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Autore: Lapiuma    15/06/2020    1 recensioni
"Attrazione.
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5.
Quando il giorno seguente esco da casa di Alice, è ancora presto e in giro non c’è quasi nessuno: posso allungarmi nel mattino, stirare le mie membra tra le pozze di luce e di ombra senza che occhio umano se ne accorga. È rasserenante, liberatorio, strano per quanto mi faccia sentire bene. Ma nell’aria freme un’epifania appena nata, bisognosa della mia protezione, e la purezza di questo momento mi spinge a concedergliela. So bene che durerà solo qualche attimo, questa luminosa inconsistenza, così estranea e così gradita, ma sono attimi preziosi, che non voglio lasciarmi sfuggire. Eppure, più cerco di afferrarli, di stringerli tra le mie dita goffe, più torno conscia della mia oscura pesantezza. E per quanto voglia allontanarla e cacciare via con lei l’affanno dei miei peccati, c’è una nuova, serpentina vergogna che striscia dentro di me, suggerendomi idee ributtanti ed oscene: mi sussurra che sono una complice, che sono caduta come un’idiota sotto il suo fascino, che non ho fatto niente per prendermi cura di lei. Mi ricorda che in certi momenti l’ho odiata. Con perverso compiacimento, mi chiede come faccia a ritenermi migliore di quella ragazza: non l’avrei forse fatto anch’io se ne avessi avuta l'occasione? Ma si può sapere come diavolo fai a guardare ancora Alice negli occhi? A chiamarla “amica”?
La luce cessa di essere una benedizione, mentre torno a sentirmi un essere lurido e sporco: ora mi giudica e l’epifania danza leggera davanti ai miei occhi, inafferrabile, ma più vicina che mai. Non riesco a capire se mi stia sbeffeggiando o meno. Torno a casa dilaniata tra impulsi opposti, piedi di fata in scarpe di piombo, e sebbene mi sia appena svegliata, vorrei solo dormire per un’altra decina abbondante di ore. Spegnere tutto questo cortocircuito umorale, sognare di essere una nuvola. Vivere come vapore acqueo; non sarebbe esaltante? 
Svoltando nel vicolo di casa mia, concludo che questa mattina non andrò a lezione: non sono pronta ad avere intorno a me una masnada di esseri umani più o meno irritanti. Da domani riprenderò a comportarmi in modo pseudo-antropomorfo; ma per oggi mi accontento del mio isolamento ferino. 
Sono così assorta nel prefigurarmi la mia caffettiera borbottante sul fornello da non accorgermi della figura appiattita contro il mio portone. E quando lo faccio ormai è troppo tardi: nei pochi metri che ci separano non ci sono vie di fuga, e, a meno che non decida di coprirmi di ridicolo battendo in ritirata, sono condannata ad incrociarlo. Merda. Oltretutto lui mi ha già vista e si sta protendendo verso di me, quindi mi ha chiaramente riconosciuta. Merda di nuovo. Ma cosa diavolo ci fa qui? Non l’ho mai visto aggirarsi prima in questa zona. Ma non può essere venuto per me. Non dopo l’altra sera...
Lo raggiungo lentamente, mentre una confusione di parole, pensieri ed emozioni mi si affastellano dentro, raggrumandosi in un nervosismo incandescente. Lui, però, deve trovarsi nelle stesse condizioni, perché ha il viso storto in una smorfia tra l’imbarazzo e il timore, che, a sorpresa, trovo buffissima. Eccoci, infine, faccia a faccia, tanto vicini che il suo corpo mi protegge dal vento. Non ho la benché minima idea di cosa dire, dunque attendo che sia lui ad iniziare, sfruttando questi secondi per osservarlo. Si ricostruisce nel mio occhio come un gioco di incastri apparentemente discordi: gli occhi onice nella pelle pallida, i lineamenti affilati nella carne morbida, le spalle leggermente incurvate nel corpo alto e snello. Dà un’impressione di ritorsione, di incuneamento su se stesso: mi ricorda gli autoritratti di Schiele. 
