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Autore: Mary Grhantam    10/06/2020    3 recensioni
Nonostante quella meravigliosa creatura che è J.K. Rowling ci abbia donato l'epilogo dei diciannove anni dopo, io non sono mai riuscita a smettere di pensare a come sarebbe potuta proseguire la storia, tutta la storia di Harry Potter.
Tante volte mi sono chiesta come si sarebbe svolta la prima alba del mondo magico dopo la battaglia, in che modo la comunità avrebbe potuto risollevarsi, quali nuove sfide o avventure avrebbero atteso i personaggi.
Nel fondo del mio cuore questa saga si è conclusa con Harry che, dopo aver finalmente sconfitto Lord Voldemort, si rifugia nella torre di Grifondoro per dormire e riprendersi dai lunghi sforzi fatti.
É esattamente da lì che oggi voglio ricominciare: dal risveglio di Harry nel dormitorio che tutti conosciamo, ore dopo la battaglia.
I personaggi poi parleranno con la loro voce e agiranno secondo il loro carattere, portando questa storia in un continuo divenire.
Non so pertanto anticiparvi cosa succederà o quali saranno gli amori che sbocceranno.
La storia ricomincia, lì dove è stata lasciata, nella lontana alba che mise fine alla più oscura era della storia magica contemporanea...
Genere: Avventura, Commedia, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Draco Malfoy, Ginny Weasley, Harry Potter, Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Draco/Harry, Harry/Ginny, Ron/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Un rumore sordo, secco e ritmico riportò Harry alla veglia. 
 
Fu come risvegliarsi dalla morte, pensò, mentre con gli occhi ancora chiusi si sforzava di mettere ordine nella mente confusa dal sonno. 
Le palpebre pesanti, come non si fossero più aperte da anni. 
Il corpo indolenzito e dolorante. 
Le mani formicolanti e tese come se in poche ore avessero fatto quello che normalmente richiede una vita per essere compiuto. 
 
Harry aprì lentamente gli occhi: macchie sfocate di luce gli vorticarono nell’iride dandogli un brutto senso di disorientamento, quasi di nausea. 
Senza accorgersene si portò una mano sugli occhi a schermare quel bagliore, mantenendo le palpebre ben aperte sotto le dita serrate, sforzandosi di svegliarsi.
Si concentrò sul nero davanti a sé, come se il fatto di tenere gli occhi aperti ma privi di cose da osservare gli permettesse di vedere meglio cosa c’era nella sua testa. 
 
Restò così per quelli che potevano essere pochi secondi o alcune ore, non sarebbe mai stato in grado di dirlo, mentre il rumore secco e sordo che lo aveva svegliato continuava.
 
Al ritmo di quel suono la distesa nera davanti al suo sguardo iniziò a dipanarsi e le fila intricate dei ricordi colorarono quella vista scura: corridoi distrutti, urla, lampi di luce e…Harry sentì il corpo tendersi di colpo, un fiume di urgenza e adrenalina invase i suoi muscoli donandogli una strana forza. 
In un gesto involontario scattò in piedi, si levò le dita dal volto e camminò in avanti.
La luce lo investì nuovamente ma questa volta, come spinto inconsciamente da quella strana forza, la sua mano volò chissà dove intorno a lui e afferrò i suoi occhiali, appoggiandoglieli sul naso.
 
Il dormitorio dei Grifondoro era vuoto, inondato di luce e immerso nel silenzio. 
 
Così come si era teso il corpo di Harry si rilassò facendolo barcollare un poco sul posto. Un nuovo ricordo gli affiorò alla mente, sostituendo quelli che lo avevano indotto ad alzarsi: il corpo senza vita di Voldemort gettato nel ripostiglio delle scope. 
 
Non doveva più correre da nessuna parte. Da nessuna parte.
 
Quell’urgenza nervosa che lo aveva accompagnato negli ultimi anni della sua vita rendendolo sempre vigile e reattivo anche se allo stremo delle forze; quella strana pressione sia emotiva che corporea che lo induceva ad andare avanti; quella spinta involontaria che il suo corpo attuava ogni qual volta era desto, la stessa che lo aveva fatto alzare non più di pochi secondi fa, lo abbandonò del tutto.
 
