Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: Crudelia 2_0    17/06/2020    10 recensioni
Prima classificata al contest "Merlino li fa e poi li accoppia" indetto da Shellcott sul Forum di EFP.
Storia partecipante al contest “Storia di un matrimonio” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.
[Seguito della one-shot "Conchiglia di diamante"]
Certo, Ron non era uno stupido. Sapeva benissimo perché, in quei giorni, era costretto a chiedere ospitalità a George per avere un letto in cui dormire e un tavolo su cui mangiare (e no, non avrebbe mai chiesto lo stesso favore a sua madre. Separato, sì, ma non disperato). E sapeva anche perché il suo matrimonio, dopo sette anni, si era lentamente sgretolato sotto il peso di frasi dette con rabbia e muta disapprovazione.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hermione Granger, Ron Weasley, Rose Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Nuova generazione
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Storia partecipante al contest "Merlino li fa e poi li accoppia" indetto da Shellcott sul Forum di EFP. 
Pacchetto: Rho
               
Storia partecipante al contest “Storia di un matrimonio” indetto da mystery_koopa sul Forum di EFP.

Nome su EFP/Forum: Crudelia 2_0
Titolo della storia: Four degrees of separation
Pacchetto Scelto: Divorzio consensuale
Fandom: Harry Potter
Rating: Verde
Note: questa storia è stata scritta come seguito di un’altra one-shoot “Conchiglia di diamante”.  Può essere letta anche singolarmente, ma per chi conosce la precedente sicuramente sarà più facile capire a chi si riferisce Ron alla fine della storia.
 
Un abbraccio,
Crudelia
 
 
 
 
 
Four degrees of separation
 
 
 
 
 
Ron beveva caffè nero a colazione, da un anno a questa parte. Non ne aveva mai apprezzato il sapore amaro, ma era diventato il suo più caro amico da quando passava metà delle notti intento a cullare una bambina che, il più delle volte, piangeva.
Non che si lamentasse: Rose - la sua Rosie, la sua bambina - era la cosa più bella che gli fosse capitata - e adesso, adesso che avrebbe potuto dormire, passava le ore a rigirarsi tra le lenzuola consumato dalla mancanza del suo profumo di bambina e il suo peso leggero contro il petto.
Portandosi la tazza alle labbra allungò una mano per prendere la Gazzetta del Profeta abbandonata sul tavolo. Evidentemente, George si era già alzato.
Quella era invece un'abitudine più radicata, che risaliva ai primi tempi del suo matrimonio, quando ancora il futuro brillava nei loro occhi di innamorati. La giornata iniziava sempre leggendo e commentando insieme le notizie, anche quando Ron avrebbe voluto parlare d'altro, o stare in silenzio a guardare la moglie - e ora, ora che avrebbe potuto evitare, si nascondeva dietro le pagine pesanti e fitte di articoli per il solo gusto di sentire l'odore di inchiostro mischiato a quello dello zucchero.
Certo, Ron non era uno stupido. Sapeva benissimo perché, in quei giorni, era costretto a chiedere ospitalità a George per avere un letto in cui dormire e un tavolo su cui mangiare  (e no, non avrebbe mai chiesto lo stesso favore a sua madre. Separato, sì, ma non disperato). E sapeva anche perché il suo matrimonio, dopo sette anni, si era lentamente sgretolato sotto il peso di frasi dette con rabbia e muta disapprovazione.
 
 
Il primo motivo, che nella mente di Ron era diventato il Primo Errore, non poteva definirsi propriamente uno sbaglio, ma il primo indizio che le cose, fra di loro, avevano iniziato ad incepparsi. E risaliva a tempo prima, quando Rose non era neanche un pensiero.
 