“Io… ecco io stavo passando di qui e ho pensato di venire a salutarti” esordisce schiarendosi la voce e gettandomi un’occhiata di sbieco. È nervoso almeno quanto me e questo in qualche modo mi lusinga, dissipando parte del mio imbarazzo. “Alle otto del mattino?” come al solito la mia voce è più tagliente di quanto dovrebbe, ma lui pare non farci caso. Si stringe nelle spalle, mi risponde con un tono fanciullesco: “Dormo poco”. Le mie labbra tremano, trattengono dentro di sé il riso, ma, di nuovo, lui sembra afferrare le mie intenzioni, e sorride compiaciuto. “Vuoi salire per un caffè?” questa volta le parole erompono dalla mia bocca, superando le restrizioni delle labbra e del senno. Le guardo allibita disperdersi per l’aria, e proprio un attimo prima che un’onda di rimproveri, strida e maledizioni si abbatta sulla mia dannatissima lingua, lui accetta. Non so come mai, ma questo mi stupisce ancora di più. Probabilmente strabuzzo gli occhi o lo guardo allucinata, perché si affretta subito a replicare: “Ma se ti disturbo o hai qualcosa da fare, tranquilla… non c’è problema” “No no, figurati, non ho nulla da fare… sono solo stupita che tu abbia accettato... visto il mio…” Il mio pessimo carattere? La mia misantropia dilagante? La mia acidità insoffribile? Annaspo, cercando un eufemismo meno degradante. “Visto il tuo temperamento da chihuahua incazzato?” Quando risponde, per un attimo lo fisso sorpresa, poi scoppio a ridere: “Avrei detto da drago con l’acidità di stomaco, ma suppongo che l’idea sia quella”. Lui sogghigna, mettendo su un’aria spavalda: “No, purtroppo non mi fa affatto paura.” 
Di nuovo, rimango stupita: ho come l’impressione che vi siano segreti di carne e di sangue nelle sue parole. Segreti che mi mettono in soggezione, che pretendono delucidazioni a cui non sono ancora arrivata. A cui non so se voglio arrivare. Per il momento, cerco di scrollarmele di dosso, rifiuto di soppesarle a dovere. Così lo invito ad entrare, incamminandomi davanti a lui sulle scale ripide, le mani sudate, non so se per il nervosismo o per il suo sguardo che sento bruciare in mezzo alla schiena. Quando al quarto piano, però, lo sento ansimare leggermente, gli scocco un’occhiata in tralice: “Non dirmi che i tuoi polmoni da fumatore incallito non ce la fanno già più”. Lui sbuffa, alzando gli occhi al cielo: “Ah-ah-ah molto divertente. Non è colpa mia se vivi in cima a una dannata torre”. Mi volto, nascondendo il mio ghigno vittorioso, ma lui per l’ennesima volta pare sappia quello che sto facendo, nonostante cerchi di nasconderlo: “Sono praticamente certo che tu ti stia divertendo un mondo”. Questa volta non riesco a reprimere una risatina idiota, che fugge via tra le falde della giacca. 
C’è una parte di me che al momento è sconvolta da tutto ciò: da tutta questa espansività, allegria, spensieratezza. È attonita, stupefatta, non riesce a processarlo. Mi urge di fermarmi, di cacciare questo sconosciuto, di smetterla di ridere come una bambina sulle scale. Ma c’è un’altra parte di me, quella che poco fa mi invitava ad allungarmi nel sole, a catturare la mia epifania, che invece è in fibrillazione, sprizza adrenalina da tutti i pori. E oggi non posso impedirmi di seguirla. 
Mentre frugo nella borsa alla disperata ricerca delle chiavi, una vena di nervosismo mi ingarbuglia le dita, ma è una tensione buona, una soffusa elettricità per nulla fastidiosa. Lo spettro dell’ansia paralizzante che provo di solito, inoltre, viene completamente scacciato via quando lui mi chiede se per caso abbia bisogno di un sonar per aiutarmi nella mia impresa. “E io che pensavo che dopo le scale non avessi più fiato da sprecare.” “Si vede che non mi conosci, se no sapresti che la mia arguzia ha i tempi di recupero più brevi della storia.” “Ma quindi è per questo che sei venuto da me: hai già infastidito a morte tutta la gente di tua conoscenza e ora sei in cerca di un’altra vittima!” “Merda, due minuti e mi hai già scoperto!” 
