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Autore: Adeia Di Elferas    14/06/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La giornata sembrava non passare più, eppure Caterina sapeva chele ore continuavano a scorrere, cadenzate dal rintocco delle campane che, puntuali, l'aiutavano a non perdere del tutto la cognizione del tempo.

Se ne stava seduta in terra, le braccia strette al petto e le gambe raggruppate. Non voleva stendersi a letto, e non poteva restare in piedi tutto il giorno. Avrebbe voluto fare un bagno, lavarsi di dosso il sentore della notte orribile che il Borja le aveva fatto passare, ma non aveva avuto la forza di chiedere alle guardie che presidiavano la sua porta di farle avere una tinozza con dell'acqua calda.

Le sembrava di non aver la forza di fare proprio nulla. Quasi le costava fatica respirare. Anche se fisicamente non stava troppo male – la gamba che si era ferita un paio di settimane prima stava lentamente guarendo, e, per il resto, il suo corpo era stato in grado di assorbire ogni cosa, perfino la furia delle violenze del Valentino – era la sua mente a non rispondere.

Si sentiva come chiusa in una bolla. Era una condizione abbastanza simile a quella in cui si era trovata a nemmeno dieci anni, nel palazzo di suo padre. Quella volta aveva cominciato a vedere la vita in modo diverso, con un distacco innaturale, per una bambina di quell'età. Aveva imparato a osservare in modo freddo il padre, le sue due madri, e tutti gli altri suoi conoscenti. Aveva saputo dominarsi, cambiando radicalmente i propri comportamenti al solo fine di ferire quelli che l'avevano tradita.

Questa volta, invece, non aveva nemmeno l'espediente di farla pagare a qualcuno con i suoi atteggiamenti. Era sola, inutile negarlo. Anche uomini a cui si era aggrappata, primo tra tutti Giovanni da Casale, l'avevano lasciata sola.

Misurarsi con la propria incapacità di impedire al figlio del papa di sopraffarla, l'aveva distrutta.

Non sapeva accettare il fatto che proprio lei, una donna che aveva conosciuto la guerra e la furia della battaglia, lei, che aveva anche ucciso a mani nude, lei che aveva fatto della propria forza un vessillo... Proprio lei non era stata in grado di difendersi davanti a un uomo solo, che, per altro, non era nemmeno un gran lottatore.

Così come per anni non era riuscita a reagire degnamente ai soprusi del suo primo marito, così si era trovata paralizzata con il Duca di Valentinois, e vedersi così inetta dinnanzi a uomini verso cui non provava la benché minima stima era per lei il dolore più pungente di tutti.

Era ormai pomeriggio, quando la Tigre sentì qualcuno armeggiare con la porta. Non si voltò nemmeno a vedere chi fosse. Convintissima che si trattasse del Borja, non si voltò nemmeno a guardare.

Perciò, quando sentì invece la voce di Yves d'Alégre, non poté trattenere un moto di sorpresa.

“Madonna – fece il francese, restando sulla porta, guardandola con un misto di compassione e incertezza, nel trovarla seduta in terra, raggomitolata su se stessa – volevo farvi sapere che il Duca è partito da poco per Sant'Arcangelo.”

Caterina, in un primo momento, non comprese appieno il senso di quella frase, tanto che domandò, atona: “Quindi devo prepararmi anche io per partire?”

L'Alégre deglutì e attese un istante. C'era qualcosa di diverso, nella donna che aveva dinnanzi, rispetto a quella contro cui lui e i suoi soldati avevano combattuto fino a una decina di giorni addietro. Quella sfasatura inattesa, tra la Tigre che aveva imparato ad apprezzare e la donna spaesata e un po' assente che lo fissava interrogativa, gli rendeva difficile comportarsi con naturalezza.

Fu infatti con una certa rigidità che disse: “No, no, voi starete qui con me alla Murata.”

