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Autore: Adeia Di Elferas    09/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Arrivato a Forlimpopoli, Cesare aveva dato ordine severissimo ai suoi di tenere al sicuro la Sforza, impedendole di spostarsi dal campo francese e di avere contatti con chicchessia.

Tanto per rendere l'attesa della Tigre ancora più penosa, le scelse come guardia personale Giannotto, il condottiero di cui lei si era fidata, settimane prima, salvo vedersi tradire come nulla fosse per via di qualche denaro in più e della promessa di una buona carriera.

Il Borja avrebbe voluto gustarsi l'espressione che la sua preda avrebbe fatto, nel vedere il suo nuovo carceriere ad interim, ma voleva essere a Cesena prima di notte e, quindi, si trovò costretto a velocizzare il più possibile i suoi impegni ufficiali, rinunciando anche a quel piccolo piacere.

Nel giro di pochissimo visionò l'intera cinta muraria e poi la rocca, che, a differenza di quella forlivese, era ancora pressoché integra. A malincuore, si complimentò con Achille Tiberti per essere riuscito in un'impresa delicata e tutt'altro che semplice.

Rendendosi conto che avrebbe fatto benissimo in tempo a ripartire da Forlimpopoli e raggiungere Cesena per sera, chiese di poter subito presenziare al giuramento formale dei quattro Anziani prescelti. La cerimonia fu a dir poco sbrigativa, nella chiesa di San Pietro.

Il Valentino accettò il baciamano stentato di Giovan Battista Biondi, Evangelista Rossi e Sebastiano Zanotti. Solo Antonio Butrighelli pareva sinceramente esaltato, dinnanzi al suo nuovo signore. Il Borja non poteva saperlo, ma quell'uomo sentiva esaudito finalmente il suo desiderio di vendetta: quattordici anni prima, il defunto Conte Riario aveva messo a morte un suo parente, suo perfetto omonimo, senza che ve ne fosse, secondo lui, un reale motivo. Sapere che ora la vedova del Conte era stata sconfitta e umiliata, lo colmava di gioia.

“Prepariamoci a ripartire!” ordinò Cesare, mentre l'ultimo Anziano forlimpopolese era ancora inginocchiato davanti a lui: “Ne ho abbastanza di questi paesi da villani...”

 

Caterina, che era stata chiusa in una stanza del palazzo più bello della città assieme a Giannotto e a due soldati svizzeri, era riuscita a estorcere qualche informazione in più al francese. L'aveva fatto in modo subdolo, portandolo a raccontare il più possibile quello che sapeva.

Prima di tutto aveva saputo che suo fratello Alessandro era ancora prigioniero, ed era stato mandato nell'urbinate – o, se non altro, questi erano i progetti che lo riguardavano – dopodiché il francese le aveva fatto presente che il Borja non aveva intenzione di andare direttamente a Roma, ma che prima avrebbero deviato su Pesaro, per conquistarla.

“Là c'è il vostro parente, no?” aveva chiesto Giannotto, alludendo a Giovanni Sforza: “Credo che vi voglia esibire a lui come trofeo. In fondo, se una donna di ferro come voi alla fine ha dichiarato la resa, perché non dovrebbe anche lui? L'ultima volta che il Duca l'ha visto, ha detto che il vostro parente se l'è quasi fatta addosso dalla paura!”

La Leonessa poteva ben immaginare le circostanze in cui il Valentino avesse incontrato per l'ultima volta Giovanni. Dopotutto il pesarese aveva lasciato Roma con la coda tra le gambe, già felice di aver avuto salva la vita, se non l'onore. Probabilmente per lui, dopo il processo di annullamento del matrimonio con Lucrecia, rivedersi un Borja davanti sarebbe stato un trauma insormontabile.

“Preparatevi a partire.” disse un soldato, appena entrato nella stanza in cui era stata messa in attesa la Sforza: “Il Duca vuole che ci rimettiamo in marcia subito per Cesena.”

