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Autore: Adeia Di Elferas    02/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ammetto che quella donna sta dimostrando una grandezza d'animo che non m'aspettavo – disse a voce bassa il Balì di Digione – ma questo mi interessa relativamente.”

“Lo sappiamo...” borbottò il Vendôme, con un sospiro: “Ma quello che conta è che siate dalla nostra.”

“Dite che si può fare?” chiese Antonio da Baissay e Luffo Numai, che era accorso a quella sorta di riunione segreta notturna su invito dell'Aubigny.

Il forlivese si morse il labbro e mise in chiaro: “Solo se appoggerete la mia nomina come rappresentante cittadino, per andare a Roma dal papa.”

Quella condizione gli importava davvero: sapeva che, in un modo o nell'altro, alla fine la Tigre sarebbe stata portata dal pontefice e lui voleva provare a seguirla. In più, mostrandosi ostinato su quel punto, sviava qualsiasi possibile dubbio circa la sua lealtà ai francesi. In quel modo, infatti, non sembrava un uomo desideroso di aiutare una donna alla quale voleva bene come a una figlia, ma quanto più un uomo ambizioso in cerca di una carriera sfolgorante e rapida.

Solo l'Aubigny, tra i francesi presenti, parve capire che sotto alle pretese di Numai ci fosse qualcosa che andava oltre la fame di successo. Tuttavia, essendo quel dettaglio per lui ininfluente, fece finta di nulla.

Sollevando lentamente il calice da cui stava bevendo, concesse: “Tra i quattro prescelti ci sarete anche voi.”

Si trovavano nella cantina del palazzo di Marco Antonio Paolucci. Per Luffo era strano trovarsi nella casa che un tempo era stata anche di sua moglie a complottare contro il Valentino, fingendo, però, di essergli ancora fedele. Se non fosse stato per la luce forte delle tante candele e per l'odore acre del vino che stavano bevendo, vivi come non mai, avrebbe creduto di trovarsi in un sogno incomprensibile.

“Dunque ci lascerete entrare, domani notte?” chiese il Balì, in cerca di un'ulteriore conferma.

“Sicuramente.” accettò Luffo: “Voi e tutti quelli che porterete con voi.”

“Quella donna – concluse l'Aubigny, impassibile come sempre, ma con qualcosa che sfiorava la commozione a incrinargli appena la voce – tollera la prigionia con il seguito delle sue sciagure così valorosamente da non poter non suscitare ammirazione, per tanta superiorità d'animo.”

“Sì, sì...” tagliò corto Antonio di Baissay, riportando subito il discorso a un tono più triviale: “Ma quello che importa a me sono i soldi: quella donna l'ho presa io! Io ho comandato le squadre svizzere, quelle che hanno fatto la differenza! E non ho avuto un vantaggio proporzionato alla cattura fatta dal mio soldato in quella torre!”

“Sia come sia – si intromise il Vendôme, cercando di suonare conciliante – prima che venga l'alba di mercoledì, la Tigre sarà in mano nostra e tutti noi avremo avuto quello che vogliamo.”

In effetti i motivi che stavano spingendo i quattro uomini riuniti a rischiare una simile mossa erano quattro motivi diversi. Numai, ovviamente, voleva salvarla dalle atrocità a cui il Borja la stava costringendo. Il Vendôme si sentiva investito del dovere di preservare i diritti del re di Francia, e gli sembrava che il Valentino stesse calpestando l'autorità di re Luigi, tenendosi quella prigioniera solo per sé. L'Aubigny era spinto da un ideale che andava oltre la rivalità che li aveva visti fronteggiarsi in guerra: per lui Caterina Sforza era uno dei migliori esempi di virtù militare e, pur se sconfitta, andava rispettata. Il Balì di Digione, invece, voleva semplicemente i soldi che sentiva di meritare.

“Allora domani notte – concluse proprio Antonio – andremo a palazzo Numai in piene forze. E, che al figlio di quel diavolo di papa piaccia o no, la Leonessa di Romagna mercoledì mattina si sveglierà in questo palazzo, sotto la nostra protezione.”

Un brindisi silenzioso accolse quelle parole e, come uniti da un patto indissolubile, i quattro uomini si salutarono, dandosi appuntamento alla notte seguente.

