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Autore: Adeia Di Elferas    06/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare non aveva fatto che rimuginare, quella notte. Era perfino stato sul punto di andare nella stanza in cui aveva fatto rinchiudere la Sforza, ma poi aveva desistito, per paura che qualcuno facesse la spia, causandogli problemi seri con il Balì di Digione e tutti i suoi sostenitori.

Sapeva che ci sarebbe stato ancora da fare, lì in Forlì, e non avrebbe voluto partire prima di essersi ricongiunto con Michelotto – che ancora non aveva potuto partire da Imola – ma voleva spostarsi, andare oltre. Più tempo fosse rimasto in città, lo sentiva, più sarebbero state numerose le occasioni per i suoi alleati – se così si poteva davvero chiamare – per accusarlo, anche falsamente, di non aver rispettato i patti.

“Cercatevi un buon vestito – disse, prima dell'alba, a Luffo Numai, che, come lui, aveva passato la notte insonne e si era presentato alla tavola della colazione prima che fosse giorno – ché oggi presterete giuramento e poi partirete.”

“Andremo a Roma?” aveva chiesto il forlivese, cercando di celare la propria agitazione.

“Voi e gli altri tre portavoce cittadini sì.” aveva annuito il Borja.

“Voi no?” era stata la debole reazione di Luffo.

“Io ho altro da fare, prima di tornare a Roma.” aveva chiuso, lapidario, la questione il Valentino.

In effetti, il figlio del papa aveva in mente di non seguire alla lettera il piano iniziale – ovvero prendere Pesaro prima di tornare all'Urbe – ma di sostare in Forlimpopoli, al solo scopo di indebolire ancora di più la sua prigioniera. Dunque, sarebbe andato anche lui a Roma, ma non alla stessa velocità con cui voleva spedirvi i quattro forlivesi che avrebbero giurato fedeltà al papa.

Seppur al di sopra di ogni sospetto, erano comunque quattro uomini che fino a pochi mesi prima avevano fatto parte del governo della Tigre. Non sarebbe stato prudente viaggiare con loro.

Così Cesare una trombetta a richiamare l'esercito, affinché si preparasse subito alla partenza. La suddetta trombetta, però, incontrò fin da subito delle difficoltà non indifferenti.

La maggior parte dei soldati, essendosi alloggiati ottimamente nelle case dei cittadini, quando sentirono il richiamo non si alzarono nemmeno dal letto, continuando a dormire come se fosse una questione che non li toccasse.

La trombetta fece il giro delle strade per ben tre volte, mentre il cielo andava rischiarandosi, ma ebbe qualche effetto solo quando cominciò a minacciare, parlando di forca per quelli che non avessero ubbidito nel giro di pochi minuti.

Il Borja faceva finta di non sapere quanta fatica stesse facendo il suo emissario, nel far rispettare l'ordine, e si stava occupando di un'altra incombenza, che andava assolutamente risolta prima di partire.

Cesare, accompagnato da tutti i suoi generali in armatura da parata, raggiunse il Duomo, dove assistette alla Messa dello Spirito Santo.

I forlivesi più curiosi, accorsi per vedere il Duca incedere in mezzo ai suoi sottoposti francesi, aspettavano anche un altro momento, che non tardò ad arrivare: il giuramento dei quattro cittadini che sarebbero andati anche a Roma a ribadire la propria fedeltà, a nome di tutta Forlì, anche davanti al papa.

Mezzo nascosto, tra la piccola folla che allungava il collo per vedere bene in viso Luffo Numai, Guglielmo Lambertelli, Simone Ambruni e Bartolomeo Lombardini, c'era anche Andrea Bernardi.

Il Borja gli aveva chiesto espressamente di parlare diffusamente di quella cerimonia e della partenza in pompa magna che sarebbe seguita a breve e, a quello scopo, gli aveva anche proposto di stare al suo fianco, in posizione privilegiata. Il Novacula, però, aveva preferito declinare, dicendo che una cronaca dei fatti si scriveva meglio ascoltando anche gli umori della gente e non stando sul palco con gli attori principali.