La Sforza, finalmente, realizzò meglio quello che Yves le aveva comunicato all'inizio, tanto che chiese, di colpo più ricettiva: “Il figlio del papa mi ha restituita alla vostra custodia?”

“Esattamente.” confermò il francese, sollevato nel vedere come, in parte, gli occhi della Leonessa stessero tornando presenti.

“E non andremo subito a Roma?” fu la logica indagine della donna, che aveva creduto che Cesena fosse solo una tappa fugace e intermedia.

“Non subito.” annuì l'Alégre: “Prima voglio che vi riprendiate un po'. E nel frattempo devo badare ad alcuni affari. Tra qualche giorno, ci rimetteremo in marcia.”

“Posso avere una stanza diversa?” la richiesta della milanese era stata fatta con un tono tanto accorato, così diverso da quello autoritario che di norma usciva dalle sue labbra, che Yves non se la sentì di negarle quel favore.

“Certo.” annuì: “Vi farò subito preparare una nuova camera, e vi manderò due vostre dame di compagnia per aiutarvi a... Sistemarvi.”

Caterina, che indossava ancora l'abito che quella notte il Valentino aveva in parte strappato, lo ringraziò con un cenno del capo e poi, alzandosi a fatica, soggiunse: “Se anche la camera non è ancora pronta, preferirei andarci subito. Non voglio più stare qui...”

“Come preferite.” cedette all'istante il francese e, offrendole un braccio per aiutarla a non cadere, l'accompagnò in un'altra stanza.

 

Cesare aveva mal sopportato il viaggio fino a Sant'Arcangelo, il giorno prima, in parte perché un nevischio insistente aveva viziato l'intera traversata, e in parte perché la sensazione di aver fallito su almeno due fronti lo tormentava.

Aveva preso Imola e Forlì, su questo non ci pioveva. Ed era anche vero che aveva fatto sua la Leonessa di Romagna, in tutti i sensi possibili, andando a esaudire la promessa che si era fatto da solo molti mesi addietro.

Però non era stato capace né di mettere le mani sui figli di lei, né di tenersela come trofeo fino al suo ingresso trionfale a Roma.

Quel giorno, tuttavia, aveva cercato di scrollarsi di dosso quella sensazione di totale inadeguatezza, e aveva fatto del suo meglio per sfruttare l'ascendente che sentiva di cominciare ad avere su alcuni dei suoi sottoposti. Malgrado alla fine avesse vinto l'Alégre, la disputa per la custodia della Tigre doveva averlo messo in luce davanti a più di un comandante straniero.

Tanto per dirne una, quando aveva convocato una riunione straordinaria con i suoi generali, nessuno si era rifiutato di partecipare, come invece a volte era capitato quando ancora erano di stanza a Forlì.

Bisognava discutere di Pesaro, di come prendere la città e di come, eventualmente, trattare con Giovanni Sforza. Anche se il Borja avrebbe avuto tutta l'intenzione di mettere il parente della Leonessa in ginocchio con le armi, si rendeva conto di aver già sprecato abbastanza uomini e anche troppo tempo per prendere Ravaldino. Quindi, se fossero riusciti a trovare un accordo per loro vantaggioso, sarebbe stato tutti di guadagno anche per lui.

Aveva quindi passato l'intera mattina a discuterne con i suoi comandanti, incontrando in egual misura perplessità e sostegno, e poi si era ritirato per il pranzo.

Proprio mentre era a tavola, con la mente che tornava, imperterrita, alla Sforza e a come Yves gliela avesse infine strappata di mano senza che lui potesse fare nulla di che, Cesare venne raggiunto da un messaggero.

Si era staccato dal gruppo di forlivesi diretto a Roma, e aveva raggiunto Sant'Arcangelo al solo scopo di notificare al Valentino un dato di fatto: i quattro prescelti per andare a giurare fedeltà al papa avevano addotto quattro scuse differenti, e avevano tutti lasciato la missione, promettendo che quel giorno stesso sarebbero partiti da Forlì quattro sostituti.