 

Biagio Malacrida, poco dopo il tramonto, aveva accolto con freddezza sia Andrea da Fano, sia Giuliano di Ligny.

Se il primo, però, si era in fretta scrollato di dosso l'indisponenza del condottiero a capo del castello di Musso, il francese era rimasto molto più offeso dalla mancanza quasi totale di riconoscenza con cui era stato salutato.

Andrea si era messo immediatamente a sistemare le truppe fresche negli alloggiamenti e dar disposizioni circa lo scarico delle armi da parte del suo equipaggio raccogliticcio, mentre il Ligny era rimasto in disparte quasi tutto il tempo, osservando in silenzio ogni cosa. Solo di quando in quando l'uomo aveva posto qualche domanda mirata ai soldati che erano già di stanza al castello.

La paura era il sentimento dominante tra loro, il che sarebbe potuto diventare un enorme problema, una volta che Ludovico Sforza fosse arrivato fino a lì. Il rischio di vedere la fortificazione cadere in mano nemica ancor prima di combattere non era così remoto.

Passata qualche ora, non appena il Da Fano ebbe concluso le opere di sbarco, restituì a Don Giuliano, com'era giusto, il comando. Questi, dopo averci ragionato un po', ben sapendo che a breve i marinai improvvisati che li avevano scortati fin lì avrebbero chiesto moneta contante per il loro impegno, ragionò su un modo veloce e pratico di liberarsene senza doverli pagare.

“Voglio che tutto il bracheggio – disse, rivolgendosi ai comaschi che attendevano di sapere il loro destino – torni via lago al porto di Como.”

“E la nostra paga?” chiese un membro della ciurma: “Abbiamo fatto il lavoro, siamo arrivati qui a Musso senza problemi: vogliamo esser pagati!”

Al che il Ligny sbatté più volte le palpebre e, affettato come di rado sapeva essere, rispose: “Ma infatti verrete pagati profumatamente al vostro arrivo a Como. Là c'è un emissario di re Luigi con i ducati che vi aspettano. Ducati d'oro.” precisò.

Qualcuno parve allettato dall'idea, tanto che certi già stavano tornando alle barche, per salpare l'ancora, mentre altri, più avvezzi alle furberie dei potenti, tergiversavano.

Tra loro, senza che né Don Giuliano né altri potessero sospettarlo, c'erano anche dei partigiani del Moro. Non avevano interessi politici, né a loro importava nulla del Ducato di Milano. Sapevano solo che finché c'era stato lo Sforza, i loro guadagni con i commerci via lago erano alti, a volte altissimi, mentre ora che i francesi avevano portato la guerra in Lombardia, se non fosse stato per i pesci che pescavano personalmente, avrebbero fatto fatica a mangiare tutti i giorni.

“Noi restiamo qui.” disse uno di loro: “Ora che le barche sono scariche, bastano la metà di noi, per condurle a Como. Noi restiamo qui. A combattere per voi...”

Il Ligny fu sul punto di imporsi e rifiutare categoricamente quella proposta. Non lo fece, però. Si trattava, a suo modo di vedere, di soldati non esperti, certo, ma che avrebbero potuto tornare utile come carne da cannone.

“E sia.” concesse: “Ma verrete pagati solo a fine campagna.”

“Mi sta bene.” concluse quello che si era fatto portavoce per tutti.

E così, quella mattina del 21 gennaio, mentre sorgeva un'alba ghiacciata, metà dei comaschi tornò a Como con le barche, sperando in una lauta ricompensa in ducati d'oro, mentre l'altra metà rimase al castello di Musso, in attesa di fare il necessario per appoggiare il Moro, in barba alle false promesse di Don Giuliano di Ligny.

 

La giornata era passata veloce, e Luffo non aveva avuto quasi tempo per pensare. La città aveva deciso quali fossero i quattro rappresentanti da mandare a Roma e, come previsto, tra loro c'era anche lui.

Aveva volto la pressione nemmeno tanto velata fatta da un paio di francesi presenti, ma aveva anche capito che non era stata determinante: i forlivesi l'avrebbero scelto comunque.

Numai, Guglielmo Lambertelli, Bartolomeo Lombardini e Simone Ambruni sarebbero stati nominati ufficialmente come ambasciatori solo il giorno dopo, ma ormai era una cosa comunque abbastanza sicura.