Harry si lasciò cadere a terra appoggiando la schiena contro le pietre fredde del pavimento, lo sguardo rivolto al soffitto.
Per un attimo non sentì niente: fu come essere sordo, cieco, muto e privo di fantasia tutto allo stesso tempo. 
Poi un torpore iniziò a solleticargli le piante dei piedi salendo su fino alle gambe, risvegliando il dolore diffuso di ogni livido e taglio, fermandosi all’altezza dell’ombelico quel tanto da fargli tornare un vago senso di nausea.
Il petto, lì dove l’anatema di Voldemort lo aveva colpito, bruciava come se gli avessero messo petardi accesi e firewhiskey all’interno della cassa toracica. 
Le mani, le braccia e la schiena erano forse le parti che gli dolevano di più: fisicamente erano messe meglio delle gambe ma ancora cariche di quel peso immane a cui gli ultimi anni della sua vita lo avevano condannato.
 
Tutto al di sotto del collo era caldo, doloroso e indolenzito.
La testa però…quella era fresca come una mattina di primavera. 
 
Con sua grande sorpresa Harry si rese conto che nulla, assolutamente nulla all’interno della sua mente gli faceva male. Anzi ogni ricordo, anche quelli più brutti legati a coloro che erano morti, era sovrastato da una spessa e pesante cortina di…di…pace. 
 
Pace.
 
Era quella la parola.
 
Pac…SBAM!
 
La finestra del dormitorio si frantumò in mille pezzi ricoprendo Harry di vetri colorati. Un forte urlo acuto non appartenente ad un essere umano rimbombò nella stanza e una pioggia di cose leggere e lisce lo investì. 
 
Harry in un attimo si tirò su a sedere sul pavimento, leggermente allarmato.
Erano…lettere. Un immenso cumulo di lettere di ogni colore e dimensione sparpagliate ovunque per la stanza circolare. 
 
L’urlo acuto si ripeté nuovamente e Harry volse lo sguardo alla sua destra: un gigantesco barbagianni ambrato lo fissava con aria torva, facendo scoccare il becco. 
 
Ecco cos’era quel suono, pensò Harry sorpreso. Il barbagianni doveva aver battuto per ore alla sua finestra in attesa che lui gli aprisse per entrare, beccando così intensamente il vetro da romperlo.
 
Harry tese una mano in direzione del pennuto ed egli gli si avvicinò sbattendo le ali ma, appena le dita del ragazzo gli sfiorarono il becco, un altro urlo stridulo gli uscì fuori e una nuova ondata di vetri travolse Harry. 
 
Ora non uno ma dieci, forse venti pennuti riempivano la stanza, carichi di lettere e pacchi. 
Ovunque Harry potesse guardare c’erano ali che sbattevano, piume che turbinavano e un forte odore di escrementi. 
 
Il ragazzo proruppe in una fragorosa e selvaggia risata, di quelle che si fanno con la pancia, d’istinto. 
Quella scena surreale gli ricordò una domenica di quasi otto anni fa. Quando ancora non sapeva di essere un mago, quando ancora non sapeva nulla…ed era solo Harry.
Il salotto dei Dursley era stato riempito da uno stormo di gufi pieno di lettere d’ammissione a Hogwarts e i suoi zii avevano iniziato ad urlare.
 
Continuò a ridere e in fondo al suo cuore si sentì, per la prima volta dopo tanto tempo, solo Harry. Un ragazzo come tutti gli altri, un bambino con il cuore puro.
 
La sua risata si trasformò in pianto. Lacrime salate gli rigarono la faccia come un fiume in piena appannandogli la vista. La gioia più genuina si mischiò al dolore più profondo, alla rabbia più animale. Ripensò a Sirius, a Fred, a Tonks a tutti coloro che non erano più lì. Si ricordò dell’angosciante voce di Voldemort dentro alla sua testa, delle sagge parole di Silente. Rivisse la paura ed il tormento, la stanchezza…
 
Pianse come non aveva mai fatto invita sua.
Stropicciò le lettere ai suoi piedi e urlò forte, a pieni polmoni, rischiando di strozzarsi con la sua stessa saliva.
Strappò le spesse tende rosse dal suo letto a baldacchino e rovesciò il comodino alle sue spalle, distruggendo ogni cosa gli capitasse a tiro. 
 
