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Autore: Lapiuma    14/06/2020    1 recensioni
"Attrazione.
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3.
Il nostro secondo incontro va in scena a casa di Alice, una dozzina di giorni dopo il primo. Il suo minuscolo attico è gremito da una folla adorante, che gravita attorno alla sua figura fulva, incandescente. Sono come lucciole intorno a una fiamma: cercano di partecipare del suo fulgore luminoso senza rimanere bruciate. La calca, però, permette che la presenza di Andrea sfumi nell'indistinto, che il suo potere attrattivo si riverberi in corpi a me estranei. Dietro ad essi mi trincero, combatto la mia guerra silenziosa. 
Tento, invano, di immergermi nella conversazione che Sofia e il nostro gruppo di amici intrattengono intorno a me: stanno parlando dei corsi penso, ma non ne sono sicura. La mia attenzione continua a sfuggire per vie impervie e sconosciute: una fiamma che arde in mezzo alla stanza, bruciando tutto l’ossigeno, un ragazzo che la guarda rapito, ignorando tutto il resto, una nube temporalesca che rumoreggia in un angolo. Sofia mi tamburella su un ginocchio, richiama il mio sguardo su di sé: inarca un sopracciglio, che hai? Sei ancora tra noi o ti devo dare per morta? Stiro le labbra, sforzandomi di sorridere, allontano la sua preoccupazione con lo svolazzo di una mano: sono viva, puoi stare tranquilla mammina. Per dimostrarglielo, quando Filippo si produce in una pessima imitazione di un nostro professore, mi obbligo a ridere. Le sue occhiate scettiche, però, mi dicono che non se l’è bevuta. Mi chiedo perché, dato che questo abisso umorale è divenuto ormai la mia seconda natura: uscirne richiederebbe una forza a me aliena. 
Quando lo scorgo dall’altra parte della stanza, sussulto, sorpresa, come se mi avessero scoperta a rubare. Come mai è qui? Non pensavo che sarebbe stato presente. Distolgo subito lo sguardo, mentre si insinua in me una sottile spirale di panico, che sembra sbocciarmi nel petto e scendere fino allo stomaco. Per fortuna Sofia non lo nota, altrimenti mi avrebbe costretta a salutarlo e non credo di esserne in grado: se penso alle cose che ho visto, a quelle che ha visto lui, dopo che io, io stessa, gliel'ho permesso, la spirale si stringe, muta in un ramo d’edera soffocante. La vulnerabilità istintiva, naturale, a cui inconsciamente mi sono lasciata andare l’altra sera, mi è così estranea nella maggior parte dei casi da mettermi in allarme: di solito tengo a distanza le persone, esercito un minuzioso controllo su quello che di me sanno o che da me ricevono. Rifiutarle, tracciare un'immaginaria linea invalicabile tra me e loro, mi dà l’impressione di avere un potere immenso. È un’illusione contro natura, il gioco grottesco di chi ha paura, ma è anche l’unica via per assicurarsi l’indipendenza senza la quale non essere feriti diventa impossibile. Eppure, l’altra sera sono stata vicinissima a sorpassare quella linea, pericolosamente protesa oltre di essa, inspiegabilmente favorevole a gettare al vento ogni preziosa cautela. E anche se ogni volta che in questi giorni vi ho pensato, sono stata sopraffatta da una paura e da una rabbia feroci, c’è una parte di me, che persiste accanita nell’esortami ad andare da lui. Una sconsiderata, folle parte di me, che non desidera altro che avvicinarglisi, parlargli, farlo ridere, scoprire cosa nasconde il dolore nei suoi occhi. E mi sussurra che, in fondo, ogni mia pretesa di indipendenza è già compromessa, che ogni mio tentativo di estraneità ormai è già irreparabilmente minato dalle mie stesse viscide brame. E sono sufficienti le onde di una voce, i frammenti di un viso a rendermene consapevole: io sono già debole. Quindi, in realtà, a cosa mi sto aggrappando? A un’illusione che è già stata svelata? A un nulla di sole parole? 
Ho solo la tremenda paura che quello che finora è stato uno stillicidio lento, con lui possa divenire un fiume in piena. 
Per questo, mi risolvo ad evitarlo per tutta la sera: non lo avvicino, non lo saluto, non lo faccio ridere. Rimango a gravitare intorno a Sofia, chiusa dietro la cerchia dei nostri intimi amici, costruendo nella mia testa scenari improbabili e catastrofici. Paradossalmente, evitarlo richiede un significativo dispendio di concentrazione, e ciò contribuisce alla mia frustrazione: preda di una stupida paranoia, ho il costante timore che venga a parlarmi. Quando non lo fa, la parte sadica di me, addirittura, osa rimanere delusa. In realtà, ben presto mi accorgo che il proposito di stare lontani è reciproco: ogni volta che per qualche motivo ci ritroviamo vicini, lui sguscia via, riduce a zero le possibilità di un incontro. E nonostante a tratti mi senta trapassata da uno sguardo da parte a parte, appena mi volto, i suoi occhi sono sempre rivolti altrove: addirittura il ficus rattrappito, che anni fa io e Sofia regalammo alla padrona di casa, sembra essere più interessante di me. Ma d’altronde anch’io sono altrettanto rapida e mi basta un guizzo delle sue ciglia per distogliere lo sguardo. Ed è un peccato, perché, da osservatrice cannibale quale sono, non desidererei altro che osservarlo con calma, scoprire come si comporta con gli altri, smascherare la sua freddezza. Vorrei avere il tempo e la libertà per ponderarlo senza alcuna fretta, per abituarmi alla sua presenza senza sentirmi presa d’assalto. Per qualche oscuro motivo, ho come l’impressione che non sarà così. 
L’unica cosa che, invece, riconosco fin troppo lucidamente è quanto sia ridicolo questo teatrino sotto un occhio razionale: ci conosciamo appena, per non dire per nulla, eppure siamo preda di una paranoia paralizzante. Che diavolo stiamo facendo?
Trascorro il resto del tempo in uno stato catalettico e quando giunge l’ora di andarcene, faccio in modi di attardarmi aiutando Alice a mettere in ordine. Solo per un attimo in cucina, mi ritrovo inavvertitamente sola con lui: si sta versando un bicchier d’acqua, ma appena mi vede, mi scocca un’occhiata indecifrabile ed esce dalla stanza. Poco dopo, quando lo sento salutare ed infilare la porta, tiro un sospiro di sollievo. Lascio passare cinque minuti, poi esco anch’io. Nonostante il freddo pungente, per tornare a casa scelgo la strada più lunga. 
   
 
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