Il Duca storse la bocca. Poteva ancora capire la scusa usata da Numai: Luffo, pareva, si era reso conto che un viaggio tanto lungo non era alla sua portata, perché la sua età lo aveva reso lento e malfermo. Avendolo conosciuto, il figlio del papa era sicuro che fosse sincero e, in effetti, lui per primo aveva dubito della salute del forlivese.

Gli altri tre, invece, avevano addotto scuse che andavano da affari urgentissimi a malattie di familiari vari. Anche se, quindi, nel loro caso, sembrava più che avessero addotto spiegazioni inconsistenti, il Borja provò a non arrabbiarsi.

“Evidentemente – disse, più a se stesso che alla staffetta – con la defezione di Numai, gli altri non si sono più sentiti all'altezza della missione. Sappiamo i nomi dei sostituti?”

Il messaggero annuì e riferì i quattro nominativi. Tra loro c'erano Gaspare Moratini e Bernardino Paolucci. I cognomi di entrambi – l'uno per antichità di famiglia, e l'altro per parentela stretta con Luffo – convinsero il Valentino del fatto che in quella mossa non vi fosse altro se non un reale bisogno fisico del Numai.

“Mi auguro che questi nuovi ambasciatori siano più in forze e possano sopportare qualche giorno di viaggio sotto la neve – commentò sprezzante il Duca, prima di mandare via il messaggero con impazienza – lasciatemi finire di mangiare, ora. Più tardi ho altri impegni importanti, non ho tempo per queste cose...”

 

“Siete una novizia?” il ragazzo che curava l'orto e i giardini delle Murate aveva posto la sua domanda solo dopo essersi accorto dell'insistenza con cui Bianca lo stava fissando.

La ragazza, soprappensiero, era seduta su una delle panche in pietra che costeggiavano la parete del cortile interno, e non si era quasi accorta di aver indugiato tanto a lungo sulla figura di quel giovane.

Annuì, senza parlare, sperando che il suo abito da suora, prestatole dal convento, e il modo in cui aveva abbassato gli occhi, bastasse per non suscitare altre domande. Anche se avrebbe voluto conoscere meglio quel manovale, che si occupava non solo del benessere delle piante, ma anche delle monache, sentiva che quello non era il momento più adatto.

Quella mattina aveva parlato con Suor Elena, che le aveva riferito qualche piccola novità che le era stata comunicata da Fortunati in persona. Si trattava, ovviamente, di notizie riguardanti la Tigre: si diceva che dopo essere stata presa in custodia dal Borja, fosse passata ai francesi, ma che, forse, poi il Valentino se la fosse ripresa.

Siccome, però, era una questione ancora molto confusa, e poiché le informazioni arrivavano a Firenze con qualche giorno di scarto, Bianca non poteva sapere con esattezza dove fosse sua madre in quel momento, né chi fosse il suo carceriere. Sapeva solo che quei giorni, per lei, dovevano essere un vero inferno.

Dunque, immersa com'era nei suoi ragionamenti, era andata in cortile, lasciando i bambini a Suor Ubbidienza che, come sempre, era entusiasta di poter tenere con sé Cornelia per un po' – lo era un po' meno di Giovannino, perché il piccolo, nelle sue mani, diventava capriccioso e insofferente – e si era seduta sulla panchetta per pensare più tranquillamente. Solo dopo un buon quarto d'ora si era accorta di non essere sola, ma, per non attirare troppo l'attenzione, aveva preso il rosario dal tascone dell'abito e aveva cominciato a fingere di sgranarlo.

“Siete voi, quella che ha le due bambine sempre al seguito?” indagò di nuovo il ragazzo.

La Riario stava per correggerlo, senonché si ricordò dell'importanza di non far sapere a nessuno che Giovannino fosse in realtà un maschio. L'abito da femmina che lo costringevano a portare sempre non aveva altro scopo che quello, in fondo.