Dopo quello che sembrò un tempo interminabile si calmò, abbandonandosi di nuovo a terra e respirando forte.
 
I gufi, per niente spaventati dalle urla di Harry, gli si strinsero intorno, quasi comprensivi. 
 
Harry attese qualche minuto, abbandonato al senso di vuoto profondo che segue un lungo pianto. 
 
Poi, con una lentezza estrema, si rimise a sedere e osservò le lettere. Venivano da ogni parte del mondo e mostravano le calligrafie più disparate.
Distrattamente raccolse quella a lui più vicina e l’aprì:
 
Al sig. Harry Potter,
 
da diverse ore ormai il mondo magico è caduto nel caos più totale.
Il Ministero della Magia britannica è caduto e un nuovo Ministro è stato eletto. 
Diverse celle del carcere di Azkaban sono state aperte per liberare una lunga lista di prigionieri ingiustamente condannati.
Gufi di ogni taglia e dimensione sfrecciano nei cieli di ogni paese.
Interi dipartimenti di Auror operano senza sosta la caccia a coloro che erano devoti a colui che non deve doveva essere nominato.
I maghi e le streghe di ogni dove urlano signor Potter, di rabbia e di giubilo. 
Il mondo magico è nel caos signor Potter, nel caos amorfo che segue la fine di tutte le guerre.
 
Per questo io la ringrazio Signor Potter, la ringrazio di cuore!
Che da oggi possa esserci un lungo periodo di quiete per tutti coloro che hanno sofferto!
 
Con tutta la devozione di cui sono capace,
 
Georgia Simford.
 
 
Harry sbattè le palpebre, asciugandosi il viso ancora umido con il dorso della mano. Gettò in terra la lettera e ne prese un’altra:
 
 
Lei ci ha salvati Signor Potter!
Lei ha fatto ciò che nessun’altro era in grado di fare! Un giorno la storia la loderà per questo!
Oggi però sono io a lodarla! Grazie a lei la mia adorata bambina è viva, tutta la mia famiglia è viva!
 
Che Merlino la abbia in gloria!
 
Vanessa Goldstin
 
 
Harry aprì un’altra lettera e poi un’altra ancora. Lesse freneticamente tutte quelle che gli capitavano a tiro. Erano lettere di gioia, devozione, ammirazione, gratitudine, sfogo e dolore. Erano lettere di chi aveva scoperto che un periodo oscuro della storia era finito. 
 
Attaccati ad alcuni gufi c’erano pacchi colmi di dolciumi e fiori, oggetti di valore e fotografie. 
 
 
Harry si sentì stordito: tutte quelle lettere, tutte quelle persone avevano scritto a lui? 
Cosa doveva farne? 
Si strinse nelle spalle: non era ancora pronto ad affrontare il mondo esterno, a confrontarsi con gli altri. Aveva bisogno di pensare, di capire. O forse solo di aspettare.
Al momento non era in grado di pensare nemmeno a cosa avrebbe fatto di lì a pochi minuti, figuriamoci a cosa stava succedendo al di fuori del castello.
 
Il castello. In quel momento si ricordò di non essere solo in quelle mura. Da quando si era svegliato era come se tutto il mondo conosciuto fosse costituito dalla stanza circolare che era il dormitorio e che le uniche forme di vita fossero lui e i pennuti. 
Fece mente locale: chissà che ore erano, quanto tempo era passato da quando era salito alla torre per dormire. 
Sarebbero potuti essere giorni come poche ore, non ne aveva la benché minima idea.
 
Harry si alzò faticosamente in pedi e, nello sforzo, la sua pancia emise un forte brontolio: stava morendo di fame. 
Immediatamente l’unica cosa a cui gli riuscì di pensare fu il cibo.
 
Vagliò la stanza alla ricerca della sua bacchetta e ne scorse l’impugnatura al di sotto del comodino rovesciato.
Lo rimise in piedi delicatamente, grato di vedere la sua bacchetta ancora tutta intera. Se dopo essere riuscito a ripararla con la bacchetta di Sambuco l’avesse rotta schiacciandola sotto un comodino sarebbe stato capace di picchiarsi da solo e gettarsi nel lago nero.
 