Cesare non aveva avuto nulla da ridire e, anzi, con il senno di poi, mentre ascoltava distrattamente le parole dei quattro forlivesi che si proclamavano fedelissimi sudditi del papa, si pentì di non aver trovato una scusa e aver disertato lui stesso quella pagliacciata.

Aveva dato ordine che la gran parte dell'esercito li anticipasse, partendo subito dopo il giuramento, mentre lui, con la sua prigioniera, alcuni comandanti francesi, e una guardia selezionata, avrebbero intrapreso il cammino in un secondo momento, seppur sempre quel 23 gennaio.

Finito il giuramento – con grande sollievo di tutti – il Borja fece un cenno ai suoi ufficiali e poi salutò la folla, come a dire che lo spettacolo era finito e che tutti potevano tornare alle proprie case.

Tuttavia, anche se nell'arco di una mezz'ora qualche colonna di soldati aveva già imboccato Porta San Pietro ed era uscita da Forlì, la maggior parte dei tedeschi e degli svizzeri si erano radunati in piazza e non accennavano a muoversi.

Chiesto a un suo attendente di informarsi su cosa stesse accadendo di preciso, il Valentino venne a sapere che le truppe avevano dichiarato uno stato di agitazione che si sarebbe placato solo previo versamento di una discreta somma di denaro.

“Come sarebbe a dire!” sbottò Cesare, trasecolando: “Abbiamo promesso ieri di distribuire le paghe! Ho promesso sul mio onore, tutti mi sono stati testimoni, e l'Alégre mi è mallevadore!”

Mentre diceva questo, il suo sguardo incrociò per la frazione di un secondo quello del Balì di Digione, che sembrava ridersela sotto i baffi. Forse fu solo un'impressione, ma al figlio del papa bastò come conferma: se tedeschi e svizzeri, che di fatto erano quasi tutti sotto il diretto controllo di Antonio, si stavano azzardando a mostrare una simile insubordinazione, era probabile che proprio il loro comandante avesse dato loro il suo beneplacito.

Senza pensarci sopra nemmeno un minuto, sdegnato, il Duca di Valentinois strinse le redini del suo cavallo e, spronandolo con violenza, lo condusse in mezzo alla piazza. Benché fosse terrorizzato all'idea di trovarsi in mezzo a tanti uomini armati e inferociti, il giovane si mostrò deciso e spavaldo.

“La paga promessa – gridò, sperando che tutti lo sentissero e lo capissero – l'avrete a Cesena!”

Malgrado l'autorevolezza con cui aveva parlato, però, nessuno mosse un muscolo. Lo fissavano, come chiedendosi chi fosse quel ragazzo che parlava loro come se fosse un comandante. Per loro il Borja era stato, fino a quel momento, una figura evanescente, scostante e quasi impalpabile. Ora che lo vedevano in mezzo a loro, senza mostrare paura, quasi non lo riconoscevano.

Cesare faceva del suo meglio per nascondere tutto quello che provava, dal panico alla rabbia, e si sorprendeva lui per primo del modo in cui stava tenendo il punto della situazione. Anche se non lo stavano ancora obbedendo, pensò, il momento della svolta era vicino.

Ripensò alla Tigre di Forlì, al modo in cui era riuscito non solo a metterla in catene, ma anche a farsela rendere dal tracotante Balì di Digione, e, di colpo, si sentì a sua volta un leone capace, però, di vestire i panni della volpe quando necessario.

“Verrete pagati! Ma a Cesena!” ribadì il Borja: “Cosa non vi convince in questo?”

Alcuni dei soldati che gli stavano più vicini cominciarono a borbottare, dicendo che, una volta presa la rocca e la Sforza, sapevano che lui non aveva più intenzione alcuna di pagarli per i loro servigi.

“Ma è la mia parola d'onore!” sottolineò Cesare, cominciando, però, ad avvertire di non avere più il coltello dalla parte del manico, anzi, quel manico gli stava scivolando di mano a una velocità allarmante.

Così, tirando le redini del cavallo, lasciò la piazza, raggiungendo il Vendôme, che sapeva essere un comandante amato, ma anche molto temuto, gli spiegò che fare.