Giannotto guardò fuori dalla finestra e commentò: “C'è buio da un'ora...”

“Poco male – commentò la Sforza, senza riuscire a trattenersi – la strada per Cesena è semplice e, marciando veloci, in due ore, massimo tre, ci si arriva.”

Il francese la guardò di traverso e poi commentò: “Ma noi abbiamo anche l'artiglieria da portarci appresso.”

“Se il vostro fosse un esercito vero, anche portando appresso cannoni e falconetti – ribatté sprezzante la donna – due ore vi basterebbero. Ma dimenticavo che siete francesi. A questo punto, dubito che arriveremo a Cesena prima dell'alba.”

 

“Avremmo potuto benissimo fermarci a pernottare a Forlimpopoli.” fece notare il Balì di Digione, cupo: “Non vedo perché metterci di nuovo in cammino a quest'ora e con questo tempo.”

“Perché non mi fido a restare qui una notte.” mentì Cesare: “Meglio raggiungere una città più amichevole, come Cesena.”

Il francese non aveva più voluto chiedere altro e, dando un colpetto ai fianchi del suo cavallo, aveva preso a risalire un po' la colonna di uomini e cavalieri che si dipanava lungo la via.

Caterina era sempre sulla cavalla bianca con cui aveva lasciato Forlì, ma questa volta non era più tra l'Alégre e il Borja. Un po' per una maggior semplicità di marcia e un po' perché Yves era convinto che lei non si sarebbe azzardata a scappare, per non mettere a repentaglio la vita del suo seguito di dame e servi, era stata lasciata un minimo più libera.

Cavalcava in silenzio a breve distanza dal Valentino, che non la perdeva d'occhio, mentre l'Alégre restava indietro di un paio di lunghezze, come a volerle dare maggior respiro.

“Avevi paura che il fantasma di mio fratello Piero ti venisse a cercare e ti soffocasse nel sonno?” fu la domanda che la Sforza rivolse al Duca, non appena lo ebbe a tiro d'orecchio: “Confessalo: è per questo che hai voluto subito partire per Cesena.”

“Non provocarmi.” la mise in guardia lui, mentre faceva rallentare un po' di più il proprio cavallo da guerra per mettersi al passo della chinea learda di lei: “Se ho voluto andare a Cesena è solo per la rocca Murata.”

“Vedi?” continuò lei, non riuscendo a tacere, stremata da una giornata che sembrava non aver fine e di nuovo tormentata dalla sensazione di uno stomaco vuoto: “Hai paura e allora vuoi circondati di pareti spesse cinque braccia. Mi fai pietà.”

“Alla Murata non posso far entrare l'intero esercito.” spiegò lentamente il figlio del papa, scrutando il volto della sua prigioniera nel buio della notte: “Terrò con me solo te e l'artiglieria, i miei tesori più preziosi, insomma.”

Alla Tigre non sfuggì il luccichio fastidioso del sorriso del Valentino. Il modo malizioso con cui le aveva parlato le aveva fatto venire i brividi.

Sperando che il velo che ancora teneva in parte sul viso per difendersi dal freddo celasse anche la sua espressione tesa, mentre ribatteva, ostentando una sicurezza che in realtà non aveva: “Fai come ti pare. Tanto Monsignor d'Alégre ha promesso di vegliare su di me.”

“Qui ti inganni, cara la mia Tigre.” sogghignò a quel punto Cesare: “Qualcuno dovrà ben badare ai soldati, se non vogliono che in una sola notte l'esercito francese faccia un vero disastro a Cesena, costandoci la benevolenza di una città così importante... Messer d'Alégre avrà il suo bel da fare ad aiutare i suoi conterranei a contenere quelle bestie dei loro uomini.”

Il silenzio con cui la donna accolse quelle parole fece capire al Borja che la Leonessa aveva compreso appieno le sue intenzioni.

