallido.

Tommaso Dall'Aste gli strinse una mano nelle proprie e cominciò a mormorare delle preghiere. Le crisi di quel tipo, ormai, in Francesco sembravano una cosa normale. E invece, quella volta, dopo qualche rantolo più cupo degli altri, il ferito ebbe uno spasimo e non si mosse più.

Il Vescovo gli chiuse gli occhi e poi, facendosi il segno della croce, pronunciò le formule di rito e chiese al frate: “Vorreste far suonare le campane? Che questo nostro fratello, che tanto ha dato per la nostra Forlì non muoia in silenzio.”

Mentre il religioso andava fuori dalla stanza di corsa, molto scosso dalla fine tutto sommato improvvisa del suo assistito e dalla freddezza pacata del suo superiore, Tommaso si abbandonò a un sospiro greve.

Aveva visto morire troppi conoscenti, troppi amici, troppi uomini che avevano creduto fino alla fine alla causa. Come Vescovo, in un momento di guerra del genere, avrebbe potuto benissimo andarsene altrove, per preservare la propria sicurezza. Invece aveva deciso di restare, e di fare la sua parte, per quel che contava.

Recuperò l'olio santo e benedì il corpo di Roverscio, mentre sentiva le campane dire al momento che un altro prode guerriero era venuto a mancare. Abbassò il capo, tirò su con il naso, e poi, da uomo pratico quale era sempre stato, mandò a chiamare due servi, affinché spostassero il cadavere e preparassero il letto per il prossimo che ne avesse avuto bisogno.

“Lo seppelliremo oggi stesso – spiegò, quando i due domestici arrivarono – quindi ripulitelo, vestitelo bene e pregate per la sua anima...”

 

Caterina, gli occhi socchiusi, stava per scivolare nel sonno, senonché delle campane suonate a morto la risvegliarono di colpo.

Cesare era uscito da una manciata di minuti, dicendole che aveva da sbrigare una cosa importante, promettendole, purtroppo, che sarebbe tornato il prima possibile da lei. Le aveva fatto anche presente che sarebbero tornati i sarti e che quindi si aspettava che lei collaborasse, esattamente come la volta precedente.

“Meglio farti tagliare un vestito, non trovi – aveva aggiunto lui, già alla porta – che farti tagliare il capo a tondo.”

Così la donna si era leggermente assopita, ma non del tutto, allerta, in attesa dell'arrivo dei sarti. Si trattava di uomini che conosceva bene, che aveva anche fatto lavorare, a volte, per il guardaroba dei figli e, a suo tempo, di Giacomo. Vedere come la trattassero alla guisa di una completa sconosciuta l'avviliva.

Capiva che facevano così soprattutto per paura, ma, dato che erano soli, avrebbe apprezzato se non una parola di conforto, almeno un gesto di cordialità. E invece se l'erano passati l'un l'altra come un burattino da rivestire, evitando di rivolgersi direttamente a lei, parlando tra loro come se lei non esistesse.

Le campane suonarono ancora qualche secondo e poi, bruscamente, tacquero. Si silenziarono in modo tanto improvviso che alla Leonessa fu facile capire una cosa: si doveva trattare di uno dei suoi morti, di sicuro. Probabilmente, capito il soggetto di tanto scampanare, il Borja o chi per lui aveva dato ordine di interrompere subito quel fracasso.

Meglio così, pensava la Sforza: quando fosse stato il suo turno, se fosse morta davvero in quella stanza come sperava il Valentino, anche lei non avrebbe avuto campane e cortei. Era molto meglio così.

Per cercare di tenere la mente impegnata, la Tigre si sforzò di ricostruire che giorno fosse. Alla fine si rese conto che era domenica. Quella notte sarebbe ricorsa una settimana esatta dalla sua caduta.

Stava ancora ragionando su questo fatto, quando la porta si aprì con un cigolio. Entrarono i sarti, con il loro apprendista. La slegarono in fretta e cominciarono a provarle l'abito che il Valentino aveva loro commissionato. La sorreggevano, perché era debole e faticava a stare a lungo in piedi da sola. La passavano in rassegna con lo sguardo, ma unicamente a scopo professionale. Anche quella volta Caterina ebbe la sensazione di essere solo una pedina nelle loro mani.

“Capisco che il figlio del papa vi faccia paura – disse, non riuscendosi più a trattenere, mentre uno dei sarti le sollevava i capelli bianchi per vedere come il vestito cadesse sulla schiena – ma io vi ho dato da mangiare per anni.”