Quegli, non vedendo altra scelta, per quanto non volesse immischiarsi, annuì e, andando a prendere il posto del Borja nel centro della piazza, sbraitò: “Se non partirete, faremo suonare a martello la Campana del Popolo! E il Duca in persona comanderà ai forlivesi di passarvi tutti a fil di spada!”

Ci fu poca razionalità nella reazione dei soldati, dato che i forlivesi di cui parlava il Vendôme erano pochi, quasi tutti inabili alle armi, e decisamente poco inclini a quel genere di azioni, anche se costretti. Mossi più dall'emotività che da un ragionamento coerente, tedeschi e svizzeri si spaventarono come non mai e, senza che vi fosse bisogno di ripetere la minaccia, in pochi minuti tutti si stavano preparando per partire.

“Siete stato bravo.” commentò amaramente Cesare, quando il francese gli tornò accanto: “Anche se avrei preferito che rispettassero così i miei ordini e non i vostri...”

Il Vendôme sollevò un sopracciglio e commentò: “Voi conoscete poco il cuore dei soldati perché vi ostinate a non vivere con loro e come loro. Se lo faceste, sapreste che fa più presa la paura di un nemico sconfitto e saccheggiato che potrebbe voler vendetta per i torti subiti che non la promessa di soldi in un futuro, per quanto vicino.”

Il Valentino, benché non avesse colto appieno il senso di quello che il francese gli aveva detto, finse di trovare quella spiegazione accettabile. Poi, calcandosi il cappellaccio sulla fronte, disse che era tempo di sistemare le ultime cose, e partì alla volta del palazzo dei Numai.

 

“Ha nominato due spagnoli – raccontò velocemente Argentina, che aveva origliato tutto, quando aveva saputo che il Valentino era tornato a palazzo – un certo Ramiro di Lorca per Governatore di Imola e Forlì e Gonazalo di Mirafuentes come castellano di Ravaldino.”

Caterina, che si stava lasciando vestire come fosse stata un bambolotto, fece uno sbuffo, scuotendo il capo: “Castellano di una rocca che praticamente non c'è più.” disse, a denti stretti: “E l'altro... Ma il figlio del papa crede davvero che un uomo solo basti, come Governatore tanto di Imola quanto di Forlì?”

La serva non sapeva cosa rispondere, così si limitò a sollevare le spalle e a chiedere alla sua signora di allargare un po' le braccia, cosicché potesse raddrizzarle bene la camora.

C'era un'altra cosa che Argentina aveva sentito, mentre aspettava fuori dal salone, in attesa di essere mandata a preparare la Contessa. Era stato un attimo fugace, ma era sicura di aver capito bene, solo che non sapeva come introdurre il discorso alla Leonessa.

Per puro caso, fu proprio la Sforza a sollevare la questione: “Gli altri prigionieri? Li trasporteranno assieme a noi o sono già partiti verso Roma?”

“Sono partiti con le prime colonne dell'esercito, mia signora.” rispose Argentina, avvertendo uno strano pizzicore dietro al collo.

“Avete avuto modo di avere notizie di Giovanni da Casale?” chiese, inesorabile, Caterina.

La sua cameriera personale deglutì e poi, sapendo che, come sempre, la sua signora avrebbe preferito una scomoda verità a una semplice bugia, rispose: “Se quello che ho udito corrisponde a verità, è stato liberato, o sta per esserlo, su pagamento di quattromila ducati di riscatto.”

La Tigre si immobilizzò. Il suo sguardo, che in quei giorni si era fatto pesto e spento, per qualche secondo tornò vivido e implacabile, lo stesso che Argentina aveva visto tante volte quando la Contessa stava per perdere le staffe.

Quasi subito, però, parve calmarsi. Controllò personalmente che il suo abito fosse in ordine, mangiò un paio di bocconi ancora del piatto che le era stato concesso quella mattina, e solo dopo un paio di respiri profondi pose una domanda tagliente.

“E chi avrebbe pagato così tanti soldi per quel traditore?” nella sua voce non c'era solo rabbia, la serva lo capiva.

C'era anche preoccupazione. Voleva capire, forse, fino in fondo se dietro l'apparente codardia, la mancanza di tempismo, e l'incompetenza dell'uomo che aveva tenuto al suo fianco come amante per mesi, ci fosse qualcosa di più. Saputo il nome di chi aveva pagato per la sua libertà, forse avrebbe anche saputo se Pirovano era un traditore vero o solo un ragazzino che si credeva un esperto della vita e della guerra pur non essendolo.

