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Autore: Cassandra caligaria    13/06/2020    2 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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La seguii verso l’ascensore, uno dei miei incubi sociali peggiori.
Condividere l’ascensore con altre persone era una delle situazioni che più mi metteva a disagio nella vita, in genere. Provavo sempre un forte imbarazzo quando dovevo prenderlo insieme a qualcuno che conoscevo poco o che non conoscevo affatto.
Mi capitava perfino con qualche inquilino del palazzo in cui abitavo e con cui ero solito scambiare qualche parola: se li incontravo fuori dall’ascensore andava tutto bene, mi comportavo nel rispetto delle norme sociali, ma dentro quell’abitacolo non sapevo cosa dire; cosa fare; dove guardare; come, dove, quando e se respirare.
Perché non esisteva un decalogo di regole di comportamento da tenere in ascensore?
E non ero il solo a provare quel disagio.
Spesso mi ritrovavo a condividere il viaggio con altri disagiati come me che adottavano strategie disastrose per superare l’imbarazzo di quei momenti, ma che in realtà non facevano altro che amplificarlo.
C’era chi batteva i piedi per terra trasmettendo un’ansia assurda, chi non faceva altro che guardare incessantemente i numeri dei piani che si illuminavano – sperando forse di velocizzare così il viaggio – e chi doveva dire per forza qualcosa.
Poi c’erano quelli che facevano le scale, per i quali provavo la massima stima, ma io ero troppo pigro.
Quindi, di solito, sopportavo quel supplizio in religioso silenzio, studiando ogni granello di polvere depositata negli angoli del vano e aspettando con trepidazione l'apertura delle porte.
Lei non apparteneva a nessuna di quelle categorie di persone.
Era totalmente a suo agio.
Respirava, parlava, osservava e si muoveva con assoluta naturalezza.
E, stranamente, forse complice il fatto che non cercasse deliberatamente di ignorarmi e che fosse assolutamente tranquilla, non provai alcun disagio e mi godetti i vantaggi di quel viaggio.
Approfittai del tempo che dovevamo trascorrere all’interno dell’abitacolo per studiare tutti i particolari che mi erano sfuggiti prima, nel parcheggio.
Senza giacca, da vicino e vista davanti, dovetti ricredermi su quello che avevo pensato qualche ora prima.
Non era bella.
Molto di più.
Era assolutamente affascinante ed era consapevole di esserlo.
Doveva avere all’incirca la mia età. Stranamente non indossava scarpe col tacco, ma delle sneakers e nonostante questo era poco più bassa di me. Quando spostai lo sguardo dai piedi a tutto il resto mi resi conto che era vestita in maniera piuttosto casual per il ruolo che ricopriva: semplici pantaloni neri aderenti e una blusa bianca che, sebbene avesse un taglio morbido e lo scollo a giro, camuffava molto poco il suo generoso decolté che si muoveva seguendo il ritmo cadenzato della sua respirazione.
Deglutii. Ottimo lavoro, madre natura.
Non indossava accessori particolari, solo un paio di semplicissimi orecchini punto luce in oro bianco, che notai quando si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e un sottile orologio in acciaio.
Non era molto truccata e non aveva bisogno di agghindarsi: era bella di suo e lo sapeva.
Aveva un viso magnetico: gli occhi azzurri, vispi e penetranti, il naso alla francese su cui faceva capolino qualche efelide, le labbra piene e rosse.
L’incarnato era pallido, leggermente rosato sulle guance.
I suoi capelli erano di media lunghezza, di un bel castano scuro, il colore del caffè. Erano lisci e folti, ma le punte che le si appoggiavano sulle spalle si incurvavano leggermente verso l’alto e all’indietro. Sembravano molto morbidi.
E aveva un profumo che mi solleticava i sensi. Era estremamente delicato, fresco e floreale, quasi innocente, ma non riuscivo a identificarne la fragranza.
 
 
Il suo ufficio era al sesto piano, l’ultimo dell’edificio, ed era interamente occupato da lei, non c’era nessun altro su quel piano, perfino la sua segretaria aveva la postazione al quinto.
Chiamarlo semplicemente ufficio era come definire il Vaticano una chiesa: riduttivo.
No, quello non era il suo ufficio, era il suo regno, progettato e studiato in ogni minimo particolare e non aveva alcuna intenzione di condividerlo con nessuno.
Ero affascinato dal modo in cui si muoveva sicura e padrona di sé, senza alcuna esitazione nei passi; dal modo in cui lo sguardo fiero accarezzava quelle pareti e quelle vetrate, dal modo in cui sembrava riempire quegli spazi con la sua presenza e il suo portamento elegante. Aveva trovato il suo posto nel mondo o forse aveva fatto di quel posto il suo mondo, e doveva essere proprio una bella sensazione a giudicare da quanto fosse piacevole osservarla.
Il perimetro del piano era per lo più occupato da vetrate, c’era moltissima luce, riflessa e amplificata dalla predominanza di colori chiari nel mobilio e nei complementi d’arredo. Il parquet era tirato a lucido e niente sembrava essere fuori posto, dai quadri agli scaffali pieni di libri, dagli schedari a cassetti all’enorme stampante che stava di fronte all’ascensore.
Le linee dell’arredamento erano semplici e moderne, molto eleganti, come del resto avevo già avuto modo di ammirare facendo il giro del mio piano. Sicuramente doveva aver scelto tutto lei.
Mi fermai vicino a una delle vetrate, si godeva una vista pazzesca di quell’angolo della città. Lei se ne accorse.
«Bello, vero?» non sapevo a cosa si stesse riferendo, se al suo regno o alla vista, ma sì, era senz’altro tutto molto bello.
Annuii sorridendole, non ero ancora sicuro di riuscire a parlare senza fare altre figuracce.
 