Solo uno di loro ebbe il coraggio di incrociare i suoi occhi, ma, riabbassando subito lo sguardo, borbottò veloce: “Così come ci sono i mercenari con la spada, ci sono anche quelli con ago e filo.”

“Avete ragione.” ribatté allora la Sforza: “Sciocca io a non averlo capito per tempo.”

La prova durò ancora un bel po', abbastanza da mettere in difficoltà la prigioniera, che cominciava a essere troppo stanca. Stava quasi per chiedere di essere rimessa a letto, quando proprio l'unico sarto che aveva avuto il coraggio di parlarle, lo fece di nuovo.

“Torneremo per l'ultima prova domani mattina.” annunciò: “Sullo stampo di questa camora faremo anche gli altri due abiti. Non vi importuneremo più.”

“Il Valentino ha commissionato tre abiti per me? Non uno solo?” chiese Caterina, stranita.

“No. Tre.” rispose l'uomo, ma in modo più frettoloso, accigliandosi, come se non capisse come quell'informazione potesse metterlo nei guai, ma fosse ugualmente certo di aver appena fatto un grosso passo falso.

Non si trattava di molto, era vero, ma per la Leonessa fu qualcosa di importante. Prima di tutto, tre vestiti rappresentavano una sorta di piccolo corredo. Forse, cominciava a sperare, per quando si fossero spostati da Forlì, andando a Roma. Lì avrebbe potuto provare a entrare in contatto con qualcuno, magari con Raffaele, e cercare di ricordare a tutti il fatto che, essendosi dichiarata prigioniera francese, le spettava un trattamento ben diverso.

In più, sapere che non avrebbe avuto solo quella camora nera le insinuava un dubbio: erano stati forse i generali francesi a chiedere al Borja di trattarla meglio? E lui, allora, per farli tacere, pur non liberandola, aveva fatto il gesto di farle preparare degli abiti?

In fondo, il raso nero che stavano usando era pregiatissimo. Così costoso che la Leonessa non avrebbe mai osato farlo usare per un suo abito, se avesse dovuto pagare di tasca propria.

Con tutte quelle domande che le ronzavano in mente, la donna osservò i sarti sistemare le proprie cose e andarsene. Avrebbe voluto avere tempo per ragionare e figurarsi le reazioni degli Stati confinanti, per capire cosa sarebbe successo, se fosse riuscita a lasciare, da viva, Forlì.

Purtroppo, però, il Duca di Valentinois fu di parola e, molto prima di quanto avesse sperato lei, tornò in camera.

 

Era dal primo mattino che Piero teneva d'occhio i francesi. Li aveva visti piazzare un paio di cannoni e, a debita distanza, preparare le scale e le corde per provare a espugnare la rocca.

Dal canto suo, il Landriani aveva passato in rassegna i suoi uomini, una manciata, rispetto ai nemici, e aveva fatto sì che tutti fossero ben armati e con indosso l'armatura. Aveva il sospetto che i comandanti francesi non volessero attaccare con l'artiglieria, nemmeno per aprirsi un varco, ma indurli allo scontro diretto.

Per quanto lo riguardava, gli stava bene. Ne aveva anche discusso con alcuni dei suoi soldati più fedeli, e tutti erano stati d'accordo nel dire che, piuttosto che arrendersi o soffrire un assedio di settimane, era meglio combattere a viso aperto, sperando di essere ricordati dai posteri come un manipoli di intrepidi e di eroi.

Forse, aveva pensato il Piero, dopo aver sciolto il suo piccolo Consiglio, uno dei motivi per cui erano stati tutti a favore della sua proposta stava nel fatto che l'età media dei presenti non superasse i vent'anni.

Così, appena sorto il sole, si era presentato nel cortile, dove aveva radunato tutti i suoi, e aveva fatto un discorso molto breve e dall'intento preciso. Prometteva a coloro che avessero combattuto fino alla fine di essere ricordati in eterno.

“Dolore, paura e morte.” aveva concluso: “Questo è il prezzo insanguinato che pagheremo, ma di noi non si dimenticherà nessuno, nemmeno i francesi che manderemo all'inferno!”

L'entusiasmo generale aveva rianimato anche lo stesso Landriani, sciogliendo un po' il gelo che l'aveva accompagnato fin dalla notte. La consapevolezza che, probabilmente, quel giorno per lui non avrebbe mai avuto una sera, l'aveva svuotato. Solo le grida d'approvazione dei suoi soldati avevano fatto sì che il suo sangue tornasse a scorrergli caldo e impetuoso nelle vene.