Ne aveva parlato anche con sua moglie, cercando di rassicurarla sul fatto che, anche se lui fosse stato lontano, con lei sarebbero rimasti i loro figli. La Paolucci, in un primo momento, era rimasta in silenzio. Solo dopo un buon quarto d'ora, si era decisa a dire quello che pensava.

“Già che ci siamo messi in questo guaio – aveva detto, alzando gli occhi al cielo con fare quasi fatalista – tanto vale andare fino in fondo.”

E Numai, che la conosceva molto bene, aveva capito che la sua Caterina era d'accordo e, anche se non voleva dire apertamente quanto anche lei, ormai, tenesse alla salvezza della loro signora, Luffo fu sicuro che anche lei avrebbe fatto tutto il necessario, pur di difendere la Tigre.

Così era venuta l'ora di cena e, finito di mangiare, il forlivese aveva detto alla consorte e ai figli di ritirarsi pure per la notte, mentre lui avrebbe vegliato ancora un po'.

Si era messo in uno dei salottini, ben sapendo che fin dopo la mezzanotte non sarebbe arrivato nessuno. Ogni tanto, cauto, saliva un momento al piano di sopra, passando silenziosamente davanti alla porta della camera del Borja. Cercava di cogliere qualche suono o qualche parola, ma, le poche volte che sentì effettivamente qualcosa arrivare dall'interno, si trovò a dirsi che avrebbe preferito non udire proprio nulla.

In realtà avrebbe voluto trovare un momento favorevole per sgattaiolare un attimo in stanza, approfittando magari di una momentanea uscita del Borja, per preparare la Sforza a quello che sarebbe accaduto quella notte. Avrebbe voluto poterle dire che dei francesi sarebbero venuti a prenderla, e che non doveva opporre resistenze di alcun tipo, perché si trattava di una cosa per lei molto vantaggiosa. Avrebbe voluto spiegarle che lui era d'accordo, che sarebbe andato a Roma dal papa, che era riuscito, bene o male, a mantenere tutte le promesse che si erano scambiati prima dell'inizio dell'assedio. Avrebbe anche voluto dirle che le avrebbe fatto indossare un vestito consono, per uscire in strada, benché fosse piena notte e non vi fosse nessuno a vederla.

Quel pomeriggio, infatti, i sarti avevano portato i tre abiti nuovi della Leonessa. Numai, con discrezione, li aveva presi in consegna e li aveva sistemati in un luogo sicuro, pronto a consegnarli al Balì di Digione, nel momento in cui fosse arrivato a palazzo a reclamare la prigioniera. Luffo non voleva per nessun motivo che la sua signora uscisse da casa sua con addosso una vestaglia logora, o, ancor peggio, nuda.

Il forlivese si era messo su una poltroncina imbottita, non lontano dal camino che andava spegnendosi. Rivolgeva le spalle alla finestra, ma era certo che si sarebbe accorto, quando i suoi ospiti fossero arrivati. Infatti, immerso nella quasi totale oscurità, Numai sentiva tutti i suoi sensi tesi, tanto che udì subito lo scalpicciare degli zoccoli e il vociare basso dei francesi.

Deglutendo, le mani che sudavano, Luffo si alzò, si sistemò con cura il giubbetto, in modo da eliminare le pieghe, e poi si avviò al portone del palazzo, pronto ad accogliere il Balì e i suoi uomini.

Mentre Antonio di Baissay, salutando con un cenno del capo il padrone di casa, varcava l'uscio, le campane della città batterono due rintocchi.

Il Balì aveva portato con sé molti ufficiali francesi, tra cui anche il Vendôme e l'Aubigny, e, appena fuori dal palazzo, aspettavano ben trecento fanti, pronti a entrare in azione nel caso in cui il figlio del papa avesse alzato troppo la voce.

In un silenzio irreale, i notabili francesi salirono le scale, fino alla camera in cui era detenuta la Tigre. Antonio prese fiato e poi, con il pugno chiuso, colpì la porta quattro volte.

Si sentirono dei rumori confusi, ma nessuno arrivò ad aprire. Il Balì provò di nuovo, ma questa volta aggiunse anche un 'aprite' che non ammetteva repliche.