“Sì, sono io.” ammise Bianca, con un cenno del capo.

“Come mai le avete con voi?” chiese il giovane, smettendo di sistemare il cespuglio su cui stava lavorando.

Il cielo sopra di loro era plumbeo. Malgrado fosse quasi fine gennaio, non faceva freddo, anzi, c'era quasi un che di primaverile nell'aria che si insinuava nel cortile del monastero.

“Qui alle Murate, tutti hanno dei segreti – rispose sibillina Bianca – e io mi tengo i miei.”

Il ragazzo parve intrigato da quella risposta, ma, invece di insistere sulla questione bambine, cambiò discorso: “Non siete fiorentina, vero? Lo capisco dall'accento.”

Arrossendo un po', dicendosi che avrebbe fatto meglio a chiudere subito il discorso, la Riario non si trattenne e, seguendo sempre la stessa strategia elusiva di poco prima, ribatté: “Voi, invece, siete di Firenze, da come parlate.”

Comprendendo che la sua interlocutrice era troppo restia, per imbastire un dialogo come avrebbe voluto lui, il giovane sospirò e, con un sorriso un po' deluso, disse: “Ora devo continuare il mio lavoro. Tuttavia, una volta mi piacerebbe parlarvi un po' di più...”

“Date tempo al tempo.” rispose Bianca e, con un cenno del capo, lasciò infine la panchetta e raggiunse la porta che conduceva alle scale.

Solo appena prima di entrare si voltò un istante, per dare ancora uno sguardo al ragazzo e, sorpresa solo fino a un certo punto, si accorse che lui la stava ancora osservando. Anche se non avrebbe voluto fare certi pensieri in un momento per lei tanto delicato, la Riario si trovò ad apprezzare l'interessamento di quel giovane e, prima ancora che potesse ragionarci con calma, si trovò davanti alla porta di Suor Elena.

“Vorrei chiedervi alcune cose.” le disse, cercando di non tradire con la propria espressione l'imbarazzo che cominciava a provare.

“Ovvero?” chiese la Badessa, credendo, inizialmente, che l'ospite volesse sapere altro riguardo la situazione in Romagna, o i fratelli che ancora erano rifugiati a casa di Alessandra Scali.

“Mi servirebbe qualche ingrediente per una ricetta...” cominciò a dire, un po' evasiva, Bianca, in parte già pentita di essere lì.

“Ricetta di che tipo?” indagò la monaca, accigliandosi.

“Si tratta di un rimedio curativo ideato da mia madre...” spiegò la Riario, aggirando in parte il nocciolo del discorso: “Per... Per i dolori femminili, sapete.” mentì infine.

Suor Elena pareva aver subodorato qualcosa, ma alla fine si fece dire che genere di ingredienti servissero alla diciottenne e, assicurando che le avrebbe fatto sapere presto se fosse stato possibile farglieli avere, la congedò con un cauto: “Mi raccomando, vi ricordo quello che vi ho già detto: io sono a capo di questo monastero e devo sapere quello che succede nelle sue celle.”

“Lo so, non temete.” ribatté Bianca, con un mezzo inchino, convinta che, se mai si fosse davvero decisa ad avvicinare il ragazzo che curava l'orto e i giardini delle Murate, avrebbe davvero fatto come la sua protettrice chiedeva.

 

“Ancora non partiamo?” chiese Caterina, mentre Argentina e un'altra serva l'aiutavano a vestirsi.

Era la mattina del 27 gennaio e su Cesena splendeva un sole insolitamente brillante. La Tigre poteva vederlo dalla finestra della stanza che le era stata assegnata, ma non ne traeva alcuna gioia.

La sua mente era interamente impelagata nel suo presente. Tutto ciò che esisteva fuori dalla camera in cui era stata segregata, per lei, in quel momento, non esisteva.

