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Autore: benedetta_02    02/06/2020    0 recensioni
Agata Giordano è una giovanissima ragazza che ha avuto l'onore di partecipare alla resistenza italiana che ora però ha solo bisogno di tornare nella sua città, Torino, per ricongiungersi con la sua famiglia e le sue vecchie conoscenze. Ma quello che troverà sarà solo morte, fame, terrore e così decide di ripercorrere passo passo la sua esperienza da partigiana attraverso i ricordi. Amori impossibili, segreti inconfessabili e un ruolo della donna sempre più di maggiore spicco, una donna stanca del passato e che ha un solo sogno: andare via.
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Torino, 21 marzo 1951
 
Quel 21 marzo 1951 poteva apparire come un qualunque mercoledì comune. Ma aveva qualcosa di completamente diverso, era il mio compleanno. Quell’anno compievo 26 anni, e tra le altre cose era anche l’anno in cui mi sarei laureata. Infatti quella mattina avrei portato la tesi completata al mio professore Elio Marini, professore che ha deciso di seguirmi fino alla laurea. Forse è uno dei pochi uomini che ha sempre confidato nelle mie capacità e nella mia conoscenza. Non ha mai dubitato un attimo che io mollassi o facessi qualunque sciocchezza, diceva che io avrei portato avanti quell’ideale di donna innovativa che il mondo necessitava.
 
Infatti, il mondo stava cambiando. Nell’arco di cinque miseri anni, ho visto un nuovo futuro passarmi sotto gli occhi. Le persone stanno cambiando, la moda sta cambiando, la musica sta cambiando, la politica sta cambiando, il cinema sta cambiando, i giornali stanno cambiando. Tutto si muta, ma niente si ferma. Anche noi stavamo cambiando, seppure non ce ne accorgevamo. Milena più di tutte. Adesso era diventata caporeparto delle stiratrici, non aveva mai voluto abbandonare quel suo posto precario, che però la rendeva sufficientemente felice e soddisfatta di se stessa. Non aveva abbandonato neanche la politica, infatti continuava ad andare regolarmente alle riunioni del partito che stava ricevendo sempre più consensi, e Milena non aveva paura di far sentire la sua voce in fabbrica ogni qual volta fosse necessario. Era stata capace di imparare l’italiano più complesso, seppure con quel suo accento siciliano abbastanza marcato che però la rendeva simpatica. Aveva imparato l’inglese ed il francese e lo masticava bene. Ma la novità che mi sconvolse più di tutte, è che Milena adesso, portava i pantaloni, proprio come me. Ma non eravamo le uniche, erano moltissime le donne che ora come ora si era abbandonate alla comodità del pantalone non curandosi del possibile giudizio maschile.
 
Anche i nostri bambini stavano crescendo. Salvatore aveva compiuto 10 anni un mese prima, adesso frequentava la scuola primaria, era felice di andarci e diceva che da grande lui avrebbe voluto fare l’archeologo. Era un bambino sveglio, attento, furbo e questo gli faceva onore. Mentre il mio piccolo Michele, che adesso aveva 5 anni, era alla fine del suo percorso nella casa dei bambini e a settembre anche lui si sarebbe iscritto alla scuola primaria proprio come Salvatore. Era diventato un bravo ometto, anche lui era intelligente e diligente, molto sveglio anche lui e già mi chiedeva di insegnargli a leggere qualcosa, ma era ancora troppo complicato. La cosa che più mi frustrava era che mi chiedesse continuamente di suo padre e io non sapevo mai cosa rispondergli. Cosa avrei dovuto dirgli? Tuo padre non c’è più?
 
Invece, continuavo a sentire regolarmente mia sorella Emilia, che nel frattempo aveva avuto altre due bambine. Avevamo fatto conoscere le sue figlie con il piccolo Michele il Natale scorso e sembrava che avessero stretto un buon legame fin da subito senza complicazioni. Come ogni lettera e come ogni telefonata, anche quando abbiamo trascorso il Natale da lei in Francia, Emilia non ha perso tempo nell’invitarmi a rimanere da lei per un po’ per abituarmi, non ha mancato nel convincermi ad abbandonare l’università, ma come sempre io ho rifiutato. Era allibita che io potessi farcela da sola, ma in quel momento sembrava che ce la stessi facendo senza grossi intoppi e anche se non me lo avrebbe mai ammesso, si vedeva che mia sorella era troppo fiera di me.
 