Si infilò la bacchetta nei pantaloni e si avvicinò alla porta. Non era veramente ancora pronto per il mondo esterno. Uscendo da quella stanza avrebbe potuto imbattersi in chiunque, per quanto ne sapeva tutta la popolazione magica avrebbe potuto essere radunata pochi piani più in basso. Decise allora di coprirsi con il mantello dell’invisibilità e, non appena celato sotto il suo incantesimo, discese lentamente le scale in direzione della sala comune.
 
Harry si sarebbe aspettato di trovarla vuota, vuota come il suo dormitorio e deserta come nella sua mente era deserto il castello; invece ospitava un gran numero di persone. 
Aveva fatto bene a mettersi il mantello, pensò. 
 
In uno dei divani principali presenti nella sala, quello più grande e confortevole, sedeva la signora Weasley: i suoi occhi erano chiusi ma la sua bocca intonava una dolce canzone, simile ad una ninna nanna. 
Tra le sue braccia giacevano addormentate due figure minute: una aveva folti capelli rossi e l’altra un cespuglio intricato di ricci. 
Molly Weasley accarezzava con calore le teste di Ginny ed Hermione, stringendole a sé come un tesoro prezioso da dover proteggere. 
Ai suoi piedi, distesi supini sul tappeto di fianco al camino e raggomitolati in delle coperte, Percy e George guardavano distrattamente il soffitto, in contemplazione. Il braccio del fratello più grande era avvolto intorno alle spalle dell’unico gemello rimasto come a sostenerlo, come ad evitare che anche lui potesse scivolare via da un momento all’altro. 
 
Ad Harry venne nuovamente da piangere, quella scena aveva un che di meraviglioso e raccapricciante allo stesso tempo. 
 
Il resto della stanza era ghermita di quei pochi studenti maggiorenni di Grifondoro che erano rimasti a combattere e che grazie a Merlino erano sopravvissuti, accompagnati dai loro famigliari. 
Genitori commossi stringevano a sé i propri figli, gli aiutavano a preparare i bagagli per tornare a casa, controllavano le ferite e si complimentavano con loro.
 
Dean Thomas e Seamus Finnigan stavano raccontando concitati come avevano fatto a far esplodere il ponte ad un’incredula signora Finnigan. 
Calì Patil abbracciava e stringeva quella che doveva essere la mamma di Lavanda Brown: una signora alta e bionda, gli occhi talmente arrossati dal pianto da non distinguerne il colore; davanti a sé aveva il baule aperto della figlia morta e sistemava con cura ogni oggetto, quasi come se rivedesse la sua amata bambina in ogni forma. 
 
Nonostante le tante persone il volume della stanza era molto basso: chi parlava o gioiva lo faceva sottovoce, nel totale rispetto di chi piangeva i propri morti o semplicemente si riposava.
 
Harry cacciò indietro le lacrime e uscì da buco del ritratto. Era decisamente troppo presto per affrontare il mondo esterno.
 
 
***
 
 
Appena fu nel corridoio si diresse spedito verso le cucine. “Mangiare” borbottò tra sé, prima di ogni altra cosa doveva mangiare. 
Raggiunse il corridoio che portava alla grande stanza in cui gli elfi domestici preparavano i deliziosi banchetti di Hogwarts: alcuni studenti di Tassorosso stavano decorando giganteschi vassoi argentati. 
Il professor Vitious dirigeva l’operazione insegnando loro particolari incantesimi di abbellimento.
“Professore!” esordì uno dei ragazzi “il mio nastro continua a cambiare colore e spara scintille invece di illuminarsi!” 
“Questo perché impugna la bacchetta come se stesse affrontando un mangiamorte signor Donald…” ribattè divertito il professore “ci vuole più delicatezza, ecco faccia come me…”
 
Quel commento rasserenò Harry: nessuno si sarebbe mai sognato di dire una cosa del genere tra quelle mura pochi giorni prima, se non ore. Harry non sapeva quanto tempo fosse effettivamente passato dalla fine della battaglia. 
Il fatto che qualcuno potesse citare i mangiamorte liberamente, fare addirittura dell’ironia a riguardo, gli fece realizzare ancora una volta che la guerra era finita. Finita sul serio. 
 