“L'Alégre dice che dovete ancora riprendervi.” rispose la domestica, prendendo lentamente una ciocca di capelli bianchi della sua padrona e cominciando a pettinarla con cura: “Ma in realtà secondo messer Baccino i suoi motivi sono ben altri.”

“Ossia?” domandò la Sforza, sollevando un sopracciglio.

Aveva sempre riposto scarsa, per non dire nessuna, fiducia nelle intuizioni del suo amante cremonese, ma non perché lo ritenesse un inetto, ma solo perché non lo conosceva tanto a fondo. Di lui sapeva lo stretto indispensabile. Anche se avevano diviso il letto, non avevano mai fatto un discorso che andasse oltre argomenti di immediata urgenza.

“Siccome avete detto che lui era il vostro coppiere – le rivelò Argentina – il francese l'ha fatto servire in tavola, ieri sera.”

Sentendo ciò, Caterina si fece molto più attenta, e si mise a fissare la donna con interesse.

“Ci ha detto che l'Alégre stava discutendo con uno dei suoi attendenti del fatto che Bartolomeo d'Alviano abbia lasciato il suo posto nel ravennate – spiegò la serva – e che sia stato sostituito da Giacomaccio da Venezia.”

“Ne sappiamo il motivo?” per un istante, nella voce della Leonessa era tornato il piglio di qualche settimana addietro, quando discuteva con i propri generali le tattiche militari da mettere in campo.

Anche Argentina, che pur non partecipava mai alle riunioni presiedute della sua signora, notò quel tono autorevole, ma si rese anche conto di quanto poco fosse durato.

Infatti, subito dopo, Caterina aveva aggiunto, con un'inflessione molto più dimessa: “Immagino di no... In fondo, per sciocchi che siano, non si saranno certo messi a discutere nel dettaglio una simile notizia davanti a un coppiere che, per quel che ne sanno, potrebbe essere una spia.”

Argentina dovette darle ragione, ma soggiunse, quasi a volerle dare coraggio: “Ma voi che conoscete gli uomini e la guerra, magari immaginate il perché di una simile scelta...”

La Tigre stava per dire qualche cosa, quando si sentì bussare alla porta. Facendo un cenno ad Argentina di non dire nulla, chiese chi la cercasse.

Era la prima volta, da che era prigioniera, che qualcuno dei suoi carcerieri si prendeva il disturbo di annunciarsi in qualche modo, prima di entrare. Se da un lato quel dettaglio le faceva piacere, dall'altro la metteva in guardia.

“Sono io.” rispose la voce tonante di Yves d'Alégre: “Ho urgenza di parlarvi.”

La Sforza, non immaginando il motivo di quella richiesta, ma avvertendo negli accenti del francese una nota d'urgenza ben riconoscibile, gli permise di entrare.

“Voglio parlare da solo con voi.” specificò l'uomo, guardando con fare eloquente Argentina e l'altra serva.

Le due se ne andarono subito, a un cenno della loro signora, e così la Tigre rimase sola con il condottiero. Yves sembrava sulle spine. Di colpo, tutta la fretta che l'aveva fatto arrivare in quella stanza quasi di corsa sembrava essersi spenta.

“Non dovevate parlarmi?” chiese Caterina, seria, seduta sul bordo letto, immobile.

L'Alégre annuì, guardandola in tralice. La vedeva più calma, rispetto al giorno prima, anche se il suo viso tradiva un'inquietudine profonda. Era come trovarsi dinnanzi qualcuno che fosse stato all'inferno e ne fosse riemerso senza avere però le parole per descriverlo.

“Devo chiedervi una cosa, e voi dovete rispondermi in tutta sincerità, ve ne prego.” sussurrò il francese, avvicinandosi un po', ma tenendo le debite distanze, quasi a volerle far capire che lui, a differenza del Borja, era intenzionato a rispettarla.