“So che anche tu muori dalla voglia di passare un'altra notte con me.” soffiò, per poi dare di speroni al proprio cavallo e allontanarsi, sia per dare maggior effetto alla sua ultima frase, sia per evitare eventuali nuove schermaglie con la milanese.

Caterina, raggelata, si chiese senza fiato se davvero il Duca avrebbe potuto fare quello che le aveva prospettato. La sola idea l'agghiacciava. Si guardò attorno, nell'oscurità gelida della notte. Non fosse stato per una pallida luna che ogni tanto affiorava da dietro le nuvole e per le poche fiaccole portate dai soldati, non si sarebbe visto nulla.

Si trovavano sulla strada principale. Avevano affiancato da poco dei campi, ma ora attorno a loro si vedeva il limitare del bosco. La Sforza non conosceva bene quella zona, perché esulava dal suo territorio di caccia, ma aveva sempre saputo muoversi bene nei boschi, di notte.

La tentazione di provare a scappare fu fortissima, più che in ogni altro momento della sua vita. Le sembrava qualcosa di indispensabile. Subire di nuovo violenze dal Valentino era per lei una prospettiva inaccettabile. Le si rivoltava lo stomaco al solo pensiero.

Stringendo le redini un po' più forte di prima, si guardò alle spalle, circospetta. L'Alégre era sempre a poco distanza da lei, ma era distratto a parlottare con un altro francese. Il Borja era lontano, e così il Balì... Forse avrebbe potuto davvero scappare e farla franca.

Poi però pensò ad Argentina, a Baccino e a tutti gli altri. Sapeva che si sarebbero rifatti anche su di loro. Poteva permetterlo? La sua anima valeva quanto la vita di tutti loro?

Chiuse un momento gli occhi, assecondando il passo lento e cadenzato della sua chinea, e poi arrivò a una risposta dolorosa, ma sentita, per quanto severa: no.

Così, respirando a fatica come se stesse cercando di non annegare, la donna soffocò ogni altro moto di ribellione e seguì docile la colonna di uomini che la stava portando a Cesena. Estraniata, con la mente già rivolta a quello che l'attendeva alla Murata, Caterina ebbe la degradante sensazione di essere come una sposa schiava portata verso il talamo nuziale da un corteo in armi, per impedirle la fuga. Sì, proprio come una schiava venduta a Cesare Borja, figlio di papa Alessandro VI.

In un certo senso, pensò, la sua vita non era cambiata molto, dal lontano giorno in cui suo padre l'aveva venduta a Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV.

 

Lorenzo Medici erano chino sui libri contabili. La luce della candela gli stava appannando gli occhi, ma l'uomo non demordeva, ben deciso a far quadrare i conti, prima di ritirarsi per la notte.

Preso com'era sempre dal brigare per il predominio sulla città e dal pensare a come scovare e prendere in custodia il figlio più piccolo di Caterina Sforza, il Popolano aveva trascurato e non poco gli affari. Quando i suoi amministratori gli avevano fatto notare alcune criticità, quel pomeriggio, quando era tornato dal palazzo della Signoria, egli non aveva potuto far altro che rimboccarsi le maniche e cercare di capire dove fossero gli ammanchi di cui gli avevano parlato.

Solo che, distratto com'era stato negli ultimi anni, le sottili file di numerini sulla pagina gli sembravano solo tante formiche intente a inseguirsi. Perdevano il loro significato e il loro senso logico.

Se solo suo figlio Pierfrancesco non fosse stato un incapace – perché Lorenzo era sempre più convinto di quell'evidenza – avrebbe chiesto a lui di aiutarlo per dipanare quella matassa. E invece era già quasi mezzanotte e il suo erede non era nemmeno in casa.

'Di questo passo – aveva pensato amaramente il Medici, quando gli era stato riferito che subito dopo cena il figlio era uscito – dilapiderà quel poco che abbiamo ancora in donne di malaffare e vino scadente.'.