Superò il gruppetto di studenti e entrò in quella che era la cucina. Una trentina di elfi domestici erano all’opera: pentole colme di salse sfrecciavano per la stanza rovesciando qualche goccia sul pavimento, una dozzina di tacchini giravano a mezzaria sopra il fuoco, una torta alta come una persona veniva decorata da tante piccole sac à poche colorate.
Harry rimase sorpreso sulla soglia: perché tutti quegli elfi erano li? Non erano stati evacuati? Per chi stavano cucinando e soprattutto per quante persone?
L’infilarsi nella cucina per sgraffignare qualcosa di nascosto, senza essere notato, si stava rivelando per Harry più difficile di quanto non avesse immaginato. 
 
Provò ad entrare cautamente nella stanza. Subito una padella bollente lo urtò violentemente sul fianco cadendo per terra.
“Stai attenta Winkie!” gridò un elfo particolarmente grinzoso verso l’altro lato della cucina “Abbiamo così tanto da cucinare che non possiamo permetterci questi incidenti!”
Winkie squittì desolata risollevando la padella caduta e pulendo il pavimento.
 
Harry si sentì vagamente in colpa: essendo coperto dal mantello le pentole incantate non potevano schivarlo. 
Decise allora di chinarsi e camminare a quattro zampe sul pavimento, raggiungendo una teglia di patate al forno. Veloce afferrò una forchetta, un piatto e lo riempì di patate al forno; senza rendersi conto che nei vari movimenti i piedi erano fuoriusciti dal mantello.
 
“Potter!” Esclamò una voce.
Harry si irrigidì, colto sul fatto.
La professoressa Mcgranitt si avvicinò decisa a lui togliendogli il mantello da dosso: il ragazzo era curvo e piegato in avanti con la bocca aperta pronto ad addentare una patata arrosto. 
“Potter, ma le sembra questo il modo di comportarsi?!” la professoressa lo fissò con un cipiglio di rimprovero.
Pazzesco, pensò Harry, nonostante avesse sconfitto Lord Voldemort giusto qualche ora prima il cipiglio della Mcgranitt riusciva lo stesso ad intimorirlo come se avesse avuto ancora undici anni. 
“Ehm…mi scusi professoressa?” provò Harry.
“Risparmi le sue scuse Potter e fili in infermeria! Santo cielo ha ancora tutti gli abiti sporchi di sangue e le sue ferite non sono ancora state rimarginate. Dov’è stato tutto questo tempo? Corra a farsi medicare la prego! Io devo sbrigare delle urgenti ma non appena avrò finito la raggiungerò.”
Harry deglutì profondamente: “Certo professoressa” la sua voce era ferma ma poco convinta.
Ciò nonostante si avviò verso l’uscita con lo stomaco che brontolava più di prima.
“Ah Potter?” la Mcgranitt si rivolse nuovamente a lui, la sua voce era leggermente più dolce “Non sta dimenticando qualcosa?”
Harry si girò e vide la professoressa tendergli il piatto pieno di patate arrosto insieme al mantello dell’invisibilità.
La guardò sorpreso.
“Deve star morendo di fame…e capisco che lei voglia passare inosservato dopo tutto quello che è…ecco, successo. Mi raccomando però: vada in infermeria e ci resti fino al mio arrivo, ho diverse cose da dirle.”
Harry le sorrise annuendo, un sorriso spontaneo, quasi divertito.
Prese il mantello e il piatto dalle mani della Mcgranitt e fece per uscire.
“Potter un’ultima cosa…”
Il ragazzo si girò ancora una volta, gli occhi della professoressa fissi su di lui.
“Grazie” disse lei. 
La parola le era uscita in maniera naturale e diretta, una parola semplice e allo stesso modo carica di significato.
Harry annuì ricambiando il suo sguardo, poi si gettò addosso il mantello e scomparve nel corridoio; gustandosi finalmente il suo agognato piatto. 
 
 
   
 
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