“Ci siamo.” sussurrò a un certo punto Piero, mentre era sui camminamenti.

Aveva visto dei movimenti inequivocabili oltre la striscia di terra di nessuno che li separava dal nemico. Non aveva torto: in breve alcune squadre di incursori si fecero avanti. Il ragazzo ordinò agli arcieri di colpire, ma i loro rivali sapevano come ripararsi.

Impugnando saldamente la spada, il castellano della rocca di Forlimpopoli calò la celata e si preparò all'arrivo dei nemici: voleva essere lui il primo a uccidere, e così avrebbe fatto.

Con il cuore che mancava un colpo, nell'accorgersi che il momento della verità era realmente giunto, il Landriani lanciò un urlo di battaglia, che rimbombò sordo nel suo elmo, e venne subito seguito da quelli di tutti i suoi compagni.

Quando si profilò all'altezza delle merlature il primo nemico, che era riuscito a risalire la parete con una scala ad appoggio, Piero lo respinse subito, facendolo cadere nel vuoto. Ci riuscì altre cinque, dieci volte, ma alla fine, come in altri punti delle mura, i francesi cominciarono a trovare varchi e la battaglia si spostò all'interno della rocca.

 

La notizia della caduta della Tigre di Forlì aveva in qualche misura smosso Gian Giacomo da Trivulzio.

Dopo aver fatto fortificare adeguatamente il Duomo, e saputo dell'irruzione del Moro in Val Tellina, affiancato dal Parravicini e dal Balbiano, con ottomila svizzeri, cinquecento cavalli borgognoni e millecinquecento lance, e tanti fanti italiani, il condottiero aveva fatto ciò che forse avrebbe dovuto fare da giorni.

Sistemati laddove utili gli aiuti – quattrocento cavalli dal Marchese di Saluzzo, soldati dalla Savoia e dal Monferrato – aveva fatto partire subito alla volta di Como il Ligny.

Don Giuliano non si era certo tirato indietro, tuttavia aveva storto il naso quando aveva inteso il progetto: avrebbe dovuto partire dal porto di Como con quattro navi, raccogliendo un equipaggio sul momento.

“Prendete chi vi capita...” disse il Ligny a Andrea da Fano, il soldato che aveva incaricato di comandare la spedizione via lago: “Basta che siate pronti a salpare presto. Al castello di Musso hanno bisogno di noi.”

Il castello, spostato a nord e quindi più esposto alla discesa dello Sforza, era retto in quel periodo da Biagio Malacrida, scelto dal Trivulzio in persona. A quanto pareva tutti i soldati francesi che occupavano parte della costa vi si erano ritirati proprio per paura del Moro.

Il Da Fano annuì e, chiedendo quanti soldi potesse promettere alla ciurma che avesse trovato, si sentì rispondere con una risata.

“Una cosa alla volta.” mise le mani avanti il Ligny: “Prima vediamo come si comportano una volta sul lago e poi ci penseremo...”

 

La battaglia era viva da quasi un'ora, ma era facile capire chi stesse vincendo. Malgrado i francesi stessero morendo copiosi, molto più numerosi dei forlimpopolesi, ormai alla difesa dell'ultimo baluardo dello Stato della Tigre erano rimasti troppo in pochi per poter far ancora grossi danni al nemico.

Il giovane soldato che Piero aveva scelto come suo secondo continuava a guardarsi attorno, respingendo gli attacchi dei nemici, in cerca del castellano. Voleva da lui un cenno, un permesso per arrendersi. Si trattava di un gioco al massacro ed era certo che nessuno, né tra i loro contemporanei, né tra i posteri, avrebbero fatto loro una colpa, se, a quel punto, avessero deposto le armi. Si erano battuti in modo onorabilissimo, avevano perso, erano pronti ad ammetterlo: non sarebbe stato un gesto da codardi.

Il ragazzo stava ancora occhieggiando a destra e a manca, quando inciampò, perdendo il passo. Il francese che lo stava attaccando venne distratto e così il soldato poté rialzarsi senza essere ucciso nel mentre.