Ci vollero un paio di minuti, prima che Cesare giungesse alla porta e la spalancasse. Portava brachette da camera, probabilmente appena infilate, e aveva i capelli scompigliati e gli occhi cerchiati. La sua espressione spaventata lasciò intendere quanto fosse sorpreso di trovarsi davanti così tanti uomini di rango a quell'ora di notte.

“Che volete?” chiese, con un filo di voce.

Il Balì scrutò oltre le sue spalle, intravedendo la Leonessa stesa tra le lenzuola, intenta a coprirsi e, per la prima volta, sentì che le trattative della sua custodia non erano nemmeno per lui una mera questione economica.

“Sono venuto a prendere la Contessa.” spiegò, gonfiando il petto.

Il Valentino guardò lui e poi tutti gli altri, e, abbozzando una risata, chiese: “Come?”

“Io reputo una mia vergogna che la Contessa resti prigioniera contro le leggi di Francia alle quali lei si è affidata.” continuò Antonio.

“La chiamate Contessa, ma questa donna ormai non è più nulla. Solo una preda di guerra.” mise in chiaro il Borja.

“La Contessa Sforza – insistette il francese – ha combattuto alla pari con noi e merita il rispetto che di norma tributeremmo a un nemico sconfitto in modo onorevole. In più, evocando la legge francese, voi non avete più giurisdizione su di lei.”

“Mi spiace se voi ve ne risentite tanto – provò a ribattere il Duca – ma qui non siamo in Francia, e...”

“Voi siete sotto la protezione del re di Francia.” gli ricordò l'Aubigny, affianco al Balì, parlando con un filo di voce, fissandolo con i suoi occhi quasi trasparenti: “Re Luigi non sarà contento di sapere quello che avete fatto in questi giorni. State ledendo la sua onorabilità. E quando qualcuno diventa un problema, il nostro sovrano sa bene come fare...”

Cesare all'improvviso capì la gravità della minaccia. Non si trattava più di dare quattro soldi ad Antonio di Baissay, né di cavarsela con un po' di dialettica, facendo lo spaccone con dei mercenari che, in realtà, della Francia conoscevano solo il valore della moneta.

“Fuori da questo palazzo – fece il Balì, pensando che al Valentino servisse un incentivo in più per convincersi – ci sono trecento fanti che aspettano un mio segnale. Possono tornarsene ai loro alloggi a dormire, o entrare e correre su per le scale, farsi largo e prendere con la forza la Contessa. A voi la scelta.”

Cesare si prese un minuto per pensare. Si trovava stretto in una morsa letale. Da un lato, c'era suo padre. Il papa gli aveva fatto recapitare proprio quella sera una missiva in cui gli ribadiva di volere la Sforza a Roma, per poterla interrogare di persona, al fine di estorcerle notizie sui suoi figli.

Dall'altra, c'era il pericolo immediato: chi poteva assicurare che, nella cruenta azione per recuperare la prigioniera, qualcuno dei trecento fanti non gli infilasse – per puro caso, avrebbero detto tutti – una spada in pancia?

Sudando freddo, il ventiquattrenne scelse la strada più sicura, convinto che, in breve, avrebbe trovato il modo di aggiustare meglio la cosa: “E va bene...” concesse: “Se per voi è proprio questa grande questione d'onore, sia onore al re di Francia...”

“Finalmente ragionate.” constatò il Balì che, con un cenno ai suoi, entrò subito in stanza.

Caterina, nel vedersi piombare in camera due dozzine di francesi vestiti riccamente, si raggomitolò come meglio poteva contro la testata del letto a baldacchino. Annebbiata dalla paura, dalla fame e dalla stanchezza, vedeva in tutti loro solo possibili pericoli.

“Vi portiamo via di qui.” le spiegò l'Aubigny, parlando per primo: “Vi portiamo in salvo. Ora non siete più una prigioniera di guerra, ma solo un ostaggio di pregio.”

La Tigre ci mise qualche secondo, prima di capire. Malgrado fosse ancora molto diffidente, le parve di vedere nei volti di quegli uomini, considerati nemici fino a poco prima, una speranza concreta.

“Più tardi – fece presente il Balì di Digione, rivolgendosi al Valentino, senza dargli alcuna possibilità di replica – verremo a prendere anche le dame di compagnia della Contessa, e il suo coppiere. Fanno parte del suo seguito, e, inoltre, almeno per quanto riguarda le donne, rientrano nella legge che le vuole protette e non violate e umiliate, come sembra essere vostro costume a Roma.”