“Voi chiedetemi, e io vedrò se rispondervi.” fece la donna, cominciando a sentirsi tesa.

“Se ho ritardato la nostra partenza per Roma – confessò Yves, indeciso su quanto rivelare alla sua avversaria e quanto tenere per sé – è anche per via di certe voci... Io mi sono fatto responsabile di una buona colonna dell'esercito. Se Forlì fosse in pericolo, io voglio essere pronto a tornare indietro subito...”

La Leonessa cominciava a non capire. La sua confusione, evidentemente, doveva essere trapelata dalla sua espressione, perché l'Alégre si sentì in dovere di spiegare meglio la situazione.

“Se qualcuno cercasse di riprendersi le vostre terre – le disse – io sarei quello più vicino, e potrei essere quello in grado di tornare più rapidamente in Forlì a difenderla. Io non credo che il Duca di Valentinois abbia fatto una buona scelta, quando ha messo Ramiro di Lorca per Governatore di Imola e Forlì e Gonzalo di Mirafuentes come castellano di Ravaldino...”

“E io che c'entro con tutte queste cose? Ormai sono una vostra preda, no? Il figlio del papa mi ha fatto quello che voleva, e voi mi tenete qui, come fossi una vostra proprietà...” la Sforza aveva allargato un po' le braccia, in un gesto stanco che fece quasi vergognare il francese per il trattamento che era stato riservato a un'avversaria tanto temibile e quindi rispettabile: “Che cosa dovete chiedermi? Chiedetemelo e basta, che non ho voglia di parlare ancora con voi.”

“Voglio chiedervi se una voce che si rincorre incontrollata anche nel mio esercito sia corretta o meno.” spiegò alla fine l'uomo.

“Ovvero?” la Tigre dubitava di poter essere informata più di altri su quello che stava accadendo in quei giorni in Romagna.

Dalla notte in cui Cesare Borja l'aveva catturata, per lei non c'era stato altro se non dolore e isolamento. In ogni caso, volendo sapere che cosa si dicesse fuori da lì, cercò di prestarsi come meglio poteva a quel teatrino.

“Dicono che vostro figlio Ottaviano stia guidando, in armi, un esercito tedesco, e che sia pronto a marciare su Forlì e riprenderla, facendo strage dei francesi rimasti là di stanza e dei forlivesi ritenuti ora traditori.” disse, tutto d'un fiato, Yves.

Caterina ebbe molta difficoltà a non scoppiare a ridere. Il suo sforzo si tradusse in un arrossamento delle guance così intenso da convincere l'Alégre che la donna si fosse sentita, in qualche modo, scoperta.

“Ommioddio, ma allora è tutto vero?” soffiò lui, mettendosi una mano sul petto: “Un esercito... E di quanti uomini? Come abbiamo fatto a non intercettarlo mai? E vostro figlio... Mi avevano detto che vostro figlio Ottaviano non fosse... Oddio...”

“Io non ne so nulla.” fece la donna, volutamente con aria circospetta: “Non dovete chiedere a me.”

Yves, visibilmente preoccupato, fece un cenno con il capo e poi borbottò: “Io... Io... Terrò conto del vostro aiuto, Madonna.”

Mentre il francese andava alla porta, gli occhi spersi e la mente già altrove, la Sforza si chiese per una frazione di secondo se quella notizia potesse essere vera. La sola idea di suo figlio Ottaviano in armatura e a cavallo, dopo la tragica esperienza al soldo di Firenze, le parve così assurda da farle tornare voglia di ridere.

Attese, però, che il suo nemico fosse uscito davvero, prima di abbandonarsi almeno a un sorriso ironico. Certo, sarebbe stato bello pensare che qualcuno, perfino Ottaviano, stesse cercando di fare qualcosa per lei. L'avevano lasciata tutti sola.

Chiedendosi se anche il Valentino avrebbe creduto a quell'assurda chiacchiera messa in giro da chissà chi, Caterina si alzò dal letto e andò alla finestra. Guardò il cielo terso e continuò a sorridere.