Messosi le mani tra i capelli, Lorenzo voltò in fretta le pagine del libro contabile, trattenendosi a stento dal gettare l'intero volume nel camino per la frustrazione. Nulla stava andando secondo i suoi piani: suo figlio non era all'altezza delle aspettative, il suo patrimonio si era assottigliato a vista d'occhio, le sue attività languivano, il suo potere era solo illusorio, sua moglie lo detestava, e suo fratello era morto lontano da casa e senza che tra loro potesse esserci una vera riappacificazione.

Fuori soffiava un vento gelido che fischiava contro le finestre del suo studio. Il freddo della notte fiorentina, però, non era nulla in confronto al ghiaccio che attanagliava il cuore del Medici.

Con un sospiro pesante, l'uomo si passò una mano sulla fronte e si chiese dove fosse in quel momento Amerigo. Lui e il Vespucci erano amici fraterni. Erano coetanei e, nei bei tempi passati, erano stati mossi dai medesimi ideali illuminati e travolgenti.

Lorenzo l'aveva scelto come curatore dei suoi commerci, e quasi dieci anni addietro l'aveva mandato a Siviglia per badare ai suoi traffici. Era stato un errore grossolano. Esattamente come quando aveva mandato a Forlì il fratello, vedendoselo poi strappare da una donna senza cuore e senza morale, quella volta si era visto portar via un amico. Proprio in quella città portuale, infatti, Amerigo aveva sentito parlare dei primi avventurosi viaggi alla cieca, quelli che cercavano nuove rotte e nuove terre. Il tarlo che gli era entrato nel cervello non ne era più uscito e, nel giro di poco, si era allontanato dagli affari del Popolano per dedicarsi alla navigazione e all'avventura.

Il Medici non se n'era risentito, anzi, l'aveva incoraggiato. Così facendo, però, l'aveva quasi perso.

Certo, il Vespucci gli scriveva sempre lettere meravigliose, descrivendogli i posti in cui era stato, ma poteva farlo solo quando tornava dalle sue traversate. Per l'ultima era partito a maggio e, arrivati a gennaio dell'anno dopo, ancora non se ne aveva alcuna notizia. Per quanto ne sapeva Lorenzo, il suo amico Amerigo poteva essere morto in un naufragio o mangiato da chissà che belva feroce...

Gli sarebbe servito così tanto, avere vicino un amico...

“Lorenzo...” la voce di Semiramide fece sollevare di scatto la testa al Medici che, abbattuto, si era accasciato sulla scrivania senza forze.

La donna si stringeva in uno sciallone da camera e restava sulla porta, come se avesse paura di fare anche solo un passo in più. Il Popolano si chiese perché fosse lì. Che volesse cercare di riavvicinarsi a lui? Che volesse parlargli della loro situazione? Che avesse qualcosa da riferirgli riguardo Pierfrancesco?

“C'è un messaggio per te da parte del Gonfaloniere...” disse invece la donna, mostrando un biglietto ripiegato: “L'ha fatto consegnare ora. Ho preferito portartelo io.”

“Un messaggio a quest'ora?” chiese lui, accigliandosi, e poi agitando una mano in aria: “Lascialo pure lì, adesso lo leggo.”

“Non hai mangiato nulla, a cena.” sussurrò lei, senza lasciare la presa sul foglietto.

“Non avevo fame.” rispose il Medici, tornando a guardare la pagina che aveva dinnanzi, ma senza, ovviamente, capirci granché.

“Si è fatto molto tardi... Faresti meglio ad andare a dormire.” proseguì lei, sempre con un filo di voce.

“Sei la mia balia?!” scattò Lorenzo, allargando le mani in un gesto di stizza.

“Sono tua moglie – ribatté lei, senza scomporsi – purtroppo, anche se non mi vuoi più, è così.”

“Mi risulta che nemmeno tu mi cerchi, ultimamente.” borbottò lui, guardando verso il camino, gli occhi bovini che inseguivano le fiamme.