La Tana era addobbata a festa, anche se era appena il primo giorno di vacanza e al Natale mancava mezza settimana. Ma proprio il primo giorno di vacanza, in quanto tale, era soggetto ad una tradizione iniziata quando ormai tutti i figli Weasley avevano finito gli studi: era nata come una festa famigliare, ma aveva impiegato poco tempo per trasformarsi in un ritrovo di tutti i vecchi membri dell'Ordine della Fenice, nuovi amici e colleghi.
Il salotto era stipato di persone che scaldavano l'ambiente, tutti schiacciati e con le mani occupate da bicchieri stracolmi e dolci fatti in casa. Ron si trovava affianco al camino - come se non facesse abbastanza caldo - da cui, a intervalli irregolari, arrivavano nuovi invitati. Al suo fianco c'era Charlie, le muscolose braccia coperte e le mani libere a mostrare ustioni più o meno nuove. Insieme, stavano cercando di risalire all'ultima volta che si erano visti: non era certamente lo scorso Natale, ma era prima del compleanno di Molly, festeggiato a settembre, al quale il fratello maggiore non aveva partecipato.
A metà della conversazione era intervenuta Ginny. Secondo lei l'ultima volta che avevano visto Charlie era stato ad agosto: ricordava con precisione che il fratello era presente quando il piccolo James si era esibito nella sua caduta dall'albero, finita con una corsa al San Mungo e un braccio rotto.
I fratelli avevano concordato, ricordando l'incidente con un sorriso, poi era arrivata Hermione.
Avevano iniziato a conversare, tutti e quattro. Ron non ricordava l'argomento, ricordava però l'aria leggera, il calore che sentiva alla bocca dello stomaco e il senso di pace che gli aveva invaso il petto. Era felice, circondato dalla famiglia e con gli spettri del passato messi in un angolo.
Ad un tratto si era accorto che il bicchiere di Hermione era vuoto. Senza interromperla, le aveva sfilato il calice dalle dita sottili e l'aveva sostituito con uno pieno. Lei l'aveva guardato con gli occhi nocciola che brillavano di una strana luce, come in attesa.
Ron aveva ricambiato con un sorriso. Un po' ingenuamente, un po' superficialmente - a pensarci ora, era lì, l'Errore.
Hermione aveva continuato a guardarlo con insistenza, poi si era voltata con una lieve smorfia delusa ad abbassarle gli angoli delle labbra.
«Hermione, hai tagliato i capelli?» aveva chiesto Ginny in quel momento, allungando una mano per spostare una ciocca dei capelli dell'amica.
Hermione aveva sorriso e si era passata una mano sulle punte dei capelli, che ora arrivavano appena al di sotto delle spalle. Ron non se n'era accorto, ma vedeva ora il nuovo taglio della moglie e il colore leggermente più scuro delle sue ciocche.
Dopo tempo che al ragazzo era parso interminabile – lo stomaco pesante e la bocca arida di tetra aspettativa - Ginny e Charlie se n'erano andati e Ron aveva allungato la mano sfiorando la spalla della moglie, voltata per non guardarlo.
«Stai bene, comunque» le aveva detto sentendosi arrossire in zona orecchie. Con un complimento, seppur impacciato, aveva sperato di recuperare la sua disattenzione.
Il sorriso di Hermione era crollato come una maschera tolta all'improvviso. «Grazie, ma avrei preferito me lo dicessi tre giorni fa» aveva detto secca, delusa.
Ron aveva sentito quel caldo scomodo scendere fino alle guance, e non aveva trovato nulla da dire finché lei non si era girata e se n’era andata, lasciandolo con una fetta di torta mezza mangiata e abbandonata al centro del tovagliolino di carta.
 
Non essersi accorto di un taglio di capelli non era così grave, né Hermione era così vanesia da offendersi per un mancato complimento, ma per la prima volta davanti ad occhi altrui era parsa evidente la loro discrepanza: Hermione non aveva parlato, Ron non ci era arrivato.
 
 
Il Secondo Errore era avvenuto pochi giorni dopo. Per Ron era stato un tentativo di rimediare al suo primo sbaglio, portare la loro relazione ad uno stadio successivo.
A pensarci ora, era stato quello più grave di tutti: nella classifica dei suoi sbagli - e ne aveva fatti, in vita sua, fin troppi - era arrivato al primo posto, superando anche l'aver abbandonato Harry e Hermione durante la caccia agli Horcrux, o il non aver permesso a quello che era finito per essere il suo gatto di mangiarsi quello stupido topo, Crosta.
 