Se le conversazioni con Emilia erano assidue, quelle con Ginevra erano rare se non inesistenti. E d’altra parte, ero sempre io a telefonarle. Ero riuscita ad ottenere il suo recapito telefonico grazie a Gennaro, perché era prossimo alle nozze e voleva invitare sua sorella al matrimonio, che ovviamente ha rifiutato. Così, Gennaro mi ha dato il numero nella speranza che io in qualche maniera ambigua potessi convincerla a tornare in Italia, ma ovviamente fu del tutto inutile. Continuai a chiamarla per evenienze speciali, come Natale, Pasqua, compleanni e via dicendo. Le nostre telefonate erano spente: i soliti convenevoli, lei che mi chiedeva se avessi novità, io che le chiedevo se fosse in arrivo un bambino e lei mi diceva che non c’era niente da fare, e i saluti. Perseverai nel chiamarla per un paio di anni, ma vedendo un muro da parte sua, compresi che non aveva poi così tanto senso darle fastidio in quel modo, così smisi. Se avesse avuto qualcosa da dirmi, conosceva bene il numero.
 
Purtroppo l’amicizia con Ginevra era naufragata ed affondata, l’avevo persa. Ma l’amicizia con Sara e Rossella, meglio conosciute come Anna e Lila, si risanò. Dopo la scappata a Roma con Rocco, riuscimmo a convincere Lila a trasferirsi a Torino e lei non ci pensò due volte. Nel frattempo, avevamo fatto una bella gita a Bologna per il matrimonio di Anna e Crusca che finalmente dopo aver messo qualche soldo in più da parte erano riusciti a coronare il loro sogno d’amore. Descrivere il vestito da sposa di Anna con le parole sarebbe anche poco, era semplicemente bellissima. Era un angelo che illuminava la navata della chiesa, era come se lasciasse un profumo di buono ogni passo che faceva. Ritornare a Bologna per il grande evento è stato quasi strano. Rivedere quella città dopo anni, in maniera diversa, mi ha fatto quasi credere che da quelle strade, che in quelle piazze non fosse mai accaduto nulla. Ma posso ancora percepire l’odore del sangue e della polvere da sparo, rimbombarmi nelle narici ed arrivarmi fino al cervello.
 
Dopo le nozze di Anna e Crusca, seguì il matrimonio tra Rocco e Rossella. Questa volta l’evento si svolse a Roma e ancora una volta, Rossella era riuscita ad essere impeccabile. Già di per sé, Rossella era capace di emanare bellezza semplicemente scuotendo i capelli in maniera del tutto naturale. Ma vederla dentro quel meraviglioso abito bianco, adornata da particolari che le facevano risplendere il viso, un trucco velato ma sicuramente d’effetto e quei capelli raccolti che le lasciavano il collo in bella vista, la rendevano ancora più bella, sarebbe stata una candidata perfetta per Miss Italia. Ma lo spettacolo più bello fu poter vedere Rocco Rinaldi finalmente sposato e devoto solo ed unicamente ad una donna. I suoi occhi erano illuminati da un amore sincero ed ero onestamente felice per loro due. Rossella e Rocco erano partiti immediatamente per l’America, Rocco lavorava in un magazzino di un negozio di abbigliamento e ovviamente continuava a fare politica. Invece, Rossella lavorava nello stesso negozio di Rocco ma come commessa, la sua bellezza non è passata inosservata nemmeno lì ma Rocco aveva imparato a conviverci, sapeva che lei aveva occhi solo ed esclusivamente per lui. Nonostante quel lavoro che aveva scelto, non aveva mai abbandonato il suo sogno di diventare un’attrice e sperava che lì ci sarebbe riuscita. Nel mentre, avevano avuto due splendidi bambini.
 