“Se ho ben capito – mise le mani avanti Argentina, non sapendo davvero se quella che stava per dare fosse una risposta positiva o negativa – dovrebbe essere stato Giovanni Bentivoglio, come tramite per Ludovico Sforza.”

La Leonessa si accigliò. Quell'informazione, se corretta, scagionava in parte Giovanni. Il Moro, per quanto a lei sempre abbastanza ostile, era suo zio. In un modo o nell'altro, Pirovano non aveva cambiato fazione.

“C'è un'altra cosa...” questa volta Argentina riuscì ad abbozzare un sorriso, perché le pareva che la notizia andasse accolta con favore: “In merito alle richieste di vostra signoria di questa mattina all'alba...”

La Sforza, che, in effetti, aveva ricevuto una brevissima visita dell'Alégre, prima che questi andasse in Duomo con il Borja, sapeva bene a cosa la serva si riferisse. Quando Yves le aveva chiesto se ci fosse ancora qualcosa che si potesse fare per lei, per farla sentire meno prigioniera e più un ostaggio di alto lignaggio, lei aveva risposto prontamente con un sì.

“Io, da donna ricca e nobile quale sono, ero avvezza a esser circondata da molti servi, oltre che da tante dame da compagnia – aveva mentito spudoratamente, sperando che la sua fama di signora austera e quasi senza servitù personale non fosse giunta anche all'orecchio del francese – e dunque avrei piacere che oltre alle mie dame, partissero con me i miei servi da camera.”

L'Alégre, francamente sorpreso da quella richiesta, aveva domandato come facesse a capire chi fossero costoro, dato che tutti gli uomini della rocca sopravvissuti erano stati fatti prigionieri.

Non avendo strategie migliori, Caterina aveva potuto rispondere solo con un semplice: “Ragazzi sotto i sedici anni, uomini con acciacchi fisici e quelli che anno passato i quaranta. Questi erano i miei servi: quelli che non potevano servirmi con le armi e quindi lo dovevano fare in altro modo.”

Yves aveva fatto notare che il coppiere che avevano catturato, però, era tutt'altro che vecchio o sciancato.

“Non ha nemmeno vent'anni.” aveva ribattuto la Sforza: “Da ragazzino era il mio coppiere e dato il giovane che è diventato, piacendomi guardarlo, non ho avuto cuore di farlo diventare carne da cannone.”

“Ecco, mia signora – riprese Argentina, con il sorriso che le si allargava di più in viso – ne hanno portati da noi alla torre più di venti, dei nostri. I più giovani, e qualche anziano. Hanno chiesto loro se erano vostri servi e tutti hanno capito e detto di sì.”

La Tigre annuì, confortata da quella novità e sussurrò: “Spero solo di non aver scelto chi portare al macello con me.”

“Non dite così.” la rassicurò l'altra: “Le vostre intenzioni sono nobili, e questo lo sappiamo tutti.”

 

“Sono partiti da un paio d'ore, ormai...” disse l'Alégre, rispondendo al Borja che si chiedeva se avessero dato abbastanza distacco ai quattro deputati scelti per andare a Roma.

Anche se la strada per un tratto sarebbe stata condivisa, Cesare non li voleva tra i piedi. Se gli avessero dato qualche ora di vantaggio, si diceva, non li avrebbero nemmeno più visti.

“Bene...” annuì: “Allora noi aspetteremo ancora un po' e poi partiremo.”

Stava giusto dicendo così, quando sentì dei movimenti in cima alle scale. Guardando in alto, vide arrivare la Tigre, accompagnata dalla sua dama e seguita da due guardie.

La sua prigioniera gli appariva bellissima con la camora nera e il velo di bambace segugiato, ma, a differenza dell'ultima volta che l'aveva vista, trovò in lei qualcosa di diverso. Era il modo in cui lo fissava.

Non evitava più il contatto visivo con lui. Non sembrava nemmeno più spaventata. Lo fissava. Lo fissava come se non vedesse altro. I suoi occhi verdi lo avevano puntato e sembravano promettergli l'inferno.