Passare il Natale alla Tana era tradizione, era famiglia. Non era importante se dalla colazione fino all’ora di cena non c’era spazio per respirare, se ogni movimento era un urtarsi di gomiti e ogni tentativo di discrezione era interrotto da arruffate teste rosse.
Per Harry, Ginny, Hermione e Ron era un po’ come tornare ad essere adolescenti, anche se adesso tra i coniugi Potter dormiva il piccolo James Sirius e il grembo di Ginny ospitava già il secondogenito. Condividevano la stanza con gioia, rimembrando a bassa voce i ricordi di un tempo e soffocando le risate che nascevano nello stomaco per non svegliare il bambino.
Quella sera, come le due precedenti, regnava il caos. Mancavano due giorni al Natale, e nell'aria si respirava la gioia frizzante legata al sapore della cioccolata calda e dei biscotti alla cannella che Molly sfornava ogni mattina, e che ogni sera erano scomparsi.
Metà degli adulti era in cucina, l'altra metà - la parte più tollerante nei confronti degli schiamazzi dei bambini - era in salotto.
Su un tappeto tarmato e schiacciato tra il basso tavolino da caffè e due poltrone, erano intenti a giocare Teddy, Victorine e James Sirius. Sebbene i due bambini più grandi, più tranquilli, cercassero di ignorare il piccolo Potter, James imponeva la sua presenza con prepotenza quasi sfrontata per un bambino che a malapena si reggeva sulle gambe rotonde - ma quand'era sulla sua scopa giocattolo, che gli si facesse spazio!
Ecco perché era intervenuto Ron. Stanco di vincere la terza partita a scacchi di seguito - Harry ancora non aveva imparato a giocare, dopo tutti quegli anni - aveva incuneato le lunghe gambe sotto il tavolino e aveva iniziato ad intrattenere una stentata e serrata conversione con James.
Il gesto aveva un po' aiutato i bambini, che finalmente erano riusciti nel loro intento di costruire la torre più alta del mondo, ma non aveva certo giovato alla calma: tra una smorfia e uno strano verso, James rideva così tanto che gli era venuto il singhiozzo.
Ad ogni singhiozzo anche Ron scoppiava a ridere e il bambino, seduto sulla sua pancia, subiva dei sobbalzi che allungavano quel circolo vizioso delle loro risate.
Non l'avrebbe mai detto e ne era sorpreso, ma Ron amava i bambini. L'aveva scoperto già da tempo con il piccolo Teddy, e ne era rimasto deliziato quando aveva potuto fare lo zio con Victorine.
E ne era estremamente orgoglioso, anche, di essere zio di una bambina così bella.
Con Jamie, però - James Sirius era un nome ridicolmente lungo, l'aveva sempre detto ad Harry - aveva scoperto il vero piacere e la gioia che si prova con un infante. Amava giocare con lui, guardarlo e ridere quando cadeva dalla sua scopa giocattolo - un'eventualità davvero rara, questa, aveva ereditato le sue capacità di volo da entrambi i genitori - e impegnarsi nel fargli imparare le parole Zio Ron - per ora, era riuscito ad ottenere un lungo verso disarticolato che suonava come Soooo-oon.
E non gli importava se agli occhi altrui potesse sembrare uno sciocco, non c'era nulla che lo rendesse felice come ricevere gli abbracci dei nipoti e sentirli mormorare tra le risate un «Come sei buffo, zio Ron!». Era in quei momenti che capiva cosa avesse spinto i suoi genitori, nonostante le difficoltà, ad avere sette figli, e capiva anche l'importanza di godere di quegli attimi così effimeri, perché non sarebbero tornati, una volta che sarebbero cresciuti.
Assorto in quei pensieri non si era accorto che Jamie, stremato, era crollato addormentato sul suo petto.
Si era allora tirato in piedi, facendo ben attenzione a non svegliare il bambino, e si era accomodato sul divano, accettando con gratitudine il bicchiere che Bill gli stava offrendo.
Si stava portando il primo sorso alla bocca quando aveva incrociato gli occhi di Hermione. Lei lo guardava con dolcezza con i suoi occhi simili a pozze di miele, un sorriso intenerito a curvarle le labbra.
Lui aveva risposto al sorriso un po' imbarazzo, un'ombra di calore sulla punta delle orecchie e un fuoco che gli bruciava nel petto - da molto tempo lei non lo guardava così, per troppo tempo lui aveva finto di non accorgersene.