Ma per fortuna per il mio compleanno, ero riuscita a riunire tutti a Torino. C’erano tutti i miei amici di sempre ed Emilia con la sua nuova famiglia. Mi sentivo felice, ero felice che non avessi più troppe preoccupazioni e troppi pensieri per la testa. Ero rilassata e felice di essere tranquilla. Quella vita frenetica di prima non la rimpiangevo nemmeno per un attimo. Mi sentivo invincibile, sapevo che niente mi avrebbe potuto far soffrire.
 
“Buongiorno amore.” A svegliarmi quella mattina fu proprio Milena, che era entrata in camera con un vassoio in mano. “Buon compleanno.”
 
“Grazie Milè.”
 
“Sono 26 eh. Sei diventata vecchia ormai.”
 
“Ma no ancora ho tutta la vita davanti.” Bevvi il caffè che mi aveva portato Milena, ma non feci in tempo ad afferrare il pane con la marmellata che entrò correndo Michele e saltò sul letto.
 
“Buon compleanno mamma.” Mi abbracciò fortissimo, stringendomi le sue esili braccine intorno al collo.
 
“Grazie amore mio.”
 
“Ho un regalo per te.”
 
“Ah si? E vallo a prendere.” Michele saltò giù dal letto, correndo verso l’altra stanza.
 
Afferrai velocemente la fetta di pane e scesi immediatamente dal letto, iniziando a vestirmi in fretta e in furia.
 
“Ma già esci?” Mi disse Milena posando il vassoio sulla scrivania.
 
“Sì, stamattina devo andare in università. Devo consegnare la tesi.”
 
“Ce l’hai fatta alla fine.”
 
“Eh sì, ce l’ho fatta.” Mi guardai compiaciuta allo specchio mentre sistemavo il colletto della camicia rosa di raso che mi aveva regalato Emilia. Ce l’avevo fatta davvero, ero riuscita a realizzare quel sogno che avevo sempre desiderato. Mi stavo per laureare. Nel frattempo, l’università non era più un privilegio degli uomini e di un numero scarsissimo di donne fortunate, come me. Ma erano diventate tante le donne che avevano scelto di cambiare la propria vita iscrivendosi all’università, per me questa era una vera e propria rivoluzione.
 
 
“Quindi adesso possiamo partire davvero per l’America.” Mi disse Milena con uno sguardo sollevato.
 
L’America. Me ne ero quasi dimenticata di quel grande sogno che avevamo progettato insieme, che ero stata proprio io a proporle. Ma adesso, non lo sapevo più se volevo andare via da Torino, adesso che finalmente stavamo tutti cercando di voltare pagina dalla guerra, proprio ora che il cambiamento stava avvenendo anche qui. Ma come avrei potuto dirle che non mi andava più? Come avrei potuto abbattere tutti i progetti che lei aveva immaginato nella sua mente?
 
Mi voltai verso di lei e le sorrisi “Certo.”
 
Lei corse verso di me e mi abbracciò forte, fortunatamente a spezzare quel momento che avrei voluto finisse prima che lei riprendesse quel discorso, entrò correndo Michele con un foglio in mano.
 
“Tieni mamma.” E mi diede il foglio.
 
Presi il foglio, ed era un disegno. Era un qualunque disegno fatto da un qualunque bambino, ma nascondeva tutte le sofferenze di mio figlio. Era un foglio bianco con un cielo blu, un sole giallo al centro, una piccola casetta rossa al lato sinistro e al lato destro c’era una ragazza, che dovevo essere io, che teneva per mano un bambino che doveva essere lui e un po’ più distante un essere maschile colorato completamente di nero. Lo guardai e una lacrima mi scese dall’occhio.
 
“Mamma, non ti piace? Perché piangi?”
 
Mi sedetti sul letto e lo presi in braccio, iniziando ad accarezzargli i capelli.
 
“No amore mi piace. Ma ho una domanda, chi è questo signore tutto nero?”
 
“È il mio papà.” Come sospettavo. Tentai di non scoppiare a piangere come una pazza per non far stare male il piccolo Michele. Poi fu lui a riprendere a parlare. “L’ho fatto nero, perché il nero non mi piace. E non mi piace nemmeno il mio papà.”
 