Mentre se la ride di gusto, io finalmente trovo le chiavi ed apro la porta. Entro, liberandomi di sciarpa e giacca e catapultandomi verso il mio minuscolo angolo cottura: il livello di caffeina nel mio sangue deve essere ai minimi storici. Mi accorgo un secondo in ritardo che lui è rimasto impalato sulla porta, senza sapere che fare. “Getta pure il cappotto dove ti pare, non preoccuparti” lo invito a farsi avanti con un gesto della mano. “In realtà ho paura che rimanga fagocitato da questa giungla…” sogghigna, alludendo alle cataste di libri, quaderni, fogli e cataloghi che si innalzano traballanti per tutta la stanza. “Ti stai per caso riferendo al perfetto ordine di casa mia?” insinuo, minacciandolo con il mestolo. “A dire il vero, dubito che la gente normale consideri questo un perfetto ordine…” replica, scoccandomi un’occhiata impertinente. “Bazzecole, è solo questione di punti di vista…” minimizzo, mettendo finalmente la caffettiera sul fuoco. Quando mi volto verso di lui, lo colgo mentre osserva incuriosito i volumi alla deriva intorno a sé. Normalmente un’intrusione simile mi procurerebbe un atroce fastidio; oggi, invece, non riesco a fare altro che a scrutarlo, una pennellata di nero e di bianco che divide in due il mio rifugio luminoso, con le pareti gialle. È una composizione bizzarramente armonica, in cui gli stridori cromatici si riconducono a un’eufonia inspiegabile. “Posso?” mi chiede indicando un catalogo particolarmente voluminoso. Annuisco, avvicinandomi: ha tra le mani la mia preziosissima monografia su Paolo Veronese, uno dei miei veneziani preferiti. Sbircio da sopra la sua spalla, mentre scorre le pagine, affascinato dal tripudio di colori che esplode davanti ai suoi occhi. “È uno dei miei preferiti” mormoro dopo qualche secondo “la finezza e l’esuberanza del cromatismo, l’arditezza compositiva… è semplicemente superbo...” non mi accorgo nemmeno di quante parole infilo l’una dietro l’altra, mentre gli indico questo o quel dettaglio, stupendomi ancora una volta di quanta straordinaria maestria ci sia dietro una sola sfumatura di rosso. Davanti alle Nozze di Cana quasi inciampo nel mio stesso fervore, descrivendogli il circo sontuoso e caotico dei commensali. Quando finisco, mi sta scrutando con la testa lievemente inclinata e ha lo sguardo acceso, intrigato. Valuto indecisa se continuare, ma per fortuna la caffetteria inizia a borbottare, ponendo fine alla mia esitazione.
Mentre verso il caffè, mi rendo conto che ignoro ciò che lo appassiona o ciò di cui il suo animo si nutre fervidamente. Non so se mi sento già legittimata a chiederglielo; in fondo lo obbligherei a venire allo scoperto, a denudarsi pubblicamente. Ma in questo momento lui sta letteralmente passeggiando tra le cose che mi sono più care, quindi presumo di potermelo permettere. Sto per chiederglielo, quando lui mi precede: “Quindi sei un’appassionata d’arte…” Annuisco immediatamente, mentre posiziono le tazzine con lo zucchero su un vassoio e mi dirigo verso il terrazzino: “Sì, da sempre credo… è da quando sono bambina che mi trovo più a mio agio davanti a un Tiziano che ad una persona” lo confesso senza vergogna, temendo solo che lui non comprenda quanto viscerale sia quello che intendo dire. “So cosa intendi” dice invece “per me è lo stesso con la filosofia”. Taccio, attendendo che prosegua. “È come una fame insaziabile, no? Più ne hai, più ne vuoi avere ancora… più ne sai, più ti rendi conto della vastità della tua ignoranza.” È una descrizione così precisa e pregnante che mi chiedo come abbia fatto a dubitare della sua comprensione: è esattamente così. E non potrebbe essere diversamente.
Appoggio il vassoio sul pavimento in mezzo alle due sedie che occupano il mio minuscolo terrazzino e lo invito a sedersi sull’altra. Con un sospiro di piacere, introduco nel mio corpo la mia beneamata caffeina, contemplando davanti a me il momento spettacolare in cui la città si risveglia nel cielo terso di tramontana. Dopo le parole di prima, è come se nessuno dei due sentisse la necessità di dire niente; come se ormai quel fastidioso obbligo, che spinge due sconosciuti a riempire frettolosamente ogni attimo di silenzio con un blaterare vuoto, sia stato decisamente superato. 