Tuttavia, mentre faceva ciò, il suo sguardo si posò si un corpo poco distante da lui. Lo riconobbe subito, sia per via dell'armatura scura, sia perché non portava più l'elmo. Chiunque, in effetti, tra gli uomini di stanza in quella rocca, avrebbe potuto riconoscere, nel corpo senza vita, nel bel viso ora spento, e nei capelli biondi, impastati di sangue e sudore, Piero Landriani.

Dopo appena un secondo di attonito stupore – perché, in fondo, non si era aspettato di vedere il castellano morire quel giorno – il giovane si ricordò della carica che il milanese gli aveva concesso pochi giorni prima. Ora era lui, il nuovo castellano: la resa sarebbe stata un suo fardello.

“Ci arrendiamo!” gridò allora: “Come castellano della rocca dichiaro la resa!”

Subito, senza che vi fosse bisogno di aggiungere altro, i forlimpopolesi ancora vivi smisero di combattere e allo stesso modo fecero i nemici.

L'Alégre, che era presente, ma che era rimasto in disparte fino a quel momento, avanzò imperioso verso il ragazzo, gli chiese chi fosse e che titolo avesse. Sentite delle risposte che gli parvero accettabili, dichiarò ufficialmente la rocca presa.

“Sei stato saggio, ad arrenderti.” disse con il soldato, mentre si cavava l'elmo: “Una saggezza che è mancata alla tua signora. Si fosse arresa anche lei per tempo, adesso Forlì avrebbe ancora la rocca di Ravaldino, e probabilmente la Tigre non sarebbe in mano al Borja, ma in viaggio per la Francia.”

Al ragazzo sfuggì la maggior parte del ragionamento del francese, ma non gli importava: era vivo, tutto il resto in quel momento, perfino il corpo esanime di Piero Landriani, un uomo in cui lui aveva creduto tantissimo e per cui sarebbe davvero morto senza esitazione, non aveva più senso.

 

Cesare Borja la mattina di quel 20 gennaio, stava presiedendo una riunione molto importante, con cui si andava a definire l'assetto ultimo del governo di Forlì. Malgrado la cruciale importanza di quell'incontro, però, non riusciva a concentrarsi.

Stava pensando a troppe cose contemporaneamente. Prima di tutto aveva chiesto a Michelotto di raggiungerlo a Forlì, e già per quello era in ansia, perché aveva molta voglia di rivedere l'amico, ma temeva di non poter trovare nessuno di altrettanto fidato da mettere al controllo di Imola.

In secondo luogo, non riusciva a smettere di pensare allo sguardo disgustato che la Sforza gli lanciava ogni volta in cui la prendeva. Ormai la paura era svanita quasi del tutto, dal suo volto. Pure quella notte, malgrado lui avesse volutamente fatto sì di non lasciarle riposo, alla fine si era ritrovato più avvilito di lei. Era qualcosa di strano da spiegare, ma per qualche ragione, anche standosene ferma e zitta e lasciandolo fare, la Tigre riusciva a essergli superiore, come se vanificasse tutti i suoi sforzi con un semplice sospiro di impazienza.

Altre donne – gli bastava pensare a quella smorfiosa di sua moglie Charlotte – sarebbero già state a pezzi, se non in fin di vita. Lei, invece, subiva con lo stoicismo di un blocco di marmo e sembrava in grado di resistere alla fame come un asceta. Per certi versi, ormai, quello più spaventato, tra i due, era il Valentino.

Infine, il figlio del papa cominciava a essere preoccupato per quello che suo padre gli avrebbe detto quando avesse saputo che dei giovani Riario non c'era traccia. Poteva davvero dirgli che la Leonessa aveva giurato che fossero a Firenze? Di certo papa Alessandro VI si sarebbe messo a ridere e poi gli avrebbe dato dell'idiota per aver creduto a una cosa tanto inverosimile...

“E dunque – riassunse alla fine Luffo Numai, che presenziava in veste di rappresentante della cittadinanza – come deciso dal signor Duca, il Consiglio Generale sarà ancora composto da quaranta uomini, dieci per quartiere, che muteranno di anno in anno. Gli Anziani eletti saranno dodici e si occuperanno del Magistero, e anche loro resteranno in carica un anno appena. A questi cinquantadue uomini spetta la suprema autorità delle cose pubbliche.”

“Bene, bene...” tagliò corto il Valentino, già alzandosi dal tavolone spoglio che era stato sistemato nel centro del salone del palazzo dei Riario: “Eleggete i quattro rappresentanti che giureranno fedeltà a me in via simbolica e che poi andranno a Roma a fare altrettanto. Fatemi sapere i nomi non più tardi che tra due giorni.”