Milena mi guardò disperata, nemmeno lei sapeva cosa fare. Dovevo parlargli. Per forza. Dovevo spiegarglielo nel modo più semplice possibile, in modo che non fraintendesse. Lo misi sul letto di fronte a me, in modo che mi potesse guardare e spostai il disegno sul comodino. Lanciai un’occhiata a Milena per farle capire che dovevo rimanere sola con lui e lei uscì fuori.
 
“Amore. La mamma ti deve dire una cosa che forse ti dispiacerà un po’.”
 
“Dimmi mamma.”
 
“Tuo papà non era cattivo, anzi.”
 
“E perché ci ha lasciati? Tutti i miei amichetti hanno un papà e una mamma e io ho solo una mamma.”
 
Alle parole così mature di mio figlio di 5 anni, iniziai a piangere disperatamente. Come avrei potuto dirglielo? Era più difficile di quanto potesse sembrare, ma Michele doveva saperlo. Non poteva più reggere questa situazione. Mi asciugai le lacrime e presi il coraggio necessario per poterglielo spiegare.
 
 
“Tuo papà era bravissimo con la mamma, lui non ci avrebbe mai lasciati, sai. Ma un giorno è successa una cosa brutta.”
 
“Che cosa è successo?”
 
“Insomma…come dire…la mamma, il papà ed altre persone stavano…stavano facendo un gioco.”
 
“Un gioco?”
 
“Si un gioco, molto brutto.”
 
“E perché avete fatto questo gioco se era brutto?”
 
“Perché era giusto che noi facessimo questo gioco, perché noi dovevamo salvare delle persone che non volevano giocarci, non era giusto che delle persone ci costringessero a giocare se noi non volevamo? Giusto?”
 
“Giusto.”
 
 
“E poi, un giorno, questi capi che avevano deciso il gioco, presero il papà che voleva far finire il gioco. Ma purtroppo papà non è riuscito a vincere.” Ripresi a piangere ma con un po’ di contegno. “E papà ha cercato in tutti i modi di farli perdere, ma lo hanno ucciso.”
 
“Davvero? E tu?”
 
“Io sono riuscita a vincere amore. Il tuo papà non era cattivo, i cattivi sono quelli che ce lo hanno portato via, lui era un eroe.”
 
“Wow. Mamma tu sei stata brava però.”
 
“Si, sono stata fortunata, amore.”
 
“Mi giuri che non ci giochi più a questi giochi brutti?” E mi diede il suo piccolo mignolino e io glielo afferrai con il mio, prendendo con l’altra mano la sua nuca, spingendolo verso di me.
 
“Te lo giuro, la mamma non ci gioca più.”
 
 
Restammo abbracciati tanto tempo. Mio figlio era nato già grande, sapeva già cosa fosse il dolore e io avrei voluto evitargli qualunque sofferenza, avrei voluto farlo stare bene. Milena entrò nella stanza, invitando Michele ad andare sotto a fare colazione con Salvatore. E io scoppiai in lacrime non appena lui uscì e Milena vedendomi in quelle condizioni corse da me sul letto e mi abbracciò, facendomi liberare da tutte le lacrime accumulate.
 
“Sei stata brava. Sei una brava mamma.” Mi disse sistemandomi i capelli che mi erano caduti sul volto.
 
“Milè io voglio che lui stia bene.”
 
“Con una mamma come te, starà bene certamente. Ma ora vai in università, Salvo e Michele li porto io.”
 
“Grazie Mì.” E la abbracciai di nuovo per poi continuare a sistemarmi a dovere. Quello che avevo fatto era inevitabile, prima o poi avrei dovuto prendere quel discorso, e forse è stato meglio che sia successo ora.
 