Osservo la città e, come ogni volta, cerco di indovinare se mi sbranerà o se mi lascerà brillare: sembra esserci così poco spazio qui, in questo dedalo di vie inestricabili e di case tanto affastellate che diventa difficile a capire se si stiano sostenendo o soffocando a vicenda. Vorrei che mi desse un segno, che mi mostrasse la strada; ma non ricevo nulla dalla sua bellezza aspra, altera, inespugnabile. Solo due millenni e mezzo di storia che mi sfidano, chiedendomi se sarò all’altezza di una genesi simile. Vorrei rispondere di sì, ma la voce mi muore in gola. 
“A cosa stai pensando?” la sua voce emerge tra le nebbie delle mie malinconie, mi ancora alla realtà. Mi volto verso di lui: è chinato verso di me, i gomiti sulle ginocchia, il mento appoggiato sulle dita intrecciate. “A nulla” rispondo. China la testa da un lato, ma per favore, non inganni nessuno. Sbuffo, alzando gli occhi al cielo, Gesù come sei pressante. Lui sorride, scanzonato, se lo pensassi davvero, non saremmo qua. Sospiro, sconfitta, abbracciandomi le ginocchia e raccogliendomi sulla sedia: “Pensavo a cosa dovrei fare del tempo che mi è dato… se sarò all’altezza di tutta questa... storia e di tutta questa vita”. Indico la città di fronte a noi, rifuggendo il suo sguardo. Lui, però, lascia che il silenzio perduri, che la curiosità della sua reazione vinca la mia timidezza. Lo affronto: il suo volto è nudo, spoglio di ogni artificio e, come quella sera, reticenza e dolore vi si leggono in pari misura. “Ti assicuro che il problema del tempo a volte non mi lascia dormire,” mi confessa sottovoce, “ho sempre l’impressione terribile di non averne a disposizione abbastanza”. “Come fai a liberartene?” “Non lo faccio”, si stringe nelle spalle, “e credo di esservi quasi abituato ormai...tu ci riesci?” “Solo a tratti”. Evito di dirgli che parlare con lui arresta nella mia mente lo scorrere molesto delle occasioni perdute. 
“A proposito di tempo, suppongo che ora dovrei andare” si sfrega le mani sui pantaloni, alzandosi dalla sedia. Andare?! Che se ne vada ora mi sembra inconcepibile; ho come l’impressione che la mia giornata senza di lui affogherà nuovamente nel grigio, che finirò fagocitata dalle mille paranoie che mi assaliranno appena metterà piede fuori dalla porta. Allo stesso tempo, mi sembra ridicolo implorarlo di restare qua a calmare i miei nervi. Così rimango un attimo in silenzio, attonita, prima di rispondere: “Mmm… sì certo… anzi scusa se ti ho trattenuto più del previsto”. “No no assolutamente, sono io che mi sono imposto…” mentre risponde, mi alzo anch’io, ed improvvisamente lo spazio sembra in qualche modo saturo dei nostri corpi, non c’è un’ansa che non sia invasa dal fremere della carne e dal pulsare del sangue. Imbarazzo, stupore, attrazione? Cos’è questa cosa? Perché la sto provando?
Stiamo fermi l’uno davanti all’altra per qualche secondo, squadrandoci imbarazzati. Poi ci produciamo in una risata nervosa, che mi illudo dissipi questa coltrina tossica ed elettrica. “Ti accompagno alla porta, non vorrei che ti perdessi in mezzo alla giungla” cerco di scacciare con l’ironia il desiderio strisciante di avvicinarmi al suo corpo, di gustarne il contatto. “E pensi che il mio cappotto sia ancora rintracciabile o l’entropia l’avrà già fagocitato?” “Dipende se la fortuna ti assiste… ma guarda un po’ che strano, è proprio qua!” afferro l’indumento dalla sedia su cui l’aveva abbandonato e glielo porgo. Cerco di non fissarlo mentre lo infila. In un passo siamo sulla soglia e in un altro lui è fuori, sul pianerottolo. “Grazie per il caffè e per avermi fatto salire dopo…” esita, in difficoltà, ma so che si riferisce all’altra sera, quando la stessa paura, che inizierà a logorarmi appena se ne andrà, ha preso il sopravvento. “Figurati, non c’è problema” mi affretto a replicare. “Allora ci vediamo... mi ha fatto piacere parlare con te” accenna il suo buffo commiato ed inizia a retrocedere. “Anche a me” rispondo, salutandolo con la mano. Solo, quando è ormai sulla prima rampa, aggiungo: “E sta’ attento a non schiattare sulle scale!” Mi assicuro di godere della sua risata prima di chiudere la porta.
 
   
 
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