Mentre Luffo Numai si infilava con fare casuale in stanza, facendo presente che c'erano degli abiti freschi e puliti da far indossare alla Sforza, Cesare si ritirò. Non voleva assistere alla partenza della sua preda. Per lui era più che una sconfitta personale: era una provocazione.

Chiusosi nello studiolo personale di Numai – messo, come buona parte del palazzo, a sua completa disposizione – il Borja vergò una lettera breve, ma perentoria per l'Alégre. Voleva averlo al suo fianco, per decidere come muoversi. Tra tutti, Yves era l'unico che non si era unito al colpo di mano del Balì: un motivo doveva esserci.

Chiudendo in fretta il messaggio, il Valentino lo portò personalmente alla staffetta più veloce che aveva al suo servizio, e gli intimò di correre a Forlimpopoli più veloce che potesse, a costo di far schiumare il cavallo.

La Tigre, intanto, aveva indossato uno dei due abiti meno pretenziosi che le erano stati fatti confezionare dal Valentino. Sorretta quasi di peso dal Balì e dall'Aubigny, era scesa al piano di sotto e poi, in strada, era stata circondata dai fanti svizzeri e aveva attraversato la via, diretta a casa Paolucci.

Non riusciva nemmeno a esprimere quello che provava in quel momento. Benché ogni passo le costasse molta fatica, essere stata sottratta al suo aguzzino le dava un senso di libertà quasi folle, paragonabile solo al momento in cui aveva visto il cadavere del suo primo marito cadere dalla finestra del loro palazzo, in pasto alla folla.

Anche se avvertiva ancora la morsa, sulle braccia, dei due francesi che la sorreggevano, di fatto l'aria fresca che le riempiva i polmoni la esaltava. Finalmente era uscita dal tanfo stantio della stanza del Valentino. Sentiva il cuore battere veloce, ma non per la paura. Le sue gambe si muovevano lente, ma decise. In quella notte, così fredda da far sollevare una nuvola di vapore ogni volta in cui lei respirava, Forlì le parve la città più bella del mondo.

Le spiaceva solo di non aver potuto ringraziare come avrebbe voluto Luffo – perché era certa, dal modo in cui lui si era atteggiato, durante la sua partenza, che c'entrasse qualcosa con la sua liberazione – ma, per il resto, era solo felice di aver lasciato palazzo Numai.

Per strada non incontrarono nessuno, se non qualche soldato francese che, incuriosito, aveva seguito il piccolo corteo fino a destinazione, andando solo a ingrossare la già cospicua scorta della Tigre.

Arrivati a casa si Marco Antonio Paolucci, l'Aubigny chiese: “Mia signora... Desiderate qualcosa?”

“Siamo in piena notte – rispose incerta la donna – non voglio dare incomodi alla servitù.”

“Qui siete padrona.” fece Antonio di Baissay, scuotendo il capo: “Dovete dire quello che volete e noi ve lo procureremo. Certo, nei limiti della vostra condizione di ostaggio.”

La Tigre, che avrebbe innanzitutto voluto sapere quando, di preciso, le donne che aveva spacciato come sue dame da compagnia e Baccino sarebbero arrivati, provò a dar comunque voce ad alcuni suoi bisogni primari.

“Vorrei un bagno caldo, se si può.” disse, tenendo gli occhi bassi: “Dell'acqua da bere. E del cibo.”

“Ogni vostro desiderio è un ordine.” sorrise mellifluo l'Aubigny.

 

L'Alégre, che aveva preso alloggio nella rocca di Forlimpopoli, trasecolò quando, poco prima delle tre e mezza di notte una staffetta arrivò a cercarlo.

Il ragazzo, che portava un messaggio del Valentino, appariva stremato e anche il cavallo aveva bisogno urgente di qualcuno che lo accudisse e gli desse da bere.

Yves aprì subito la lettera, restando alla luce di una torcia a muro. Se non fosse stato già un po' avvezzo alla grafia del Borja, probabilmente non avrebbe capito nemmeno una delle parole che aveva nervosamente messo nero su bianco.