Scesi immediatamente le scale per raggiungere il piano inferiore, salutai per l’ultima volta Michele, Salvo e Milena, per poi uscire di fretta di casa. Ma prima di raggiungere l’Università, dovevo andare in un posto. In quel periodo avevo imparato ad apprezzare le piccole cose, come l’odore del caffè che fuoriusciva dai bar in centro al mattino, come la voce del giornalaio che si premura di conservarmi l’Unità ogni giorno, come le risate dei bambini al parco. Avevo lasciato che il cambiamento mi entrasse dentro e oramai era diventato parte integrante del mio essere, non sarei mai potuta tornare un passo indietro. Il mondo in qualche modo ha ascoltato le mie preghiere e le mie speranze, questo mi ha insegnato che talvolta lasciarsi abbattere dagli eventi è sbagliato, basta poco per poterci ridere su.
 
Una cosa è sicura, sentivo sempre che qualcosa mi mancasse. Mentre fisso il cielo blu, penso che il cielo continua ad accogliere ogni giorno il sole non curandosi delle nuvole e avrei voluto che anche tu, Michele mio, potessi godere questa vista meravigliosa. Sentivo che quello che mancava nella mia vita, eri proprio tu. Guardando le coppie ballare nei caffè pensavo che una di quelle coppie saremmo potuti essere io e te. E ora, ovunque tu sia, spero possa accettare il mio ballo, tu sappia ancora cingermi la vita e farmi girare sulle note di “Mille lire al mese”. Non ho mai smesso un attimo di pensarti, devo essere proprio una stupida agli occhi degli altri che mi invitano a trovare un uomo nuovo, ma come potrei? Come potrei cedere il tuo posto ad una persona del tutto inutile e senza valore? So che non saresti d’accordo nemmeno tu, chissà se un giorno riuscirai mai a rispondere a tutti i miei quesiti. Mi manchi amore della mia vita.
 
Arrivata al cimitero di Torino, mi fermai dalla fioraia lì vicino per prendere tre mazzetti: uno per Giovanni, uno per mamma e uno per papà. Per prima, andai nella cappella Giraudo, non avevo smesso un giorno di andare a trovare Giovanni. Ormai avevo inondato la sua tomba di fiori ed oggettini inutili, che però per noi avevano un senso. Non smettevo di accendere una sigaretta lì vicino, così che anche lui potesse inalare un po’ di fumo, così che potessimo fumare una sigaretta insieme. Guardare quella foto su quella lapide mi mette solo angoscia, mi sarebbe piaciuto che oggi ci fossi stato anche tu con me, a celebrare il mio compleanno. Eri sempre il primo a farmi gli auguri, a prepararmi delle sorprese speciali. E adesso guardaci, io guardo la tua foto impiantata su un pezzo di pietra senza nemmeno parlarti e tu nemmeno mi rispondi. Ti sembra giusto Giovà? Dico, ti sembra normale? Ma tu al mio posto cosa avresti fatto? Mi sedetti a terra, continuando ad accarezzare quella tomba.
 
“Ciao Giovà, mi manchi. Oggi è il mio compleanno ma questo tu già lo sai. Lo sai che oggi vado a consegnare la tesi? So che se fossi stato qui, mi avresti sicuramente accompagnata e nonostante avresti cercato di tranquillizzarmi in tutti i modi, quello veramente agitato saresti stato tu.” Risi per un po’. “Mi avresti detto di non avere paura, che il vento tira per tutti. Ma io ho adesso ho paura Giovà.” Rimasi a fissare la tomba attendendo un suo consiglio. Ma il consiglio non arrivò mai. Non mi sarebbe mai potuto arrivare. “Ciao Giovà.” Mi alzai lasciandomi alle spalle la porta della cappella. Le lacrime presero a scendere come una cascata, feci un bel respiro e continuai per la mia strada. Fin quando non arrivai alla cappella Giordano.
 
“Ciao mamma.” Posai i fiori sulla tomba di mia madre, forse stavamo avendo un vero rapporto solo adesso, più discorsi ora di quando era in vita.
 
Poi alzai gli occhi ed eccoci qui. Posai i fiori sulla tomba di mio padre e ripresi il mio soliloquio. “Ciao papà. Oggi consegno la tesi, sai. Spero tu sia soddisfatto lo stesso di me. Nonostante tutto. Michele ha voluto vedere le tue foto l’altro giorno, dice che sembri un attore. Mi dispiace, papà. Ma ho dovuto farlo. Lo so che non puoi capirmi, e non lo voglio, ma se puoi, perdonami. Perdona tua figlia, papà.”
 