Il Borja non aveva nemmeno modo di chiedersi come quella donna avrebbe potuto vendicarsi di lui, ma in quel momento si sentiva come se gli stesse lanciando addosso un sortilegio, una maledizione che l'avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Faticando a scrollarsi di dosso quella tremenda sensazione, l'uomo, più per tenere viva la recita davanti all'Alégre, disse, a voce alta: “Madonna Sforza. Vi vedo raggiante. Peccato solo che una bellissima donna come voi non indossi gioielli in un giorno importante come questo.”

“Se anche avessi avuto ancora dei gioielli – ribatté fredda Caterina, senza smettere di fissarlo – voi me li avreste strappati di dosso. Dunque, non li avrei potuti indossare ugualmente.”

Deglutendo, teso, del tutto spiazzato da tanta arroganza, il Valentino cercò di riprendere il comando della situazione e, con tono disinvolto, come se non fosse successo assolutamente nulla di sconveniente, disse: “Volete venire a vedere il cavallo con cui lascerete per sempre la vostra città?”

“La mia città è Milano.” fece notare, con aria di sufficienza, la Tigre: “La stessa che ora mio zio sta per riconquistare e far grande.”

Quell'ultima considerazione la Sforza l'aveva azzardata. Era una sua vaga supposizione, legata al fatto che il Moro avesse pagato dei soldi per mettere di nuovo le mani su Giovanni da Casale, forse pensando che fosse l'uomo adatto per aiutarlo a riconquistare il Ducato.

Evidentemente, aveva fatto centro, perché il Borja era sbiancato. Era evidente cosa stesse succedendo nella sua testa. Il ventiquattrenne si domandava come facesse la Leonessa, rimasta isolata per settimane, a sapere delle difficoltà che i francesi cominciavano ad avere al nord. Pensò a una spia che le avesse riferito ogni cosa, ma gli pareva improbabile. Concluse che la sua prigioniera doveva avere dei poteri soprannaturali che le permettevano di sapere le cose prima che le venissero riferite.

“Comunque sia...” disse lui, rigido, mentre le faceva segno di seguirlo: “Venite a vedere il cavallo che ho scelto per voi.”

Non potendo rifiutarsi, Caterina lo seguì fino nel cortile del palazzo. Sentiva la presenza di Argentina alle sue spalle e avrebbe voluto farle sapere quanto conforto le stava dando, ma in quel momento sapeva di non dover mai abbassare l'attenzione, tenendola puntata interamente sul Borja.

“Ecco qui!” esclamò Cesare, indicando una cavalla bianca.

L'Alégre, ingenuamente, trovò la scelta quasi gentile. Era una bella bestia, di medie dimensioni, l'ideale, pensava, per una donna.

Solo quando giunse la reazione della Sforza, però, si ricordò che la donna che avevano davanti era una guerriera, che era stata capace di montare uno stallone nero, enorme e ferocissimo nel cuore della battaglia.

“Una chinea learda!” sbottò, furiosa, la Leonessa, riconoscendo senza problemi il tipo di bestia e la provenienza: “Credete di farmi apparire debole, sopra quella cavalla? Credete che basti, per far dimenticare chi sono?”

“Con le mani legate, così come le avrete – sorrise serafico Cesare – non potevo certo darvi le redini di un purosangue.”

Caterina dovette ingoiare le ingiurie che stava per sputare addosso al figlio del papa. Sapeva che più sarebbe stata docile in quel frangente, più avrebbe avuto possibilità di arrivare a Roma senza troppi problemi. Una volta all'Urbe, avrebbe cercato di far valere non solo il suo cognome, ma anche quello di suo cugino Raffaele. Per avere anche solo il minimo margine di manovra, però, doveva tenere a freno la lingua.

“Lo so – disse, piano, ripromettendosi che quello sarebbe stato l'ultimo affondo all'amor proprio del Valentino – avevate paura che vendendo me e voi su cavalli da guerra avrebbero chiesto che ci facevano, una regina e uno scudiero su cavalcature tanto simili...”