“Avete fretta?” chiese il Balì, guardandolo in tralice.

“Ho delle cose da fare.” tagliò corto il Borja e, con un cenno di saluto rivolto a tutti i presenti, andò in fratta alla porta.

Una volta in strada in sella al suo destriero, seguito da quattro guardie a cavallo, si infilò il cappellaccio nero e galoppò verso palazzo Numai.

“Vi stavano cercando.” disse piano Caterina Paolucci, quando lo vide.

Cesare sbuffò e la seguì fino al salottino, dove una staffetta, ancora ansante, lo stava attendendo.

“Ieri – gli disse – la rocca di Forlimpopoli è stata presa. Ci sono pochi superstiti. I nostri la stanno occupando.”

“E come mai arriva solo oggi, questa notizia?” domandò il Duca, felice di venirla a sapere, ma adirato per via di quel colpevole ritardo.

“Messer Tiberti – spiegò il messaggero – voleva essere certo che la città fosse pacificata, prima di mandarvene notizia. A questo modo, ha detto, potrete partire subito, senza paura.”

“Senza paura!” sbottò il Duca: “Senza paura! Ma con chi crede di parlare?!”

Poi, trattenendo un paio di bestemmie, si disse che avrebbe potuto riversare la propria frustrazione per la totale mancanza di educazione del suo comandante sulla Sforza. In fondo era anche colpa sua se il cesenate si era fatto tanto ardito: l'aveva abituato sicuramente male negli anni passati al suo servizio.

Così, liberandosi in fretta della staffetta, chiese di non essere disturbato e imboccò le scale.

“Ma ci sono ancora i sarti...” provò a dire la Paolucci, ma il figlio del pontefice non l'ascoltò nemmeno.

“Ti sono mancato?” chiese il Borja, spalancando di colpo la porta.

I sarti, che in effetti stavano facendo le ultime prove con l'abito della Tigre, erano ancora lì. Alla vista del Valentino, però, si scusarono subito e si affrettarono a uscire, lasciandole addosso la camora ancora in parte da aggiustare.

Cesare non aveva pensato al fatto che avrebbe trovato Caterina in piedi, slegata. Libera, in un certo senso. Vederla a quel modo in parte lo conturbò e in parte lo spaventò.

“Non hai di meglio da fare che stare qui con me tutto il giorno?” chiese lei, pungente, come se non essere imbrigliata al letto le desse un nuovo potere, malgrado facesse quasi fatica a reggersi.

“Ma se sto ritardando la partenza al solo scopo di passare un po' di tempo con te...” scherzò lui, chiudendo accuratamente la porta, nel caso in cui lei volesse tentare una fuga, ma senza voltarle mai le spalle: “Ci scommetto che, in fondo, non ti dispiace nemmeno... Da quello che so, da sola non riesci a stare...”

Allo scopo principale di impedirle di prendere confidenza e quindi iniziative, l'uomo le si avvicinò.

Erano giorni, in effetti, che non la vedeva vestita, e quella camora nera le scendeva sul corpo come un drappo. Un abito che di norma mortificava quasi la bellezza, su di lei era solo la cornice per un dipinto meraviglioso.

“Sai una cosa?” le disse a voce bassa, mentre, subdolo, le afferrava i polsi, stringendo tanto da farle male: “Quella buona a nulla di mia moglie, secondo me, mi partorirà una femmina. Che altro può nascere, da una donnicciola inutile come lei se non una bambina piagnucolosa e senza alcuna qualità? Chissà, magari tu, per come sei, potresti darmi un maschio. Ne hai già partoriti sette, di maschi, o sbaglio?”

“Sono diventata sterile.” ribatté lei, avvertendo l'invadenza crescente, mentre il Duca la spingeva pian piano contro il muro, senza mollare la presa sui polsi: “Quindi se è per avere un figlio da me che mi tieni in questa camera, puoi anche farmi uscire subito: non mi metterai mai incinta.”

Il Borja ebbe un momento di esitazione. I suoi occhi rapaci, così simili a quelli che Caterina ricordava di aver visto illuminarsi sul volto di un Rodrigo ancora giovane e pieno di pretese nei confronti della vita, lampeggiarono.

“Sterile tu...” borbottò il Duca: “Posso credere che prendessi chissà quali diavolerie per non farti ingravidare, dato che ti portavi a letto mezzo esercito, ma adesso a parte un po' d'acqua io non ti sto permettendo di assumere nulla.”