Mi spostai da lì perché non riuscivo più a reggere così tante emozioni. Ero in vena di confessioni quel giorno, la verità è che la morte adesso, mi faceva ancora più paura. Ma se moriamo un motivo ci deve essere, ci deve essere per forza. Ma nel mentre che cerchiamo di scoprire il senso della vita, il senso del destino e il senso della morte, provo a non privarmi più di nulla, di fare tutto quello che sento. Chi muore lotta, ma lotta ancor di più chi gli sta intorno, nessuno è pronto nel vedere andar via una persona amata, nessuno è pronto ad accettare le scelte di un presunto Dio.  La verità è che io questo circolo ancora non l’ho capito, com’è possibile ridere con una persona un giorno e il giorno dopo non poterla nemmeno più guardare. Mamma, papà, Giovanni, Michele. Tutti. Non ci sono più. Fino a qualche tempo fa conversavo con loro, ridevo con loro, mangiavo con loro, dormivo con loro e adesso restano solo un ricordo quasi annebbiato. Se me ne rendo solo adesso, è perché io sono così, che il mio sport preferito è arrivare sempre tardi in certe situazioni, quando ormai i momenti sono solo dei ricordi, ma tutto nella mia memoria, nella mia stanza, sulla mia pelle mi ricorda della loro esistenza. Spero che ora possiate riposare bene.
 
Mi avvio per uscire dal cimitero e trovo Giorgia Giraudo. Due chiacchiere giusto per non sembrare due incivili e poi via. Anche lei non smetteva una mattina di andare a trovare suo fratello al cimitero. Giorgia nonostante si fosse sposata con un borghese di Torino, non aveva smesso di frequentare l’università, non gli aveva permesso di decidere per lei sotto questo punto di vista. E io, in fondo, ero fiera di lei, perché sapevo che era anche un po’ a causa mia. Giorgia l’avevo formata io, i pomeriggio studio ervano diventati dei veri e propri corsi di forza femminile. Io era la sua mentore e lei era la mentore delle sue amiche che vivevano solo per la necessità di trovare un marito e di metter su famiglia. Diventare delle mogliettine ricche di borghesi in carriera, andare alle serate mondane ogni qualvolta fosse necessario per integrarsi nella élite della società, avere i posti privati al teatro anche se di opere liriche ne capivano ben poco, crescere i figli in maniera passiva educando le femmine ad essere mogli e figlie esemplari e gli uomini ad essere dei bastardi cinici. Metteranno le corna ai mariti solo per puro svago e passeranno la vita intera ad essere delle ombre sfocate di mariti, fratelli e padri. E nonostante alcune di noi avessero già deciso che via prendere, altre ancora erano rimaste ferme sulla strada di casa.
 
Proseguii per l’università, andando al solito bar lì di fronte per bere il solito caffè macchiato prima delle lezioni o degli esami, ma questa volta era diverso. Ormai ero diventata di casa, tutti i ragazzo che lavoravano lì mi conoscevano alla perfezione. Mi avevano vista cambiare e crescere, avevano assistito a tutti i miei traguardi e alla mia felicità dopo un esame andato benissimo, e a tutti i miei crolli emotivi.  Entrata nell’ateneo, mi diressi direttamente nell’ufficio del professore Marini, bussai alla porta e non appena sentii un ‘avanti’, spalancai la porta.
 
“Uh, la signorina Giordano, prego.” Disse lui risistemandosi sulla sedia.
 
Chiusi la porta e andai a posizionarmi sulla sedia dall’altra parte della scrivania. “Ho finito la tesi.”
 
“Ottimo. Vogliamo vederla?”
 
“Sì.” Estrassi dalla borsa dei fogli volanti e cercai di risistemarli in ordine.
 
“Ma una cartellina, signorina? No eh?”
 
“Eh mi scusi, ha ragione.” Dopo aver sistemato anche l’ultimo foglio, glielo consegnai, osservandolo mentre leggeva attento. Continuava a leggere pagina dopo pagina in maniera attenta, sembrava si fosse immerso pienamente nella lettura della mia tesi, spero gli piaccia. Poi risistemò i foglio e li posò sulla scrivania. E Mi guardò a lungo prima di proferire parola.
 