Era stato quasi per comune accordo, quindi, che avevano protratto il momento di ritirarsi. Il salotto si era svuotato con lentezza, finché Ginny non si era alzata e, accarezzando la pancia che mostrava già una lieve curva, aveva preso tra le braccia James.
«Sarà meglio portarlo a letto, almeno questa notte dormirà» aveva detto con un sorriso grato e un occhiolino rivolto al fratello. Poi, con Harry al fianco, era salita per le scale.
Era stato allora che Ron si era avvicinato, finalmente, ad Hermione. Aveva poggiato le mani sui morbidi braccioli della poltrona su cui lei era seduta e si era sporto fino a sfiorarle le labbra.
«Dovremmo andare anche noi» aveva sussurrato Hermione staccandosi leggermente dal bacio. «Domani mattina arriva Percy, e il suo tardi non è mai oltre le otto e mezza»
Ron aveva mugugnato un po' contrariato: il fratello non aveva perso l'abitudine di lavorare troppo, ma ogni anno si era ripromesso di passare la Vigilia e il Natale in famiglia. Questo comportava che imponesse i suoi ritmi assurdi e stacanovisti a tutti, però.
«Fra poco» aveva risposto, chinandosi per catturare di nuovo la sua bocca. Hermione sapeva di zenzero e cioccolato, sapori che Ron avrebbe sempre associato al alla festa, alla felicità, alla pace.
Ancora una volta era stata Hermione a separarsi. Con le mani poggiate sul petto aveva costretto Ron ad arretrare per poi alzarsi.
In silenzio - perché dopo anni di matrimonio parlare non era necessario - si era diretta verso le scale.
«Hermione» l'aveva fermata Ron quando lei era già sul primo scalino.
Lei si era fermata in attesa, una punta di impazienza negli occhi, e aveva aspettato che lui la raggiungesse e le prendesse una mano.
Il ragazzo, però, non aveva alcuna intenzione di salire: con una stretta delle dita l'aveva intimata a rimanere dov'era.
«Hermione...» aveva ripetuto, un bisbiglio a metà fra un sussurro e una preghiera.
Aveva alzato gli occhi in quelli di lei e aveva incontrato la sua espressione interrogativa, un po' stanca. Aveva deglutito, raccogliendo in sé tutto il proverbiale coraggio Gryffindor che in quegli anni si era trasformato da scelleratezza in forza.
«Cosa c’è, Ron?»
«Voglio un figlio» aveva detto in fretta, mangiandosi quasi le parole.
Hermione aveva sgranato gli occhi e schiuso la bocca, ma non aveva detto niente.
«Lo so, lo so che mi dirai che la tua carriera al Ministero è importante e che siamo ancora giovani e... e non lo so, qualcos'altro che a te sicuramente verrà in mente e che io ignoro» aveva iniziato, in fretta. «Ma io lo vorrei davvero. Non solo per giocare come con Jamie, ma potrebbe crescere con il secondo figlio di Harry e Ginny e...» aveva ripreso fiato, deglutito, sentendosi le guance bruciare. «Voglio davvero una famiglia con te, Hermione» aveva finto in un sussurro, sentendosi un bambino.
Hermione era rimasta pietrificata, ma aveva gli occhi che brillavano. Aveva aperto la bocca ancora una volta, ma non ne era uscito niente.
«Ti prego, di' qualcosa» aveva detto Ron con voce tremante, allungando una mano verso la sua guancia.
Appena i suoi polpastrelli avevano toccato la sua pelle lei aveva iniziato ad annuire, poi si era tuffata tra le sue braccia biascicando dei sempre più convinti.
Ron aveva stretto le braccia sui suoi fianchi con una strana sensazione di successo che gli faceva battere il cuore, aveva poggiato il mento sulla sua testa e sbattuto le palpebre che sentiva bruciare di lacrime.
«Hermione, guarda» aveva richiamato la sua attenzione senza abbassare lo sguardo. «Vischio»
Aveva sentito i capelli di Hermione sfiorargli il mento e aveva immaginato che anche lei avesse alzato lo sguardo. Erano rimasti immobili per diversi minuti, a fissare le piccole foglie verdi che li sovrastavano come una benedizione. Poi le mani di Hermione gli avevano accarezzato la nuca, e Ron aveva chinato il viso, obbediente, per incontrare le sue labbra.
Era stato un bacio morbido, al sapore di cioccolato, caldo come la pelle Hermione sotto il maglione di lana.
Era stato un bacio che portava con sé  sogni per il futuro - solo adesso Ron poteva vedere come in realtà, entrambi, avevano nascosto quei pensieri che neanche osavano sfiorare la luce. Entrambi, annegando nell'illusione del Natale, avevano mentito al vischio.
 