“Non sei più l'uomo che ho sposato.” sentenziò di colpo l'Appiani, muovendo qualche passo verso la scrivania e buttandoci sopra il messaggio del Gonfaloniere: “Soderini vuole farti sapere che Ludovico Sforza sta prendendo terreno al nord e che temono si riprenda il Ducato. Tutte le spinte che hai dato per favorire la Francia e il figlio del papa cominciano a far sudare freddo quelli che prima di coprivano le spalle. Scrive che te l'ha voluto anticipare in modo che tu sappia come muoverti, domani: anche se è sabato, vuole che vi riuniate a discuterne.”

Il Popolano, davanti a quelle affermazioni, rimase immobile. Sapeva che in Lombardia c'erano dei movimenti di truppe, ma non credeva che il Moro avrebbe davvero provato un'offensiva in pieno inverno.

“Stai attento a quello che fai.” concluse Semiramide, scuotendo impercettibilmente il capo mentre parlava: “Se finisci nel baratro tu, ti trascinerai dietro anche tutti i tuoi figli, e pure me. Stai molto attento, Lorenzo.”

L'uomo prese in mano il biglietto, schiudendolo con le dita tozze, e poi, leggendolo, provò a difendersi: “Sì, dice che lo Sforza sta prendendo terreno, ma non è detto che...”

Quando sollevò lo sguardo, però, si accorse che la moglie aveva già lasciato lo studio, e così non concluse il pensiero.

Abbandonandosi con pesantezza allo schienale della sedia di legno intarsiato, il Medici sentì un nodo salirgli nella gola. Capiva benissimo l'avvertimento di Semiramide, così come comprendeva la tensione del Gonfaloniere che, appena saputa la notizia, aveva ben pensato di mandargli un messaggio, malgrado la tarda ora. Se la Francia e il papa avessero perso Milano, forse il Moro avrebbe preso coraggio e li avrebbe inseguiti fino in Romagna o addirittura fino a Napoli. E non si sarebbe scordato del peso che il silenzio assenso di Firenze aveva avuto in quella guerra.

Alzandosi con lentezza, l'uomo si allacciò le mani dietro la schiena e si avvicinò al camino. Il calore delle fiamme ancora vive gli dava quasi fastidio, eppure voleva starvi vicino. Se almeno avesse trovato il figlio della Tigre di Forlì, se almeno avesse riavuto l'eredità di suo fratello...

Con un suono sordo e gutturale, il Popolano sferrò un pugno alla cornice del caminetto, piegandosi poi su se stesso per il male che si era procurato. Mentre ancora si teneva la mano dolorante stretta al petto, gli venne da ridere. Una risata cupa e amara. Tutto quello che faceva, si disse, compreso cedere a un semplice moto di rabbia come in quel momento, gli si ritorceva contro.

“Maledetti Sforza – sussurrò – siete al mondo solo per rovinarmi la vita...”

 

Cesare era riuscito a convincere l'Alégre a pernottare fuori dalla Murata solo dopo sperticate promesse e accorati giuramenti. L'aveva anche elogiato, facendo presente che nessuno meglio di lui avrebbe saputo tenere a freno i bollenti spiriti dei loro soldati, e alla fine Yves si era sentito lusingato e gli aveva quasi dato ragione, ammettendo che era necessario tenere rapporti distesi con Cesena e che gli uomini lo ascoltavano più di quanto facessero con altri.

A notte inoltrata, non appena era stato sicuro di aver sistemato tutto quanto, asserragliato nella rocca cesenate assieme all'artiglieria e alla sua guardia ristretta, il Borja si era ritirato nella stessa camera in cui aveva fatto rinchiudere Caterina.

La donna, che era stata accudita da tre sue dame di compagnia fino a pochi minuti prima, non era legata, e indossava uno dei due abiti meno pretenziosi che il Valentino le aveva fatto confezionare.