“Lei scrive veramente bene, signorina Giordano.”
 
“Grazie professore.” Dissi io sorridendo compiaciuta.
 
“No davvero, lei ha talento. Ha una buona ortografia, un lessico forbito. Il linguaggio è chiaro, diretto. Niente da dire veramente. Per non parlare della tematica.”
 
“So che è azzardato, ma lei mi aveva detto che era d’accordo.”
 
“Si, non si preoccupi. Ci uccideranno, ma almeno proviamo a svecchiare un po’ questa università. Ha scelto il titolo?”
 
“Eh si, ma è scandaloso tanto quanto la tesi in sé.”
 
“Dica.”
 
“La poetica di Saffo: la risposta alla sfida del cambiamento.”
 
“I miei più sinceri complimenti signorina. Lei è pronta per sostenere la discussione.”
 
“La ringrazio.”
 
“Ha già un’idea per il futuro?”
 
“Beh, certo.”
 
“Vale a dire?”
 
“Ehm, vorrei intraprendere la carriera accademica, o in extremis nei licei.”
 
Si mise composto sulla sua grande sedia in pelle marrone, poggiò i gomiti sulla scrivania portandosi le mani incrociate sotto il mento, quasi come se volesse reggere il capo. Mi guardava insospettito, quasi preoccupato, come se da un momento all’altro mi avrebbe detto qualcosa di terribile. E così fu.
 
“Signorina non si offenda, ma io ritengo che lei stia un po’ fantasticando. Seppure siamo di comune accordo sul fatto che il mondo, l’Italia, si stia evolvendo verso un futuro, certamente con una nota positiva, io credo che le università italiane non siano ancora pronte a questo.”
 
“Si spieghi meglio.” Lo osservavo un po’ confusa, non riuscivo a comprendere appieno le sue parole.
 
 
“Lei è sicuramente una studentessa eccellente. Ha una mente veramente brillante, è intraprendente, coraggiosa, una donna forte. Ma sta facendo il passo più lungo della gamba, ancora il mondo universitario è legato agli uomini.”
 
“Ma non dobbiamo fare il cambiamento?”
 
“Sì signorina dobbiamo cambiare, ma piano. Le volevo proporre di tentare il concorso come maestra, per creare nuove menti eccezionali come la sua. Sarebbe certamente più indicato per lei.”
 
“Ma se tante volte lei mi ha ripetuto che io sono molto meglio di tantissimi miei colleghi uomini.”
 
“Sì, ma non dipende certamente da me.”
 
Rimasi zittita, non sapevo cosa rispondergli. Quel cambiamento che avevo tanto aspettato, mi si stava ritorcendo ancora una volta contro. Sono stata un’ingenua nel poter credere che finalmente anche la mia possibilità fosse arrivata, ma il vero cambiamento era ancora troppo lontano. Aveva ragione Milena, dovevamo andare via in America. Non volevo più accontentarmi di un futuro mediocre, volevo essere gratificata per tutti i meriti che le altre persone mi attribuivano. Dio ne abbiamo ancora per molto?
 
Salutai il professore ed uscii immediatamente fuori dal suo ufficio e da quell'università. Mi aveva comunicato che tra un mese e mezzo esatto avrei sostenuto la discussione per la laurea. Ero pronta, ma non più felice come prima, anzi ero solo arrabbiata.
 
Quella mattina sarei dovuta andare a prendere Emilia e la sua famiglia alla stazione e così feci non appena uscita dall’università. Arrivata in stazione vidi subito Emilia, suo marito Federico e le sue bambine, Marianna che più cresceva e più somigliava a sua madre, la piccola Claudia e la minuscola Andreina di nemmeno 5 mesi, era solo un fagottino ancora. Corsi immediatamente verso Emilia e la abbracciai forte.
 
“Buon compleanno sorellina.”
 
“Grazie Emilia. Dai, dammi queste valigie.”
 