Avrebbero dovuto saperlo, che un bambino non è la cura per un matrimonio che stava mostrando i primi segni di cedimento. Avrebbero dovuto fare un passo indietro, alzare bandiera bianca ed arrendersi all’evidenza: nonostante l’impegno, nonostante l’affetto, alcune persone non sono fatte per stare insieme.
A seguito di quel Natale erano passati mesi straordinariamente felici: il concepimento era avvenuto in tempo breve e tutti erano elettrizzati per l’arrivo di un nuovo Weasley. Ma c’era sempre, fra loro, quell’aria satura di attrito, quel lieve fastidio provato ogniqualvolta un’opinione differente si scontrava, quell’odore di menzogne e parole non dette che diventava man mano più persistente.
 
 
 Era arrivato poi il Terzo Errore - quello che a Ron continuava a sembrare il più ininfluente - ciò che succedeva ogni volta che la famiglia si preparava per un'uscita: Ron non trovava la sua bacchetta. Non ricordava nemmeno dove fossero diretti, quella domenica pomeriggio fredda e piovosa, eppure era stata una versione peggiore di tutte le volte precedenti – entrambi esacerbati dalle continue incomprensioni, troppo stanchi per chiedersi chi stesse realmente sbagliando, troppo occupati a trovare un colpevole e non una soluzione.
 