Quando il Duca arrivò, la trovò in piedi, ritta contro la parete, affianco alla finestrella che lasciava entrare la luce fredda della luna. Le candele accese – almeno una dozzina – creavano giochi d'ombra tali da rendere il profilo della Tigre più ferino che non umano. Il figlio del papa avvertì un brivido che avrebbe potuto definire di paura, se non fosse stato allo stesso tempo così esaltante da farlo sentire più pronto che mai ad agire.

La Sforza colse la sfumatura famelica nello sguardo del suo aguzzino, ma non sapeva come gestirla. Si sentiva in trappola. Le pareva impossibile che, dopo tutte le sue belle proposizioni, Yves d'Alégre si fosse fidato a lasciarla da sola di nuovo in balia del Borja. Eppure era stato così e ora c'era lei, a fronteggiarlo.

Nessuno dei due parlava. Stavano a debita distanza, studiandosi. Ogni più piccola mossa era osservata dall'altro come quella di una preda da parte di un predatore.

La Leonessa scrutava il volto del Valentino e, involontariamente, si trovò a fare di nuovo un confronto crudele con il suo primo marito. Cesare, era inutile negarlo, era di bell'aspetto, decisamente un uomo che si poteva notare. Anche Girolamo era stato così. Eppure, entrambi per la Sforza erano mostruosi. Anche se oggettivamente doveva riconoscere la bellezza dei loro tratti e la prestanza dei loro corpi, soggettivamente non poteva che trovarli rivoltanti.

Ricordava ancora molto bene le chiacchiere che riecheggiava tra i palazzi romani, quando era ancora una ragazza e suo marito la tradiva di continuo nel disperato tentativo di farla ingelosire. Le donne che Girolamo seduceva non erano solo prezzolate, ma spesso erano davvero desiderose di lasciarsi sedurre da lui. Le battute compiaciute che le cortigiane si scambiavano, parlando della sua notevole virilità, erano state per Caterina solo un motivo di ulteriore ribrezzo.

Probabilmente, pensava, ora a Roma si discuteva di un'altra notevole virilità, e anche in quel caso lei non poteva che provare solo una forte nausea e un grande disgusto a riguardo.

“Speravi di esserti liberata di me.” disse a bassa voce Cesare, senza intonazioni interrogative.

“Del diavolo è difficile liberarsi.” commentò la Tigre.

La reazione del Duca fu rapida e abbastanza inattesa, per Caterina. Con un paio di passi svelti, la raggiunse, le afferrò le braccia, alzandogliele sopra la testa, e la fece voltare, premendola contro il muro.

Mentre le teneva i polsi inchiodati alla parete con una mano, con l'altra le sollevò febbrilmente l'abito, maledicendo in silenzio i sarti per aver messo così tanti strati a quelle sottane.

Incapace di contrastarlo, spenta e senza volontà, la Tigre non riuscì a ribellarsi. Anzi, non riuscì nemmeno a provarci. Quasi non riusciva a riconoscersi, nella donna che permetteva a un incapace come il Borja di umiliarla a quel modo. Si sentiva impotente e indifesa, così come si era sentita ogni volta con Girolamo.

“Grida pure quanto ti pare, stanotte.” le sibilò all'orecchio, con il fiato spezzato: “Le pareti di questa rocca sono belle spesse, non ti sentirà nessuno.”

 

“No, vi dico che non è solo grassa...” stava ridacchiando Cesare, spolpando con cura l'osso della costoletta di maiale che gli era stata servita per colazione: “Quella cagna è anche incinta. Di sei mesi almeno!”

I soldati che stavano mangiando alla sua tavola rimasero un istante in silenzio, guardandosi perplessi l'un l'altro. Quella notizia, se fosse stata vera, avrebbe di certo avuto implicazioni anche riguardanti la di lei prigionia.

Versandosi un abbondante calice di vino, il Borja proseguì: “Io le donne le conosco bene. L'ho nel mio letto da quanto..? Due settimane..? Mettiamo anche qualcosa meno... Ma di certo è gravida.”