“Auguri zia” Le bambine si avvinghiarono alle mie gambe e io mi abbassai per abbracciarle, poi presi in braccio Andreina e me la coccolai per bene.
 
“Dai, andiamo a casa. Che gli altri devono essere già arrivati.”
 
Arrivati a casa, come ben pensai, ad aspettarmi trovai tutti. C’erano Milena e Suor Costanza a cucinare. Rossella e Rocco con i piccoli Carlo e Vittorio che giocavano con Michele e Salvo in giardino, e in giardino Anna, Crusca, Lupo, Harlem e Terùn. Ma appena mi videro arrivare applaudirono forte e iniziarono ad intonare la canzoncina “Tanti auguri a te”. Io mi misi immediatamente a ridere dando un grazie generale a tutti e presentando Emilia.
 
“Ma ho una domanda per Rocco e Rossella, la nave ci ha messo così poco?”Dissi io togliendomi la giacca e accendendomi una sigaretta.
 
“Eh sii, tu vivi ancora nel passato Alba.” Mi disse Lupo spingendomi il braccio verso avanti.
 
Tutti si misero a ridere, ma io continuavo a non capire.
 
“No Alba, abbiamo preso l’aereo. Non puoi capire, una paura terribile. Ma ci hanno detto che era più facile e più veloce.” Mi disse Rossella, continuando a ridere.
 
“L’aereo?” Disse Milena invitandoci a sedere a tavola.
 
“Eh si l’aereo Milè.” Disse Rocco ridendo.
 
“La cosa più emozionante che ho preso io è stato l’ascensore.” Disse Milena continuando a ridere.
 
“Ma tu sai che da poco abbiamo acquistato una diavoleria.” Disse Lila posizionandosi il tovagliolo sulle ginocchia.
 
“Che cosa?” Disse Anna stranita.
 
“Ma lasciatela perdere che dice stupidaggini. Abbiamo comprato un televisore, ci serviva.” Disse Rocco iniziando a tagliare la carne.
 
“You are joking?” Disse Lila guardandolo male.
 
“Eh no qua dovete parlare in italiano.” Disse Lupo.
 
“Ma infatti, cos’è sto televisore?” Disse Crusca.
 
“Amore, televisore non è inglese.” Disse Anna ridendo e prendendogli le mani.
 
“Il televisore è la radio dei ricchi. Praticamente è uguale, dovevamo vedere le immagini perché soltanto il suono non ci bastava. Poi per quello che ci è costato.” Disse Lila continuando a lamentarsi.
 
“Va beh Lila sei nel futuro mettila così.” Dissi io continuando a sfotterla.
 
Continuammo a ridere per tutto il pranzo, mi mancava tantissimo passare del tempo con tutti i loro e per la prima volta anche Emilia rideva insieme ai miei amici, per la prima volta le piacevano. Quell’insicurezza che avevo appena uscita dall’università era scomparsa, adesso ero davvero felice come quando passavamo le serate a bere e conversare del più e del meno durante la resistenza. Era bellissimo ancora una volta bevevamo, fumavamo, mangiavamo, conversavamo di cose serie e di sciocchezze e soprattutto ridevamo. Ognuno con le proprie vite, ognuno proprio con le proprie nuove strade, ognuno con i propri sogni e le proprie ambizioni. Ma nonostante potessimo apparire completamente lontani, in realtà eravamo molto vicino. In mezzo a questo grande mondo, c’eravamo noi che riuscivamo sempre a trovare la forza di rivederci e ridere. Ma continuava a mancare qualcuno. Mi alzai in piedi con il bicchiere di vino.
 
“Vorrei dedicare questa giornata a qualcuno.”
 
Tutti alzarono il bicchiere verso di me.
 
“Vorrei dedicare questo giorno a Michele.”
 
“A me mamma?” Disse il piccolo Michelino. E tutti risero con una nota di tristezza velata.
 
“Si anche a te amore mio. Ma anche ad un altro Michele, che purtroppo oggi non può essere qui con noi, ma sono certa che avrebbe amato una cosa del genere. Lui è con noi anche se non c’è fisicamente. A Michele.”
 
“A Michele.” Ripeterono tutti in coro.
 
   
 
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