«Dobbiamo partire fra dieci minuti, lo sai?» aveva chiesto Hermione dalla loro camera da letto, urlando per farsi sentire.
Ron, seduto sul bordo del divano e intento a reggere tra le mani una traballante Rose, aveva impiegato un po' a capire che la moglie stava parlando con lui.
«Sì, tranquilla» aveva risposto, sorridendo alla bambina che lo guardava con i grandi occhi azzurri – che quando qualcuno dice tranquilla c’è in realtà da preoccuparsi lo sapevano, ma, ancora una volta, fingevano.
«Prova a dire Quidditch, Rosie» aveva bisbigliato alla bimba con un sorriso.
«Papaaaa» Rose era esplosa in una risata che aveva fatto cadere il ciuccio e rivelato la bocca sdentata.
«Sì, tesoro. Prova Quidditch adesso» insisteva, ma in viso aveva stampata un'espressione meravigliata e adorante che solo i padri possono avere.
«Mmmmmh-ma» aveva risposto Rose, muovendo un passo in avanti e finendo schiacciata contro il petto del padre.
Ron l'aveva accolta tra le braccia con gli occhi scintillanti: poche cose, nella vita, erano più belle della sua Rosie. Nessuna, avrebbe addirittura osato dire.
«Quasi, Rosie, prov-»
«Ammm-maaah» l'aveva interrotto. Era ancora lontana dall'apprendere la parola che le stava insegnando, ma Ron sarebbe stato orgoglioso anche se fosse rimasta in silenzio.
Si era alzato posizionandola su un avambraccio, aveva allungato una mano verso il ciuccio caduto ed aveva iniziato a spostarsi verso la cucina con l'intento di pulirlo.
«Preferisco quando dici papà, sai? Paaa-paaa» le stava spiegando, aprendo la bocca più del necessario e trovandosela invasa da ditina calde e morbide.
«Ron, ci sei? Dobbiamo andare»
Hermione era apparsa elegante nel suo abito da lavoro e avvolta da quel profumo sofisticato che Ron trovava sempre troppo forte. Aveva i capelli acconciati e una valigetta – Ron aveva iniziato ad odiarla, quella valigia – poggiata al fondo dei piedi.
«Passi in ufficio, dopo?» aveva chiesto con le sopraciglia aggrottate, fermo a metà strada. Hermione aveva ricominciato a lavorare da quattro mesi, ma da un paio aveva iniziato a sostenere ritmi serrati. Eccessivi, per Ron, ma non aveva più commentato dopo l’ultima volta, che gli era costata una settimana di silenzio o poche parole pronunciate solo per il bene della figlia – anche adesso, che quello sarebbe diventato il loro futuro non poteva immaginarlo.
«Non tenerla sempre in braccio, Ron, la vizi» aveva detto lei avvicinandosi. Non aveva risposto, però, e Ron l’aveva notato, anche se si era fatto sfilare la bambina dalle braccia.
Rose aveva gorgogliato e si era aggrappata al divano, poi si era allontanata dai genitori, indifferente al loro stato d’animo.
«Pensavo avremmo cenato insieme, stasera» aveva insistito Ron – a volte, pensava, doveva essere masochista per non imparare a tenere la bocca chiusa.
«Devo lavorare» aveva risposto semplicemente lei infilandosi il cappotto.
«Ma è domenica»
A quelle parole Hermione si era voltata di scatto, guardandolo furente. «Avrei potuto farlo ieri se tu non fossi stato con Harry e non mi avresti lasciata sola con la bambina» aveva detto secca, altera.
Se c’era una cosa che Ron odiava era sentirsi rinfacciare con quelle frasi aggressivo-passive che sì, era colpa sua se Hermione non poteva lavorare perché, ancora, era stato lui ad avere l’idea di fare un figlio.
«Stai dicendo che è colpa mia?» le aveva chiesto, sfidandola a dire il contrario.
Lei aveva sbuffato, come faceva sempre quando riteneva che Ron facesse tanto rumore per nulla. «Sto dicendo che non ho avuto abbastanza tempo. E adesso vestiti, siamo già in ritardo»
Si era voltata, aveva agguantato la giacca pesante della bambina e si era chinata sulla ginocchia per fargliela indossare. Ron era andato a recuperare il suo cappotto con una smorfia, usando il silenzio come una barriera fra loro, segno impalpabile ed invisibile della sua scontentezza. Battersi con Hermione era, ogni volta, una causa persa.
Si era accostato alla porta e le aveva aspettate, facendosi rallegrare dai gorgheggi lunghi e felici di Rose, già pronta nel suo passeggino.
«Non fare quella faccia, non è colpa mia se siamo in ritardo» aveva detto Hermione apparendo al suo fianco e frugando nella borsa alla ricerca di qualcosa.
«Non ho detto niente» aveva brontolato Ron.
Senza altre parole erano usciti e avevano iniziato la complicata discesa delle scale con un passeggino. Abitavano in un palazzo piccolo e frequentato per lo più da babbani, con una bambina così piccola passaporte e smaterializzazioni erano da evitare.
«Oh, Godric!» aveva esclamato Ron dopo essersi toccato la tasca quasi per caso e guadagnandosi un’occhiataccia per aver imprecato davanti alla figlia.
«Cosa c’è?» aveva chiesto Hermione, già spazientita.
«La bacchetta, ho dimenticato la bacchetta. Torno subito!»
«Cosa vuol dire che- Ron, non puoi fare ogni volta così!» aveva gridato Hermione, iniziando a seguirlo.
«Non l’ho fatto apposta» aveva risposto Ron, iniziando a sentirsi umiliato e frustrato.
«Sei un Auror, Benedetta Morgana, come puoi dimenticarti la bacchetta? È il tuo lavoro» Hermione aveva continuato la sua filippica e Ron aveva continuato a fingere di non rimanere ferito da ogni parola.
«Sono sicuro che è rimasta sul divano mentre giocavo con Rose» aveva detto tra i denti mentre trafficava con il mazzo di chiavi in cerca di quella giusta.
Hermione aveva sbuffato, ma lui era entrato in tutta fretta.
Come si poteva immaginare, la bacchetta non era sul divano.
«Benissimo. Scriverò a Ginny che non arriveremo mai in tempo» aveva sibilato Hermione alle sue spalle, per poi sparire.
Ron si era sentito invadere da un sentimento strisciante e viscido simile all’impotenza. Come poteva perdere la sua bacchetta?
Forse Hermione aveva regione, forse era un incapace.
Avevano passato i dieci minuti successivi a perlustrare ogni angolo – una ricerca fatta di sbuffi, gemiti infastiditi e risposte brutali. Alla fine Ron era così furioso che quando aveva tolto Rose dal passeggino per controllare le sue coperte lei era scoppiata a piangere.
«Cosa sta succedendo?» aveva chiesto Hermione comparendo dalla cucina, una nota stanca nella voce.
«Controllo le coperte» aveva ringhiato Ron di rimando. Odiava far piangere sua figlia, odiava pensare che ai suoi occhi poteva apparire come meno di un ottimo padre.
Hermione non aveva detto niente, ma Ron poteva immaginare il modo in cui le sue labbra si stavano contraendo in un’espressione contrariata, assumendo la forma di una linea tesa e pallida.
«Non era necessario far piangere la bambina» si era chinata verso Rose e le aveva fatto una carezza.
Se non fosse stato per quel gesto forse non l’avrebbe fatto, forse non avrebbe detto ciò che li aveva fatti precipitare.
«E pensi che l’abbia fatto di proposito? Dimmi, Hermione, pensi che mi diverta a far piangere mia figlia?»
«Oh, non lo so, Ron. Capita piuttosto di frequente, forse potrei pensarlo!»
Lui si era voltato, guardandola furente. Non aveva gridato, la sua voce grondava disgusto – per se stesso o per lei non avrebbe saputo dirlo.
«Se pensi che non sia un buon padre e un buon marito forse dovresti cercare qualcun altro. In fondo, hai sempre pensato che io sia l’ultima ruota del carro»
 Lei aveva boccheggiato, gli occhi sgranati e sconvolti. Era sceso il silenzio, anche Rose era rimasta ammutolita. Erano passati attimi di immobilità, occhi negli occhi che percepivano la distanza che stava aumentando pur essendo a pochi passi di distanza.
Hermione teneva qualcosa tra le mani – probabilmente quella maledetta valigetta da lavoro – ed era caduta. Ron ricordava come quel suono aveva spezzato l’aria, rompendo quella tensione, facendolo ricominciare a respirare.
Ma aveva avuto un sapore cattivo, l’aria, da quel giorno in avanti.
 