Il Valentino stava parlando a quel modo al solo scopo di denigrare e umiliare ancora di più la sua prigioniera. Se lo meritava. Anche quella notte l'aveva svilito e l'aveva fatto sentire un codardo, malgrado fosse stata lei a subire violenza e non certo il contrario. La Sforza aveva un modo tutto suo, per metterlo in difficoltà. Il suo silenzio, l'immobilità, i suoi sguardi... Tutto in lei era ribrezzo e ostilità, eppure non si poteva dire che l'avesse ostacolato in quello che le aveva fatto.

“O comunque, se non l'hanno ingravidata tutti i pezzenti che si è portata a letto prima di perdere la sua amata rocca – mise in chiaro il Duca, con serietà – allora l'ho fatto io stanotte. Perché vi dico che non le ho lasciato nemmeno il tempo di...”

“Duca!” la voce di Yves d'Alégre arrivò alle spalle di Cesare come il sibilo di un pugnale.

Il francese, all'alba, era stato avvisato da un soldato che era di stanza alla Murata, e che aveva voluto riferirgli per filo e per segno di come il Borja fosse andato nella stanza della Leonessa, vi si fosse chiuso dentro, e non ne fosse uscito se non allo spuntare del sole. Certo, Yves non poteva avere la certezza di cosa fosse successo tra loro, ma il dubbio era forte e, quando era arrivato alla rocca, aveva proprio sentito il figlio del papa vantarsi delle proprie prodezze...

“I patti erano altri.” disse l'Alégre, facendo segno ai soldati che ancora stavano mangiando di andarsene.

Mentre gli uomini si alzavano da tavola e lasciavano lo stanzone che il Borja aveva scelto come sala per banchettare, il francese si chinò in avanti e gli puntò contro l'indice.

“Se non volete che riferisca tutto al Balì – gli intimò – dovete consegnarmi immediatamente la Contessa.”

“Mi spiace – disse lentamente il figlio del papa, prendendo un pezzo di pane e masticandolo a bocca aperta, in segno di spregio – ma sto per partire alla conquista di Pesare, e quella sgualdrina mi serve. Giovanni Sforza deve vederla inginocchiarsi davanti a me.”

“Madonna Sforza deve essere consegnata a me.” ripeté Yves d'Alégre: “In caso contrario, preparatevi a non avere più un esercito.”

“Non spetta a voi, questo genere di decisioni.” fece notare Cesare, che, tuttavia, principiava a essere più teso.

“Oh, davvero?” lo incalzò il francese: “Avete un'ora di tempo per consegnarmi quella donna. Se non volete, non fatelo. Vedrete, allora, se le mie sono minacce a vuoto o meno.”

Detto ciò, l'Alégre fece un rigido mezzo inchino e, con passo marziale, se ne andò.

Di colpo, il Borja non aveva più fame. Con lo stomaco chiuso, scansò il piatto ancora pieno di carne di maiale e si alzò. Passandosi una mano sulla barba scura, si chiese quanto ci fosse di vero nelle parole del francese. Poteva davvero permettersi di correre il rischio che le minacce fossero concrete?

Forse era il caso di guardare alla questione nel suo insieme: suo padre voleva la Tigre a Roma per interrogarla. Forse era il caso di fargliela avere il prima possibile.

Presa la decisione, Cesare lasciò la Murata per raggiungere il campo francese. Si sentiva quasi sollevato. L'ultima notte, in tutta sincerità, era stata un disastro anche per lui e non solo per la sua prigioniera.

“Quando partirò per Pesaro – disse il Duca di Valentinois arrivato al cospetto di Monsignor Yves d'Alégre – lascerò Madonna Sforza alla vostra custodia, affinché la scortiate a Roma.”

Anche se i toni e i termini non erano quelli che il francese aveva cercato d'imporre, la sostanza era ciò che gli interessava, perciò, sorridendo, rispose: “Siete più saggio di quello che sembrate, Duca.”

 

   
 
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