Malgrado il freddo che sentiva sempre nel petto, acuito e ingigantito, dopo le giornate interminabili passate con il Borja, in quel giorno di sole avvertiva un tepore diverso. Forse, pensava, con quella buffonata a cui l'Alégre sembrava credere così fermamente, la sua partenza per Roma sarebbe stata ritardata abbastanza da far trovare a qualcuno davvero il modo e la voglia di aiutarla...

 

“Non mi interessa!” stava gridando Gian Giacomo, in contrasto alla moglie, che si ostinava a rifiutarsi di lasciare il palazzo di via Rugabella: “Ti ho detto che devi venire subito al palazzo di Porta Giovia! Tutti dovete venire là!”

“Ma...” provò a dire Beatrice d'Avalos, prima che il marito tuonasse di nuovo.

“Ma non lo capisci?! Lo Sforza sta prendendo terreno nel comasco! Suo fratello Ascanio marcerà presto contro di noi! I milanesi mi odiano! Daranno il sacco a questa casa!” la voce del Trivulzio era acuta, esasperata: “Vuoi avere salva la vita? Allora verrai con me a Porta Giovia!”

“Piuttosto vado al castello di Mesocco!” ribatté la donna, ostinata: “Hai voluto spedire là tutti i nostri beni, gioielli e mobilia compresa! Io non ci vengo, a fare la pezzente in un palazzo abitato solo da soldati!”

“Se parti oggi per Mesocco – le fece presente Gian Giacomo, afferrandola per i polsi, nel disperato tentativo di farla ragionare – ti cattureranno appena fuori Milano, e se ti metteranno le mani addosso, stai pur certa che prima di ammazzarti ti faranno di tutto.”

Beatrice, finalmente, sembrava spaventata. Se aveva opposto così tanta resistenza, quel 27 gennaio, comunque, non era perché non fosse conscia del rischio che stava correndo, ma proprio per paura. Negare l'evidenza, in un certo senso, le aveva dato l'illusione di non essere nell'incubo in cui invece era.

“La popolazione potrebbe insorgere da un momento all'altro – ribadì Gian Giacomo, trovando la moglie più malleabile di prima – e io non voglio averti sulla coscienza.”

“Non avresti dovuto portarmi qui a Milano.” disse lei, alla fine, perdendo ogni voglia di alzare la voce: “Come sempre, hai sbagliato.”

Gian Giacomo guardò per un lungo momento la moglie che il destino gli aveva dato in sorte. Alla morte della sua prima sposa, Margherita Colleoni, aveva giurato di non risposarsi mai più. Poi Beatrice era come arrivata dal nulla nella sua vita, e l'aveva presa come seconda moglie.

Non avevano avuto figli, non avevano mai davvero avuto un'intesa, di nessun tipo, e, a conti fatti, si poteva dire che non avessero mai avuto nulla, in comune, se non un cospicuo patrimonio.

“Hai ragione.” borbottò alla fine lui, lasciandole i polsi e scuotendo il capo: “Non avrei dovuto portarti a Milano con me. Ma ormai l'ho fatto. Quindi prepara i miei figli, prendete tutto quello che vi serve, e venite al palazzo di Porta Giovia. Vi scorteranno i miei soldati. Io vi aspetto là.”

L'Avalos rimase in silenzio, basita, come spesso capitava, davanti all'arrendevolezza con cui a volte il marito la trattava. Le chiedeva di badare ai figli illegittimi che lui, in sessant'anni di vita, aveva sparso in giro, e pretendeva anche che lei ne fosse felice.

“Portate tutto quel che si può.” disse perentoria Beatrice, a una delle serve che stavano preparando i bagagli: “Che quei maledetti milanesi trovino solo la polvere, quando metteranno a sacco questo palazzo...”

 
   
 
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