Ora che era passato, che poteva analizzare gli eventi da solo e con una parvenza di lucidità Ron riconosceva quel pomeriggio come l’ultimo strappo, la fine di ogni possibilità che in un futuro avrebbero potuto ricongiungersi.
Si erano detti parole troppo aspre, troppo intrise di rabbia per perdonarsi. Ron provava vergogna, a pensarci. Così tanta che lo specchio, da quel giorno, era diventato quasi un nemico.
Chi era l’uomo che vedeva riflesso? Chi era diventato?
Non avrebbe saputo rispondere, aveva smesso di riconoscersi.
 
 
Poi era arrivato l’Ultimo Errore, e forse il fatto stesso di chiamarlo così era un errore.
Resa era la parola giusta. A testa bassa, con i denti stretti e le lacrime a bagnare le ciglia. L’ultima base per salvare se stessi, per trattenere i pezzi che erano rimasti e cercare di rimetterli insieme in qualche modo, per non soccombere al peso di quella relazione che aveva smesso di essere sollievo, complicità e amore.
Era arrendersi all’evidenza: la loro era un’amicizia, spingere verso un matrimonio era stato un sbaglio.
 
Ron giocava con il deluminatore. Lo sapeva, che Hermione lo odiava, ma non c’era nulla di più rilassante nel veder fluttuare quella sfera di luce davanti agli occhi.
A volte, puerilmente, sperava che allungando la mano ed acchiappando la luce, questa l’avrebbe riportato in una foresta in cui l’ansia era causata dal dover salvare da un lago il suo migliore amico, quando c’era tempo per vincere una guerra e tempo per fare scelte migliori.
Ma forse sarebbe stato meglio se neanche quello fosse successo: era dopo la guerra, che l’aveva conosciuta. Era dopo la guerra che aveva capito – capito grazie a lei – che era stato uno stupido per la maggior parte della sua vita.
Se allora l’avesse trattenuta, se l’avesse baciata una volta di più, se avesse avuto più coraggio, forse ora non si sarebbe trovato in quella situazione.
Tuttavia, la storia non si scrive con i se, con i ma, quindi avrebbe soltanto dovuto…
La porta si era aperta in quel momento, e Ron si era alzato facendo scattare il deluminatore.
Rose dormiva ormai da un po’, lui aveva aspettato Hermione. Come faceva sempre, come faceva per mantenere un’illusione di normalità nella loro vita matrimoniale ormai ridotta all’osso.
Si erano accomodati a tavola, le solite frasi di circostanza vuote e cordiali volte a riempire i silenzi. Poi Hermione aveva parlato. L’aveva riesumato, l’argomento tabù di Ron: il tradimento.
«Mi spiace se ho fatto tardi. Non stavamo lavorando, ma Padma era distrutta: il suo fidanzato l’ha tradita»
Ron si era fermato con la forchetta a mezz’aria, pesante di cibo a metà tra il piatto e la bocca. Si era sentito pietrificato, colpevole fino allo stomaco che si era stretto tanto da fargli venire la nausea. Hermione aveva continuato a parlare, senza conoscere il suo stato d’animo, e Ron si era sentito pugnalare ad ogni parola, affossato dalle pietre che erano i commenti spregevoli verso l’uomo che aveva peccato ed infangato la fedeltà alla sua donna.
«E le ha anche chiesto di ritornare insieme. Che uomo orribile, non so proprio cosa gli possa passare per la testa»
 Ron aveva deglutito quel boccone amaro che era diventato l’arrosto. «Beh, non sai perché l’ha fatto, magari aveva i suoi motivi»
Hermione aveva alzato gli occhi dal piatto e l’aveva guardato, mortalmente seria. «Lo stai giustificando?»
«No!» aveva risposto in fretta. «Però, voglio dire, avrà pur avuto un motivo per fare quello che ha fatto» aveva biascicato, poi aveva chinato lo sguardo sotto gli occhi quasi sconvolti di Hermione. Ma stava ancora parlando di quell’uomo o di se stesso?
Si era sentito arrossire, e aveva pregato che per una volta, una singola volta, il cervello troppo sveglio di sua moglie non facesse il collegamento logico così lampante da essere evidente persino a lui, che di logica non era mai stato ferrato.
Aveva sospirato e allontanato il piatto, consapevole di non avere né la voglia né la forza per continuare a mangiare. Si era preparato, posando le posate, a ciò che sapeva sarebbe successo. E lo sapeva da tempo – da quando le aveva infilato un anello al dito e la mente era stata sfiorata dall’immagine di lei.
«Cosa vuoi dire, Ron?» Hermione aveva gli occhi stretti, come ogni volta che un piano si concretizzava nei suoi pensieri. Ed era fin troppo concreto, quello.
Ron aveva poggiato le mani sul tavolo e l’aveva guardata.
Era bella, Hermione. Non bella come lei, che lo era nel senso assoluto della parola, ma possedeva una bellezza sottile e particolare che passava attraverso i suoi occhi brillanti di conoscenza ed idee. Ron aveva abbracciato con lo sguardo tutta la sua figura, tutto ciò che aveva significato e tutti gli anni che avevano trascorso assieme.
Aveva abbracciato con lo sguardo la donna che aveva segnato, in un modo o in un altro, più della metà della sua vita, e si era preparato a dirle addio.
«Anch’io ti ho tradita, Hermione»
Lei non si era scomposta, le mani incrociate sull’elegante completo da lavoro, e l’aveva guardato sbattendo una volta soltanto le palpebre, come se stesse semplicemente prendendo atto di un fatto compiuto, un fatto che non la toccava se non da lontano.
«Quando?»
Quella parola aveva colpito e sgretolato il muro fra loro. Ron l’aveva sentita vicina e aveva provato l’istinto di allungarsi e prenderle la mano, anche se erano mesi che non accadeva.
«Quando siamo tornati ad Hogwarts per l’ultimo anno dopo la guerra» le parole avevano graffiato contro la gola secca, un dolore fisico, un obbligo di una spiegazione che spinge per uscire ma non trova lo spazio per farlo.
Hermione l’aveva guardato sbattendo le palpebre ancora una volta, e Ron aveva aperto la bocca per dirle che erano stati solo due baci, ma non disse nulla.
A cosa sarebbe servito, poi? Non vedeva anche lei che se non fosse stato per quella confessione urlata come una liberazione sarebbe stato qualcos’altro?
Hermione aveva posato le mani sul tavolo e si era alzata, a fatica, le nocche bianche.
Ron pensava gli avrebbe chiesto con chi, già le labbra bruciavano per pronunciare il suo nome,  ma lei pronunciò un’altra parola che ebbe il potere di far crollare le fondamenta della sua stabilità.
«Vattene»
Ron aveva schiuso la bocca, sorpreso più della calma apparente della sua voce che della parola. Non si era mosso, e lei l’aveva guardato. C’era rabbia, nei suoi occhi, una rabbia bruciante che avrebbe avuto la forza di uccidere il sollievo traditore che stava nascendo nel suo petto.
Che uomo era, per sentirsi leggero ad aver confessato il suo unico e migliore peccato?
«C0-»
«Ho detto vattene!»
E aveva gridato, questa volta. Ron aveva ringraziato il suo istinto per averlo fatto chinare e avergli permesso di evitare l’oggetto che lei gli aveva scagliato contro.
Se n’era andato come un animale con la coda fra le gambe, rinunciando a qualsiasi spiegazione e chiarimento.
Lasciando quella casa aveva abbandonato l’idea di un futuro, ma soprattutto aveva abbandonato sua figlia – era uscito dal quartiere, poi calde lacrime di rimorso l’avevano invaso.
 