La donna avrebbe voluto fargli presente che non solo aveva una volta mangiato i resti del suo pollo, ma che quella mattina uno dei sarti gli aveva anche portato di nascosto un po' di pane con il formaggio. Ma preferì tacere su quell'argomento e tornare sul discorso di partenza.

“Ti dico che è vero: il mio utero è freddo.” ribadì.

“Sarà come dici.” concesse lui, stringendole ambo i polsi con una sola mano, mentre con l'altra le sollevava la pesante gonna della camora: “Io continuo a provarci, non si sa mai...”

Siccome la presa del Valentino sulle sue mani era più debole, ora, e lui era distratto, la Leonessa provò a liberarsi. I suoi gesti, però, per quanto decisi, erano deboli: erano troppi giorni che non si nutriva adeguatamente e che non rigenerava il corpo con un sonno ristoratore.

“Ferma lì!” la redarguì lui, prendendo il costoliere che portava al fianco e puntandoglielo alla gola, immobilizzandola ancor di più contro la parete.

La Sforza sentiva l'alito del suo aguzzino sul volto. Avrebbe voluto reagire di nuovo, magari con una ginocchiata o mordendolo, ma ciò che lui disse le tolse ogni voglia di provarci.

“Prova a ribellarti di nuovo, e sappi che ammazzerò una per una le donne del tuo seguito, e prima mi divertirò con le più giovani e le più belle. Ah, e poi taglierò la gola anche a quel bamboccio del tuo coppiere. Sempre che sia davvero un coppiere.” mise in chiaro lui, cambiando poi tono, mentre con uno sguardo viscido la passava di nuovo in rassegna, strappando, con un movimento brusco, l'accollato corpetto della camora: “Che bello vederti finalmente vestita da donna... Peccato che i sarti avranno molto da ricucire, dopo che avrò finito con te.”

In effetti, da quel momento in poi, per il Borja fu tutto uno strappare, tirare e distruggere. Caterina non si ribellò, memore della minaccia di poco prima, e fu quasi felice quando, alla fine, le fu concesso di rimettersi a letto.

Le doleva la schiena, per il colpi presi contro la parete, e la violenza con cui il Valentino si era accanito contro di lei l'aveva lasciata più spossata del solito. Era di nuovo completamente nuda: la camora di raso nero giaceva in pezzi in terra, laddove anche lei si era sentita dilaniare e lacerare.

Il figlio del papa si stava riaggiustando i vestiti e passando le mani tra i capelli. Era sudato, ma si sentiva più sicuro di sé, rispetto alle altre volte. Finalmente aveva visto la sua vittima atterrita come sperava.

Tuttavia non si sentiva ancora soddisfatto appieno: “I francesi ti hanno vista sopravvivere in mezzo alle palle di cannone e ti hanno creduta immortale – le disse – io farò vedere loro che sei solo una donna, come tutte le altre.”

La Sforza non reagì. L'unica cosa che fece, potendo finalmente muovere le braccia, fu prendere le coperte e tirarsele fino al mento, esercitando, infine, il diritto di coprire la propria nudità all'uomo che la teneva segregata lì.

“Ah, solo affinché tu lo sappia...” concluse lui, trovando improvvisamente insopportabile il restare nella stessa stanza della sua preda: “Tuo fratello ha perso la rocca di Forlimpopoli.”

“Lui è vivo?” chiese la Tigre, riprendendo di colpo vivacità.

Il ventiquattrenne scorse in lei un'apprensione folle, forse ancor più profonda di quella che provava per i fratelli che, al momento, erano prigionieri lì a Forlì.

E solo per quello, al fine di torturarla nell'anima, oltre che nel corpo, il Borja decise di lasciarla nell'incertezza: “Non lo so.” mentì: “Ma posso dirti che quando hanno preso i superstiti, quello che si è dichiarato castellano in carica non era lui. Tuo fratello è fuggito? O è morto? Scegli tu la cosa che ti fa stare meglio...”

Mentre il Duca di Valentinois raggiungeva la porta e borbottava qualcosa ai sarti, rimasti là fuori tutto il tempo, insensibili allo scempio che di certo sapevano si stesse consumando in quella stanza, Caterina scoppiò a piangere.

Poteva illudersi, ma ciò che il Borja le aveva detto non le lasciava dubbi: conosceva abbastanza bene suo fratello Piero da sapere che non poteva essere scappato.

 

 
   
 
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