Il Duca preferì non mettere altra legna sul fuoco. L'Alégre era lì, lo stava studiando. Se avesse dato sfogo a quello che gli bruciava nel petto, prendendo a male parole la sua prigioniera o alzando le mani su di lei, Yves sarebbe subito corso a riferire tutto al Balì di Digione, e il loro patto si sarebbe rotto.

“Legatele le mani – ordinò a una delle guardie, per poi aggiungere, sempre per via della vigile presenza del francese – ma che non si noti.”

 

Le strade di Forlì, dal palazzo Numai a Porta San Pietro, si erano riempite. Tutti i forlivesi si erano assiepati per vedere la partenza della loro signora.

Anche Bernardi aveva trovato un posto eccellente per assistere a quello spettacolo epocale. Anche se nel suo cuore si dibattevano emozioni contrastanti, la sua voglia di poter riportare nelle sue cronache un evento tanto importante batteva ogni altra emozione.

Non appena il corteo uscì da casa di Luffo Numai, gli spettatori fecero silenzio. In testa, protetti da qualche soldato, c'erano Cesare Borja e Yves D'Alégre e, tra loro, su una dimessa cavalla bianca, Caterina Sforza.

Appena dietro la donna, due delle sue sedicenti dame di compagnia – Andrea le riconobbe come Argentina e Dianora – e, appena dopo, una piccola colonna di donne e ragazzini, con anche qualche uomo di una certa età.

La scena era estraniante, per il Bernardi. La via e la piazza, gremite e silenziosissime, stavano accogliendo l'ultimo passaggio in città di una donna formidabile, che fin dalla nascita aveva vissuto e comandato da gran signora.

La camora nera che la Tigre indossava sembrava quasi rilucere sotto il sole freddo di quel 23 gennaio. Il suo volto non tradiva emozioni. Era come una maschera, fiero e distante. Ben diverso da quello del Borja che, malgrado la barba più lunga del solito e il cappellaccio a coprirlo in parte, appariva teso e allerta.

In quel momento, se non avesse saputo la verità dei fatti, il Novacula avrebbe potuto dire che la Contessa era la vincitrice e il Valentino il vinto.

Passata la piazza, mentre il popolo seguiva lentamente il corteo, la Leonessa cominciò a allungare l'occhio sui presenti. Prima non l'aveva fatto, temendo di vederli arrabbiati con lei, o, anche, felici di vederla andare via.

Quando, invece, notò più di una persona piangere, qualcuno asciugarsi furtivamente gli occhi, altri salutare timidamente con un cenno del capo o della mano e altri ancora chinare il capo in segno di rispetto, provò una sensazione di calore immensa.

Sentendo i propri occhi farsi lucidi e gonfi, la donna, sorprendendo tutti, sollevò un po' una mano dalle redini, badando bene di non far notare troppo la corda che le legava lassamente i polsi, e si mise a salutare.

Fino a Porta San Pietro, la Contessa diede il suo saluto ai suoi sudditi che, pur avendola abbandonata e a volte tradita, ora le dicevano addio con lacrime e cordoglio, forse riconoscendo, con colpevole ritardo, il suo valore.

Bernardi seguì il corteo proprio fino al limitare della città, abbastanza da vedere Caterina voltare la testa un'ultima volta, come a voler avere ancora una visione della sua Forlì, in modo che le restasse impressa nella mente anche quando fosse stata lontana.

Tornato a casa, con un'innaturale voglia di piangere a dirotto, smosso molto più di quello che avrebbe creduto possibile, il Novacula prese una pagina pulita e cominciò ad annotare i fatti di quel giorno.

Malgrado avesse in mente di dilungarsi per decine di righe, riassunse la partenza della Tigre in meno di due frasi. Con un groppo alla gola, si asciugò una guancia, su cui stava scivolando una calda lacrima e, ripensando all'espressione triste e rassegnata della Leonessa di Romagna, si disse che con quell'ultimo sguardo carico di malinconia e dolore era come se la sua signora volesse rispondere all'estremo commiato della sua gente.

“Che Dio abbia pietà di lei – sussurrò tra sé Andrea, toccando l'abito di raso e seta che indossava, segno tangibile di quanto anche lui l'avesse tradita – perché gli uomini non ne hanno avuta...”

 

 
   
 
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