Il Duca di Valentinois, in breve, gli chiedeva di correre immediatamente a Forlì, perché era occorso una gravissimo e increscioso fatto riguardante Caterina Sforza. Non spiegava di preciso cosa fosse successo, ma sottolineava come dal risolvimento di quel garbuglio poteva dipenderne non solo la sua vita, ma addirittura l'intera campagna militare.

L'Alégre, abbastanza a conoscenza delle tendenze un po' melodrammatiche che a volte rendevano gli atteggiamenti del figlio del papa eccessivi, fu per quasi dieci minuti indeciso se dargli credito o meno.

Nel dubbio, si disse che correre a Forlì non era poi un grave sacrificio: al massimo, se arrivato in città avesse scoperto che l'incendio sbandierato dal Valentino fosse stato solo una fiammella, avrebbe sempre fatto in tempo a tornarsene tranquillamente a Forlimpopoli la mattina dopo.

Così, lasciando detto a Tiberti che sarebbe tornato il prima possibile, fece sellare un cavallo e partì a spron battuto in soccorso di Cesare.

 

Caterina era ancora immersa nell'acqua, che ormai si stava freddando. Era in una stanza enorme, ed era da sola.

Sapeva che alla porta c'erano due guardie, ma, a quel punto, le vedeva quasi come una sicurezza per sé, che non come dei cagnacci messi lì per impedirle di scappare.

Il modo in cui i francesi l'avevano strappata al Borja, ne era certa, avrebbe avuto sul figlio del papa un effetto deleterio. Come minimo, stava già architettando una vendetta e lei, di certo, sarebbe stata una dei possibili bersagli.

Cercando di non pensare per qualche momento all'uomo che era stata la sua unica orrenda realtà per oltre una settimana, la donna si sfregò ancora le cosce, le gambe e poi tornò su, alla braccia e al collo.

Per quanto cercasse di pulirsi, non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di sporco che l'accompagnava da giorni. Forse era solo suggestione, eppure le sembrava di sentire ancora l'odore del Valentino sulla sua pelle.

Con un sospiro, si accoccolò contro la parete della tinozza e occhieggiò verso il tavolinetto su cui giaceva ancora quasi tutto il cibo che le avevano portato. Anche se aveva attaccato con voracità la carne arrosto, aveva dovuto fermarsi quasi subito per contrastare i conati di vomito. Aveva lo stomaco così vuoto da non poter ingerire più di un paio di bocconi per volta.

Con lentezza, dopo essersi immersa ancora un momento, la Sforza si puntellò contro il bordo di legno e, con difficoltà, uscì.

Le avrebbe fatto comodo avere qualcuno che l'aiutasse, ma era stata lei stessa a chiedere di poter restare da sola. Si avvolse con delicatezza nel telo da bagno, asciugandosi con cura, strizzandosi i capelli e sentendo i muscoli che, finalmente, si rilassavano.

Era dalla notte in cui aveva perso Ravaldino che non aveva un momento di pace solo per se stessa.

Con ancora addosso solo il telo, riscaldata dal fuoco vivissimo del camino, andò di nuovo davanti alle ricche pietanze che le erano state offerte. Sbocconcellò un po' di pane nero e poi provò a mangiare un altro pezzetto di carne. Avrebbe voluto divorarlo per intero, ma già al terzo morso dovette smettere di nuovo.

Con un sospiro, guardò verso la vestaglia da notte che le avevano prestato. La indossò con attenzione. Le stava leggermente stretta, ma le pareva perfetta.

Le avevano concesso un letto come piaceva a lei: senza baldacchini, senza fronzoli di nessun tipo.

Si trattava di un letto di poco più bello di quelli usati dai soldati, ma per la Leonessa era il paradiso in terra. Ebbe il sospetto che la moglie di Numai, se non Numai stesso, avesse anticoipato ai parenti le sue preferenze. Compiacendosi dell'ospitalità dei Paolucci, si infilò sotto le coperte, senza spegnere nessuna delle candele: non voleva restare al buio.

Sentendosi in bocca ancora il sapore dell'arrosto, chiedendosi cosa sarebbe successo dall'indomani in poi, la donna si rigirò tra i guanciali soffici e, avvertendo per la prima volta da giorni una sensazione molto simile alla sicurezza, si addormentò.

 

 
   
 
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