 
«Le piace il caffè, Edward? Posso offrirgliene uno?» mi domandò dopo avermi fatto accomodare su una delle due poltrone sistemate vicino a un tavolino in un angolo della sua stanza evidentemente adibito per concludere trattative.
Quando ci eravamo presentati?
Dovette leggere la domanda muta sul mio volto.
«Rosalie mi ha detto il suo nome, che oltretutto è scritto anche sul tesserino che indossa» puntualizzò indicandolo con lo sguardo.
Che idiota.
«Io sono Isabella, anche se mi chiamano tutti Bella e lo preferisco al mio nome intero», disse porgendomi la mano.
Lei ovviamente non indossava il tesserino come noi comuni dipendenti. Sapevano tutti chi fosse lei.
«Molto piacere» risposi sinceramente, stringendole la mano. Com’era vellutata e fresca la sua pelle.
«Se non le dispiace, potremmo darci del tu. Siamo abbastanza informali in azienda» fece un mezzo sorriso.
«Certamente» le risposi sorpreso.
«Allora, ti piace il caffè, Edward?»
«In realtà non molto, preferisco il tè», ammisi, grattandomi i capelli sulla nuca, «ma lo accetto volentieri, grazie.»
«Oh», fece un sorriso furbo.
Dovette cogliere il paradosso nella mia affermazione. Ero appena stato assunto da un’azienda che produceva e commerciava caffè e avevo ammesso candidamente che non mi piaceva.
«Immagino che sfrutterai poco lo sconto riservato ai dipendenti, allora» ridacchiò.
Sempre più punti a mio favore.
«Questo è un espresso», spiegò prima di azionare un rumoroso macinino e armeggiare vicino ad una strana ed enorme macchina per il caffè piena di leve, termometri e manometri che emetteva strani rumori e sbuffi: sembrava la cabina di comando di una locomotiva a vapore.
Tutto quel casino per una tazza di caffè?
«È molto diverso dal caffè americano. Credo che ti piacerà» disse sicura.
Quando l’affare infernale finì di sbuffare, sistemò sul tavolino un vassoio contenente due tazzine di espresso e si accomodò di fronte a me.
Mi corressi: tutto quel casino per una micro-tazza di caffè?
«Zucchero?»
«Sì, grazie.»
Lei non ne mise nel suo.
«Io lo bevo amaro» si giustificò.
«È decisamente diverso dal caffè americano», dissi toccandomi il mento, «è molto più intenso e… buono» dovetti ammettere.
Il casino aveva un senso: era buono sul serio.
«È la nostra miscela più pregiata», colsi una punta di orgoglio nella sua voce.
«Dovresti provarlo senza zucchero, così potresti percepirne tutte le note. Lo zucchero altera e copre le varie sfumature di sapore» mi suggerì.
Era proprio un’esperta, allora.
«Hai ragione, in effetti bevo il tè senza zucchero proprio per questo motivo» ammisi e mi sorrise soddisfatta.
Forse ce l’avrei fatta a convincerla che non ero un totale idiota fino alla fine di quella giornata.
«Ci tenevo a conoscerti, seguo sempre l’iter di selezione dei miei dipendenti e ci tengo ad accoglierli personalmente in azienda. Stavo per farti chiamare, quando ci siamo incontrati vicino alla sala ricreativa.»
Come non detto.
«Io… Ti devo delle scuse. Non volevo indicarti, spero di non esserti sembrato poco educato. Siccome ci eravamo già incontrati questa mattina, stavo chiedendo al mio collega se anche tu lavoravi qui» ammisi un po’ in imbarazzo.
«Come stanno le tue scarpe?» mi domandò divertita indicandole con lo sguardo.
«Oh, hanno avuto momenti migliori» risposi sorridendo. Mi sorrise anche lei di rimando e mi sentii un po’ più rilassato, non sembrava essersela presa.
Forse c’era una speranza.
«Se non ricordo male hai due lauree, non è vero? Una delle quali in storia antica. Mi aveva colpito molto questo particolare del tuo curriculum» proseguì, toccandosi il naso con l’indice sinistro.
Accidenti, che memoria!
«Ricordi bene. Ho preso la mia prima laurea in storia, ma faticavo a trovare un impiego decente. Così, mi sono iscritto alla facoltà di economia ed eccomi qui».
«È dura la vita per gli umanisti, purtroppo» disse pensierosa, continuando a picchiettarsi delicatamente la punta del naso.
«Sembri parlare per esperienza».
Da quando ero diventato così spigliato?
Sospirò e fece spallucce.
«Scusami, non volevo essere inopportuno e indiscreto» mi giustificai.
E il premio per la miglior prima impressione con il capo va a Edward: prima calpesti escrementi per terra, poi la indichi con un dito, infine ti impicci dei fatti suoi. Sicuramente ti premierà come impiegato dell’anno.
«Non lo sei stato, non ti preoccupare», disse scuotendo il capo.
Avrei voluto rassicurarla sulla mia proprietà di linguaggio, ma quel giorno, a quanto pareva, riuscivo a dire solo “merda” e “scusa”, quindi mi limitai a rivolgerle un timido e imbarazzato sorriso.
«Sono felice che ti sia unito al nostro team, spero ti troverai bene qui con noi» disse alzandosi dalla poltrona e porgendomi di nuovo la mano.
Era il segnale per congedarmi.








Grazie alle fanciulle che si sono fermate a lasciarmi una recensione per il primo capitolo, spero che vi piaccia anche questo!
Stamattina mentre revisionavo questo capitolo, mi è partita l'ispirazione per un'altra piccola storia e non potevo di certo ignorarla.
Se vi va di leggerla, la trovate qui Tre nodi e un desiderio
A sabato prossimo!

 

  
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