Pensare che erano passati tre giorni da quella sera, da quella disfatta, lo faceva sentire vecchio di anni, appesantito da macigni che gravavano sulle spalle e sul cuore.
Tre giorni. Tre giorni soltanto in cui era diventato un inferno presentarsi a lavoro, tre giorni durante i quali il mondo che gli aveva sempre sorriso gli aveva voltato le spalle e l’aveva lasciato a crogiolarsi nel fango delle sue colpe.
Tre giorni durante i quali lui aveva maledetto chiunque lo guardasse con un’ombra di accusa degli occhi e aveva sentito bruciare dentro di sé la mancanza di sua figlia, dell’unica ragione che lo rendeva degno ed orgoglioso di quel matrimonio che si era trasformato nella sua croce. 
 
 
Ron chiuse la Gazzetta del Profeta, un nome troppo lungo per indicare fogli di carta pieni di parole impalpabili, notizie inutili e lamentele senza uno scopo.
Gli piaceva pensare che se fosse stata in mano sua non ci sarebbero state tante sciocchezze, ma non era vero: tutto ciò che sarebbe riuscito a raccontare sarebbero state bacchette perse, bugie condite con un bacio sotto il vischio e tradimenti che assomigliavano troppo all’occasione persa della propria vita anziché una colpa da cui nascondersi.
Si alzò sospirando e si passò una mano sulla guancia ruvida di barba non fatta – perché vedersi allo specchio era un supplizio. Avrebbe incontrato Hermione per parlare di ciò che lei si era premurata di comunicargli con una lettera: il divorzio.
Ron si portò la tazza alle labbra e ingoiò l’ultimo sorso di caffè. Voltando le spalle alla cucina fece una smorfia: quel caffè aveva un sapore amaro, il sapore del fallimento.
 
 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Crudelia 2_0